Entrato in noviziato a Venegono Superiore il 2 febbraio 1947, a 29 anni di età, fr. Radaelli fece parte del primo gruppo di novizi che il 29 luglio 1948 trasmigrò a Gozzano, in provincia di Novara. Il vecchio seminario, appena acquistato dai Gesuiti, emanava ancora il profumo delle eroiche virtù di p. Picco, morto l'anno prima in concetto di santità e del quale è in corso la causa di beatificazione.
Ma la casa, nonostante il "profumo", era fatiscente per cui aveva urgente bisogno di tanta manutenzione. I fratelli, pertanto, trovarono pane per i loro denti. Per esempio, era crollata parte del muro che sosteneva la strada che univa i due cortili interni, con serio pericolo della stabilità dell'edificio. I novizi vi costruirono immediatamente un muraglione lungo 45 metri, alto 3,50 e largo quasi 3. Precauzione richiesta dal fatto che solo le due testate poggiavano sulla roccia. Il lavoro riuscì magnifico e in stile con il resto della costruzione posta sopra il colle dove un tempo sorgeva un castello.
Scrive p. Picotti: "Non fu facile per Giuseppe Radaelli, di quasi 30 anni, adattarsi alla vita del noviziato e accettare tante piccole e grandi tradizioni e atteggiamenti per lui incomprensibili. Ma fece un grande sforzo, e l'amore per la Madonna e la sua speciale devozione per san Giuseppe lo aiutarono. Ricordo quando il p. maestro gli disse di recitare il De Profundis in latino. Egli rispose: 'Se questo è essenziale per diventare missionari, me lo dica, così vado subito a casa, perché non vi riuscirò mai'".
Un'esperienza forte
Terzo di cinque fratelli, 4 maschi e una femmina, fr. Radaelli nacque a Seregno (MI) il 13 settembre 1918. Papà Pasquale era mobiliere. In un primo tempo lavorava sotto padrone e poi proseguì in proprio mettendo in piedi una discreta azienda. Peccato che uno solo dei suoi figli abbia voluto fare il mestiere del papà. La mamma, Formenti Giuseppina, era casalinga e totalmente dedita ai figli.
Nel 1925, per motivi di lavoro, la famiglia si trasferì da Seregno a Induno Olona, Varese. Peppino aveva 7 anni.
Terminate le elementari, il giovinetto, sentendo una grande propensione per le macchine e per i motori, trovò lavoro presso un'officina meccanica e vi rimase fino al momento di partire per la leva militare. Il lavoro alle dipendenze di un padrone non gli impedì di frequentare con assiduità l'oratorio, dove poté consolidare quella maturità religiosa che la famiglia profondamente cristiana gli aveva instillato nel cuore.
Giovanotto, pensò di formarsi una famiglia come i suoi coetanei e adocchiò una brava ragazza che divenne la sua fidanzata.
La vita militare lo portò in Grecia e in Turchia, e il periodo di leva si protrasse più del previsto causa la seconda guerra mondiale. Faceva parte del Corpo della motorizzazione, che allora si chiamava antincendio. Durante la campagna di Grecia fu portaordini e mise più volte a repentaglio la propria vita. Nell'isola di Samos incontrò più volte il comboniano p. Giuseppe Castelletti, cappellano in marina, col quale strinse una fruttuosa amicizia. Ricercato dai tedeschi, per tre mesi si finse pastore e visse in un villaggio turco protetto dalla gente. In questo modo si salvò dal campo di concentramento. Fu durante quei lunghi giorni di raccoglimento, di meditazione e di preghiera che maturò la sua vocazione missionaria.
"Se san Giuseppe e la Madonna mi fanno tornare a casa sano e salvo, voglio dedicare la mia vita agli altri". Le sue eroiche gesta, raccontate con dovizia di particolari da p. Castelletti, sono tali che solo una serie di interventi divini lo salvarono più volte da morte sicura. Segno che il Signore lo voleva missionario.
Da missionario ricordava una grande amicizia stretta con un giovane ufficiale di cui fu per lungo tempo attendente e col quale fece anche esperienze di preghiera. "Fui testimone di questa amicizia - scrive p. Picotti - quando negli anni '70 fr. Peppino mi pregò di accompagnarlo alla Cecchignola a trovare quel suo amico diventato generale. L'incontro fu bagnato da lacrime di felicità".
Quando giunse finalmente a casa, non dimenticò la promessa fatta sui monti della Turchia e, aiutato dal coadiutore di Induno, fece il discernimento sulla sua vocazione. Ma c'era la ragazza che con lodevole fedeltà lo aveva atteso pregando ogni giorno per lui.
Dopo aver maturato la vocazione religiosa-missionaria, Peppino attese la circostanza adatta per parlare della sua nuova strada alla fidanzata. Fu un momento veramente difficile da affrontare. Finalmente si decise e le disse:
"Se sono qui, dopo tutto quello che ho passato, è grazie anche alle tue preghiere per me. Il Signore, però, vuole da me qualcosa di diverso... Non so come dirtelo".
"Non mi vuoi più? Hai qualche altra?", le rispose con un malcelato scatto di amara sorpresa la ragazza.
"Il Signore mi chiama ad essere suo missionario in Africa".
"Be', se devo lasciarti per il Signore, non ho niente da obiettare. E' certamente migliore di me". E fuggì asciugandosi le lacrime.
Intanto aveva trovato lavoro come autista di un ricco rappresentante, anticlericale dichiarato e comunista sfegatato. Peppino, pur essendo di convinzioni religiose diametralmente opposte, si dimostrò sempre rispettoso di quelle del suo padrone tanto da riuscire a stabilire con lui una sincera amicizia. Da missionario andrà più volte a trovarlo e questi lo accoglierà sempre volentieri dichiarando che era l'unico rappresentante del clero che aveva il privilegio di mettere piede in casa sua... Prima di morire, amorevolmente sollecitato da fr. Peppino, quel mangiapreti chiamò un sacerdote e chiuse gli occhi da buon cristiano.
Digitus Dei
In data 27 gennaio 1947 Peppino scrisse al superiore dei missionari comboniani di Venegono Superiore:
"L'umile sottoscritto, dopo aver lungamente pregato ed essersi consigliato, sentendosi chiamato dal Signore alla vita missionaria, fa fervorosa istanza presso Vostra Reverenza Illustrissima perché venga accolto come membro del vostro glorioso istituto in qualità di fratello.
Prometto sin d'ora il massimo impegno nell'osservare tutte le sante regole dell'istituto onde essere meno indegno della celeste vocazione...".
Il coadiutore aggiunse un bigliettino nel quale, dopo aver dato le migliori garanzie sul giovane, conclude: "A me sembra che ci sia davvero digitus Dei".
Maestro dei novizi era p. Giordani, grande conoscitore di uomini e uomo di spirito. Scrisse di Peppino: "E' molto attaccato alla vocazione. Ha fatto evidenti progressi ed è un buon fermento tra i fratelli. Conosce bene il mestiere di meccanico e ha passione di apprendere altri mestieri per diventare più utile alla missione. Intelligente e di buon senso pratico, ha l'esperienza di una vita trascorsa nel lavoro fra la milizia e nella prigionia. Come salute ha qualche disturbo dovuto a un'operazione allo stomaco durante il servizio militare. Sensibile, soffre molto per qualche sgarbo. Ciò, tuttavia, non incrina il suo buon umore e la socievolezza che lo caratterizza".
Il 24 maggio 1949 fr. Giuseppe Radaelli emise la professione religiosa. Il p. maestro scrisse sotto la domanda di ammissione: "Per la sua sincera pietà, per l'attaccamento alla vocazione e per la sua abilità di autista meccanico, unisco il mio parere favorevole per l'ammissione alla prima professione religiosa".
Nella terra di Comboni
Fu gioia grande per fr. Peppino quando seppe che i superiori lo avevano destinato a Khartoum per prendere in mano il garage e l'officina. Con la fine della guerra, le missioni, frenate per tanti anni nelle loro attività, ebbero un grande sviluppo. Ormai i tempi erano cambiati e l'automobile aveva preso il posto della motocicletta, per cui un valido meccanico che desse il cambio al precedente, ormai logoro da tanti anni di permanenza in quella terra e oberato da un super lavoro, era indispensabile.
Alla gioia di trovarsi nella terra di Comboni, di calcare lo stesso suolo, di vedere i paesaggi e l'ambiente contemplati molte volte dal Fondatore, faceva riscontro una certa amarezza derivante dal fatto di non conoscere una parola della lingua del luogo. Non poter comunicare con la gente costituì un handicap notevole per un tipo estroverso come fr. Peppino.
Poi si aggiunse il male allo stomaco che lo perseguiterà per tutta la vita. Un male che gli impediva di digerire, che gli procurava frequenti dolori alla testa e una notevole insonnia. Questi elementi, uniti al caldo di Khartoum, qualche volta rendevano il fratello un po' nervoso. Tuttavia egli si dominava e, dopo la solita battuta in dialetto milanese, riprendeva il suo lavoro allegramente.
"Ottimo fratello e religioso, ma di salute assai precaria. Non so quanto tempo potrà durare nell'ufficio che ha", scrisse p. Sina.
"Potrebbe essere un ottimo maestro per un fratello giovane", aggiunse p. De Negri. Anche i giudizi di p. Zanini, p. Giovanni Minoli e mons. Baroni sono davvero lusinghieri sulla pietà, spirito religioso e capacità di Peppino.
Anche gli africani che appresero dal Fratello l'arte del meccanico potrebbero testimoniare sulle sue capacità di maestro e di istruttore. Ma era un istruttore "consacrato", un istruttore "missionario" per cui il suo lavoro aveva un timbro tutto speciale. Con la conoscenza della meccanica entrava nell'anima e nel cuore dei suoi collaboratori anche l'amore alla Chiesa, al Regno di Dio e alla gente.
Autista del p. generale
Per la domanda dei Voti perpetui, che ebbero luogo ad Asmara il 24 maggio 1955, fr. Radaelli aveva scritto: "Durante i miei Voti temporanei ho fatto del mio meglio per essere fedele alla grazia datami con la vita religiosa-missionaria. Mi sento contento e desideroso di perseverare fino alla morte".
Nell'agosto del 1956 p. Antonio Todesco, superiore generale, fece venire fr. Radaelli in Italia per due motivi: la salute, che il clima di Khartoum comprometteva sempre di più, e il bisogno di avere un abile autista per i suoi spostamenti. Non è che la cosa abbia entusiasmato il Fratello che si sentiva molto legato alla missione, tuttavia eseguì il suo compito in spirito di obbedienza, di umiltà e con una discrezione che tutti ammirarono.
Il suo compito si protrasse fino alla fine del 1959, anno in cui divenne generale p. Gaetano Briani. Questi aveva messo gli occhi su fr. Peppino per inviarlo in Uganda ad aprire un garage- officina ad Arua, elevata a diocesi il 23 giugno 1958.
"Anche là - scrive p. Picotti - non fu facile la vita, ma la devozione alla Madonna (ricordava sempre di aver fatto i primi Voti, i rinnovi e i Voti perpetui il 24 maggio, festa di Maria Ausiliatrice) e al suo san Giuseppe (diceva proprio così), lo aiutarono a superare le difficoltà nelle relazioni con gli altri, specie con il vescovo e con alcuni confratelli".
Se il primo periodo africano, quello di Khartoum, gli incise sulla salute fisica, quello ugandese ebbe un influsso piuttosto pesante sullo spirito. Il Fratello, oberato da un super lavoro, non riusciva a tener testa a tutto. Oltre all'officina, c'era anche la Procura. Questa soprattutto gli causava grane a non finire, in quanto si sentiva impossibilitato a venire incontro alle esigenze dei confratelli. Non per cattiveria, naturalmente, ma perché le domande erano troppe e il materiale a disposizione poco.
"Neanche se mi cavassi il sangue dalle vene per darglielo, qualcuno sarebbe contento!", commentava con un po' di amarezza in più di un'occasione. I confratelli, naturalmente, vedevano le necessità delle loro missioni e insistevano. I superiori scantonavano lasciando che gli interessati se la sbrigassero tra loro, per cui fr. Peppino esperimentò anche una forma di solitudine morale che gli fece perdere lo smalto della sua giovialità e allegrezza. Tuttavia fu sempre all'altezza della situazione fino al giorno in cui l'obbedienza lo liberò da quel purgatorio. "A fare certi lavori - disse un giorno commentando quel periodo - ci vuole gente che abbia una spanna di pelo sullo stomaco".
Tutti riconoscono che, sotto la sua responsabilità, il garage e l'officina ebbero un notevole sviluppo. E questo nonostante la povertà dei mezzi e la "taccagneria" dei superiori i quali, per la verità, non potevano dare ciò che non avevano.
Definitivamente in Italia
Nel marzo del 1966 troviamo fr. Peppino a Venegono Superiore con l'incarico di spenditore. P. Picotti scrive: "Era venuto in Italia malato, ma più per depressione psicologica che per vera malattia". La depressione psicologica è una vera malattia, alle volte più grave di un male fisico perché può bloccare un individuo e farlo chiudere in se stesso con serio disagio per sé e per gli altri.
Non fu così per il nostro Peppino. In Italia non perse mai di vista la missione, e la grinta dell'evangelizzatore attraverso il lavoro delle proprie mani non gli venne mai meno.
Dal 1970 al 1973 fu a Rebbio occupato in vari uffici che disimpegnò con competenza e spirito di dedizione. Una sua caratteristica fu l'amore per i confratelli. Non solo quelli della casa con i quali collaborava ordinariamente, ma anche quelli di passaggio. In Peppino trovavano un amico sempre disponibile a portarli dove fosse necessario. Col suo bel modo di fare aveva saputo allargare la cerchia degli amici e dei simpatizzanti per le missioni. Nel momento del bisogno si rivolgeva a loro sicuro di essere aiutato nei limiti del possibile.
La lunga giornata di Venegono
Dal 1973 alla morte, per 19 anni, fu a Venegono Superiore che da tre anni era ritornata ad essere sede del noviziato. Fr. Peppino fu incaricato della casa e degli spostamenti dei confratelli. Il vecchio mestiere di autista e di meccanico gli venne buono più di una volta. E quando era al volante si sentiva al suo posto.
Scrive p. Salvi: "Molti confratelli della missione si rivolgevano alla nostra casa per avere pezzi di ricambio o cose per le loro missioni, approfittando di qualche confratello in partenza. Alle volte si trattava di rintracciare il pezzo nel giro di poche ore. Io dicevo a Peppino di pensarci. Egli partiva in picchiata ed ero sicuro che poco dopo sarebbe stato di ritorno col pezzo richiesto. Come avesse fatto a rintracciarlo, solo il Signore lo sa. Pur nelle retrovie, egli si sentiva pienamente missionario e condivideva le ansie di chi era in prima linea, magari impossibilitato a muoversi per mancanza di un pezzo... In queste circostanze gli venivano in mente i tristi giorni di Arua, per cui si faceva in quattro per accontentare i confratelli".
Come un segno
"Era molto attaccato alla famiglia - afferma la cognata di fr. Peppino - e in famiglia godeva di molta considerazione. Ci si consigliava con lui ed egli assicurava la sua costante preghiera per tutti, specialmente per i nipoti che venivano su in un mondo tanto diverso dal suo. La nostra famiglia fu visitata più volte da missionari che venivano dall'Africa mandati da lui. Insomma voleva che la nostra famiglia fosse parte della grande famiglia comboniana e ciò ci faceva grande onore. Una volta è arrivato perfino un sacerdote africano. Un'altra volta è arrivato anche il vescovo mons. Tarantino. Anche nei momenti di tristezza, in occasione di lutti, la sua presenza e la sua parola di fede non mancavano di darci conforto e sollievo. Noi ricorrevamo a lui come a un protettore. Negli ultimi anni, quando non stava tanto bene, andavamo noi a trovarlo a Venegono e trascorrevamo insieme delle ore veramente serene".
Se gli altri lo vedevano in questa luce radiosa, egli considerava se stesso ben diversamente. Lo dimostra il formulario da lui scritto per il catalogo del 1979. Alla voce "ufficio" scrisse: "Rebbio = nulla; Gordola (vi rimase per un po' di tempo) = nulla; Venegono = nulla".
Gli riusciva particolarmente difficile accettare la nuova impostazione di formazione dei novizi, tuttavia si sforzò con tutte le sue forze di adeguarvisi.
"E' stato un segno per i novizi - dice p. Salvi. - In lui vedevano il vecchio missionario che faticava ad adeguarsi ai nuovi metodi e che pure si sforzava di non perdere il ritmo. Per questo l'hanno ammirato e hanno imparato come si devono affrontare le nuove situazioni che si possono incontrare nella vita. E poi lo vedevano così operoso, così disponibile, così uomo di preghiera, così che va al concreto delle cose, per cui la sua presenza in noviziato è stata senz'altro positiva".
Fr. Radaelli era solito tenere costantemente il rosario basco al dito, non per un semplice ornamento, ma per adoperarlo. Infatti, quando non parlava con gli uomini, aveva sempre da dire qualche cosa al Signore o alla Madonna. E poi le frequenti ore di adorazione davanti al tabernacolo! I novizi vedevano e... avevano la possibilità di imparare.
Egli, però, ha sofferto, sembrandogli quasi di essere "in più", e quei ripetuti "nulla" lo confermano. La tentazione di chiudersi in se stesso è stata grande, ma ha sempre lottato per superarla e l'ha superata trovando la forza nel contatto col Signore in quella cappellina così spoglia e fredda, ma sempre riscaldata dalla presenza di Cristo eucaristia.
Uomo dell'amicizia e della misericordia
Abbiamo già accennato che fr. Peppino aveva grande facilità di approccio con le persone. Curava le amicizie vecchie e ne trovava di nuove. Ciò che stupisce, è che fra i suoi amici c'erano alcuni confratelli che avevano lasciato l'istituto per formarsi una famiglia. Egli andava a trovarli di tanto in tanto perché non si sentissero soli nella nuova situazione. Alle loro mogli dava, un po' sul serio e un po' scherzosamente, qualche epiteto "lombardo" considerandole causa della defezione dell'ex confratello, tuttavia lo faceva con tanto garbo che esse continuarono a considerarlo come un "buon papà" che parlava e agiva mosso da sentimenti di bontà. Nelle sue parole, infatti, traspariva tanta misericordia e ripeteva che Dio è misericordioso, che Dio "non la fa mai pagare ai suoi figli", perché è un papà buono e i papà buoni "non la fanno mai pagare ai loro figli".
Al suo funerale, di queste donne ce n'erano quattro e tutte piangevano, perché erano consapevoli di aver perso in Peppino un amico sincero, un sostegno nei momenti di difficoltà, un amoroso correttore, un padre insomma.
Altra caratteristica di fr. Radaelli è stata la sincerità. Ciò che aveva nel cuore lo aveva anche sulle labbra. E se vedeva qualche cosa che non andava bene, lo diceva con molta disinvoltura, anche ai superiori. Nelle sue parole e nei suoi atteggiamenti non c'era mai astio o rabbia, ma solo bontà e sincero desiderio di migliorare le cose, per questo tutti lo accettavano e gli volevano bene.
Era pronto
Alcuni giorni prima della morte, fr. Costante Zadra, suo compagno di professione religiosa e amico sincero, gli disse:
"Peppino, si sta avvicinando l'anniversario della nostra professione religiosa".
"Sto già facendo la novena alla Madonna Ausiliatrice la cui festa cade proprio il 24 maggio. Mi sto preparando perché spero che la Madonna, quando sarà la mia ora, mi porti via improvvisamente senza disturbare nessuno".
Due giorni dopo il termine di questa novena, la Madonna venne a prenderselo, improvvisamente, senza disturbare nessuno. Era il giorno dedicato alla Madonna di Caravaggio di cui era devoto.
"Era un uomo che faceva le sue pratiche di pietà come quando era novizio - dice p. Clerici. - Aveva la pratica dei cento requiem, dei tridui e delle novene che adesso non si ricordano neanche più. Dopo colazione apriva i suoi libretti vecchi e unti e faceva le sue pratiche di pietà come aveva imparato in noviziato e come aveva sempre fatto nella sua vita. Parlavo spesso con lui, ci trovavamo nella mia o nella sua stanza; all'occorrenza mi diceva anche qualche parolaccia o qualche insulto, ma sempre in tono scherzoso, tanto per rinsaldare l'amicizia. Abbiamo sentito tanto la sua mancanza in casa. Davvero ha lasciato un vuoto".
La morte, mediante infarto, lo ha colto alla mattina presto. Fu trovato seduto sulla poltrona dal suo amico fr. Zadra. Se n'era andato all'improvviso ma non impreparato, lasciando in tutti un sincero rimpianto. Dopo i funerali a Venegono, la salma è stata traslata nel cimitero di Induno Olona, accanto a quella dei genitori e di due fratelli.
Giuseppe Radaelli ha dimostrato come un fratello ben preparato professionalmente può fare molto per le opere missionarie e per gli africani, chiamati a costruire l'Africa moderna fondata sulla fede e sul lavoro. Ha, inoltre, dato un valido esempio ai giovani di come un missionario anziano e malaticcio deve affrontare l'ultima e più delicata parte della vita.
P. Lorenzo Gaiga
Da Mccj Bulletin n. 176, ottobre 1992, pp. 81-88