Primo di sei fratelli, tre maschi e tre femmine, Giacomo dimostrò ancora da bambino una particolare propensione alle cose sacre. La sorella Agnese, due anni più giovane di lui, assicura che tra le cerimonie preferite, oltre alla messa, c'era quella del battesimo delle numerose bambole che le sorelle possedevano.
Papà Guido, di professione sellaio, "un artista nel suo mestiere - dice il figlio Terzo - in quanto sapeva ricavare dal cuoio dei veri capolavori che decorava con fregi e con borchie di ottone", era anche un ottimo cristiano. Mamma Natalina Marini, casalinga, si dedicava esclusivamente alla formazione cristiana e umana della squadra e, nei momenti liberi, dava una mano al marito specie per certe rifiniture che contribuivano a dara un tocco di eleganza all'opera del marito. Dopo le elementari, il papà pensava di indirizzare Giacomo a un buon lavoro. Per questo lo iscrisse alle scuole professionali di Rovato. Proprio mentre frequentava il primo corso, durante una predica in parrocchia, tenuta da un missionario comboniano della vicina Brescia, il giovinetto sentì chiara la voce del Signore che lo chiamava alla vita missionaria.
Era prevosto in quel tempo a Rovato, don Zenucchini, un santo sacerdote che, per aiutare le famiglie povere, più volte tolse dal fuoco la pentola con la minestra già pronta per portarla ai bisognosi. Questi, quando sentì il desiderio di Giacomo, alzò le mani al cielo e, come il vecchio Simeone, esclamò il suo "nunc dimittis". Infatti da quasi quarant'anni non usciva un sacerdote da quella comunità. I genitori accolsero la notizia come una benedizione sulla loro famiglia.
Un piccolo apostolo
Nel settembre del 1936, all'età di 13 anni, Giacomo entrò nella scuola apostolica di Padova. Il curato, don Giovanni Battista Canesi, scrisse: "Il soggetto è di ottima famiglia e di buona condotta: il più assiduo all'oratorio e uno tra i migliori. Mi privo di un valido aiuto per la scuola di canto e per il servizio all'altare; è un piccolo apostolo e propagandista che mi attirava e disciplinava anche i più discoletti. Si sa che di allegre birbonate ne ha fatte anche lui, e guai se non fosse così, ma sempre in Domino. Faccio volentieri il piccolo sacrificio per le Missioni Africane alle quali mi lega grande affetto e immensa riconoscenza. Spero che la Provvidenza mi dia la possibilità di trovare qualche contributo: di solito il Signore elegge i suoi apostoli tra i poveri. Farò il possibile per cercare altri aiuti oltre quelli promessi dalla famiglia che, nelle attuali condizioni, fa sacrifici eroici per mantenere quanto ha assicurato". La famiglia, infatti, si era impegnata per lire 30 mensili.
Per la IV e V ginnasio fu trasferito all'istituto Comboni di Brescia. Ci resta la pagella nella quale ci sono i voti della promozione in IV ginnasio: 3 dieci, 2 otto e 4 sette, segno di applicazione seria e di diligenza.
L'11 agosto 1941 Giacomo entrò nel noviziato di Venegono. P. Antonio Todesco, maestro dei novizi, scriverà: "C'è stato un buon miglioramento soprattutto nel profitto. E' un po' scrupoloso, molto impulsivo e alle volte impacciato nel suo comportamento. Tuttavia ubbidisce prontamente a chi lo corregge. Prega ed è assai attaccato alla sua vocazione e alle regole. Deve lavorare molto sul suo carattere, specialmente sull'impulsività". Dobbiamo dire che su quest'ultimo punto P. Bellotti ha lavorato moltissimo, tanto che in età matura tutti lo ritenevano l'uomo più dolce, equilibrato e mansueto di questo mondo. Una persona che l'ha conosciuto a Gozzano ha detto di lui: "Era un uomo di pace, dava l'impressione di non avere conflitti interiori. Anche quando c'era qualche difficoltà, piuttosto che rispondere taceva con un sorriso".
Dopo la teologia a Venegono, venne ordinato a Milano dal card. Schuster 1'11 giugno 1949.
Animatore vocazionale
Fu assegnato, come animatore vocazionale dapprima a Troia e poi a Rebbio ('49-'56); qui fu anche insegnante, ma con poco successo data la sua troppa bontà di cuore. La sorella dice: "Ai seminaristi era proibito leggere qualsiasi giornale. Mio fratello, però, di nascosto faceva passare qualche copia della Gazzetta dello Sport". Poi fu a Pesaro ('56-'60) come reclutatore e padre spirituale; quindi a Brescia ('60-'61) come reclutatore e propagandista.
Su questo periodo abbiamo una testimonianza di P. Doneda: "P. Giacomo fu uno dei più simpatici ed efficienti reclutatori di ragazzi: non si risparmiava in viaggi e visite ed ogni anno portava veri e propri battaglioni di ragazzi al mese di prova e in scuola apostolica. Hanno dovuto dirgli di non portarne più così tanti, perché non si sapeva dove metterli (anni '50). Era molto umano con la gente. In particolare era molto legato ai parenti dei confratelli che conosceva. Visitava le famiglie e i malati. Centinaia di migliaia di chilometri, estate e inverno, con ogni tipo di clima. Era di uno zelo e simpatia umana esuberante, quasi eccessiva, confronto alla media".
Nel 1951 la sorella Martina, certamente incoraggiata dal fratello; entrò tra le Suore Comboniane.
Si parte
Il desiderio di lasciare l'Italia per realizzare la sua vocazione missionaria si faceva di giorno in giorno più impellente ed egli non mancava di manifestare questa sua ansia ai superiori i quali, finalmente, lo ascoltarono. Nel 1961 partì per l'Ecuador.
Lavorò a Quinindè ('61-'62), a Limones ('63-'65), a Quito ('65- '68), con gli incarichi di coadiutore e di direttore della scuola. Riportiamo la testimonianza di P. Doneda su questo periodo: "Con il suo zelo senza misura, obbediva alla lettera anche certi ordini 'poco prudenti' o addirittura sconsiderati di qualche superiore. Faceva i 'recorridos' (viaggi) senza portare con sé assolutamente nulla, né in cibo né in cose che potevano essere utili o addirittura indispensabili. Si strapazzava e non badava alle difficoltà.
Dopo un periodo di vacanza in Italia trascorsa a Brescia tra il 1968 e il 1971, sempre come promotore vocazionale, ripartì per l'Ecuador. La sua destinazione questa volta fu Esmeraldas, nella parrocchia di S. Marianita.
"Quando fu incaricato di una parrocchia - prosegue P. Doneda - ebbe modo di sfogare, di propria iniziativa, uno zelo senza limiti per il bene della gente, che spesso ne approfittava. Però era così spontaneo e sapeva nascondere così bene le sue difficoltà che nessuno se ne accorgeva. La gente gli ha voluto un bene così grande che pochi missionari hanno goduto. Non era proprio capace di creare conflitti, neppure i più comuni, perché sapeva dire di sì a tutti, e se avveniva qualche complicazione pagava di persona senza mai perdere il sorriso.
Per la sua gente voleva il meglio: volle le suore, il piccolo ambulatorio medico, la scuola cattolica, il catechismo, le aule, l'organo, le chitarre, il trasporto dei malati e degli alunni, le associazioni, le comunità delle cappelle ...
Fu uno dei pochi ad accogliere e a far conoscere le comunità neo-catecumenali che gli diedero non solo una più illuminata forza di evangelizzazione, ma molti collaboratori per le imprese del suo zelo. Le sue chiese di Limones e Santa Marianita erano famose per il numero di bambini, per il loro modo di partecipare alla liturgia e soprattutto per il canto. Era una festa sentirli!
Perdeva la pazienza soltanto quando era apertamente contrariato nel suo zelo, nella sua idea di come essere missionario, ma per pochi istanti. Non era solito giudicare nessuno e tanto meno criticare. Cercava di andare incontro a tutti e di fare tutto ciò che gli chiedevano, con la massima tranquillità. Rarissimamente e solo con intimi amici parlava di sé e del suo lavoro missionario".
La malattia
Tutta questa attività minò presto la sua salute. Nel 1976 P. Bellotti si accorse che il suo cuore non funzionava più. Ritornò in Italia per sottoporsi a delle cure.
Dopo uno svenimento durante la celebrazione della messa nella chiesa parrocchiale fu ricoverato presso l'ospedale Sant'Orsola di Brescia. Gli fu riscontrato un deperimento generale e prescritto un anno di riposo. Dall'agosto del 1977 al 1981, P. Bellotti venne assegnato alla casa di Brescia con l'incarico nel quale tanti anni prima si era sentito pienamente realizzato: propagandista e animatore vocazionale.
Con la salute e l'entusiasmo che sembravano essere ritornati, sentì nuovamente il desiderio di ritornare tra la sua gente in Ecuador. P. Calvia, nuovo generale, gli suggerì la Spagna dove c'era bisogno di missionari di una certa esperienza sia nel campo vocazionale come in quello missionario.
In data 7 luglio 1980 P. Giacomo dichiarò la sua piena e "gioiosa" disponibilità a lasciare l'Italia. Tuttavia si permise di suggerire che "la missione è sempre stato il sogno della mia vita". C'è da dire che anche mons. Bartolucci e i confratelli dell'Ecuador insistevano per il suo ritorno dove era atteso e benvoluto.
Non ha mai avuto nemici
In data 1 luglio 1981, P. Giacomo venne assegnato alla provincia ecuadoriana. Il suo entusiasmo era alle stelle. Ma... non aveva fatto, i conti con la sua salute.
"Dopo un mese e mezzo di tentativi - scrisse P. Fantin - P. Giacomo deve tornare in Italia.
Non è riuscito a farcela. Ha provato sulla costa; ha provato sulle montagne, ma la sua salute assolutamente non tiene. Ad ogni modo è sereno. Ora conosce meglio i suoi limiti e credo che se ne vada con un buon ricordo dei suoi confratelli".
E' facile immaginare la sofferenza per lo smacco fisico e morale del Padre. Scrive P. Fantin: "Di lui conserviamo soprattutto la bontà. Non ha mai avuto nemici, né conflitti con alcuno. Era disposto a tacere fino in fondo, a non reclamare nulla per sé, a diffondere solo serenità. Lo ricordiamo come un vero amico della gente e come un sacerdote popolare. Parlando con lui si aveva l'impressione che avesse raggiunto vette molto alte quanto a spiritualità". Mons. Bartolucci fa eco: . "Per noi era ed è sempre il 'P. Santiago'. Quando arrivai ad Esmeraldas egli era parroco di Santa Marianita. P. Santiago traboccava mansuetudine evangelica. Era trasparente, semplice, di una bontà e di una pazienza inesauribili. Benvoluto da tutti, soprattutto dai bambini, dagli umili, dai più poveri. Ha lasciato un gran ricordo tra noi.
Aveva il dono di vedere sempre gli aspetti positivi della gente. E quando fu costretto a fare comunità con un confratello che aveva un carattere opposto al suo, seppe soffrire in silenzio anche se questo provocò in lui una, tensione psicologica che certamente non fece bene al suo cuore sofferente. Sono stato testimone delle sue lacrime.
Gli costò molto lasciare Esmeraldas. Lo vidi più volte in quei pochi giorni. Era sempre lo stesso: incapace di perdere la pazienza, di alzare la voce, di dire di no a chi gli chiedeva un favore, di lamentarsi, di criticare. Sempre e ovunque diffondeva attorno a sé serenità e fiducia. Confratelli come P. Bellotti, quando se ne vanno, lasciano un vuoto e insieme un sentimento di dolcezza. Voglia il Signore regalarci tanti confratelli così: missionari in cui non c'è inganno, per usare la parola di Gesù, ma c'è solo trasparenza, mansuetudine e fedeltà a tutta prova".
Rientro definitivo
In Italia, malgrado la malattia, P. Giacomo non si rassegnò ad essere inutile. Tentò di riprendere il suo antico zelo attivo, ma non ne fu più capace del tutto.
Arco, Gordola furono le penultime tappe del suo itinerario terreno. Nel maggio del 1983 rientrava d'urgenza a Verona dove venne sottoposto a un duplice by-pass coronarico. Dopo la riabilitazione all'ospedale di Fasano, fu inviato a Gozzano.
La gente di Gozzano lo ricorda con simpatia. Ricorda il suo sorriso e il bel modo di trattare con tutti. Vicino alla casa dei missionari c'è una comunità di suore anziane; P. Giacomo divenne il predicatore del ritiro mensile e il loro confessore. Molte lo ricordano e lo rimpiangono. In comunità dava un valido aiuto per la contabilità e per il ministero nei paesi vicini. Di tanto in tanto, però, era preso dalle sue crisi che qualche volta lo bloccarono anche durante la celebrazione della messa.
A seguito di nuovi disturbi cardiaci, alla fine del 1986 rientrò a Verona per essere ricoverato all'ospedale dove gli applicarono un nuovo by-pass. Dato il peggiorare delle condizioni gli venne applicato un nuovo pace-maker. Dopo questo ultimo intervento venne assegnato alla Casa Madre dove ha sempre prestato con intelligenza la sua opera prodigandosi nei vari settori di lavoro che gli venivano richiesti, in particolare come coordinatore dell'animazione missionaria, della liturgia e della pastorale diocesana. Nei quattro anni di vita che gli restavano agì con tale vigore che non sembrava neanche un ammalato. Non smentì mai il suo carattere di uomo comprensivo, mite, accogliente, servizievole, sorridente. Un confratello, con un po' di esagerazione, lo definì un giorno come "l'unico essere umano in circolazione".
Studio e Parola di Dio
Dalla sua esperienza neo-catecumenale in Ecuador, conservò un appassionato amore allo studio e alla "degustazione" della Bibbia. Passava molte ore in chiesa, al mattino e al pomeriggio, a pregare e a leggere. Ma soprattutto scriveva. Non aveva un gran dono per la predicazione, ma ce la metteva tutta a preparare omelie e pensierini. Scriveva tutto su piccoli foglietti che poi conservava. In genere copiava, uno accanto all'altro, alcuni versetti della Bibbia, quelli che più si confacevano al suo stato d'animo. Poi li leggeva con una frase o due di commento; in genere frasi incisive e spesso anche con poca connessione tra loro. Ma lo faceva con vera passione.
In stanza, soprattutto d'inverno, passava ore a copiare brevi testi della Bibbia su quadernetti o sul retro di immagini o cartoline: Ne sono state trovate a migliaia in tutti i cassetti della sua stanza: due sacchi pieni! Non una sola parola sua o qualche scritto personale: solo Bibbia, specialmente i salmi, che amava e studiava con passione. Per capirli meglio si era proposto di ripassare l'ebraico e il greco, e si era procurato le grammatiche di queste lingue. Lo stesso faceva quando leggeva la vita dei santi: copiava quei pensieri che si confacevano di più al momento spirituale che stava vivendo.
Sempre in Chiesa
Scrive P. Elio Soriani: "Ciò che più mi fece impressione fu vederlo in chiesa durante il giorno, sempre verso le 10-11 del mattino e nel pomeriggio verso le 17-18. Pregava, leggeva, scriveva. Appunti che annotava per usarli poi nel pensiero e nelle esortazioni che aveva occasione di fare particolarmente durante le messe che presiedeva. E lo faceva spesso, perché trovando che vari confratelli erano riluttanti a presiedere la messa comunitaria, si assumeva lui la presidenza per non disturbarli.
Era sempre pronto, premuroso. Era bello vederlo accostarsi a qualche padre per chiedergli se fosse disponibile per qualche ministero.
In casa era d'esempio per l'orario, la preghiera, la messa e, a sera, per i vespri e, due volte la settimana, per l'ora di adorazione. Io lo ammiravo e provavo un senso di inferiorità quando si alzava dal suo posto e con semplicità e naturalezza suppliva questo o quello dei confratelli che per dimenticanza o altro non si trovavano pronti a presiedere la messa comunitaria o a fare l'esposizione del Santissimo. Poi non una parola che potesse mortificare il confratello moroso.
Un buon e santo religioso. Un esempio della 'piccola via' che in silenzio e condivisione unisce a Dio e realizza la carità e l'unione tra i fratelli".
Durante la notte del 20 agosto accusò forti dolori addominali per cui al mattino venne ricoverato all'ospedale di Negrar e operato d'urgenza. Si trattava di occlusione intestinale e di moltissime aderenze.
Il decorso post-operatorio dei primi quattro giorni fu ottimale, ma la sera del 25 agosto si ripresentarono i disturbi che lo tormentavano. Richiesti nuovi accertamenti, mentre si trovava in attesa, in radiologia, accompagnato dalla sorella Agnese, chiese un bicchiere d'acqua.
Dopo averla bevuta, improvvisamente spirò. Erano le ore 12.05 del 26 agosto. Dopo la santa messa ed esequie tenuta nella cappella di Casa Madre, venne traslato e sepolto a Rovato.
I funerali al suo paese furono solenni con grande partecipazione di sacerdoti e di popolo. Sull'ambone dopo il parroco che sottolineò alcuni aspetti della spiritualità e dell'amore che P. Giacomo godeva presso la gente del paese, si alternarono P. Sandro Cadei, suo compaesano, e P. Dino Bonazzi che con lui aveva lavorato in Ecuador. P. L. G.
Da Mccj Bulletin n. 177, gennaio 1993, pp.73-79