In Pace Christi

Besco Girolamo

Besco Girolamo
Fecha de nacimiento : 20/09/1899
Lugar de nacimiento : Valdagno VI/I
Votos temporales : 07/10/1930
Votos perpetuos : 01/10/1933
Fecha de ordenación : 10/07/1931
Fecha de fallecimiento : 21/11/1984
Lugar de fallecimiento : Verona/I

Nato a Valdagno (Vicenza) il 20 settembre 1899, P. Girolamo Besco rimase orfano di padre a un anno di età. Terminata la sesta elementare insieme al fratello, si recò sul ponte che attraversa il torrente Agno e, dopo aver fatto roteare la cartella con i libri come la fionda di Davide, la lanciò il più lontano possibile. Poi la seguì con gli occhi finché la vide sparire tra i gorghi. In questo modo si concluse la prima parte della sua vita.

La mamma, una donnetta all'anti­ca e piena di buon senso, gestiva un bar-osteria al centro del paese. Avreb­be voluto che il figlio continuasse gli studi a Schio, ma quando lo vide entrare senza cartella, fischiettando e con le mani in tasca, capì subito che forse la strada per quel figlio era un'altra.

Il giorno dopo Girolamo fu assun­to come commesso in un negozio di stoffe. Aveva la parlata facile e per­suasiva. Il padrone, grazie a quel garzone simpatico, concludeva otti­mi affari. Girolamo però non sopportava le donne mai contente del prezzo e per di più incapaci di prendere una decisione sul tipo di stoffa da acquistare. «Quanta pazien­za, quante parolacce (solo mentali) con quelle donne! Credo che sia sta­to quello il periodo in cui mi sono guadagnato la vocazione missiona­ria», ebbe a dire.

A remengo la guerra!

A 17 anni Girolamo dovette parti­re per il fronte. «La Patria, per far­cela contro la potenza austroungari­ca, ha avuto bisogno di noi, i ragazzi del '99... Sono partito volentieri, sia perché non sapevo che cosa fosse la guerra, sia perché così mi liberavo in maniera elegante dal negozio e dalle clienti. Ho passato le prime setti­mane con il corpo falegnami che preparavano le baracche per i solda­ti. Poi mi hanno trasferito in offici­na. Al tornio preparavo i proiettili calibro 75. Sei mesi di quella vita, poi la trincea... Morti, fucilate, fred­do, fame, pidocchi, compagni fatti a pezzi, feriti che urlavano, notti in­sonni, fughe, paure continue... Co­minciai a domandarmi che cosa vale la vita, il lavoro, il denaro e tutte le altre cose per le quali gli uomini si scannavano... I nostri capi ci im­bottivano la testa di bei discorsi sul­l'amor di Patria, sull'eroismo milita­re... Io li mandavo tutti “a remen­go”, loro e la loro guerra. E dicevo che prima della patria e dell'eroismo c'era la mia pelle e la pelle di quelli che dovevamo chiamare nemici, i quali a me non avevano fatto pro­prio niente, e perciò non capivo per­ché dovevo ammazzarli».

Una vita diversa

«Le lunghe ore di trincea, gli eter­ni silenzi delle notti trascorse con il fucile in mano a far da sentinella, acuivano i miei interrogativi. Cerca­vo una risposta. Finalmente la tro­vai. Era scritta su un pezzo di carta che avvolgeva una pagnotta. Lessi. Prima distrattamente, poi con mag­gior interesse. Un certo Guido Giu­dici, missionario nel cuore dell' Afri­ca, stava consumando le sue forze per diffondere il vangelo tra i paga­ni. "Questo ha imboccato la strada giusta! Ecco un motivo per il quale vale la pena di vivere e di morire", ho detto dentro di me».

Ma la Patria aveva ancora biso­gno di lui, del caporale Girolamo Besco. Solo nel 1921, tre anni dopo la fine della guerra, poté ritornare a casa.

Sarebbe logico pensare che, con i pericoli del fronte, fosse terminato anche il desiderio di farsi missiona­rio. Invece no. Girolamo si iscrisse al ginnasio presso il collegio vesco­vile di Bassano, e non si vergognava di sedere accanto ai ragazzini di do­dici anni. Per pagarsi la retta, faceva l'assistente dei giovani. Organizzò la filodrammatica e le squadre sportive diventando egli stesso uno speciali­sta in varie discipline. Durante la notte studiava. In pochi mesi ricupe­rò tre anni.

Nel 1925 entrò nel seminario di Vicenza per il liceo. Il suo carattere focoso, l'insofferenza per la disciplina (quattro anni di vita militare non erano riusciti a domarlo), l'amore per le corse in bicicletta, le partite a pallone e le arrampicate sui monti, gli procurarono grane enormi con i superiori, ma anche intense soddisfazioni. «I Superiori - ebbe a dire­ - con la divisa o con la tonaca sono tutti della stessa specie: hanno sem­pre ragione». Durante il primo anno di teologia portò a compimento l'idea avuta nelle trincee sulle rive del Piave.

Novizio scalpitante

«Già da due anni io e il padre spirituale abbiamo esaminato la vocazione missionaria con tutte le rela­tive difficoltà di apostolato e di sacri­ficio, anche in relazione alla mia età e capacità. Ho lottato col Vescovo. Lei sa come la pensa monsignor Rodolfi a riguardo delle vocazioni missionarie che si sviluppano nel suo seminario. Se io dovessi aspettare dopo l'ordinazione sacerdotale, apriti cielo... Lo so anch'io che sarebbe più confacente avere vent'anni ma, dato il mio passato, non c'era da sognarsi davvero che diventassi sacerdote né tanto poco missionario. Immagini che ora sono disposto ad andare alle missioni anche a costo di rimetterci l'ordinazione sacerdotale. Le sembrerà, questa mia decisione, una pazzia bel­la e buona, ma io invece ci tengo ad affermarlo, fisso ai principi del Vangelo, che mi ispirano di abbandonare tutto per seguire Gesù.

Ormai sono arcistufo del mondo e di questa vita insipida fatta di tergiversazioni tra il mondo e Dio. Ci vuole un taglio netto e deciso, una completa dedizione, e quindi, o missionario, o coadiutore, ma prete mai!

Caro padre, c'è un passato da redimere sul mio conto. Ora non mi sento di continuare una vita che non è vita, in una tiepidezza spirituale che può riuscire fatale. Tale è la mia vita di seminarista e tale diverrebbe se io diventassi sacerdote diocesano.

Io ho bisogno di vivere una vita che sia intensamente, integralmente, completamente cristiana, altrimenti non mi reggo. Le mezze vie, le mezze misure non mi vanno. Avevo sperato di trovare in seminario Dio, quindi la pace, la tranquillità, ma non fu possibile. Voglio darmi incondiziona­tamente a Dio come missionario. Ora ci pensino loro. Io ci ho pensato ab­bastanza e forse anche troppo. Sono pronto a tutto...

Ho fatto il secondo corso di teolo­gia. Magari fanalino di coda ma, cosa vuole, occorrono anche quelli per non subire degli investimenti. Ho 29 anni, troppo a dire il vero ma, abbia pazienza, anche il Signore, accolse quelli dell'undicesima ora. È da appena sei anni che mi sono mes­so tra i libri e, dico il vero, non mi ispirano troppa simpatia...». La let­tera al padre Generale è del primo settembre 1928.

Il 14 ottobre di quello stesso anno entrava in noviziato a Venegono. Fece la vestizione il primo novem­bre, e il 7 ottobre 1930 i primi Voti. Un anno dopo (10/7/1931) di­venne sacerdote a Verona .

Il noviziato e l'ultimo anno di teologia furono particolarmente duri per questo cavallo scalpitante; tutta­via l'amore per Dio e per la missione ebbero il sopravvento sulla sua impa­zienza e vivacità... Qualcuno ricorda ancora il giorno in cui il novizio Besco portò il somaro del noviziato dal padre maestro, dopo avergli lega­ti gli zoccoli con gli stracci perché non facesse rumore a salire i gradini. «Visto, padre, che continua ad insi­stere sulla necessità del rendiconto, gli porto uno che non lo fa mai», disse.

Missionario

Padre Besco, che tutti chiamavano Momi, partì nello stesso mese di ot­tobre per la missione del Sudan me­ridionale. Mbili, Mboro, Kayango: zo­ne difficili, difficoltà incredibili, vita da prima linea.

 

L'incontro tra Momi e fratel Gui­do nella missione di Mbili avvenne con la cordialità che esiste tra due vecchi amici anche se non si erano mai visti. I due scoprirono ben pre­sto di avere carattere e gusti molto simili. Ottimo pretesto per combinar­ne di belle.

Qui cominciò quella serie di «fio­retti» che avrebbe dato un tono di allegria e di gioia di vivere a tutta la vita di Momi.

In un villaggio confinante con la missione c'era un vecchietto che sta­va andandosene al Creatore. I mis­sionari avevano cercato di parlargli di Dio, del Paradiso e dell'Inferno, ma senza alcun frutto. La loro strut­tura teologica troppo quadrata non entrava proprio in quell'anima dai pertugi stretti. Fratel Guido si rivol­se al nuovo venuto e gli disse: «Io avrei il sistema di convincere il ma­lato ad accettare le verità della no­stra santa religione, ma temo che gli altri missionari, un po' troppo conservatori e ligi ai regolamenti, non lo condividano».

«Se il tuo sistema serve a salvare un'anima, fammelo sapere, vedrai che io lo applicherò senza tanti scru­poli» rispose Momi.

Il giorno dopo Momi tornò a casa tutto contento, fischiettando un'arietta militare.

«Cos'è tutta questa allegria?» chie­se il superiore.

«Il vecchietto ha ricevuto il batte­simo ed è in Paradiso».

«Come hai fatto? Non conosci la lingua e poi era così cocciuto quel malato!».

«Guido ha fatto da interprete per la catechesi e per la confessione, io ho fatto il resto».

«Come ha fatto ad accettare il mistero della Santissima Trinità?».

«Con una presa di tabacco».

«E  le mogli, le ha lasciate?» «Altroché! È morto!».

Confessore

Il senso di umanità unito a una gran dose di ottimismo facevano di padre Besco un uomo appetibile. Nel novembre del 1940, dopo nove anni di missione, rientrò in Italia per ri­mettersi in salute. Venne destinato a Firenze come confessore. Uomo che badava all'essenziale, comprensivo delle debolezze umane, trovò subito un gran numero di clienti.

Un giorno i novizi sono raccolti per la conferenza del padre maestro, intenti ad ascoltare la spiegazione delle «tradizioni e regole» dell'Istitu­to. Padre Besco mette la testa dentro la sala, ascolta un momentino e poi: «Attenti novizietti, ai comandamenti di Dio! Ce n'è abbastanza con quel­li!». Alcuni ridono, qualche altro si scandalizza sembrandogli “quel pa­dre” di poco spirito; chi ha riferito il fatto ha aggiunto: «Poi nella vita ci siamo accorti quanto buon senso c'era in quelle parole!».

Dall'agosto del 1942 fino al luglio ’45 padre Girolamo fu aiutante del parroco di Antrodoco, un paeset­to della provincia di Rieti. Non po­tendo ripartire per la missione a cau­sa della guerra, trovò modo di eser­citare il ministero in quella zona.

Nel dicembre del 1945 poté nuo­vamente ritornare a Kayango e a Mbili. E vi rimase fino al 1950.

In Ecuador

Firenze, Venegono e Padova lo ebbero nuovamente confessore per altri 5 anni finché, nel maggio del '55, fu destinato all'Ecuador. Muisne a quei tempi era una località priva di tutto. Peggio dell'Africa. Besco, già di una certa età, non conosceva una parola di spagnolo, era solo e per di più si portava in corpo una tremenda amebiasi. «Solitudine, ma­lattia e fame» disse di quel periodo. Ad un certo punto si sentiva morire.

Chiese ai superiori di essere trasfe­rito. Questi gli dissero di tener duro «propter regnum Dei». Egli, pensan­do che avrebbe servito il «regnum Dei» più da vivo che da morto, ne orchestrò una delle sue. Fece sapere al vescovo che aveva una generosa mulatta che gli faceva la corte ed egli era indeciso sul da farsi. Gli ar­rivò il biglietto aereo per posta. «Ec­co qua - fu il suo commento con quella sincerità e spregiudicatezza che gli erano proprie - dici ai supe­riori che stai crepando e neanche ti badano; gli dici che c'è pericolo per la santa castità e subito ti tro­vano il sostituto». Così, dopo due anni, ebbe fine anche l'esperienza la­tinoamericana.

Sorella bicicletta

Nel giugno del 1957 padre Besco fu inviato come confessore a S. To­rnio. Il Concilio Vaticano secondo non era ancora cominciato, Momi, però, era già arrivato al terzo. Quan­do aveva un penitente davanti, ve­deva il penitente-persona, entrava nella sua problematica, cercava di ri­solvere insieme i vari problemi molto spesso intricati e complessi non sof­fermandosi troppo sui canoni o le elucubrazioni dei moralisti. «Vangelo e comandamenti di Dio con un po' di buon senso cristiano» ripeteva.

La faccenda non piacque al rettore della chiesa, il quale lo imbarcò ap­pena gli fu possibile. Besco alzò le mani e se ne andò senza protestare. «Loro la sanno lunga, io più in là di così non ci arrivo. Avranno ragione».

Dopo una fugace presenza a Pesa­ro, approdò a Venegono dove c'erano gli scolastici di teologia bisognosi di un confessore, e la gente dei dintorni certamente meno sofisticata di quella di Verona - S. Tornio.

Armatosi di bicicletta, cominciò a battere i paesi del circondario suscitando simpatia tra il popolo. Qualche parroco, però, drizzò le orecchie. «Chissà quante ne avrà sentite giù per le Afriche, ma qui siamo tra ci­vili, per bacco!».

Anche in casa l'aria si fece pesan­te. Il nuovo superiore, un uomo che in fatto di ordine e disciplina ci sapeva fare (o credeva di saperci fare) impose orari precisi e regole draconiane. La televisione, per esem­pio, doveva essere aperta solo in determinati momenti. Besco, a cui non interessava la politica ma lo sport, voleva vedere le corse in bici­cletta, ma era proibito. Armatosi allo­ra di un cacciavite lungo 40 centi­metri, che teneva nascosto sotto la veste, si avvicinava all'armadio dove era rinchiuso il diabolico apparec­chio, e con un colpo a leva nella serratura spalancava le porte e si godeva la gara. Il superiore «omnia videns» piombava infallibilmente nel luogo del delitto, senza proferir paro­la chiudeva l'armadio dopo aver spento l'apparecchio e se ne andava. Besco si alzava, faceva un giretto con le mani in tasca fischiettando, poi tornava all'armadio col suo cacciavi­te e crac; la scena ricominciava.

Gli scolastici, in attesa del catechi­smo della domenica nei paesi per no­tizie sportive più esaurienti, avevano da Momi le informazioni più somma­rie. «Mi raccomando - diceva mo­strando il cacciavite - non sognatevi di fare come faccio io; vi mandereb­be via subito. Per me ormai non c'è alcun pericolo».

Sentendo che gli anni passavano, inesorabilmente, la bici divenne il termine di confronto delle sue for­ze. Ogni giorno un metro di più piuttosto che mezzo di meno. Per quindici giorni di seguito tentò di risalire, stando in sella, il sentieruco­lo in terra battuta che dall'orto delle suore di Venegono porta davanti al­la portineria, e non riusciva perché nell'ultimo metro la ruota posteriore cominciava a slittare. Finalmente un giorno lo scolastico portinaio lo vide sfrecciare davanti alla portineria co­me un bolide: ce l'aveva fatta!

A Verona con amore

Tre anni a Pordenone insieme ai futuri Fratelli (nov. '63 setto '66) e poi a Verona in Casa Madre.

Il 20 settembre 1969 la comunità, entrando in refettorio per il pranzo, notò in mezzo alla corsia centrale una sedia con lo schienale rivolto verso la porta. Qualcuno che si affret­tava a spostarla, fu fermato da un vicino. Terminata la preghiera prima del pasto, si spalancò la porta ed entrò Momi con una corsa leggera e misurata come quella di una gazzel­la. Giunto alla sedia, la saltò cadendo dall'altra parte con ritmo e perfe­zione come il migliore degli sportivi. Compiva 70 anni. Fu un applauso.

A Verona si dedicò al ministero nelle parrocchie, ma non fu capito.

E una dopo l'altra le porte delle chiese gli si chiudevano in faccia. Non era ancora rientrato in casa, che già era arrivata la telefonata del parroco nella cui chiesa si era recato. Ne riportiamo una.

«Sia lodato Gesù Cristo. È lei l'in­caricato del ministero?».

«Sono io».

«Beh, non mi mandi più padre Be­sco perché mi ha detto che sono un asino».

«Possibile! ».

«Me l'ha raccontato una madre cri­stiana, degnissima di fede. Senta: sua figlia va a confessarsi e dice al suo confratello che ha dato un bacio al fidanzato. Il padre le dice che non è peccato darsi un bacio. La figliola risponde che la sua mamma e il suo parroco dicono che è peccato. Il pa­dre ribatte che la mamma avrà fat­to lo stesso col papà e che il parroco è un asino. Ecco chi mi manda! Non me lo mandi più per favore».

Un'altra volta si recò in un pae­setto della collina veronese per le feste pasquali. Viaggiava in macchi­na insieme a un confratello nativo di quelle parti. In un tornante l'auto venne investita e quasi disintegrata da un'altra macchina che scendeva a gran velocità. Immediatamente vie­ne denunciato il fatto all'assicura­zione.

«Danni ai viaggiatori?».

«Nessuno, per fortuna».

«Meno male; è tutto più facile».

Il giorno di Pasqua l'assicuratore si trova in chiesa alla messa so­lenne. Besco celebra e predica.

Alla fine l'agente si reca dal padre che guidava al momento dell'inciden­te e dice: «Quel padre predicava così anche prima dell'incidente?».

«Sì, sì. È il suo normale».

Cos'era successo? Ecco un pezzo della predica.

«Sono stato con voi tre giorni e mi sono accorto che siete un popolo di santi: preghiere e rosario tutte le sere nelle famiglie, non perdete mes­sa alla domenica neanche ad ammaz­zarvi, su mille abitanti ci sono 20 preti e 70 suore... Sì, vi scappa qual­che bestemmia, ma per ogni bestem­mia di un veneto ci sono 300 giorni di indulgenza; vi piacciono un po' le donne, ma se non vi piacessero vi sareste fatti frati come me... ». La gen­te guardava sbalordita e incredula.

All'offertorio mise il vino nel cali­ce. Era pochissimo, in quanto il par­roco, piuttosto tirchio, (in compenso completamente sordo), tirava sul vino da messa. Guardando il calice disse tra sé: «L'è un po' pocheto, intrà che a noantri vecioti el ne piase». Aveva il microfono proprio davanti, e tutti in chiesa scoppiarono in una gran risata.

Quando s'imbatteva in una perso­na attaccava subito discorso come fosse una vecchia conoscenza, an­che se non l'aveva mai vista.

Un giorno a Verona incontrò un professore e sua moglie che venivano a far visita all'Istituto. Cominciò subito a parlare della bellezza del ma­trimonio cristiano, in contrapposizio­ne a «quello alla can» che oggi va tanto di moda. Poi concluse: «Voi alla sera, quando sentite la solitudine, potete darvi un abbraccio. Io, se voglio abbracciare qualcuna, devo rivolgermi alle colonne della chiesa». A distanza di anni i due chiedevano dov'era il vecchietto delle colonne.

Ministero spicciolo

Non potendo esercitare il ministero nelle parrocchie, eccetto nella sua di Valdagno dove era ritenuto un pro­digio e vi si recava quattro volte all'anno in occasione delle grandi feste, padre Besco esercitava ampiamente il ministero spicciolo entrando nelle famiglie dei numerosi conoscenti, e anche nelle osterie.

Un avvocato, miscredente e concubino, trovandosi in punto di morte, mandò a chiamare padre Momi. Solo da lui si sarebbe confessato. Il padre si recò immediatamente al suo capezzale, lo confessò, lo comunicò e gli diede gli ultimi sacramenti. Il moribondo fu così contento che lasciò una sua villa in eredità all'Istituto.

In piena città di Verona, il padre incontrò una donna non più giovanissima che vestiva in maniera provocante. Egli la fermò e le chiese se era sposata.

«Sì» rispose l'interpellata.

«E allora, chi vuole attirare vestendo in quella maniera?».

«È la moda».

«Quale moda! Si vergogni! Io ho 80 anni e lei mi fa venire i desideri cattivi. S'immagini cosa succede ai più giovani! Abbiamo o non abbiamo diritto di andare per la strada senza essere tentati? Non le pare?» .

Il crocchio di passanti che si era fermato per vedere come sarebbe fi­nita la diatriba, rivolse al padre espressioni di approvazione.

Dopo il suo giro apostolico in bi­cicletta lungo la Valpolicella, du­rante il quale includeva le visite agli ammalati negli ospedali di Borgo Trento e di Negrar, padre Besco si dedicava alla lettura di libri di teo­logia. Lesse tutti i teologi moderni, alla ricerca di nuovi lumi e suggeri­menti per gli incontri del mattino.

Subito dopo pranzo c'era l'infalli­bile partita a bocce. In questo sport era “il maestro”: se non vinceva, ci stava male. Dopo la partita, riposo, studio-lettura e preghiera.

Riceveva un buon numero di con­fratelli per le confessioni. Era com­prensivo, ma non facilone. Dotato di buon senso e di grande cuore, sapeva trovare il lato positivo in tutte le circostanze. A tutti infondeva spe­ranza e buon umore.

Nel discorso funebre, padre Ric­cardo Rebuccini ha messo in risalto l'animazione vocazionale fatta da pa­dre Besco mediante il ministero delle confessioni. Nei noviziati, negli sco­lasticati, nelle nostre case, quando c'era qualcuno scoraggiato o avvili­to, magari non compreso dai supe­riori troppo «razionali», bastava che andasse da padre Momi. Questi ave­va la capacità di sdrammatizzare le cose e di mettere la situazione dentro il giusto alveo grazie a quel buon senso che gli derivava dall'espe­rienza della vita. In questo modo padre Besco salvò un sacco di voca­zioni e un gran numero di confratelli gli serbò riconoscenza.

Qualche altro assicura che Besco era il confessore e il protettore dei disperati. Tutti accoglieva, ad ogni ora e con ugual sorriso rinunciando magari alla partita di calcio che la televisione trasmetteva. Per mettere il penitente a suo agio, non esitava a dire che lui ne aveva fatte anche di peggio, e che Dio sa che siamo fatti così... A Verona aveva il suo direttore spirituale dal quale si con­fessava settimanalmente. Besco era delicatissimo di coscienza.

Ogni tanto ci si imbatte in confra­telli che, pur animati dalla più retta intenzione, hanno fatto piangere chi gli è stato vicino. Sembra che per esercitare bene il loro compito di su­periori abbiano dovuto dimenticare le parabole evangeliche del Figlio prodigo o della Pecorella smarrita. Oppure le abbiano ricordate solo in occasione di belle prediche in chiesa... Besco non ha mai fatto pian­gere nessuno, anzi ha tenuto allegri un po' tutti.

Diventando vecchi ci si accorge quanto sono vere le parole di Gesù quando concentra tutta la Legge e i Profeti nel comandamento dell'amore di Dio e dell'amore del prossimo. Il resto, tutto il resto, diventa orpello più o meno inutile. Besco l'aveva ca­pito, e in tutte le sue cose andava all’essenziale...

La sua messa era sentita. Dopo la consacrazione si fermava e parlava al Signore con una fede che gli tra­spariva dal volto. E magari poco pri­ma, spiegando il vangelo in cui si dice che è meglio cavarsi l'occhio o tagliarsi il braccio se questo è motivo di scandalo, aveva detto: «So ben io cosa bisognerebbe tagliar via a certa gente che attraverso la televisione scandalizza tante famiglie».

Come un patriarca

Superò brillantemente un infarto che lo portò in sala di rianimazione per una decina di giorni. Era crollato lungo la strada durante una biciclet­tata. Qualcuno lo aveva raccolto e portato all'ospedale.

Superò anche un tumore all'occhio.

Gli specialisti non se le sentivano di operarlo data la sua età. Egli si tro­vò un medico di Schio che tentò il colpo. Gli andò bene.

Col suo cappello con la stella al­pina, la barbetta bianca, sempre pron­to a fare qualche saltello, sembrava un vecchietto che non dovesse mori­re mai tanto era sprizzante di vitali­tà. La gente lo chiamava il missio­nario del popolo, della povera gente. Egli si sentiva libero da schemi e da formalità. A chi gli rimproverava qualche sua originalità, rispondeva: «Sono fatto così, mi sono anche sfor­zato ma non c'è niente da fare. Ac­cettatemi come sono».

Uomo all'antica per certi versi, non volle mai scendere a patti con alcune modernità quali la macchina per scrivere o il telefono.

Un giorno, mostrando una sua foto che gli avevano scattata a Castelvec­chio, disse: «Vorrei che mi mettesse­ro questa sul Bollettino, quando sarà ora». Abbiamo cercato di acconten­tarlo.

Fumava moderatamente qualche si­garo che raccattava qua e là, o la pipa. Non comperò mai un indumen­to, usando quelli che la gente offriva per i poveri. Per gli altri sapeva sacrificarsi. Un esempio: un padre «gra­ve» beveva di tanto in tanto qualche bicchierino «per la circolazione del sangue», però non voleva esser trovato con la bottiglia in stanza in caso di morte improvvisa. Allora teneva la bottiglia in stanza di Besco e quando aveva voglia andava a servirsi. «A me non importa se mi tro­vano la bottiglia in stanza - diceva Besco a un amico - tanto ormai non ho niente da perdere».

Verso metà novembre cominciò a sentirsi stanco, tuttavia non rinunciò alla bicicletta. Ad un certo punto, però, disse: «Basta. È ora che me ne vada». Si trascinò per un paio di giorni per casa resistendo fino all'ul­timo. Poi si mise a letto e volle ricevere tutti i sacramenti. I confratelli intorno pregavano per lui e lui con loro. La mattina dopo, 21 novembre, alle ore 4 chiamò il superiore e gli disse che stava per partire. Pregarono insieme. Alle 6 era spirato. Credo che il Signore gli ha riservato una morte così bella, da antico patriarca, grazie al buon umore e all'ottimismo che ha sempre seminato intorno a sé.

Ai funerali in Casa Madre vennero anche alcuni amici che lo avevano conosciuto e stimato. Poi la salma partì per Valdagno dove riposa tra la sua gente che sempre lo accolse come sacerdote, e le sue montagne che rappresentarono per lui il simbolo della forza, della purezza e della bellezza di Dio.                      p. Lorenzo Gaiga

Da Mccj Bulletin, n. 144, gennaio 1985,  pp. 89-96