In Pace Christi

Biolo Primo

Biolo Primo
Lugar de nacimiento : Campolongo Maggiore VE/I
Votos temporales : 07/10/1941
Votos perpetuos : 07/10/1946
Fecha de ordenación : 31/05/1947
Fecha de fallecimiento : 19/08/1993
Lugar de fallecimiento : Brescia/I

Primo di nove figli, era nato a Campolongo Maggiore in provincia di Venezia e diocesi di Padova, da una famigli molto religiosa. Papà Narciso faceva il giardiniere presso un ospedale della zona e, nel tempo libero, lavorava alcuni campicelli di sua proprietà. Mamma Antonietta Coccato era casalinga. Due fratelli e due sorelle della mamma diventarono rispettivamente sacerdoti e suore.

Giovanissimo, Primo ha subito il trauma della perdita della mamma morta dando alla luce Indicia, la terza figlia. Papà Narciso, per occuparsi dei figli, dovette abbandonare il lavoro presso l'ospedale concentrando tutte le sue forze sulla piccola campagna vicino a casa.

Dopo un po', non potendo curare i figli ancora troppo piccoli, decise di risposarsi con Amelia, grande amica della prima moglie. Da questo matrimonio nacquero altri sei figli.

"Eravamo una grande famiglia povera - scrive Indicia - ma molto unita. Ci volevamo bene e ci aiutavamo". Nel 1953, quando P. Primo era già in Africa, la famiglia Biolo decise di lasciare il Veneto per trasferirsi in Piemonte, in cerca di lavoro e di nuove occasioni di impiego per la numerosa prole.

Primo frequentò le elementari a Campolongo Maggiore, ripetendo due volte la quinta elementare perché non c'era possibilità di altre scuole. "Ma a lui piaceva molto studiare - prosegue Indicia - per cui il papà decise di iscriverlo alle medie inter-parrochiali di Piove di Sacco, che frequentò nell'anno scolastico 1934-1935. Dalla nostra casa alla scuola c'erano più di quattro chilometri che Primo percorreva a piedi due volte al giorno. Durante le vacanze estive si andava per i campi a spigolare, a casa poi si macinava il grano raccolto per fare il pane. Primo, fin da ragazzo, diceva che non voleva fare il contadino ma il prete. Noi fratelli, uniti a una bella squadra di cugini, lo prendevamo in giro per questa sua mania di fare il prete. Ma un giorno arrivò a casa nostra il cugino P. Costante Franceschin e, da quel momento, in mio fratello si rafforzò l'idea di farsi missionario".

Preghiera, sacrificio, generosità

La sorella afferma che con la visita di P. Franceschin l'idea di farsi missionario, in Primo, si rafforzò. Segno che questa idea era già presente nella mente e nel cuore del giovinetto. P. Biolo stesso, celebrando il suo 40° di ordinazione sacerdotale, parla degli inizi della sua vocazione missionaria: "Tutto cominciò quella sera di tanti anni fa - scrive - di ritorno dalla novena alla Madonna di Lourdes. L'anno esatto non lo ricordo. So che con me c'era mio fratello più piccolo e che faceva un freddo cane in quel mese di febbraio nella bassa padovana. Ricordo anche che la neve e il ghiaccio ci impedivano di camminare speditamente per entrare in casa a scaldarci.

Quasi improvvisamente dovetti fermarmi nel mezzo della strada perché una voce mi ripeteva: 'Devi farti missionario'. Non sapendo il significato della parola missionario, lo chiesi a mio fratello che ne sapeva meno di me.

Questa voce si fece sentire di tanto in tanto anche in seguito, specialmente quando ero distratto o cedevo a qualche compromesso.

Quando ero già in seminario, mi chiesi più volte chi poteva avermi parlato. Il padre spirituale, al quale mi rivolsi, mi disse che abitualmente il buon Dio chiama per costruire il suo regno persone amanti della preghiera, dedite al sacrificio e molto generose. Poi aggiunse che per me, in quella circostanza, c'era stata la preghiera (la novena), il sacrificio (il freddo) e, benché non fossi uno stinco di santo, c'era anche molta generosità.

Presi le parole del mio padre spirituale come segno della certezza della mia vocazione e assicuro che, fedele a quel trinomio: preghiera, sacrificio e generosità trovai nel periodo della mia formazione, e anche in seguito, la ragione per superare tante difficoltà di ogni genere e misura".

Il papà nicchia

"Sulle prime - prosegue la sorella - il papà non era contento della scelta del figlio e mise avanti qualche obiezione, invitandolo a riflettere e a prendere in considerazione la possibilità di diventare sacerdote diocesano. Ma Primo rispondeva risoluto: 'O missionario o niente'. Su queste parole il papà non poté fare altro che accettare e favorire la scelta del figlio".

Di carattere vivace e piuttosto fermo nelle sue idee, fin da piccolo frequentava la parrocchia e l'oratorio dimostrandosi giovane di grande iniziativa tra i compagni. Un piccolo leader, insomma.

"Vicino a casa - prosegue la sorella - c'era il fiume Brenta e mio fratello, durante l'estate, passava parecchio tempo sulle sue rive a pescare. Disubbidendo al papà, andava anche a nuotare insieme ai cugini e agli amici, nonostante nel fiume ci fossero pericolosi gorghi".

Primo venne presentato al Superiore Generale da P. Franceschin il quale, per timore di influenzare il superiore, si astenne dal dire che il giovinetto era suo parente. Tra i documenti esiste la lettera che testimonia questa delicatezza di P. Biolo. Primo fu accolto per l'anno scolastico 1934-35.

L'8 ottobre 1935, a 15 anni di età, insieme ad altri tre suoi amici, Biolo entrò nel seminario missionario di Padova per frequentare la seconda media, ma solo lui, dei quattro, arrivò al sacerdozio.

La lettera di presentazione del giovinetto al superiore di Padova, scritta dal parroco di Campolongo, dice: "Il Biolo Primo ha fatto tanto bene, ha tenuto ottima condotta e dà serio affidamento di vocazione allo stato missionario. Spero rimarrà contento di lui".

Qualche difficoltà nella scuola

Essendo un carattere estremamente pratico, Primo trovò qualche difficoltà per le materie teoriche, mentre in quelle pratiche se la cavava meglio. Scrive P. Calvi, suo compagno di studi: "Ha sempre dimostrato un'incrollabile determinazione di voler essere missionario nonostante i suoi pessimi voti in pagella. Per nostra buona sorte ci siamo imbattuti in un superiore (P. Uberti) che guardava oltre la scorza e aveva le idee chiare a riguardo di ciò che richiede l'essere missionario".

Terminate le medie a Padova, Primo andò a Brescia per il ginnasio e, nel 1939, entrò nel noviziato di Venegono. Ma dopo il primo anno venne inviato nel noviziato di Firenze dove, il 7 ottobre 1941, emise la professione religiosa.

Tutta la documentazione riguardante il noviziato manca dalla cartella di P. Biolo per cui non è possibile seguire il suo cammino spirituale in questo periodo.

Dal 1941 al 1943 fu a Verona come scolastico; nel 1943 fu per sei mesi a Sulmona "ad omnia", espressione inconsueta per uno studente; dal 1943 al 1945 fu a Rebbio di Como come studente di teologia che terminò a Verona negli anni 1945-47.

L'unico giudizio che ci resta su Biolo è del 1947, alla vigilia dei voti perpetui, ed è di P. Capovilla il quale dice: "Buono, di buona volontà, di pietà sentita e di spirito di sacrificio, che suppliranno alle sue capacità piuttosto limitate. Docile e di criterio. Voto favorevole".

Nella domanda dei voti il giovane si era espresso in questo modo: "... tuttavia mi pare di doverle dichiarare che in capo ad ogni mio agire ebbi sempre la retta intenzione e la volontà grande di perfezionare sempre più me stesso nello spirito della vita religiosa e della nostra Congregazione, credendo così di soddisfare la volontà del Signore su di me. Il mio proposito, rev.mo Padre, è ancora quello di cinque anni fa: essere in perpetuo Figlio del Sacro Cuore per la gloria di Dio e per la salvezza delle anime".

Venne ordinato sacerdote a Verona il 31 maggio 1947.

Tra gli Alur

La prima destinazione di P. Biolo fu Rebbio come propagandista. Dimostrò subito di saperci fare in questo ufficio che, dopo l'esperienza di missione, eserciterà per 26 anni. Sapeva accostare i sacerdoti e farsi benvolere dalla gente. Anche se a Como fu propagandista solo per un anno, contribuì notevolmente a dilatare il numero degli amici e dei benefattori della nostra casa.

Naturalmente, il desiderio costante era quello di partire per l'Africa. E appena si aprirono le vie della missione, chiuse dalla guerra, P. Primo venne inviato in Inghilterra per apprendere la lingua inglese in vista di una sua prossima partenza per l'Uganda.

Infatti, dopo alcuni mesi a Londra nel 1949, poté salpare per la terra dei suoi sogni.

Angal (1950-1952), War (1953-1955), Nyapea (1955-1961) furono le prime tappe della sua vita missionaria.

Ad Angal, tra gli Alur, dove era superiore P. Marcabruni, P. Biolo si fece le ossa buttandosi nel mondo giovanile con grande entusiasmo. Sempre circondato da uno stuolo di giovani, faceva grandi passeggiate in bicicletta, vere gare di resistenza, per visitare i villaggi, nelle quali arrivava sempre primo. "Primo di nome e primo di fatto" diceva con orgoglio. Intanto imparò la lingua, gli usi e i costumi della gente e l'arte di insegnare il catechismo ai catecumeni. A War e a Nyapea fu superiore.

Il conte di Nyapea

Dove brillò particolarmente il carisma missionario di P. Biolo fu a Nyapea. Si trovò così a suo agio che i confratelli lo chiamarono "il conte di Nyapea".

E qui cediamo la penna a P. Calvi: "Nyapea è in una posizione incantevole a circa 1.700 m. sul livello del mare. Il suo territorio è formato da una grande estensione collinare, spesso solcata da valli profonde coperte da una fitta e verde vegetazione, posto ideale per animali di ogni genere. La gente preferiva le bassure dove l'acqua sorgiva era buona e abbondante.

Già da tempo erano stati introdotti gli eucalipti che la gente chiamava col nome di "kalafuri". In missione se n'era formata un'autentica foresta a cui anche P. Primo ha collaborato, coadiuvato in pieno da P. Spazian. Erano gli alberi preferiti da stormi di colombi e di tortore, e riempivano l'aria del loro caratteristico profumo balsamico.

Ad ovest la missione confina con lo Zaire, seguendo la linea dello spartiacque. Sono caratteristici gli immensi cieli azzurri, solcati da nuvole bianche, e i tramonti di porpora che ti lasciano senza fiato. È, questo, l'incanto di una natura ancora fondamentalmente vergine.

La gente aveva risposto generosamente alla chiamata evangelica. Nel verde cimitero parrocchiale riposa P. Pasquale Frizzera che, a 31 anni, ha offerto a Dio la sua giovinezza per gli Alur.

Quando la vecchia chiesa è stata sostituita dall'attuale in mattoni rossi, P. Primo mi ha invitato alla festosa cerimonia di inaugurazione. Ricordo che già allora si diceva che il 92% della popolazione era cattolica.

A un centinaio di metri dalla missione c'è il collegio tenuto dai Brothers del Sacro Cuore, un vero gioiello di efficienza.

Il normale mezzo di trasporto per un certo tempo erano state le vecchie Guzzi 500 con carrello o senza, che dal ritmico scoppio del motore erano state battezzate in tutto il nord Uganda col nome di 'Piki-Piki'. Erano macchine semplici, potenti ed eterne che si prestavano benissimo per quei terreni accidentati. Solo più tardi vennero sostituite da altre cilindrate più snelle ma meno efficienti.

Il primo sacerdote diocesano di Nyapea, P. Emilio Onegua, era stato coadiutore ad Angal. Era poi diventato il primo parroco di una parrocchia Alur, Nebi, una grossa cappella staccatasi da Angal. Ogni volta che P. Primo mi incontrava, s'interessava di questo giovane sacerdote e degli altri, perché la situazione del clero indigeno gli stava molto a cuore. 'Noi dobbiamo renderci inutili se vogliamo che la Chiesa ugandese cammini con le proprie gambe', diceva.

Nonostante il clima e la vegetazione di Nyapea, P. Biolo aveva le sue difficoltà. Me ne parlava di tanto in tanto, in confidenza, tanto per sentire una parola di incoraggiamento e di conforto. Queste difficoltà e sofferenze gli derivavano dai rapporti con l'autorità ecclesiastica che lo limitava nelle sue iniziative. Egli era un grande lavoratore che non si risparmiava. La più dolorosa di queste incomprensioni gli derivò dalla costruzione di un dispensario più moderno che doveva sostituire quello efficientissimo come servizio, ma fatiscente nel fabbricato. Il Vescovo diceva che quei soldi erano buttati; P. Biolo ribatteva che li aveva raccolti lui, con notevoli sacrifici, e che gli ammalati dovevano essere ricoverati in un posto decente. Insomma, il conte di Nyapea aveva le sue grane, ma quale missionario non ne incontra, specie se vuole realizzare qualcosa?".

Anche la sorella Indicia, solidale col fratello nella raccolta di aiuti, accenna a queste difficoltà e ne parla in questi termini: "Ebbe molte difficoltà per reperire i soldi per la costruzione della chiesa e del dispensario, e riuscì ad ottenerli solo con la tenacia e la determinazione che possedeva. Era, inoltre, convinto che ciò che stava costruendo non serviva a lui, ma a tutta quella gente che credeva in lui. Prima di costruire la chiesa dovette impastare i mattoni e cuocerli con grandi cataste di legna".

Animatore a Gozzano

Nel 1961, dopo undici anni di ininterrotto lavoro in missione, P. Biolo fu mandato in Italia per un po' di vacanza. Dopo una visita alla famiglia e agli amici, approdò a Gozzano, in provincia di Novara, dove c'era la sede del noviziato comboniano. Fu incaricato delle giornate missionarie e del ministero nei paesi vicini. Si trovò subito a suo agio per quella innata capacità di parlare con la gente, di interessarsi ai loro problemi, di essere, insomma, uno di loro.

L'entusiasmo e il buon umore gli derivavano anche dal fatto che i superiori gli avevano promesso che, dopo un adeguato periodo di vacanza, sarebbe tornato alla sua missione.

Molti novizi lo seguivano nelle giornate missionarie e da lui attingevano quella vera passione per la vita di missione che fu una costante nella vita di P. Biolo. I racconti del cammino della Chiesa in Africa, dei sacrifici che gli africani s'imponevano per accostarsi ai sacramenti e per ascoltare la Parola di Dio, impressionavano gli uditori e li costringevano a seri esami di coscienza.

P. Biolo si dimostrò anche un ottimo collettore di offerte di cui la casa di Gozzano, sempre in situazione di precarietà, aveva urgente bisogno. Egli, come aveva fatto a Rebbio, s'interessò attivamente per allargare la cerchia dei benefattori e degli amici. Non era mai stanco di correre di qua e di là, di scrivere, di prestarsi per il ministero in vista anche di un nuovo amico delle missioni.

Quando, dopo 14 mesi di permanenza, salpò nuovamente per l'Africa lasciò nei confratelli, nei sacerdoti e nella gente un vivo ricordo di missionario autentico, disposto a tutto "propter regnum Dei".

Quel funesto 17 gennaio 1967

Ritornato a Nyapea, fu accolto dalla gente come un eroe e come un padre. Egli in testa aveva nuovi progetti e nella borsa un bel gruzzolo per realizzarli. In Italia, inoltre, aveva creato dei punti d'appoggio che gli sarebbero venuti buoni nei momenti di emergenza.

Dovette nuovamente ingaggiare qualche fraterna lotta col Vescovo al quale il gruzzolo avrebbe fatto comodo, ma P. Primo non era uomo da mollare l'osso tanto facilmente. "E' vero - diceva - tutti e due lottiamo per la stessa causa, con la differenza, però, che io sono andato a cercarmeli, e solo il Signore sa con quanti sacrifici e anche con qualche umiliazione".

Le cose si erano incamminate proprio bene quando arrivò quel funesto 17 gennaio 1967 che per P. Biolo e altri nove confratelli coincise con il giorno dell'espulsione dall'Uganda. Scrive P. Calvi: "Un giorno il presidente Milton Obote si recò al Nord per una visita. Sarebbe tornato seguendo la strada dei monti, praticamente un feudo della Chiesa cattolica, e quindi del Partito Democratico. Arrivato in prossimità di Nyapea, venne informato che più a valle, verso Nebi, gli avevano teso un'imboscata. Lasciata la macchina presidenziale si rifugiò in un vagone chiuso e tornò ad Arua facendosi portare ad Ediofe in episcopio dal vescovo mons. Tarantino, sua vecchia conoscenza.

Mentre, nervosissimo, attendeva un elicottero che lo togliesse dai pasticci, disse al Vescovo: 'Tra i missionari cattolici ci sono 10 pecore nere'. Una di queste 'pecore nere' era proprio P. Biolo. Né lui né gli altri - assicura P. Calvi - si erano mai interessati di politica. Questa espulsione deve essere vista come un onore per P. Biolo e per gli altri, perché sta ad indicare che erano di quelli che lavoravano senza paura e perciò davano fastidio a un fanatico protestante come era Milton Obote".

P. Biolo non sarebbe più tornato in quella terra, anche se con il cuore rimase sempre là, solidale con i travagli di un popolo che considerava amico.

Un ricordo in rima

La notizia della morte di P. Biolo ha dato vigore alla vena poetica di P. Calvi che di P. Primo è stato compagno dagli anni di Padova fino in Africa tra gli Alur, e poi a Brescia nei mesi precedenti la morte di P. Biolo. Per capire la poesia teniamo presente che i kalafuri sono gli eucalipti; piki - piki è il nome onomatopeico della moto Guzzi; Padyere è la zona mediana degli Alur dove ha lavorato P. Calvi che, con P. Biolo, è stato espulso dall'Uganda nel 1967. Scrive, dunque il Padre:

"Primo,

nell'ombra sei tornato a rivedere,

ombra viva tu stesso,

le verdi tue colline.

Chi t'ha veduto?

Nessuno t'ha sentito.

Era il tuo volo come di fruscìo

un volo d'Angelo che a sera

torna al Padre.

 

Bella Nyapea,

lassù tra cielo e terra,

con la "tua" chiesa di mattoni rossi,

come i tramonti,

piena di suoni e d'armonie di Pasqua;

ed ogni sera,

'Morembe a te Maria' salìa dai cuori

nel sacro mormorar de la preghiera.

 

Bella Nyapea, dove la pernice

tra l'erba verde lancia il suo richiamo

prima dell'alba e sul finir del giorno,

dove il tubar di tortore, sommesso,

'tuu - tuu' d'amor

dal piccolo lor cuore si sprigiona.

Primo, ricordo quei lontani giorni,

eterna primavera,

e quell'effluvio di gentile olezzo,

allo stormire delle glauche fronde

di mille 'kalafuri'.

Chi può contar le fronti redimite,

o rinarrar le gesta del tuo amore?

Canta la 'piki-piki'

di colle in colle sul morir del giorno

ad annunziar la gioia del ritorno

coi cento tuoi covoni.

 

Eppur lo so, e tu me lo dicesti:

'La legge dell'Amor è scritta in rosso!'.

Tu ai tuoi monti

ed io al mio Padyere,

con lacrime di sangue un dì piangendo

per più non ritornar dicemmo addio!

 

Là in fondo il Nilo scorre sonnolento

a rispecchiar ancor nell'onda grigia,

come sognanti occhi di bambini,

nuvole bianche tra praterie celesti.

 

Fratello Primo, forse l'hai veduta,

lassù dall'alto a sussurrarle ancora:

'Dolce Nyapea, no, non t'ho perduta'.

Nuovamente a Gozzano

Il salto improvviso da Nyapea a Gozzano, con la prospettiva di non rivedere mai più il suo "contado", fu particolarmente duro per P. Biolo anche se il superiore e maestro dei novizi, P. Antonio Zagotto, fece del suo meglio per addolcirgli la pillola. Con vero spirito missionario il nuovo venuto si immerse nel lavoro con l'entusiasmo di sempre.

Nominato anche economo, oltre che animatore, accentuò l'attività delle giornate missionarie. Non bastandogli la diocesi di Novara, sconfinava in quelle di Biella, Vercelli, Asti, Torino, Val d'Aosta e Genova.

Instancabile, partiva con la macchina carica di libri e riviste, e via senza sentire né sonno, né fame, né stanchezza. Alle volte i parroci gli offrivano un letto e un piatto di minestra, altre volte doveva arrangiarsi come poteva. Ma lui era il missionario rotto ad ogni fatica e disposto a qualsiasi sacrificio.

In noviziato, intanto, succedevano cose poco piacevoli. La contestazione giovanile infettò anche quell'ambiente e costrinse il padre maestro (P. Zagotto) alla fuga. La crisi, più che nei giovani, era nei superiori maggiori che non avevano una medesima linea di condotta per cui, chi era a diretto contatto con i giovani, navigava in acque perigliose. Questa vicenda è narrata con sufficienza di particolari nella biografia di P. Vitti.

Nel 1969 il noviziato venne chiuso e i novizi furono mandati a casa loro. Chi volle rientrare poté farlo a Venegono dove il noviziato venne trasferito e riaperto nel 1971.

In questo periodo P. Biolo sarebbe potuto partire per lo Zaire, ma non si sentì di fare il passo. Ormai aveva una certa età e la prospettiva di apprendere una nuova lingua e di inserirsi in un nuovo ambiente lo spaventava.

In seguito sarebbe potuto tornare anche in Uganda ma, ancora una volta, rifiutò l'offerta. Ormai era pienamente inserito nel contesto della Chiesa italiana e, inoltre, gli acciacchi cominciavano a farsi sentire.

Restaurare la casa

Partendo il noviziato, a Gozzano rimase una minuscola comunità di Padri che si dedicavano al ministero e alle giornate missionarie. Superiori della comunità furono, nell'ordine: P. Urbani (1969-1971), P. Aurelio Pozzati (1971-1973), P. Bruno Colombina (1973-1976) e P. Biolo (1976-1980).

I superiori, intanto, pensavano di vendere la casa di Gozzano, una casa immensa e fatiscente, ma P. Biolo si oppose decisamente, convinto com'era dell'opportunità della presenza comboniana in Piemonte e nella diocesi di Novara. Quello comboniano, infatti, è l'unico istituto missionario presente nella diocesi di san Gaudenzio. Quindi si adoperò per valorizzare al meglio quell'immenso fabbricato.

Ed ecco che il suo primo impegno fu quello di trasformare l'ex noviziato in una sede del GIM. La cosa ebbe successo e i giovani accorsero pieni di entusiasmo e di buona volontà. Sotto la direzione di P. Biolo organizzarono cori e prepararono recitals che eseguirono a Gozzano e fuori. Alle loro esibizioni partecipavano centinaia di giovani. Si sperava che da essi, tanto interessati al problema missionario, saltasse fuori qualche vocazione. Purtroppo, con la partenza di P. Biolo (1980), il GIM si sciolse e tutto finì nel nulla.

La comunità, intanto, si era ritirata nella parte meno diroccata della casa. Per ripararsi dal freddo (non avevano riscaldamento) tappavano con vecchie coperte le porte e le finestre che lasciavano passare spifferi da tutte le parti. Insomma, si viveva accampati.

P. Biolo, moltiplicando le forze, cercò di mettere insieme una somma che bastasse a convincere i superiori al restauro della parte più nuova della casa, dove si sarebbe ritirata la comunità abbandonando l'altra parte che era tradizionalmente chiamata "Siberia". La decisione di restaurare la casa ebbe luogo nel consiglio provinciale del 5 giugno 1980.

Il gran lavoro di P. Biolo in una situazione di disagio gli era costato caro: per ben due volte dovette essere ricoverato all'ospedale. Il padre provinciale (P. Pasolini) gli scrisse: "Mi raccomando di non fare strapazzi. Non siamo chiamati a fare tutto il bene che c'è da fare nel mondo, ma di fare ciò che è possibile, senza acrobazie".

Ancora incomprensioni

Ai malanni fisici, si aggiunsero anche i dispiaceri morali. P. Biolo era un convinto sostenitore delle giornate missionarie per cui, come Comboni, aveva "penna per scrivere, lingua per parlare e faccia tosta per subire delle ripulse", ma non tutti i sacerdoti condividevano il suo zelo e la sua insistenza per la causa missionaria.

Da Roma, il segretario della P.U.M. scrisse una lettera al provinciale lamentando i modi con i quali P. Biolo "impone" giornate missionarie ai parroci. E poi aggiunge: "Anche l'Arcivescovo di Torino è del parere che il suddetto Padre sospenda la sua attività in territorio diocesano, pur dando atto allo zelo e alla retta intenzione di questo missionario".

Il Corso a Roma (1980-1981) mise fine alle diatribe e il problema delle giornate missionarie e dei lavori di restauro della Casa passò nelle mani del nuovo superiore, P. Bernardo Bonazzi (1° novembre 1980-30 novembre 1986). Dobbiamo tuttavia riconoscere che se oggi la comunità di Gozzano esiste ancora (nella parte restaurata, mentre l'altra parte è stata ceduta alla parrocchia) lo si deve principalmente a P. Biolo che credé con tutte le sue forze alla validità dell'impresa.

Esonerandolo dal suo ufficio, il provinciale (P. Pasolini), gli scrisse: "Desidero anche in questa lettera ringraziarti per il servizio missionario che hai svolto a Gozzano. Ti scrivo questo non per convenienza, ma perché è vero, anche se ci sono stati momenti di difficoltà tra me e te. E per questi momenti ti chiedo sinceramente perdono". P. Biolo era un carattere forte, volitivo; non fa meraviglia, dunque, che abbia avuto qualche motivo di sofferenza e che ne abbia dati anche agli altri. Ma questo fa parte della condizione umana.

A Brescia

Dopo il Corso a Roma, P. Biolo venne deviato a Brescia , sempre con l'incarico delle giornate missionarie, impegno che portò avanti con passione ed entusiasmo fino alla morte.

Da Brescia ci vengono le testimonianze sulla spiritualità e impegno missionario di questo nostro confratello. Ne riportiamo alcune.

Suor Crescenza Colombo: "P. Biolo era una persona che amava la Congregazione. Lo sentii spesso chiedere al Signore la forza di lavorare fino all'ultimo per non essere di peso a nessuno. Amava la preghiera, il silenzio e il ministero delle confessioni. Voleva essere chiamato 'Padre Biolo' e non col solo nome, magari abbreviato, come molti usano oggi.

Il desiderio di fare le giornate missionarie era più forte di lui, ma lo faceva per poter aiutare le missioni. La sua macchina era sempre piena di Nigrizie e di Piemme. Voleva essere un animatore nel vero senso della parola.

Quando arrivavano i sacerdoti dalla missione e presentavano le loro necessità, egli insisteva perché la comunità fosse generosa. 'Noi qui navighiamo nell'abbondanza - diceva - laggiù il bisogno è grande e reale'.

Anche nei giorni di pioggia o di nebbia era sempre sorridente. Con noi suore era un padre e un fratello. Ci voleva bene e sapeva dirci parole di incoraggiamento".

Suor Paola Belloni lo ha conosciuto in Africa e poi è vissuta con lui a Brescia. Scrive: "In missione l'ho sempre ritenuto uomo di lavoro, uno sgobbone, e di preghiera. Trascurava se stesso e si privava di tante cose per aiutare i suoi parrocchiani che lo amavano e anche lo temevano perché non era il tipo da scendere a compromessi.

Nei safari della domenica voleva che ci fosse anche una suora in modo che potesse prendersi cura delle donne e dei bambini. Quando gli si chiedeva qualcosa, la prima risposta era un no secco. Noi suore, tuttavia, avevamo capito che il modo per fargli dire di sì c'era: bastava interpellarlo durante la preghiera. Allora diceva sempre di sì. Interrogato su questo suo modo di fare, rispose: 'Se sto parlando col Signore come posso negare qualcosa a una sua sposa?', e rise divertito.

Nei lavori delle fabbriche era attentissimo e non aveva paura di sporcarsi le mani. Spendeva con parsimonia i soldi perché sapeva che erano il frutto di sacrifici di tanta povera gente, quindi per lui erano sacri.

A Brescia appariva stanco, specie ultimamente, eppure non rifiutò mai di fermarsi per una parola di incoraggiamento o per ascoltare una confessione".

Suor Letizia Mosca: "P. Biolo pregava molto. Al mattino era sempre il primo in cappella. Era comprensivo, anche se alle volte era un po' rustico. Sapeva scusare qualche difetto con tanta carità e s'interessava perché nulla mancasse alla comunità.

Teneva molto al silenzio ed era subito pronto, con la sua presenza, a ricordarci di non dimenticare ciò che ci era stato insegnato in noviziato.

Negli incontri personali batteva sulla preghiera, sul silenzio e sulla carità. Ha sempre amato la missione più di ogni altra cosa e la sua ansia passava anche in noi".

Scrive P. Luciano Franceschini: "Ho sempre ammirato P. Biolo per la sua dedizione all'animazione missionaria. Era benvoluto in diocesi di Brescia e di Mantova. Si può dire che non viveva che per le giornate missionarie ed il ministero connesso. Ed era uomo di preghiera. Ha tenuto nascosti i suoi malanni fino all'ultimo. In casa era benvoluto da tutti, perché era considerato come il papà, anzi, come il nonno che amava tutti sinceramente ed era da tutti riamato".

P. Tullio Donati, superiore a Brescia al tempo di P. Biolo, afferma: "Ha trascorso a Brescia undici anni all'insegna dell'animazione missionaria. Il suo 'pallino' era quello di smuovere le coscienze perché rispondessero al desiderio di Gesù Cristo: si faccia un solo ovile sotto un solo pastore... andate in tutto il mondo, predicate, battezzate... Aveva di mira anche il Sud del mondo con i suoi drammi e il cammino delle giovani Chiese nel mondo. Il tutto contribuì a renderlo popolare un po' ovunque. Fino all'ultimo ha organizzato e partecipato alle giornate missionarie che rappresentavano la sua passione perché erano mezzo di animazione e strumento di aiuto per il cammino della Chiesa nel mondo. Quest'uomo ha maneggiato molti milioni, eppure personalmente è vissuto come un poveraccio, vorrei dire come uno straccione. Per lui i soldi erano un mezzo necessario per far progredire il Regno di Dio nel mondo e sicuramente alle sue mani non è rimasto attaccato niente. Le sue, sì erano veramente 'mani pulite'.

Per la comunità di Brescia è stato un autentico padre, un uomo di Dio, che edificava tutti con la sua preghiera e la sua capacità di sdrammatizzare. Comprensivo e tollerante con i giovani, capiva le loro 'esuberanze' e sorrideva. Davvero sentiamo tutti la sua mancanza".

Anche i familiari hanno dato la loro testimonianza sulla spiritualità del loro congiunto: "Per noi fratelli P. Primo è stato un punto di riferimento. Era per noi confessore, consigliere, giudice e paciere. È spiegabile come la sua morte abbia lasciato in tutti noi, fratelli, cognati e nipoti un grande vuoto. Il suo impegno nell'essere missionario ci ha lasciato, invece, un grande orgoglio per quanto ha fatto in Africa e in Italia".

Missionario del Comboni

In una lettera al provinciale dell'aprile 1993, P. Biolo fa una bella dichiarazione di combonianità con queste parole: "Chi ti scrive è P. Primo Biolo, missionario del Comboni e, credimi, non lo dico per superbia, quanto invece nella certezza d'essere stato chiamato dal buon Dio a fare parte di questa grande famiglia missionaria".

È bello sentire parole come queste sulla bocca di un vecchio missionario che si sente ancora giovane nel cuore e pieno di iniziative. Infatti, nella lettera prosegue elogiando l'operato dei confratelli di Brescia nella nuova impostazione dell'animazione missionaria, e chiede al provinciale che, in previsione della partenza di uno di essi che tanto bene stava facendo a livello di Chiesa locale, si pensasse a chi poteva sostituirlo in modo adeguato per un lavoro missionario così prezioso e ricco di frutti.

Partecipava ai raduni e alle iniziative missionarie della diocesi e dava il suo contributo arricchito dall'esperienza della missione. Riandava con nostalgia ai tempi in cui il seminario brulicava di giovinetti desiderosi di farsi missionari e continuava a domandarsi come mai ora vocazioni non ce n'erano più. E soffriva per questo e si domandava che cosa c'era di sbagliato - se pur c'era qualcosa di sbagliato - nella promozione vocazionale. Poi alzava le braccia e rimetteva la faccenda nelle mani del Padrone della messe.

Come un tramonto africano

P. Biolo, che era vissuto con l'Africa nel cuore, si spense velocemente, proprio come un tramonto africano. Qualche settimana prima dell'infarto che segnò l'inizio della sua fine, si era recato a Limone sul Garda a pregare nella casetta di mons. Comboni. "Avevo proprio bisogno di venire qui a pregare un po’", disse al superiore. Dopo la prolungata preghiera, s'intrattenne con i confratelli della casa in un cordiale colloquio. Quindi fece il suo dono: "Sentite - disse a P. Gaiga e a P. Spezia - se voi mi assicurate l'animazione nel vicariato di Salò, d'accordo col mio superiore, ve lo cedo. Ma mi raccomando che non manchi l'animazione".

"Ci dai il vicariato di Salò! - sottolineò il superiore con arguta meraviglia. E poi, sapendo quanto P. Biolo tenesse alle sue zone di animazione, proseguì: - Non ti sentirai prossimo alla morte, per caso!".

"No, no, sto benissimo. Ho solo pensato che la casa di Brescia, non avendo più il seminario, può cedere qualche sua zona. Ora siete voi di Limone ad avere maggior bisogno".

"Vedo che la preghiera nella casa di Comboni ti ha fatto bene". E così, sorridendo, ci si è lasciati. Chi pensava che non ci si sarebbe più rivisti!

Poco dopo, infatti, P. Biolo veniva colpito da infarto. Fu prontamente portato all'ospedale civile di Brescia dove rimase per oltre un mese. Un fatto curioso: mentre era in rianimazione, fece chiamare il suo superiore e gli ricordò l'elenco delle giornate missionarie che restavano da fare. Il vecchio animatore non si smentiva!

Poi chiese i sacramenti che gli furono impartiti da P. Giulio Albanese del quale aveva una grande stima, e chiese di essere sepolto al suo paese. Messe a posto tutte le sue cose, andò in coma.

La sua morte, avvenuta poco dopo le ore 19.00 del 19 agosto, colpì la diocesi di Brescia dove P. Biolo era molto conosciuto e stimato (anche il Vescovo scrisse una lettera di cordoglio alla comunità), colpì la comunità e l’Istituto. Un uomo generoso, un missionario autentico, un animatore infaticabile se n'era andato.

Dopo i funerali a Brescia, ai quali presero parte anche persone di Gozzano, la salma è stata traslata nel cimitero del suo paese natale, Campolongo Maggiore. A noi resta la sua eredità fatta di zelo missionario, di preghiera silenziosa e di carità fraterna che dall'ambito della comunità si estendeva alla gente e alle missioni che furono sempre presenti nella sua vita di autentico missionario.               P. Lorenzo Gaiga, mccj

Da Mccj Bulletin n. 181, gennaio 1994, pp. 112-119