In Pace Christi

Orler Rodolfo

Orler Rodolfo
Fecha de nacimiento : 27/11/1892
Lugar de nacimiento : Vulcan Mich./USA
Votos temporales : 01/11/1911
Votos perpetuos : 01/11/1917
Fecha de ordenación : 23/12/1916
Fecha de consagración : 07/02/1934
Fecha de fallecimiento : 17/07/1946
Lugar de fallecimiento : Wau/SSD

La Fede di nascita, rilasciata da don Tonini, curato di Mezzano (Primiero, Trento) il 28 dicembre 1903 "per uso scolastico" attesta che Orler Rodolfo, figlio di Pietro e Orsola Zugliani, nacque a Vulcan Mich. (Stati Uniti Nord America) il 27 novembre 1892 e fu battezzato nella chiesa di S. Barbara il 4 dicembre dello stesso anno, fungendo da padrini Orler Giacomo e Bonat Margherita. Così anche altrove (come in SPV, II, 72). Lui però, nel Libro del Noviziato (226) scrisse di sua mano: "nato a New York" (e così in SPV, I, 408). Può darsi che i coniugi Orler, per ragioni di lavoro, abbiano cambiato dimora prima di rimpatriare dagli Stati Uniti nel 1899, quando Rodolfo aveva 7 anni. Inoltre, non sembra che nel Michigan ci sia una località denominata Vulcan. Se i confratelli degli Stati Uniti desiderano considerare mons. Orler come il primo comboniano americano, potrebbero rintracciare la chiesa di S. Barbara dove fu battezzato, dovunque si trovi. Comunque è certo che Rodolfo Orler fu "cresimato 1'8 agosto 1900 dal principe vescovo di Trento mons. Valussi, padrino Bortolo Orsega", come risulta dal registro parrocchiale dei cresimati di Mezzano e dal certificato rilasciato dal decano di Primiero l' 11 aprile 1904.

            Nella cartella di mons. Orler si trova anche il consenso autografo dei genitori, senza data, ma probabilmente del 1904, anno in cui Rodolfo entrò nel Collegio Pio X per le Missioni Africane, S. Vito al Tagliamento (Udine): "Noi sottoscritti siamo contenti che nostro figlio Rodolfo Orler entri a farsi missionario come il Signore gli spira, e per ciò di buon grado concediamo ad esso il nostro assenso né mai ci opporremo alla sua vocazione. Nel contempo dichiariamo che qualora il Rmo Padre Superiore della scuola apostolica o il Superiore d'altra casa dei medesimi missionari dove nostro figlio avesse a passare non lo trovassero idoneo, noi siamo sempre disposti a riprenderlo". In un documento successivo i genitori vengono detti "buoni cristiani di condizione contadini, che lavorano terre di loro proprietà e godono buona fama" (A/61/8/2).

S. Vito al Tagliamento

            Forse è poco noto che nella scuola apostolica di S. Vito al Tagliamento, inaugurata il 19 gennaio 1902 e chiusa nell'ottobre 1908, entrarono successivamente 9 missionari del nostro istituto, 2 dei quali tuttora viventi e cioè: Rodolfo Orler, Luigi Zadra e Luigi Cosner (fr. Faustino), 1904; Raimondo Tomasin, 1906; Natale Salazer, 1907; Nemo Carraro, Carlo Pizzioli, Innocenzo Simoni e Achille Brigadoi (aspirante fratello), 1908. Dai documenti d'archivio risulta che all'inizio del 1901 mons. Gian Giacomo Coccolo, della diocesi di Concordia (Pordenone) sotto l'alto patronato della Società Antischiavista Italiana e di un comitato di benefattori, chiese al nostro istituto la collaborazione per aprire una scuola apostolica a S. Vito al Tagliamento. L'allora superiore generale p. Angelo Colombaroli, ne scrisse a Propaganda, e il 15 marzo 1901 il card. M. Ledowchoski rispondeva:

            "Quanto Vostra Signoria espone col suo foglio del 5 corrente, circa un progetto di fondazione di un Collegio succursale di cotesta casa nella diocesi di Concordia, fu da me preso in maturo esame: ma la cosa, come è proposta, non piacque a questa S. Congregazione. Le difficoltà infatti di mettere in esecuzione l'accordo ideato con il benefattore di Concordia, non mancherebbero forse coll'andar del tempo a comparire e recare incomodi alla sua Congregazione. Laonde pur lodando la generosa intenzione di Mons. Coccolo, stimo che convenga lasciare in tutto alle sue cure la fondazione di una semplice scuola apostolica, coll'intento di fornire a suo tempo giovani che, avendone la vocazione, entrassero quindi nel noviziato dell'Istituto: al qual fine se questo volesse aiutarlo col fornirgli qualche soggetto per la formazione degli allievi, nulla osterebbe, salvo sempre che non si assumessero impegni fissi di nessun genere" CC/277 /18/11).

            La Consulta accettò quest'ultima soluzione il 18 aprile 1901: "Si propone di coadiuvare mons. Coccolo per la fondazione d'una Scuola Apostolica a S. Vito al Tagliamento (Udine) col somministrargli il personale senza prendere nessuna obbligazione . La proposta è approvata" (A.Colombaroli, F. Vianello, Geyer: C/Z7l/l/l4).

            Vi furono addetti successivamente, come superiori p. Domenico Francesconi e p. Giovanni Bendinelli, e come assistenti p . Samuele Fabbro, p. Girolamo Cisco, p . Nicolao Olivetti, fr. Simeone Lunardon e fr. Daniele Giovannini. Vi era vicina una chiesa molto frequentata, soprattutto per le funzioni e canto dei ragazzi. Vi era il ritiro mensile per il clero , istruzioni, fervorini, ecc. Ma l'opera principale era l ' assistenza agli emigrati, e in casa c'erano sempre alcuni giovani sacerdoti, che mons. Coccolo chiamava suoi segretari, con conseguenti inframettenze, come previsto da Propaganda, che portarono alla chiusura della scuola nel 1908, anche se gli alunni avevano raggiunto il numero di 45-50. Gli aspiranti missionari passarono all'istituto Comboni di Brescia.

            Rodolfo Orler era entrato a S. Vito dopo la III elementare, e nel 1904-1905 frequentò la I ginnasiale. Il direttore del Collegio Pio X di S. Vito il 3 ottobre 1908 rilasciò questo attestato di profitto scolastico: "Il sottoscritto dichiara che il sig. Orler, ha subìto gli esami di IV gin. nel Collegio pio X S. Vito al Tagl. (Udine) riportando le seguenti classificazioni: italiano 9,10; latino 9,10; francese 9,10 ; inglese 9,10; storia civ. 9; geografia 10; aritmetica 8, condotta morale 10". Si direbbe un alunno brillante. Iscritto il 15 ottobre 1908 alla V classe ginnasiale del Collegio Arici di Brescia, diretto allora dai gesuiti, riportò all'inizio alcune insufficienze nelle prime pagelle mensili (indice della maggiore serietà degli studi nel collegio bresciano), ma agli esami finali, tolto un 6 meno in italiano scritto, riportò due 7, sei 8, quattro 9, e un 10 in geografia e storia .

Verona

            Lo stesso anno entrò in noviziato a Verona, dove fece la vestizione il 5 novembre 1909. Nell'unico giudizio rimastoci, il maestro p. Bernabè scrisse: "Mostra buon desiderio e buona volontà di approfittare. Impegno sufficiente, criterio buono. Salute buona. Carattere alquanto focoso, aperto ai superiori" . Fece la professione il l novembre 1911 e frequentò le scuole del seminario di Verona per il liceo e la teologia. Nel primo corso liceale riportò la "menzione onorevole" (1911), e il premio di II grado nel II e III corso (1912-13), e il I premio nel 1914 in I teologia. Negli anni 1915-19 non ci fu distribuzione di premi nel seminario di Verona, causa la guerra.

            Siccome in seguito si accennerà alla ventata d'aria moderna da lui portata come superiore a Thiene e a Verona, è il caso di riportare qualcuna delle spiritose battute ch'egli disseminò nel diario degli scolastici di Verona, che stese egli stesso dal marzo 1914 all'aprile 1916. Era stato nominato "bidello" già nel novembre 1912, ma si vede che ne fu sbalzato, perché ci fu un interregno di Lorenzo Spagnolo, e lui fu rieletto nel giugno 1913. Eccone alcune: "Il corridoio a pian terreno è ornato con quadri che dureranno fino alla consumazione dei secoli, se nessuno li tocca" (9.5.14). "La funzioncina del mese si fa la sera dopo rosario, e si ricordi il bidello d'avvisare i signori suonatori, per che non ne facciano una delle solite" (10.5.14). "Fr. Spagnolo ci regala i confetti monacali. Deogratias! Dio è tanto buono con i suoi servi, che manda loro anche queste cose".

            Gli scolastici erano al massimo una dozzina (ridotta a metà nel 1915, causa la guerra), eppure il diarista scriveva l'11 maggio 1914: "Lo ricorderò: questa sera grande confusione nel lavoro, e ciò per la caparbietà e ostinazione delle idee fisse; credo neppure la più potente dinamite può agire contro sì potenti rocce!". Ma il mese dopo torna a parlare di sé: "Il signor bidello ne ha fatta una delle solite per mancanza di testa" (11.6.14). E il 2 luglio un commento personale ai fatti del giorno: "Si cambia il posto alla biblioteca; presto la getteremo fuori della finestra:". Si vede che anche allora gli esami pesavano, specialmente quello di ebraico; scrive infatti il 7 luglio 1914: "Deo agamus gratias! Finalmente si e dato l'addio alle anhelantia et stridentia verba ebraica". E aggiunge sotto: "La sera lavoro per non irritare troppo fr. Vincenzo". E il giorno seguente: "Anche oggi un esame se n'è andato a Calicut".

            Quello però che pesava maggiormente era il lavoro nell'orto (allora molto esteso e tutto coltivato), sotto la direzione di fr. Vincenzo Ghiotto, sopra nominato, ch'era molto esigente nel mandare avanti i lavori. Il 14 luglio annota: "La sera lavoro: una sudata di quelle che bastano a mandare tra i più un uomo!". Ma il 18 aggiunge: "La sera passeggio, a dispetto delle borbottazioni di fr. Vincenzo - del resto, sempre buoni fratelli!". Il 15 torna a bomba , parlando di se stesso: "Una grande e solenne baggianata e accaduta in questi giorni - non la dico, perché riderebbe anche la carta su cui scrivo. Per bacco e per bacone!". I sudori però non erano sempre conseguenza del lavoro. Scrive il 7 agosto 1914 : "La mattina passeggiata a S. Fenzo (S .Fidenzio), sino a mezzogiorno però. Ritornando, marcia forzatissima - l'anima si tenea coi denti, perché arrischiava d’uscire anche quella col sudore". Una avventura, affatto fuori dell’ordinario, è raccontata i l 4 novembre 1914 : "Gli scolastici vanno a lavorare in cantina dalle due alle 6.15 ... Una travasata solenne, accompagnata da un bagno a vino freddo di Candido Uberti, il quale per troppo amore a Bacco, per grazia dello stesso, cadde nel tino - e non so se bevette. ... et quidem!  Risum teneatis amici!". Ma due giorni dopo: "Dies amara amarissima; cominciano le scuole. Le aule sono un po' rinnovate: Deo gratias ... la luce entra anche in quei labirinti". E il 19 seguente: "Sono a letto Orler e Tomasin: che diavolo sia capitato loro addosso non si sa".

            Il 1915 porta altre avventure: "4.5.15. Vi è in casa don Fanton, un ex novizio, uscito per malattia nel 1909. Fu causa, almeno così dicono le dicerie, che durante la notte destasse l'amatissimo nostro confratello e compagno Luigi Zadra, il quale alle una di notte, conscio pienamente della propria causa, fece insieme a fr. Galli una perlustrazione per la casa - ritornò però con le pive nel sacco a fondo pertuso…. e fr. Galli con una guerra intestinale. È un fatto pubblico, degno di menzione. Forse quando si rileggeranno questi annali, si penserà, come un tempo a Mardocheo, a dargli dovuti onori". Il 9 seguente: "Fr. Giuseppe (Bortolato) corre disperato anche lui a Padova: il governo gli vuole un bene del mondo". Si era in pieno clima di mobilitazione generale, e molti dei nostri erano già andati sotto le armi o stavano per esservi chiamati. Scrive il 13 maggio: "Si è in continua aspettazione. Che cosa avverrà? Rivoluzione? Guerra? Pace? Deus scit!". Il 24 maggio l'Italia entro in guerra. Ma il buon umore del diarista non era spento, perché il 1 agosto 1915 scrive: "Fr. Zadra disperato, e forse perché il cervello comincia a seccarsi, si dà all'uselanda. Vederlo tutto il giorno sotto un albero a fare 'pi ... pi …', e ritornare alla sera carico di … tordi , è cosa da far scoppiare il diaframma. Eppure si muove! dice egli".

            Fu ordinato sacerdote a Verona il 23 dicembre 1916, all'inizio del IV corso teologico, con dispensa, data la scarsità di personale in casa madre a Verona, dopo l'allontanamento di p. Nebel. Per Natale, p. Orler venne a cantare la sua prima messa a Brescia, come ex alunno (come ricordava ancora il prof. Simonato scrivendo di p. Abbà ). Noi lo vedevamo allora per la prima volta, ma avemmo agio di conoscerlo e goderlo l'anno dopo a Solato, nel 1917, dove fu mandato per accompagnare gli alunni di Brescia durante le vacanze estive. Ne serbammo tutti un grato ricordo per la sua bontà e familiarità, nonostante qualche scatto. Eravamo soltanto una quindicina, (perché i "bocciati" erano rimasti a Brescia per le necessità della casa e chiesa), ma dovevamo provvedere a tutto noi stessi, anche per la cucina. Era stato eletto cuoco il più anziano (17 anni, che poco dopo fu arruolato), ma un giorno, non so se perché il pasto non era pronto o poco soddisfacente, il cuoco fu sbalzato di colpo, e sostituito da Roberto Zanini che, da pari suo, seppe cavarsela e parare le impennate del padre.

            P. Orler rimase a Verona quattro anni, impegnato oltre che nella sorveglianza agli aspiranti fratelli (che dopo la guerra passarono a Thiene) anche nell'insegnamento in seminario vescovile, dato che diversi insegnanti erano sotto le armi. Finalmente, nel 1920, con un gruppo di cinque trentini, che a Trento celebrarono con esultanza la loro partenza per l'Africa, anche p. Orler s'imbarcò per il Bahr el Ghazal.

Bahr el Ghazal

            Vi giunse il 27 marzo 1921. Dall'aprile all'ottobre di quell'anno fu a Kayango, quindi a Wau fino al dicembre 1924. Trasferito a Mbili, dopo il Capitolo del 1925 vi fu nominato superiore, finche nel 1928, dovette rimpatriare per salute.

            Rimessosi in forze, dal 1929 fu per due anni superiore degli aspiranti fratelli di Thiene. Precedentemente, col superiore p. Domenico Francesconi, la scuola apostolica di Thiene era quasi un anticipato noviziato, come è facile immaginare per chi abbia conosciuto p. Francesconi. Alto, robusto, di proporzioni atletiche, con una lunga barba, dignitoso, serio, sembrava non fosse mai stato giovane, tanto che fu ammesso agli ordini maggiori senza chiedere la dispensa per difetto di età canonica. Quando se n'accorse il superiore generale, p. Angelo Colombaroli chiese a Propaganda la "sanatoria", che fu concessa il 19 aprile 1902, con la monizione "d'essere più cauto in avvenire". P. Francesconi personificava il tipo di formazione ascetica tradizionale, che seguiva anche nella guida degli aspiranti, e non fa meraviglia che l’arrivo di p. Orler abbia portato "una vera ondata di giovinezza e primavera" .

            Il più meravigliato del cambiamento fu il giovane Giuseppe Biasin, istruttore meccanico, che al termine del suo contratto sarebbe rimasto libero. Ma ormai non aveva più voglia di andare altrove. Gli sembrava di sentirsi perfettamente a casa sua e di aver trovato come occupare definitivamente la vita. Quando p. Orler riceve l'ordine di ripartire per la missione, si offre di accompagnarlo a Verona. "Vengo anch'io con lei. Poi proseguirò per Brescia. Vorrei andare a parlare con un vecchio missionario mio confidente". Era il p. Domenico Francesconi, vecchio amico di famiglia e suo direttore spirituale, dal quale voleva avere conferma della sua vocazione.

Port Sudan

            Desideroso di ritornare in Africa, p. Orler accettò nel 1931 di andare a sostituire p. Giacomo Andriollo, che si era improvvisamente ammalato a Port Sudan. Vi giunse il 19 marzo 1931 con l'entusiasmo del novellino che mette piede in Africa per la prima volta, come scrisse in una lettera a Verona:

            "Si attende con ansia la meta d'arrivo: Port Sudan. L'arrivo a Port Sudan è un conforto per il missionario. A Port Sudan ordinariamente toccano la prima volta il suolo africano tutti i nostri missionari che si dirigono al centro. Per una doppia ragione dunque il porto è dolce dopo la lunga navigazione.

            Port Sudan è ora una graziosa cittadina moderna, ma il suo sviluppo non data da gran tempo. Dista 60 Km. dalla città di Suakim a nord. L'importanza di Suakim è nota. In passato esercitò un intenso traffico di schiavi con la riva araba opposta. A Suakim nel passato e ancor oggi convengono i musulmani per salpare dal suo porto in pellegrinaggio alla Mecca. Ora però Suakim ha perduto la sua importanza e non e più che un grande villaggio. Port Sudan fu la sua rivale e la causa del suo declino.

            Port Sudan è una città cosmopolita: 25.000 abitanti di tutte le razze: sudanesi, greci, arabi, siriani, indiani, non manca una 'rappresentanza italiana, un centinaio. In quanto a religione, la maggioranza della popolazione è musulmana, alcuni protestanti, greci, copti e pochi cattolici, ecco tutto.

            La cittadina col suo porto è molto graziosa: una perla bruna di una bellezza affascinante sull'orlo del deserto, di cui ha il calore ed il vento ardente, sulla sponda del mare che è la sua vita.

            La caratteristica abitazione araba s'intreccia colle civettuole villette europee dai mille stili e colori bizzarri. Dai luridi quartieri arabi, dove abbondano i facchini del porto, si può passare agli eleganti quartieri europei, dove scorrono le superbe automobili.

            Port Sudan è una cittadina moderna nel pieno senso della parola. La sua felicissima posizione ed il suo porto sono tutta la causa della sua importanza. Oggi è un centro commerciale di primaria importanza, almeno per l'ambiente africano. È lo sbocco delle vie del Sudan; tutto fa capo al suo porto: esso è lo scalo principale del Mar Rosso; le navi provenienti dall'Oriente e dall'Europa vi si fermano: è lì che avviene lo scambio, lo sbarco e l'imbarco delle merci.

            Anche a Port Sudan la missione ha stabilite le sue tende: vi è una casa per il missionario e una per le suore, i locali del primo piano della casa delle suore sono adibiti ad aule scolastiche. Anche a Port Sudan, come in genere nei luoghi di missione aperti tra i musulmani, il vicariato di Khartum svolge la sua opera per mezzo della scuola; tutte le speranze della missione sono riposte in questa scuola: ad essa dunque noi missionari annettiamo la più grande importanza e rivolgiamo tutte le cure più amorose.

            La scuola a Port Sudan, come in tutti i centri musulmani, è forse, ed anche senza forse, l'unico mezzo di penetrazione della nostra religione nella massa musulmana.

            Quella gente non si piega, o meglio non se ne interessa. Anche Port Sudan, la cittadina cosmopolita, abituata ormai alle idee orientali ed occidentali, non si lascia smuovere troppo presto. Nel guazzabuglio di false religioni poi è ancora più refrattaria a qualsiasi adattamento ordinario. I musulmani, fanatici fino alle ossa, tengono il predominio religioso e non se lo lasciano strappare tanto facilmente. È quindi cosa molto difficile che una qualche nuova religione, sia pure la cattolica, l'unica vera, possa affermarsi vittoriosamente in mezzo a tanta ignoranza, a tanto fanatismo, a tanti pregiudizi in cui sono sepolti tutti i musulmani anche i più retti, quelli cioè che in un certo modo si possono dire onesti. Anzi, dovrei ribattere e dire che, appunto perché si tratta della nostra religione cattolica, troviamo maggiori ostacoli di penetrazione nella massa musulmana.

            Per questo la scuola è là come una prima vedetta, quella che prepara le vie alle future conquiste del cristianesimo. Lo sforzo dovrà essere lungo e tenace: il lavorio di preparazione ha bisogno di tempo indeterminato. Dio solo nei suoi imperscrutabili disegni conosce l'ora attesa da molti secoli per la conversione della mezzaluna: a noi spetta l'affrettare con la nostra cooperazione, coi sacrifici e colla preghiera, quest'ora di grazia. Intanto, l'unico mezzo è la scuola. Le idee restano, quantunque combattute il buon seme gettato sulle spine, qualche cosa produrrà. Un prossimo domani, quando gli alunni e le alunne che passano ora per la nostra scuola formeranno la massa ed insieme i dirigenti della società, si potrà sperare da loro un interessamento favorevole, ed anche, in caso di bisogno, qualche aiuto ed una considerazione più benigna verso il cattolicesimo: cose queste che non si possono neppure sperare oggi in paese completamente musulmano.

            Per ora la scuola è piccola, angusta, tuttavia accanto al fabbricato giace una buona estensione di terreno donatoci dal governo, terreno che attende di vedere la costruzione della nuova scuola.

            Quante speranze, quanti progetti su quell'area che si stende grande e brulla davanti ai nostri occhi! Noi la vorremmo vedere col suo bel porticato tutto all'intorno, con scuole spaziose ed arieggiate, con la sua bella chiesina nel mezzo, bianca, snella, sorridente in quel cielo di fuoco, faro di luce per le future generazioni cristiane, centro di conforto e di rifugio nei dolori e nelle speranze del missionario.

            Lo sognammo cosi quel vasto terreno, quando vedemmo il Comboni College di Khartum, un vero modello di fabbricato scolastico in terra musulmana. Solo allora la penetrazione cristiana si potrebbe dire effettuata e già sviluppata a buon punto, e si potrebbe assistere al sorger del cristianesimo fiero e rigoglioso, pronto a tutte le battaglie. Ma per ora vi è la cruda e nuda realtà. Il nostro progetto si può pur chiamare grandioso, ma rimarrà sempre un semplice progetto fintanto che ci manca la base, l'elemento essenziale, i mezzi materiali.

            Tuttavia a consolazione somma del cuore del missionario, delle brave suore e dei generosi benefattori, possiamo dire che nonostante tante gravi e quotidiane difficoltà, la scuola è in continuo aumento ed i frutti da essa raccolti sono notevoli, considerati i tre soli anni di vita. Nel primo anno gli alunni ed alunne erano 120; nel secondo 150; l'anno scorso salivano alla cifra di 180. Le suore hanno fatto dei veri miracoli. La loro bontà, le grazie delle quali sono fornite, la gentilezza che traspare dal loro atteggiamento, la forza del sentimento che fa loro trovare le vie del cuore unite allo spirito di sacrificio, hanno guadagnato e guadagneranno ancora tante e tante anime. al Signore" (Nigrizia, 1932, 123- 124).

Assistente, Superiore a Verona, Vescovo

            Che ci stesse più o meno volentieri p. Orler al caldo umido di Port Sudan, un intervento imprevedibile della provvidenza ne lo tolse inaspettatamente. Forse era passato da Port Sudan p. Angelo Arpe per recarsi a Verona per il Capitolo, o ne aveva ricevuto lettera; comunque se ne ricordò quando i capitolari volevano eleggere lui, Arpe, assistente, ed egli declinò l'incarico a favore di p. Orler, che venne nominato quarto assistente e superiore della casa madre e degli scolastici di Verona. Fu un fulmine a ciel sereno anche per p. Orler, che aveva sperato di ritornare nel suo Bahr el Ghazal. E vi ritornerà infatti, dopo questa tappa veronese. L'11 ottobre 1931 lasciava Port Sudan per Verona. Fu una tappa relativamente breve, due anni scarsi, ma molto laboriosa e sofferta. Le dimissioni di mons. Antonio Stoppani da vicario apostolico del Bahr el Ghazal lo indicavano come il candidato incontrastato alla successione. P. Orler, convinto di essere impari al grave compito, sperò fino all’ultimo che la scelta cadesse su qualche altro, fidato sulla parola del padre generale. Nell'agosto 1933 era passato a Londra per fare un po' di pratica d'inglese, ma l'11 dicembre venne la nomina a vicario apostolico, e il 7 febbraio 1934 veniva consacrato vescovo di Prusiade dal card. Schuster a Venegono. Alla fine di marzo lasciava l'Italia, ma già l'11 febbraio 1934 aveva indirizzato una circolare stampata ai suoi missionari in cui dichiarava: "Avrei voluto, e vorrei pure ora, essere l'ultimo dei miei missionari, e questo, non per le difficoltà che si presentano, né per l'arduo campo di missione, che mi è anzi carissimo, ma perché sono intimamente persuaso che non ho le doti che si vorrebbero e si dovrebbero trovare nella mia povera persona. Quanti di voi mi sono superiori per doni di natura e di grazia, per illuminata carità, per spirito d 'iniziativa!". E dopo aver nominato quanti lo avevano preceduto nel governo della missione, ricordava "i nostri morti, che santificano con la loro salma il nostro campo di lavoro ... E mi è caro nominare i più vicini a noi: p. Bernabè, p. Salazar, p. Galli, p. Pio Colussi, fr. Romeo e le suore: santi missionari che immolarono con amore la loro vita. Qui possa il nostro povero corpo riposare vicino ai nostri morti, quando, affranti, alla fine della nostra giornata, il buon Dio ci chiamerà a sé" (A/67 /24).

Il buon pastore

            Fece il suo ingresso a Wau il 25 aprile 1934 sotto una pioggia torrenziale, ma l'accoglienza fu cordialissima, incoraggiata dalla sua bontà e giovialità, che lo rendevano caro a tutti. Aveva scelto come suo motto: "In omnibus caritas". Quando era a Verona, qualcuno osservò che la sua benevolenza verso gli scolastici, aveva dato occasione a qualche inconveniente. Ma come pastore, si trovò proprio nel suo elemento. A Wau lo ricordavano soprattutto i suoi vecchi alunni, che egli era riuscito a snidare dai loro boschi per condurli alla scuola; a Mbili, tutta la gente, di cui s'era guadagnato il cuore con la sua bontà. Nel carattere e nel modo di fare, assomigliava molto a qualcuno degli ultimi pontefici. Incontra un bambino, e il vescovo spontaneamente incomincia un dialogo, durante il quale forse le due parti appena si capiscono a vicenda; ma nel piccolo rimane impressa l'immagine buona, paterna del suo vescovo. Incontra un ometto, o una donnina qualunque? Lo stesso dialogo: in arabo paesano, in Giur, in Ndogo mal espresso: non importa . Il risultato è lo stesso: chi può dimenticare quella sua bonomia, quel suo sorriso luminoso? Ciascuno è convinto d'essere amato da lui. L'èlite del paese, gli istruiti, trovano la stessa accoglienza: partono felici da lui, a volta orgogliosi di sentirsi stimati e compresi. Gli ufficiali britannici ne subiscono il fascino allo stesso modo; anche se il suo inglese zoppica un poco, il suo volto è un libro aperto sul quale si legge una profonda simpatia: dice di più che le sue parole. Lo stesso governatore, Mr. Parr, il quale, risiedendo nella lontana Juba di rado può incontrarlo, ne subisce il fascino, ne pare quasi ammaliato. Ricordo qui solo alcuni tratti che evidenziano questo attaccamento personale.

Con le autorità

            Un giorno capita a Wau da Juba il suo segretario personale: un gigante al quale bisognava letteralmente guardare dal basso in alto. In assenza del vescovo, chiama il suo segretario, che ero io (p. Santandrea), e mi dice in tono solenne: "Ho un messaggio personale da parte del governatore per chi è responsabile della salute del vescovo. Ne abbia cura, gli imponga di aversi tutti i riguardi necessari, perché purtroppo è risaputo che la sua salute è delicata, e lui stesso non si cura come dovrebbe".

            Un'altra prova. Era corsa voce in giro che finalmente monsignore pensava di prendersi un poco di riposo, ma non finiva mai di decidersi. Mr. Parr deve aver sospettato che il vescovo fosse trattenuto, fra l'altro, dal pensiero che la spesa necessaria a tale scopo sarebbe pesata sul bilancio poco florido della missione. Ebbene, mandò un assegno di 30 sterline, con preghiera che l'usasse, al più presto, per una vacanza. Questa volta l'indovinò. Mons. Orler partì infatti per il Cairo; dell'Italia, aveva paura. Se torno la, diceva, mi faranno passare per la solita trafila degli esami medici; troveranno che il cuore non è a posto, e non potrò più tornare in Africa.

            Mentre era in Cairo, successero in settembre i fatti di Danzica. Il vescovo vi scorse subito il pericolo d'una guerra, e temendo che in tal caso venissero chiuse le frontiere del Sudan, prese subito il biglietto di ritorno. Un mese scarso di riposo che però, dato il buon trattamento, e soprattutto la piacevole e svariata compagnia, gli aveva fatto veramente bene.

            Incontro personale, pubblico, con Mr. Parr in pieno tempo di guerra. Il governatore, benché protestante, è venuto alla solenne messa domenicale - a Wau non c'è altra chiesa - e all'uscita, una folla numerosissima si ferma a contemplare una scenetta inaspettata: le due autorità più alte del paese sono insieme. L'inglese, alto, pone leggermente la mano sulla spalla del vescovo, e chiacchierando familiarmente vanno verso l'episcopio. Così, adagio, con tante cose da dirsi, che ci mettono da 10 a 15 minuti (io ero presente). Non solo li vedono così i nostri cristiani, ma dal cancello laterale della missione, proprio lì di fronte, c'è una quantità di gente che si ferma, curiosa, quasi stordita, a contemplare la scena. Si sente qualcuno mormorare, a bassa voce: ma gli inglesi non sono in guerra contro gli italiani? Come mai, allora, i due capi diversi sono tanto amici?

            Viene da domandarsi quale fosse il segreto di questa forza di attrazione di questo piccolo uomo. Gentilezza e cordialità di modi?[ Si, l' abbiamo già detto. Un sorriso sempre aperto, leale? Questo pure l'abbiamo detto. Ma ciò, mi pare, non basta. Ci dev'essere stato qualcosa di più... Fra l'altro, una generosità senza limiti nel dare. Quello che aveva, lo offriva a tutti. Anche cose grosse: cose, sia pure, ma era sempre pronto a cederle. Venne il vice-governatore a fargli una proposta di notevole entità: addirittura la cessione al governo della tenuta (anche se il terreno non era di proprietà assoluta della missione) di Khor Malang: la casetta costruita a spese della missione, con stalla e connessi, per il defunto fr. Giosue dei Cas. Ebbene, il vescovo, senza domandare compensi, non oppose alcuna difficoltà, benché io, di sotto il tavolo, cercassi, di pestargli i piedi, per avvertirlo di andare adagio. Ma non ci fu verso. Diede senz'altro il suo consenso, fidandosi dell'autorità governativa, che avrebbe condotto a termine l'affare in modo soddisfacente.

            Non che mons. Orler fosse un debole: Quando si trattava di interessi della missione come tale, sapeva esser forte. Con Parr, a Juba, c'era stato uno scontro da parte di mons. Mlakic, circa le condizioni richieste per poter amministrare il battesimo agli alunni delle scuole. Mlakic, ferrato in diritto canonico, protestò e ne scrisse a Wau, dove Parr doveva venire per trattare la stessa questione. L'incontro ebbe luogo in governatorato. Quando il vescovo tornò, era alquanto agitato. Il colloquio era stato assai movimentato, anzi caldo, ma Orler, d'accordo con Mlakic, non aveva ceduto un ette, con grande disappunto di Parr. Con tutto ciò, l'amicizia tra i due non soffrì la minima incrinatura: ciò fa, senza dubbio, onore a Parr, ma non meno al suo amico.

Con i suoi missionari

            Se Orler era così buono con gli altri, ciascuno può immaginare quanto lo fosse con i suoi. L'unico inconveniente: l'abuso che qualcuno, più furbo che educato, faceva della sua generosità: dava via tutto. Ciò fu notato anche da altri, ed era notoria, non solo la sua facilità nel dare, ma anche nello scusare, anche se purtroppo qualcuno, particolarmente beneficato, se ne approfittò. Fu perciò tacciato di paterna1ismo. Giunse persino a scusare il suo autista, che avendo bevuto più del conveniente durante una sosta, lo coinvolse in un accidente, dicendo che la colpa era sua (del vescovo), perché aveva insistito che andasse più in fretta.

            La sua vera vita era la sua missione. L'interesse per la diffusione del Vangelo, e il rassodamento della fede fra i cristiani, attraverso un'assistenza sempre più frequente e incisiva. Quanto allo sviluppo numerico delle stazioni non fu fortunato: la guerra fermò ogni espansione territoriale, ma lui personalmente diede sempre il meglio di sé. Venne nuovo vicario apostolico nel 1934: in 12 mesi morirono sei fra missionari e suore. Mons. Or1er visitava spesso tutte le stazioni, prodigandosi senza calcoli per i suoi missionari e per la popolazione, che avvicinava con quella sorridente familiarità che gli era propria. Chi poteva sospettare che spesso, sotto quel volto sorridente, si celavano sofferenze fisiche talora acute, o incresciose preoccupazioni dal punto di vista missionario? È pur vero che aveva dei momenti, anzi delle giornate nere, soffrendo da anni di emorroidi, per cui si vedevano gli occhi con forti calamari. Gli uscivano allora parole pungenti, ma subito si ricredeva ed era il primo a chiedere scusa.

Vescovo dei giorni feriali

            Non aveva nessuna ambizione di comparire. Se qualcuno gli diceva: Monsignore, si tenga su, secondo la sua dignità, lui faceva una bella risata e rispondeva: Per noi, poveri vescovi africani, c'è ben poco da tenersi su. lo sono un vescovo dei giorni feriali. Ci teneva invece che le funzioni in chiesa fossero fatte bene e con bei canti. Fu sempre schivo dal comparire, eppure fu tanto stimato e onorato anche in vita. Soleva invece dire che in una missione come la nostra, con tante privazioni, fatiche e malattie, bisogna tener alto il morale e stare sempre allegri, altrimenti non si può tirare avanti. Quando si viaggiava con lui, era un vero piacere. Sapeva tenere allegri sia frati che suore, ma dopo un bel tratto diceva: adesso diciamo il rosario. Sapeva con la massima facilità mettersi subito a contatto con Dio. Alcune volte venivano delle coppie di sposi per esporre le loro difficoltà, o addirittura per separarsi. Diceva al fratello: mandali da p. Benetti ; io intanto vado a pregare per loro.

            Aveva sempre delle trovate argute e spiritose, così sapeva prendere le cose con serenità e infonderla agli altri. Amava vedere giocare i ragazzi e dava loro mance quando vincevano o per incoraggiarli. Era invece schivo nel festeggiare qualche sua ricorrenza. Così con la scusa che eravamo i n guerra, non volle si festeggiasse il suo 25° di messa. Non avrebbe neppur voluto festeggiare il suo onomastico, S. Rodolfo, ma quando gli dissero che così facendo privava la comunità di un bel pranzetto e di una birra, fece una bella risata e lasciò correre. Uno dei suoi missionari, p. Alghisi, in una poesia scherzosa sui missionari del Bahr el Ghazal, così descrive il suo vescovo:

Monsignore è la mamma amorosa,

Il suo cuore che frantuma i bocconi ai bambini,

e con i soldi procura ogni cosa,

perché i figli non faccian baccan.

Quando parla vorrebbe sgridarli,

quando scrive minaccia il confino,

quando arriva non vuole l'inchino,

quando parte largheggia di man.

Il suo cuore

            Si raccontano vari episodi in proposito. Si era accorto che una suora in chiesa stava quasi sempre seduta. Mandò il fratello a prendere una cassetta di birra per sostenerne le forze. Un'altra suora, saputa la cosa, disse: dica a monsignore che se l'avessi saputo, mi sarei seduta anch'io in chiesa. E monsignore, al sentirlo, fece una bella risata. P. Simoni da Raga mandava spesso lettere piene di lamentele e pessimismo. Per tutta risposta il vescovo gli mandò una cassa di birra con la scritta : Al povero profeta Geremia che piange sul Raga , perché si consoli.

            Tutti sanno che questo ritmo di vita, dati i disturbi cardiaci di cui soffriva, lo condussero gradatamente a una morte prematura (54 anni); ma forse non è a tutti noto che, oltre alle visite ufficiali, se ne abbinarono altre non meno faticose e a volte insolitamente disagiate. Era tempo di guerra . I missionari del Bahr el Ghazal, fortunatamente rimasti nelle loro stazioni, anche per merito di mons. Orler, potevano uscirne a ragionevoli intervalli con un permesso speciale, volta per volta. Solo due potevano muoversi, il vescovo e il segretario per l'educazione (p. Mason): ciascuno di loro poteva prendere con sé un compagno. Nei dintorni di Wau erano sorte varie segherie e numerosi campi di raccolta dei tronchi, da trainare con carri a mano sino al fiume più vicino, e di là, in zattere, raggiungere le segherie, che dovevano fornire il legname al Nord, data la chiusura delle importazioni dall'estero. Orbene, a questi posti andava quasi regolarmente il vescovo, accompagnato da p. Santandrea: ogni mese qua o là. Ai campi si arrivava per piste tracciate alla meglio dai carri in mezzo alla boscaglia, e là, l'unico ambiente passabile per dormire e celebrarvi la messa, era una capanna, il cui tetto ci auguravamo non facesse acqua durante la stagione delle piogge: era l'ufficio dello scrivano locale, talora la sua casetta o un'altra. Orler, di solito, preferiva dormire sotto la veranda, e spesso era lì che al mattino seguente celebravamo la messa all'aperto, perché i numerosi lavoratori potessero assistervi. Non di rado per terra c'era acqua, e per fortuna la branda ci permetteva di dormire all'asciutto; ma che umidità! Fu in queste spedizioni che conobbi a fondo il cuore di mons. Orler. Nel pomeriggio, fino a tardi, confessioni, e così pure al mattino; poi messa con omelia, regolarmente almeno in due lingue, sia pure brevemente. Spesso ambedue trovavamo il tempo di dire due parole a quel gregge internazionale. Ma la sera, dopo cena, riposando su piccoli sdrai, era l'ora delle confidenze. Quante cose e quante persone aveva nel cuore il nostro vescovo! Quanto amore per tutti! L'interesse primario era sempre la missione, ma spesso parlava anche dei tempi antichi.

Ultimi giorni

            La salute di monsignore era assai scossa per difetto cardiaco, ma nulla dava a divedere che dovesse precipitare così presto. Nel mese di maggio del 1946 andò a fare un giro nel territorio della stazione di Kwajok, assai paludoso: questo viaggio lo prostrò, Qualche giorno dopo accennando di voler andare a Raga, dove era atteso, fu sconsigliato dall'andarvi (330 km. da Wau con strade disastrose). Partì lo stesso usando l'autocarro della procura. A Raga si sentì male per un attacco piuttosto serio, tanto che si mandò a prendere medicine a Wau- Fr. Rosignoli, temendo il peggio, aveva addirittura ingaggiato il camion di un greco per il trasporto della salma a Wau. Ma si riposò alcuni giorni e tornò a Wau estremamente affaticato, malato anzi. Il medico curante ne fu spaventato e gli ordinò assoluto riposo, curandolo meglio che poté. Ma c'era in programma da tempo la visita pastorale tra gli Azande, che non volle dilazionare . Il dottore vi si oppose assolutamente. Chiamò il superiore regionale, p. Briani, chiedendogli se non ci fosse nessuno che potesse proibirgli tale viaggio, probabilmente fatale. Tra noi, aggiunse, un ordine del capo-medico può fermare anche il governatore. Ma nessuno poteva comandare al vescovo, al massimo lo si poteva solo consigliare. Alle sue insistenze, il medico lo lasciò partire, ma a patto che fosse accompagnato da una suora infermiera. E partì, salutando tutti con un "arrivederci in paradiso". Altri 300 km. di strada per celebrare la festa del S. Cuore a Mupoi. Nel viaggio di ritorno si fermò a Rafili per le cresime. L'11 luglio era di ritorno a Wau sfinito, anzi mezzo morto, e si mise subito sotto cura. Ma il medico, dopo un accurato e prolungato esame disse che c'era ben poca speranza di salvarlo: aveva il cuore a pezzi. Pensò perfino di farlo trasportare in aereo a Khartum, per prestargli cure più appropriate, ma poi abbandonò l'idea, per il pericolo del trasbordo.

            Nella notte dal lunedì al martedì peggiorò, cominciò ad agitarsi e ad avere difficoltà di respiro. Nella mattina del martedì, sentendosi sempre più indebolito, chiese i sacramenti, e chiese che fossero avvertiti tutti i cristiani vicini per accompagnare il viatico, perché, disse, voglio che i cristiani vedano come muore il loro vescovo. Poi volle rimanere solo a pregare. Alla sera, vennero tutte le suore di Wau, e si intrattenne con loro amabilmente, dimostrando la sua cordiale ilarità, fino a farle ridere. E alla suora che gli diceva di non stancarsi rispose: Ho fatto tutto quanto si deve fare per morire; adesso ho il tempo libero fino a che il Signore mi chiama. La mattina del martedì perdette la conoscenza; verso mezzogiorno entrò in agonia e all'una, senza una scossa, senza un movimento, cessò di vivere su questa terra per vivere per sempre in Dio. Era il 17 luglio 1846. La lampada aveva consumato fin l'ultima goccia del suo olio.

I funerali

            La salma, composta e vestita degli abiti pontificali, fu esposta nel salotto aggiunto alla casetta episcopale (era stata la prima chiesa di Wau). La folla che passò a contemplarne e venerarne le spoglie colse tutti di sorpresa. Si può dire che tutta Wau venne a vedere e pregare: gente di ogni fede e di ogni colore, compresi molti musulmani. Era stato l'amico di tutti. Tutti i negozi della città furono chiusi in segno di lutto. La salma alla sera fu composta nella bara e vegliata a turno da missionari e suore. Alla mattina fu portata in chiesa e si tenne l'ufficiatura funebre, presenti gli ufficiali inglesi, la comunità greca e una vera folla di popolo. Moltissime le comunioni. Al cimitero una folla straordinaria. Toccò a p. Santandrea fare l'elogio funebre. Parlò per 6-7 minuti in inglese e altrettanti in arabo popolare. "Non so chi mi diede la forza di dire quelle parole a voce cosi alta che tutti sentirono: col cuore sconvolto e forse con la febbre in corpo. Lo sforzo però fu maggiore di me. Appena finito mi prese un nodo alla gola, e per non essere visto mi rifugiai nella cabina del camion funebre, singhiozzando amaramente" (p. Santandrea).

            Lo stesso continua: "Una o due domeniche dopo, comparve sulla soglia della chiesa un mio vecchio alunno, Cesarino Giulù, un Bviri di Bringi, 13-15 km. da Wau. Gli dissi di entrare, ma non volle. Si vergognava, e aveva riguardo di mettersi tra la gente, coperto come era di lebbra. Presi una sedia, e lì, sui gradini del portico, lo confessai e dopo gli portai la comunione. Era venuto, mi disse, per partecipare a una messa e offrire una comunione per il suo vescovo tanto buono, trascinandosi per tutti quei chilometri con quei stracci di piedi. Parole che potrebbero essere scolpite e poste sulla tomba di mons. Orler".

            Un altro episodio simile. I cristiani di Rafili, quando seppero della morte del vescovo, decisero di andare in comitiva a Wau per pregare sulla sua tomba. S'avviarono con p. Ireneo, che era il primo sacerdote consacrato da mons. Orler, a piedi, percorrendo un centinaio di km. Per istrada altri si unirono al gruppo e arrivarono a Wau in circa 200. Il governatore, Mr. Owen, restò turbato, temendo qualche sommossa, ma quando gli dissero che andavano a pregare sulla tomba del Mutran buono, restò commosso, rimontò a cavallo e non disse più una parola. A Rafili, 2 poveri lebbrosi vennero da circa 4 km . di distanza, facendo la strada ginocchioni, perché i piedi erano ormai consumati, e dissero: veniamo anche noi in chiesa a pregare per il Mutran buono.

Apprezzamento finale

            Volendo ora mettere in evidenza alcuni tratti della sua vita, possiamo iniziare ricordando che fu per 12 anni ininterrotti vescovo del Bahr e1 Ghaza1: 6 anni di pace e 6 anni di guerra, e complessivamente 22 anni di vita missionaria in una delle regioni più rudi del1'Africa. In questo fu un modello e vero imitatore dei suoi predecessori, cominciando dal Fondatore mons. Comboni. Quelli che più beneficiarono del suo amore paterno furono forse i fratelli, che unanimemente lo rimpiansero e ancora ne parlano con le lacrime agli occhi. Poi il seminario: il 17 giugno 1934 benedisse solennemente i nuovi fabbricati del Bussere, e pochi mesi prima della morte poté consacrare il primo sacerdote e suo allievo a Mbi1i, Ireneo Dud, che fu poi anche il primo vescovo sudanese.

            La sua passione erano i ragazzi, i catecumeni. Per loro incrementò le piccole scuole di villaggio o catecumenati, e diede sviluppo alle scuole di missione di vario grado, coadiuvato in ciò dal valido ed energico apporto del suo incaricato per l'educazione, p. Mason, poi suo successore nell'episcopato. Ma forse la misura della statura morale di mons. Orler viene da due testimonianze, tanto differenti per la provenienza, ma mirabilmente convergenti. La prima è del vescovo protestante del Sudan, A.M. Gelsthorpe, che nell'apprenderne la morte scriveva: "Scrivo a nome di tanti non cattolici che trovarono in mons. Orler un sincero e amabilissimo amico. Non credo ci sia un altro paese in Africa dove esista migliore armonia tra le varie chiese cristiane come nel Sudan meridionale, e questo è in gran parte merito di mons. Orler, con la sua bontà, umorismo e umiltà, vera immagine del Cristo. Non solo la chiesa cattolica, ma tutto il Sudan ha perduto in lui un servo fedele, un grande missionario, che ha dedicato tutto se stesso, incondizionatamente e senza riserve, al servizio di Dio e al bene dell'umanità".

            Lo stato personale del Bahr e1 Ghazal, dopo i particolari anagrafici e le varie mansioni svolte nel vicariato, conclude: "Il 17 luglio 1946 rendeva la sua bell'anima a Dio. Fu pianto da tutti indistintamente. Pastore buono, umile, sacrificato, ha dato la sua vita per il suo gregge. Non conobbe stanchezza, non volle riposo. Ora dal cielo continua certo la sua opera di protettore nostro e nostro intercessore presso il buon Dio. R.I.P . "

da P. Leonzio Bano, Profili Comboniani 3, p.41-59