Dopo brevissima malattia, P. Graziano morì all'ospedale di Gulu, Uganda, dove era stato trasportato d'urgenza il giorno prima dalla sua parrocchia di Parombo, nella diocesi di Arua. Aveva compiuto da poco 62 anni, era sempre stato di forte costituzione e non aveva quasi mai accusato disturbi, al di fuori della malaria. Forse la tensione degli ultimi mesi del regime di Amin, lo shock per un'irruzione di soldati che gli portarono via l'auto, la benzina disponibile, proiettore, macchina fotografica, orologi, vestito e altro, fecero precipitare un disturbo che portò ad un'emorragia cerebrale che non poté essere superata. Venerdì sera due cristiani di Parombo avvertirono i Padri di Angal che P. Panza stava molto male; era senza conoscenza e senza parola; fu trasportato subito all'ospedale di Angal, ma la gravità delle sue condizioni consigliò il trasporto a Gulu; questo fu fatto il sabato; ma anche a Gulu tutte le cure furono inutili. Domenica mattina 1 luglio verso le 11 cessò di vivere.
Era nato a Mirabella Eclano, diocesi e Provincia di Avellino; al battesimo ricevette il nome di Orazio, ma egli usò sempre quello di Graziano. Il padre era fabbro ferraio. Terminate le elementari entrò nel Seminario minore di Troia nel settembre 1930, terminò il ginnasio a Brescia (1934-35) e vi ritornò come prefetto negli ultimi tre anni di teologia (1940-43) dopo il noviziato compiuto a Venegono e il liceo a Verona. Fu ordinato sacerdote a Brescia il 3 giugno 1943. I primi due anni di sacerdozio, che coincidevano con la fine della guerra, li passò nella scuola apostolica di Troia. Nell'ottobre 1945 fu a Bologna col gruppo che si preparava alle missioni con lo studio dell'inglese e giunse a Wau nel marzo 1946, dove iniziò i suoi quasi 33 anni di missione. Imparò il denka e ancor meglio la lingua jur; dato lo sviluppo e l'importanza delle scuole fu presto addetto (supervisor) delle scuole elementari cattoliche della zona di Kayango e di Mbili. Il diario del Vicariato registra spesso le sue visite alle «outschools» (scuole di villaggio) fino a Nyamlell. Non trascurò il ministero, soprattutto quando fu superiore e parroco di Kayango (1953-5) e, dopo le vacanze in patria alla fine del primo decennio, a Mbili. Nel nov. 1954 percorse 80 km per portare i sacramenti ad un moribondo, ma giunse purtroppo il giorno dopo la sepoltura. Nel nov. 1958 sperimentò i primi ostacoli per la costruzione di una cappella. L'anno seguente cominciarono le espulsioni; nel novembre 1962 P. Panza vide partire P. Fiorante, che era stato con lui a Kayango e a Mbili, e anche lui dovette lasciare il Sudan con la grande espulsione in massa all'inizio di marzo del 1964. Giunto in Italia partecipò al primo corso di aggiornamento (nov. 1964- maggio 1965) e dopo quattro anni di lavoro di animazione a Messina ottenne di ripartire per la missione. Così dedicò i suoi ultimi 9 anni alle popolazioni alur della diocesi di Arua (Uganda) . Fu sempre a Parombo, sul lago Alberto, prima come coadiutore e poi come parroco. Geograficamente ai margini della diocesi, in zona nuova e difficile (per il clima particolarmente caldo e umido) insieme con P. Fiorante contribuì allo sviluppo della parrocchia di Parombo. Era di carattere un po' schivo e certo non si faceva vedere molto e sentire; ma svolgeva il suo lavoro con impegno e apprezzato da tutti. Chi scrive ricorda che in occasione della sua ordinazione sacerdotale a Brescia rivelò che a un certo punto della sua preparazione - se non sbaglio, durante gli anni di ginnasio passati a Brescia - ebbe una crisi che lo portò sul punto di abbandonare la sua vocazione, ma tutto fu superato e dimenticato dopo una preghiera alla Madonna in cappella. Non v'è dubbio che ebbe molto a soffrire, sia per il suo carattere, sia per i conflitti con le autorità civili (specie in Sudan), ma molto egli portò nel suo cuore e rimarrà per sempre un segreto. Il segreto della sua vocazione, del suo apostolato. Una settimana prima di morire in una lettera a P. Russo, suo confratello e amico, descriveva la situazione disastrosa creata dalla guerra di Amin. «Anch'io ho passato i miei guai - e ricordava l'attacco alla missione di Parombo da parte dei soldati - , ma grazie a Dio la pelle l'ho portata fuori». Ricordava poi le due vittime di Pakwach, i Padri Dal Maso e Fiorante, «i quali entrambi erano legati a me per tanti ricordi. Specie P. Fiorante... assieme al quale ho passato buona parte della mia vita, incominciando da Brescia quando ero suo prefetto, e poi in Sudan, ma specialmente qui a Parombo: questa missione deve tutto a lui, ad essa ha dato tutte le sue energie». Concludeva la sua lettera con queste parole: «Quest'anno abbiamo festeggiato il primo centenario della Fede in Uganda ed abbiamo iniziato il secondo: anche l'inizio del secondo porta tanti contrassegni di un altro centenario eccezionale». In queste parole è certamente espressa la speranza che come il sangue dei Santi Martiri Ugandesi aveva fecondato il seme del Vangelo un secolo fa, così il sangue delle vittime della furia di Amin avrebbe consolidato quella Fede tanto provata. Non poteva immaginare che entro la settimana avrebbe unito il dono della sua vita all'olocausto dei suoi amati confratelli perché il popolo ugandese ritrovi la pace e la concordia nella Fede e amore di Cristo.
Da Bollettino n. 126, novembre 1979, pp.71-73