Nato a Valdagno (Vicenza) il 20 settembre 1899, P. Girolamo Besco rimase orfano di padre a un anno di età. Terminata la sesta elementare insieme al fratello, si recò sul ponte che attraversa il torrente Agno e, dopo aver fatto roteare la cartella con i libri come la fionda di Davide, la lanciò il più lontano possibile. Poi la seguì con gli occhi finché la vide sparire tra i gorghi. In questo modo si concluse la prima parte della sua vita.
La mamma, una donnetta all'antica e piena di buon senso, gestiva un bar-osteria al centro del paese. Avrebbe voluto che il figlio continuasse gli studi a Schio, ma quando lo vide entrare senza cartella, fischiettando e con le mani in tasca, capì subito che forse la strada per quel figlio era un'altra.
Il giorno dopo Girolamo fu assunto come commesso in un negozio di stoffe. Aveva la parlata facile e persuasiva. Il padrone, grazie a quel garzone simpatico, concludeva ottimi affari. Girolamo però non sopportava le donne mai contente del prezzo e per di più incapaci di prendere una decisione sul tipo di stoffa da acquistare. «Quanta pazienza, quante parolacce (solo mentali) con quelle donne! Credo che sia stato quello il periodo in cui mi sono guadagnato la vocazione missionaria», ebbe a dire.
A remengo la guerra!
A 17 anni Girolamo dovette partire per il fronte. «La Patria, per farcela contro la potenza austroungarica, ha avuto bisogno di noi, i ragazzi del '99... Sono partito volentieri, sia perché non sapevo che cosa fosse la guerra, sia perché così mi liberavo in maniera elegante dal negozio e dalle clienti. Ho passato le prime settimane con il corpo falegnami che preparavano le baracche per i soldati. Poi mi hanno trasferito in officina. Al tornio preparavo i proiettili calibro 75. Sei mesi di quella vita, poi la trincea... Morti, fucilate, freddo, fame, pidocchi, compagni fatti a pezzi, feriti che urlavano, notti insonni, fughe, paure continue... Cominciai a domandarmi che cosa vale la vita, il lavoro, il denaro e tutte le altre cose per le quali gli uomini si scannavano... I nostri capi ci imbottivano la testa di bei discorsi sull'amor di Patria, sull'eroismo militare... Io li mandavo tutti “a remengo”, loro e la loro guerra. E dicevo che prima della patria e dell'eroismo c'era la mia pelle e la pelle di quelli che dovevamo chiamare nemici, i quali a me non avevano fatto proprio niente, e perciò non capivo perché dovevo ammazzarli».
Una vita diversa
«Le lunghe ore di trincea, gli eterni silenzi delle notti trascorse con il fucile in mano a far da sentinella, acuivano i miei interrogativi. Cercavo una risposta. Finalmente la trovai. Era scritta su un pezzo di carta che avvolgeva una pagnotta. Lessi. Prima distrattamente, poi con maggior interesse. Un certo Guido Giudici, missionario nel cuore dell' Africa, stava consumando le sue forze per diffondere il vangelo tra i pagani. "Questo ha imboccato la strada giusta! Ecco un motivo per il quale vale la pena di vivere e di morire", ho detto dentro di me».
Ma la Patria aveva ancora bisogno di lui, del caporale Girolamo Besco. Solo nel 1921, tre anni dopo la fine della guerra, poté ritornare a casa.
Sarebbe logico pensare che, con i pericoli del fronte, fosse terminato anche il desiderio di farsi missionario. Invece no. Girolamo si iscrisse al ginnasio presso il collegio vescovile di Bassano, e non si vergognava di sedere accanto ai ragazzini di dodici anni. Per pagarsi la retta, faceva l'assistente dei giovani. Organizzò la filodrammatica e le squadre sportive diventando egli stesso uno specialista in varie discipline. Durante la notte studiava. In pochi mesi ricuperò tre anni.
Nel 1925 entrò nel seminario di Vicenza per il liceo. Il suo carattere focoso, l'insofferenza per la disciplina (quattro anni di vita militare non erano riusciti a domarlo), l'amore per le corse in bicicletta, le partite a pallone e le arrampicate sui monti, gli procurarono grane enormi con i superiori, ma anche intense soddisfazioni. «I Superiori - ebbe a dire - con la divisa o con la tonaca sono tutti della stessa specie: hanno sempre ragione». Durante il primo anno di teologia portò a compimento l'idea avuta nelle trincee sulle rive del Piave.
Novizio scalpitante
«Già da due anni io e il padre spirituale abbiamo esaminato la vocazione missionaria con tutte le relative difficoltà di apostolato e di sacrificio, anche in relazione alla mia età e capacità. Ho lottato col Vescovo. Lei sa come la pensa monsignor Rodolfi a riguardo delle vocazioni missionarie che si sviluppano nel suo seminario. Se io dovessi aspettare dopo l'ordinazione sacerdotale, apriti cielo... Lo so anch'io che sarebbe più confacente avere vent'anni ma, dato il mio passato, non c'era da sognarsi davvero che diventassi sacerdote né tanto poco missionario. Immagini che ora sono disposto ad andare alle missioni anche a costo di rimetterci l'ordinazione sacerdotale. Le sembrerà, questa mia decisione, una pazzia bella e buona, ma io invece ci tengo ad affermarlo, fisso ai principi del Vangelo, che mi ispirano di abbandonare tutto per seguire Gesù.
Ormai sono arcistufo del mondo e di questa vita insipida fatta di tergiversazioni tra il mondo e Dio. Ci vuole un taglio netto e deciso, una completa dedizione, e quindi, o missionario, o coadiutore, ma prete mai!
Caro padre, c'è un passato da redimere sul mio conto. Ora non mi sento di continuare una vita che non è vita, in una tiepidezza spirituale che può riuscire fatale. Tale è la mia vita di seminarista e tale diverrebbe se io diventassi sacerdote diocesano.
Io ho bisogno di vivere una vita che sia intensamente, integralmente, completamente cristiana, altrimenti non mi reggo. Le mezze vie, le mezze misure non mi vanno. Avevo sperato di trovare in seminario Dio, quindi la pace, la tranquillità, ma non fu possibile. Voglio darmi incondizionatamente a Dio come missionario. Ora ci pensino loro. Io ci ho pensato abbastanza e forse anche troppo. Sono pronto a tutto...
Ho fatto il secondo corso di teologia. Magari fanalino di coda ma, cosa vuole, occorrono anche quelli per non subire degli investimenti. Ho 29 anni, troppo a dire il vero ma, abbia pazienza, anche il Signore, accolse quelli dell'undicesima ora. È da appena sei anni che mi sono messo tra i libri e, dico il vero, non mi ispirano troppa simpatia...». La lettera al padre Generale è del primo settembre 1928.
Il 14 ottobre di quello stesso anno entrava in noviziato a Venegono. Fece la vestizione il primo novembre, e il 7 ottobre 1930 i primi Voti. Un anno dopo (10/7/1931) divenne sacerdote a Verona .
Il noviziato e l'ultimo anno di teologia furono particolarmente duri per questo cavallo scalpitante; tuttavia l'amore per Dio e per la missione ebbero il sopravvento sulla sua impazienza e vivacità... Qualcuno ricorda ancora il giorno in cui il novizio Besco portò il somaro del noviziato dal padre maestro, dopo avergli legati gli zoccoli con gli stracci perché non facesse rumore a salire i gradini. «Visto, padre, che continua ad insistere sulla necessità del rendiconto, gli porto uno che non lo fa mai», disse.
Missionario
Padre Besco, che tutti chiamavano Momi, partì nello stesso mese di ottobre per la missione del Sudan meridionale. Mbili, Mboro, Kayango: zone difficili, difficoltà incredibili, vita da prima linea.
L'incontro tra Momi e fratel Guido nella missione di Mbili avvenne con la cordialità che esiste tra due vecchi amici anche se non si erano mai visti. I due scoprirono ben presto di avere carattere e gusti molto simili. Ottimo pretesto per combinarne di belle.
Qui cominciò quella serie di «fioretti» che avrebbe dato un tono di allegria e di gioia di vivere a tutta la vita di Momi.
In un villaggio confinante con la missione c'era un vecchietto che stava andandosene al Creatore. I missionari avevano cercato di parlargli di Dio, del Paradiso e dell'Inferno, ma senza alcun frutto. La loro struttura teologica troppo quadrata non entrava proprio in quell'anima dai pertugi stretti. Fratel Guido si rivolse al nuovo venuto e gli disse: «Io avrei il sistema di convincere il malato ad accettare le verità della nostra santa religione, ma temo che gli altri missionari, un po' troppo conservatori e ligi ai regolamenti, non lo condividano».
«Se il tuo sistema serve a salvare un'anima, fammelo sapere, vedrai che io lo applicherò senza tanti scrupoli» rispose Momi.
Il giorno dopo Momi tornò a casa tutto contento, fischiettando un'arietta militare.
«Cos'è tutta questa allegria?» chiese il superiore.
«Il vecchietto ha ricevuto il battesimo ed è in Paradiso».
«Come hai fatto? Non conosci la lingua e poi era così cocciuto quel malato!».
«Guido ha fatto da interprete per la catechesi e per la confessione, io ho fatto il resto».
«Come ha fatto ad accettare il mistero della Santissima Trinità?».
«Con una presa di tabacco».
«E le mogli, le ha lasciate?» «Altroché! È morto!».
Confessore
Il senso di umanità unito a una gran dose di ottimismo facevano di padre Besco un uomo appetibile. Nel novembre del 1940, dopo nove anni di missione, rientrò in Italia per rimettersi in salute. Venne destinato a Firenze come confessore. Uomo che badava all'essenziale, comprensivo delle debolezze umane, trovò subito un gran numero di clienti.
Un giorno i novizi sono raccolti per la conferenza del padre maestro, intenti ad ascoltare la spiegazione delle «tradizioni e regole» dell'Istituto. Padre Besco mette la testa dentro la sala, ascolta un momentino e poi: «Attenti novizietti, ai comandamenti di Dio! Ce n'è abbastanza con quelli!». Alcuni ridono, qualche altro si scandalizza sembrandogli “quel padre” di poco spirito; chi ha riferito il fatto ha aggiunto: «Poi nella vita ci siamo accorti quanto buon senso c'era in quelle parole!».
Dall'agosto del 1942 fino al luglio ’45 padre Girolamo fu aiutante del parroco di Antrodoco, un paesetto della provincia di Rieti. Non potendo ripartire per la missione a causa della guerra, trovò modo di esercitare il ministero in quella zona.
Nel dicembre del 1945 poté nuovamente ritornare a Kayango e a Mbili. E vi rimase fino al 1950.
In Ecuador
Firenze, Venegono e Padova lo ebbero nuovamente confessore per altri 5 anni finché, nel maggio del '55, fu destinato all'Ecuador. Muisne a quei tempi era una località priva di tutto. Peggio dell'Africa. Besco, già di una certa età, non conosceva una parola di spagnolo, era solo e per di più si portava in corpo una tremenda amebiasi. «Solitudine, malattia e fame» disse di quel periodo. Ad un certo punto si sentiva morire.
Chiese ai superiori di essere trasferito. Questi gli dissero di tener duro «propter regnum Dei». Egli, pensando che avrebbe servito il «regnum Dei» più da vivo che da morto, ne orchestrò una delle sue. Fece sapere al vescovo che aveva una generosa mulatta che gli faceva la corte ed egli era indeciso sul da farsi. Gli arrivò il biglietto aereo per posta. «Ecco qua - fu il suo commento con quella sincerità e spregiudicatezza che gli erano proprie - dici ai superiori che stai crepando e neanche ti badano; gli dici che c'è pericolo per la santa castità e subito ti trovano il sostituto». Così, dopo due anni, ebbe fine anche l'esperienza latinoamericana.
Sorella bicicletta
Nel giugno del 1957 padre Besco fu inviato come confessore a S. Tornio. Il Concilio Vaticano secondo non era ancora cominciato, Momi, però, era già arrivato al terzo. Quando aveva un penitente davanti, vedeva il penitente-persona, entrava nella sua problematica, cercava di risolvere insieme i vari problemi molto spesso intricati e complessi non soffermandosi troppo sui canoni o le elucubrazioni dei moralisti. «Vangelo e comandamenti di Dio con un po' di buon senso cristiano» ripeteva.
La faccenda non piacque al rettore della chiesa, il quale lo imbarcò appena gli fu possibile. Besco alzò le mani e se ne andò senza protestare. «Loro la sanno lunga, io più in là di così non ci arrivo. Avranno ragione».
Dopo una fugace presenza a Pesaro, approdò a Venegono dove c'erano gli scolastici di teologia bisognosi di un confessore, e la gente dei dintorni certamente meno sofisticata di quella di Verona - S. Tornio.
Armatosi di bicicletta, cominciò a battere i paesi del circondario suscitando simpatia tra il popolo. Qualche parroco, però, drizzò le orecchie. «Chissà quante ne avrà sentite giù per le Afriche, ma qui siamo tra civili, per bacco!».
Anche in casa l'aria si fece pesante. Il nuovo superiore, un uomo che in fatto di ordine e disciplina ci sapeva fare (o credeva di saperci fare) impose orari precisi e regole draconiane. La televisione, per esempio, doveva essere aperta solo in determinati momenti. Besco, a cui non interessava la politica ma lo sport, voleva vedere le corse in bicicletta, ma era proibito. Armatosi allora di un cacciavite lungo 40 centimetri, che teneva nascosto sotto la veste, si avvicinava all'armadio dove era rinchiuso il diabolico apparecchio, e con un colpo a leva nella serratura spalancava le porte e si godeva la gara. Il superiore «omnia videns» piombava infallibilmente nel luogo del delitto, senza proferir parola chiudeva l'armadio dopo aver spento l'apparecchio e se ne andava. Besco si alzava, faceva un giretto con le mani in tasca fischiettando, poi tornava all'armadio col suo cacciavite e crac; la scena ricominciava.
Gli scolastici, in attesa del catechismo della domenica nei paesi per notizie sportive più esaurienti, avevano da Momi le informazioni più sommarie. «Mi raccomando - diceva mostrando il cacciavite - non sognatevi di fare come faccio io; vi manderebbe via subito. Per me ormai non c'è alcun pericolo».
Sentendo che gli anni passavano, inesorabilmente, la bici divenne il termine di confronto delle sue forze. Ogni giorno un metro di più piuttosto che mezzo di meno. Per quindici giorni di seguito tentò di risalire, stando in sella, il sentierucolo in terra battuta che dall'orto delle suore di Venegono porta davanti alla portineria, e non riusciva perché nell'ultimo metro la ruota posteriore cominciava a slittare. Finalmente un giorno lo scolastico portinaio lo vide sfrecciare davanti alla portineria come un bolide: ce l'aveva fatta!
A Verona con amore
Tre anni a Pordenone insieme ai futuri Fratelli (nov. '63 setto '66) e poi a Verona in Casa Madre.
Il 20 settembre 1969 la comunità, entrando in refettorio per il pranzo, notò in mezzo alla corsia centrale una sedia con lo schienale rivolto verso la porta. Qualcuno che si affrettava a spostarla, fu fermato da un vicino. Terminata la preghiera prima del pasto, si spalancò la porta ed entrò Momi con una corsa leggera e misurata come quella di una gazzella. Giunto alla sedia, la saltò cadendo dall'altra parte con ritmo e perfezione come il migliore degli sportivi. Compiva 70 anni. Fu un applauso.
A Verona si dedicò al ministero nelle parrocchie, ma non fu capito.
E una dopo l'altra le porte delle chiese gli si chiudevano in faccia. Non era ancora rientrato in casa, che già era arrivata la telefonata del parroco nella cui chiesa si era recato. Ne riportiamo una.
«Sia lodato Gesù Cristo. È lei l'incaricato del ministero?».
«Sono io».
«Beh, non mi mandi più padre Besco perché mi ha detto che sono un asino».
«Possibile! ».
«Me l'ha raccontato una madre cristiana, degnissima di fede. Senta: sua figlia va a confessarsi e dice al suo confratello che ha dato un bacio al fidanzato. Il padre le dice che non è peccato darsi un bacio. La figliola risponde che la sua mamma e il suo parroco dicono che è peccato. Il padre ribatte che la mamma avrà fatto lo stesso col papà e che il parroco è un asino. Ecco chi mi manda! Non me lo mandi più per favore».
Un'altra volta si recò in un paesetto della collina veronese per le feste pasquali. Viaggiava in macchina insieme a un confratello nativo di quelle parti. In un tornante l'auto venne investita e quasi disintegrata da un'altra macchina che scendeva a gran velocità. Immediatamente viene denunciato il fatto all'assicurazione.
«Danni ai viaggiatori?».
«Nessuno, per fortuna».
«Meno male; è tutto più facile».
Il giorno di Pasqua l'assicuratore si trova in chiesa alla messa solenne. Besco celebra e predica.
Alla fine l'agente si reca dal padre che guidava al momento dell'incidente e dice: «Quel padre predicava così anche prima dell'incidente?».
«Sì, sì. È il suo normale».
Cos'era successo? Ecco un pezzo della predica.
«Sono stato con voi tre giorni e mi sono accorto che siete un popolo di santi: preghiere e rosario tutte le sere nelle famiglie, non perdete messa alla domenica neanche ad ammazzarvi, su mille abitanti ci sono 20 preti e 70 suore... Sì, vi scappa qualche bestemmia, ma per ogni bestemmia di un veneto ci sono 300 giorni di indulgenza; vi piacciono un po' le donne, ma se non vi piacessero vi sareste fatti frati come me... ». La gente guardava sbalordita e incredula.
All'offertorio mise il vino nel calice. Era pochissimo, in quanto il parroco, piuttosto tirchio, (in compenso completamente sordo), tirava sul vino da messa. Guardando il calice disse tra sé: «L'è un po' pocheto, intrà che a noantri vecioti el ne piase». Aveva il microfono proprio davanti, e tutti in chiesa scoppiarono in una gran risata.
Quando s'imbatteva in una persona attaccava subito discorso come fosse una vecchia conoscenza, anche se non l'aveva mai vista.
Un giorno a Verona incontrò un professore e sua moglie che venivano a far visita all'Istituto. Cominciò subito a parlare della bellezza del matrimonio cristiano, in contrapposizione a «quello alla can» che oggi va tanto di moda. Poi concluse: «Voi alla sera, quando sentite la solitudine, potete darvi un abbraccio. Io, se voglio abbracciare qualcuna, devo rivolgermi alle colonne della chiesa». A distanza di anni i due chiedevano dov'era il vecchietto delle colonne.
Ministero spicciolo
Non potendo esercitare il ministero nelle parrocchie, eccetto nella sua di Valdagno dove era ritenuto un prodigio e vi si recava quattro volte all'anno in occasione delle grandi feste, padre Besco esercitava ampiamente il ministero spicciolo entrando nelle famiglie dei numerosi conoscenti, e anche nelle osterie.
Un avvocato, miscredente e concubino, trovandosi in punto di morte, mandò a chiamare padre Momi. Solo da lui si sarebbe confessato. Il padre si recò immediatamente al suo capezzale, lo confessò, lo comunicò e gli diede gli ultimi sacramenti. Il moribondo fu così contento che lasciò una sua villa in eredità all'Istituto.
In piena città di Verona, il padre incontrò una donna non più giovanissima che vestiva in maniera provocante. Egli la fermò e le chiese se era sposata.
«Sì» rispose l'interpellata.
«E allora, chi vuole attirare vestendo in quella maniera?».
«È la moda».
«Quale moda! Si vergogni! Io ho 80 anni e lei mi fa venire i desideri cattivi. S'immagini cosa succede ai più giovani! Abbiamo o non abbiamo diritto di andare per la strada senza essere tentati? Non le pare?» .
Il crocchio di passanti che si era fermato per vedere come sarebbe finita la diatriba, rivolse al padre espressioni di approvazione.
Dopo il suo giro apostolico in bicicletta lungo la Valpolicella, durante il quale includeva le visite agli ammalati negli ospedali di Borgo Trento e di Negrar, padre Besco si dedicava alla lettura di libri di teologia. Lesse tutti i teologi moderni, alla ricerca di nuovi lumi e suggerimenti per gli incontri del mattino.
Subito dopo pranzo c'era l'infallibile partita a bocce. In questo sport era “il maestro”: se non vinceva, ci stava male. Dopo la partita, riposo, studio-lettura e preghiera.
Riceveva un buon numero di confratelli per le confessioni. Era comprensivo, ma non facilone. Dotato di buon senso e di grande cuore, sapeva trovare il lato positivo in tutte le circostanze. A tutti infondeva speranza e buon umore.
Nel discorso funebre, padre Riccardo Rebuccini ha messo in risalto l'animazione vocazionale fatta da padre Besco mediante il ministero delle confessioni. Nei noviziati, negli scolasticati, nelle nostre case, quando c'era qualcuno scoraggiato o avvilito, magari non compreso dai superiori troppo «razionali», bastava che andasse da padre Momi. Questi aveva la capacità di sdrammatizzare le cose e di mettere la situazione dentro il giusto alveo grazie a quel buon senso che gli derivava dall'esperienza della vita. In questo modo padre Besco salvò un sacco di vocazioni e un gran numero di confratelli gli serbò riconoscenza.
Qualche altro assicura che Besco era il confessore e il protettore dei disperati. Tutti accoglieva, ad ogni ora e con ugual sorriso rinunciando magari alla partita di calcio che la televisione trasmetteva. Per mettere il penitente a suo agio, non esitava a dire che lui ne aveva fatte anche di peggio, e che Dio sa che siamo fatti così... A Verona aveva il suo direttore spirituale dal quale si confessava settimanalmente. Besco era delicatissimo di coscienza.
Ogni tanto ci si imbatte in confratelli che, pur animati dalla più retta intenzione, hanno fatto piangere chi gli è stato vicino. Sembra che per esercitare bene il loro compito di superiori abbiano dovuto dimenticare le parabole evangeliche del Figlio prodigo o della Pecorella smarrita. Oppure le abbiano ricordate solo in occasione di belle prediche in chiesa... Besco non ha mai fatto piangere nessuno, anzi ha tenuto allegri un po' tutti.
Diventando vecchi ci si accorge quanto sono vere le parole di Gesù quando concentra tutta la Legge e i Profeti nel comandamento dell'amore di Dio e dell'amore del prossimo. Il resto, tutto il resto, diventa orpello più o meno inutile. Besco l'aveva capito, e in tutte le sue cose andava all’essenziale...
La sua messa era sentita. Dopo la consacrazione si fermava e parlava al Signore con una fede che gli traspariva dal volto. E magari poco prima, spiegando il vangelo in cui si dice che è meglio cavarsi l'occhio o tagliarsi il braccio se questo è motivo di scandalo, aveva detto: «So ben io cosa bisognerebbe tagliar via a certa gente che attraverso la televisione scandalizza tante famiglie».
Come un patriarca
Superò brillantemente un infarto che lo portò in sala di rianimazione per una decina di giorni. Era crollato lungo la strada durante una biciclettata. Qualcuno lo aveva raccolto e portato all'ospedale.
Superò anche un tumore all'occhio.
Gli specialisti non se le sentivano di operarlo data la sua età. Egli si trovò un medico di Schio che tentò il colpo. Gli andò bene.
Col suo cappello con la stella alpina, la barbetta bianca, sempre pronto a fare qualche saltello, sembrava un vecchietto che non dovesse morire mai tanto era sprizzante di vitalità. La gente lo chiamava il missionario del popolo, della povera gente. Egli si sentiva libero da schemi e da formalità. A chi gli rimproverava qualche sua originalità, rispondeva: «Sono fatto così, mi sono anche sforzato ma non c'è niente da fare. Accettatemi come sono».
Uomo all'antica per certi versi, non volle mai scendere a patti con alcune modernità quali la macchina per scrivere o il telefono.
Un giorno, mostrando una sua foto che gli avevano scattata a Castelvecchio, disse: «Vorrei che mi mettessero questa sul Bollettino, quando sarà ora». Abbiamo cercato di accontentarlo.
Fumava moderatamente qualche sigaro che raccattava qua e là, o la pipa. Non comperò mai un indumento, usando quelli che la gente offriva per i poveri. Per gli altri sapeva sacrificarsi. Un esempio: un padre «grave» beveva di tanto in tanto qualche bicchierino «per la circolazione del sangue», però non voleva esser trovato con la bottiglia in stanza in caso di morte improvvisa. Allora teneva la bottiglia in stanza di Besco e quando aveva voglia andava a servirsi. «A me non importa se mi trovano la bottiglia in stanza - diceva Besco a un amico - tanto ormai non ho niente da perdere».
Verso metà novembre cominciò a sentirsi stanco, tuttavia non rinunciò alla bicicletta. Ad un certo punto, però, disse: «Basta. È ora che me ne vada». Si trascinò per un paio di giorni per casa resistendo fino all'ultimo. Poi si mise a letto e volle ricevere tutti i sacramenti. I confratelli intorno pregavano per lui e lui con loro. La mattina dopo, 21 novembre, alle ore 4 chiamò il superiore e gli disse che stava per partire. Pregarono insieme. Alle 6 era spirato. Credo che il Signore gli ha riservato una morte così bella, da antico patriarca, grazie al buon umore e all'ottimismo che ha sempre seminato intorno a sé.
Ai funerali in Casa Madre vennero anche alcuni amici che lo avevano conosciuto e stimato. Poi la salma partì per Valdagno dove riposa tra la sua gente che sempre lo accolse come sacerdote, e le sue montagne che rappresentarono per lui il simbolo della forza, della purezza e della bellezza di Dio. p. Lorenzo Gaiga
Da Mccj Bulletin, n. 144, gennaio 1985, pp. 89-96