Il giorno 20 giugno 1934, in Varese, cessava di vivere il P. Faustino Bertenghi di questa nostra Congregazione dei Figli del S. Cuore di Gesù.
La sua scomparsa lascia nell'Istituto un gran vuoto, e nei suoi confratelli un profondo cordoglio, un vivo dolore: dolore e cordoglio però temperato, se non addirittura superato da quell'ineffabile senso di conforto e di letizia, da quell'aura spiritualmente balsamica che lasciano dietro di sé i santi, quando sono trasferiti da questo luogo di esilio alla patria beata. E tale è appunto l'idea ch'ebbero a formarsi di P. Bertenghi i suoi confratelli, e quanti poterono conoscerlo e trattare con lui: l'idea di un santo.
Nato a Darfo nella Valle Camonica il 16 giugno 1884 da famiglia benestante, ebbe dalla pietà della madre sua i primi germi di quella educazione profondamente cristiana, che sotto l’influsso della Grazia dovevano svilupparsi in una vita tutta di fede e di completa dedizione al Signore. Aspirando egli alla parte migliore ancora affatto giovanetto, entrò nei Seminari Diocesani di Brescia, in quell0 di S. Cristo prima, dove compì i corsi ginnasiali, e poi in quello di S. Angelo per i liceali. I suoi compagni dì Seminario che gli sopravvivono lo ricordano ancora come il vero modello di seminarista per la sua pietà e per le sue virtù.
Il Religioso
Fedele alla voce del Signore che lo chiamava a consacrarsi tutto a Lui ed a sacrificarsi nell'apostolato, entrò a Verona nella Congregazione dei Figli del S. Cuore il 27 settembre 1904, ed emise i santi voti il 7 ottobre 1906.
Varcando la soglia dell'Istituto, egli si mise completamente nelle mani di chi per lui rappresentava il Signore, lasciandosi da esso plasmare e dirigere come un bambino. È viva ancora nei suoi compagni di noviziato e di scolasticato la memoria della sua esattezza; esemplarità e fervore nell'osservanza delle regole e prescrizioni della vita religiosa. Animo generoso, egli non conobbe mezze misure nel servizio di Dio.
L'obbligo di tendere alla propria santificazione, che forma la vera base della vita religiosa, fu inteso dal buon giovane in tutta la sua ampiezza e portata, e fu come il faro che lo guidò sempre in tutte le sue azioni. Questo è ciò che conferì alla condotta del P. Bertenghi quel carattere di serietà di cui appare contraddistinta tutta la sua vita. Non una serietà dura ed arcigna, ma quella serietà che si esplica nel fedele adempimento dei propri doveri, ed è quindi sempre improntata a soavità e letizia. Nei suoi occhi grandi e vividi, sulle sue labbra delicate traspariva sempre un dolce sorriso, non artefatto, ma spontaneo, sincero, riflesso naturale della bellezza del suo interno, della bontà del suo cuore.
E questa serietà, regolarità ed esattezza nelle pratiche della vita religiosa non l'abbandonò mai, né fatto sacerdote, né tra le fatiche dell'apostolato, né tra le brighe e responsabilità di uffici ponderosi e delicati, né tra le pene di lunga malattia. In lui sempre lo stesso studio per l'osservanza delle regole, sempre lo stesso fervore, sempre la stessa fedeltà nell'adempimento degli obblighi che s’era assunti colla professione religiosa; sempre, fino alla morte. Persona autorevole, che gli fu compagno di noviziato, ebbe a dirmi che nel Bertenghi gli pareva rivivesse S. Giovanni Berchmans.
L'Apostolo
Ordinato sacerdote ad Incino-Erba dal Card. Ferrari il 18 agosto 1907, rimase per qualche tempo in aiuto alla casa di Brescia. Quindi il 28 ottobre 1909 partì per l'Africa. Fu per qualche anno addetto alla nostra casa di Helouan presso il Cairo, dove attese al ministero sacerdotale e alla spirituale assistenza dei giovani studenti di quel Collegio. Nel 1912 passò a Khartoum, e vi assunse la direzione di quella Scuola; e l'anno appresso, dopo un viaggio disastroso sul Nilo, durato ben 90 giorni, raggiunse la Stazione di Wau, centro del Bahr el Ghazal, della quale era stato nominato Superiore; divenendo poscia anche superiore religioso di tutta la Missione.
A Wau, sotto 1a guida illuminata di S. E. Mons. Stoppani, alle cui direttive egli fu sempre ossequente, poté dare ampio sfogo al suo zelo apostolico. Nella direzione di quella Stazione e nelle opere missionarie, catechismi, istruzioni, cura degli infermi, viaggi d'ispezione ecc., fu sempre diligente, attivo, energico, sempre il primo al lavoro, andava innanzi a tutti con l'esempio, riserbando bene spesso a sé le parti più faticose. Coi suoi confratelli fu un padre, più che superiore; nelle sue relazioni col governo e coi capi era tutto prudenza e tatto, sicché ne era meritamente stimato; il suo trattare con gli indigeni era informato a grande carità.
Egli resse quella Stazione in momenti assai difficili, quando imperversando in Europa la grande guerra, la Missione trovavasi abbandonata a sé stessa, senza rinforzi di personale e privi di mezzi per far fronte alla carestia, ed alle malattie che straziavano il paese. Pure, fra tante calamità, egli riuscì a mantenere in efficienza la Stazione e a farla progredire, ottenendo col divino aiuto frutti che nessuno avrebbe osato sperare in simili circostanze. Il Signore benediceva allo zelo apostolico del santo religioso.
Il maestro dei Novizi
Nel 1919, ritornato in Europa per il Capitolo, gli fu affidato il noviziato, prima a Savona e poi, qualche anno appresso, a Venegono Superiore, nella sede attuale. Eloquente attestato questo della grande stima che la Congregazione già aveva del P. Bertenghi e della fiducia che riponeva in lui, poiché è risaputo che il noviziato rimane l'organo più impartante e delicato di un Istituto.
Fu specialmente nella sua qualità di Maestro dei Novizi che rifulsero le doti e le virtù del P. Bertenghi. Egli si propose come suo stretto dovere di mantenere vivo nella sua integrità e purezza e di trasfondere nei suoi Novizi il vero spirito dell'Istituto, quale ci fu tramandato dai nostri maggiori, che è lo spirito stesso del S. Cuore: spirito di fede, di pietà, d'unione con Dio; spirito di umiltà profonda, di generosa rinuncia di sé stesso e di totale sommessione alla volontà di Dio; spirito di carità e di zelo ardente per la salvezza delle anime; spirito di mortificazione e di sacrificio, di dedizione completa al Signore, non mai cercando se stessi, il proprio piacere o tornaconto, ma solo i grandi interessi di Dio e delle anime: quaerere quae Jesu Christi sunt. Tale lo spirito che il P. Bertenghi cercava di formare nei suoi Novizi. Come si vede, egli mirava al sodo. Ma non minore cura poneva perché l'osservanza delle regole e delle pratiche proprie del noviziato e della vita religiosa si mantenessero in fiore: è la disciplina che forma i caratteri, gli uomini.
Modello di pietà
Egli però si teneva sempre dinanzi alla mente Nostro Signore, qui caepit facere et docere; e, cercando, come dice l'Apostolo di farsi forma gregis ex animo, all'insegnamento della parola mandava avanti il suo esempio: si può dire con tutta verità ch'egli nulla abbia insegnato agli altri che non abbia praticato egli stesso e in modo perfetto. La sua pietà era al tutto esemplare. Quando celebrava all’Altare pareva un Angelo. Fedele ed esatta fino allo scrupolo nell'adempimento dei doveri spirituali prescritti dalla regola, dedicava al Signore ed alla preghiera il tempo che gli rimaneva dopo l'adempimento dei suoi uffici. Quando egli non era nella stanza, o dove lo chiamavano le varie mansioni del suo ufficio, si poteva essere certi di trovarlo in Chiesa, sempre in ginocchio, o recitando l'ufficio, o in preghiera con lo sguardo rivolto al Tabernacolo, sicché pareva ch'egli vedesse il Signore. Il S. Cuore di Gesù era il primo centro della sua devozione; da quella fonte divina cercava di attingere egli stesso e di far suggere ai suoi allievi tesori di grazia e di santità, perché portassero degnamente il loro nome di Figli del S. Cuore. Di tenerissimo affetto amava la Madonna Immacolata, e voleva che ciascuno dei Novizi a Lei si consacrasse in modo particolare. Aveva poi S. Giuseppe in conto di un buon papà, cui voleva che tutti ricorressero con massima fiducia in tutti i loro bisogni. La lunga relazione del suo periglioso viaggio a Wau è un’esaltazione della devozione a S. Giuseppe. Così come per il nostro santo fondatore Comboni, del pari per il P. Bertenghi, Gesù, Maria e Giuseppe formavano la triade prediletta del suo cuore. Fu pure devotissimo di s. Luigi e delle anime purganti.
Era sopratutto col vivo esempio che dava di sé che egli veniva educando a pietà soda e tenera i suoi Novizi, ai quali inoltre cercava di rendere familiare l’esercizio della presenza di Dio e l’uso delle giaculatorie.
Umiltà eroica
La sua umiltà raggiunse l'eroismo. Non si udiva mai parlare di sé e delle cose sue. Tutto premura, attenzione per gli altri, superiori, confratelli od allievi, egli nulla esigeva per sé. Estremamente riguardoso e delicato nel parlare agli altri e degli altri, non mostrava mai di addarsi se altri non usasse la stessa misura con lui. Gli sgarbi, le osservazioni, le critiche pareva gli giungessero graditi, tutto riceveva con un piacevole sorriso. Sembrava che l'amor proprio fosse affatto spento in lui; sebbene fosse di carattere pronto e di natura vivace. Egli amava il nascondimento; in qualsiasi occasione le parti onorifiche e i primi posti erano per gli altri, a sé riserbava l'ultimo posto, se pure non gli riusciva di scomparire o dileguarsi affatto. Ed è veramente significativo che, proprio in questa occasione, per quante ricerche siensi fatte, non ci sia stato possibile di trovare neppure una fotografia del P. Bertenghi: soltanto lo si trova ritratto con altri in qualche raro gruppo. Si comprende quindi com'egli, salvo un precetto dell'obbedienza, rifuggisse da tutto ciò che fosse cariche, preminenze, dignità.
E perché se, secretum regis abscondere bonum est, è però onorifico opera Dei revelare, mi pare di dover ora far conoscere un atto del P. Bertenghi che mostra fino a qual grado giungesse in lui la virtù dell’umiltà. Essendo stato dal voto segreto dei confratelli proposto per l'episcopato, egli liberamente vi rinunciò, e volle che mai neppure si alludesse alla cosa.
Candore d'animo
Ciò che forse più di ogni altra cosa rapiva nel P. Bertenghi, era la bellezza morale, il candore del suo spirito, che traluceva dai suoi occhi, dalle sue parole, da tutti i suoi atti.
Era di coscienza delicatissima, che rifuggiva assolutamente da tutto ciò che potesse offendere il Signore. Chi ebbe a trattare con lui intimamente ed ebbe le sue confidenze, ne riportò la persuasione ch'egli non avesse mai perduta l'innocenza battesimale. E l'odio al peccato, sotto tutte le forme, cercò sempre d'istillare nell'animo degli altri.
Egli fu il vir simplex et rectus, l'uomo semplice e retto, per usare una frase scritturale. Nessuna piega vi era in quell’anima; quello che aveva nel cuore l'aveva sulle labbra. Conosceva sì le regole della prudenza cristiana e le praticava; ma non le arti, le finzioni, la politica. Parlando coi Superiori era tutto rispetto e delicatezza, ma ciò non gli impediva di dire anche ad essi la verità, come la sentiva. L'est est, non non del Vangelo fu sempre la grande regola nelle sue relazioni. Bastava scambiare con lui poche parole per capire con chi si aveva a fare: la rettitudine e schiettezza in persona.
Per questa sua qualità, egli ispirava una fiducia assoluta. Ricordo un fatto. Mentre era a Wau, un giorno capitò in casa il capo indigeno della città, Gioma Kayango, un furbacchione matricolato tra il pagano e il musulmano: egli volle affidare a P. Bertenghi una cassetta contenente il suo tesoro, la sua sostanza, circa duemila sterline in oro, perché gliele custodisse alla Missione fino al suo ritorno, dovendo egli assentarsi per parecchi mesi a Khartoum, a causa di un processo. Fra tanti amici, che aveva il nero, sceicchi musulmani, parenti, non trovò nessuno di cui credesse di potersi fidare: solo il capo degli odiati cristiani. Tale era la fiducia che ispirava anche ai pagani il P. Bertenghi.
Della virtù angelica egli ebbe un vero culto. La modestia dei suoi sguardi, il suo riserbo nel trattare, la delicatezza nel parlare, tutto testimoniava in lui del suo vivo amore alla bella virtù.
Né la sua lunga permanenza in Missione, tra popolazioni di infimo livello morale, che poco o nulla facevano uso di vesti, sminuì punto in lui il disgusto per tutto ciò che apparisse meno che decente. Egli fu attentissimo a che nel Noviziato nulla penetrasse, la cui vista potesse offendere la modestia: neppure quadri o immagini sacre egli tollerava nelle quali non apparisse scrupolosamente osservata la proprietà nel vestito. Voleva che da tutti fosse osservata alla perfezione la regola del non toccarsi senza necessità: in ciò egli fu un perfetto modello. Salvo l'abbraccio fraterno, secondo la regola, e il bacio della mano ai superiori, ch'egli non ometteva mai, né si faceva lecito di toccare nessuno neppure per gioco, né permetteva che altri toccasse lui; e andò tanto oltre in questo, da disporre che neppure dopo la morte il suo corpo venisse scoperto o toccato da chicchessia. La devozione vivissima che egli portava a S. Luigi Gonzaga, e coltivava quanto poteva nei Novizi, era una prova anch'essa del suo amore alla purezza: e fu appunto nell'occasione di una straordinaria solennità in onore di S. Luigi, che si determinò in lui l'apparire di quel male che minava la sua vita.
Sua carità
Il precetto della carità fraterna fu perfettamente compreso e praticato dal nostro Padre, perché egli si appoggiava solo a principi di Fede. Nei prossimi egli non vedeva degli estranei, degli altri, ma vedeva delle creature, dei figli di Dio, dei veri fratelli in Nostro Signore, e cercava a loro riguardo di rivestirsi delle viscere di carità di Gesù Cristo.
Il primo posto nel suo cuore era, oltre che per i suoi più stretti parenti, per i suoi confratelli di religione ch'egli amava tutti teneramente, senza vietarsi quelle predilezioni che in Domino riteneva giuste e doverose. Fu pronto e generoso nel perdonare; non solo perdonava, ma donava secondo l'espressione dell'Apostolo, dimenticando i torti ricevuti. Il suo amore non era di puro sentimento, ma fattivo e operoso. Non conosceva egoismo: prima che ai propri comodi, pensava agli altri, egli veniva sempre per ultimo, e si accontentava di tutto: sembrava che non avesse bisogni, finché, colto da infermità, gli fu imposto di avere una seria cura di se stesso. Egli sapeva che vero amore non ci può essere senza sacrificio, e si stimava ben felice quando poteva spendersi per i propri fratelli.
Trattandosi di ammalati, non si accontentava di dare degli ordini, ma egli stesso si prestava affettuosamente nella cura, non badando a stanchezza e fatica. Chi scrive, colpito mentr'era a Wau, da una grave infermità, a cui per poco non ebbe a soccombere, poté esperimentare per lunghe settimane la squisita carità del santo confratello, e ricorda come trovandosi allora la Missione in grandi strettezze finanziarie, egli andava mendicando qua e là in prestito del denaro, perché all'infermo nulla mancasse di quanto richiedeva la sua cura.
Già ho accennato allo zelo da lui spiegato nel tempo che si trovava in Missione. Ma anche qui il vero segreto della fecondità del suo apostolato, fu la sua grande carità, particolarmente nel curare gl’infermi, medicare piaghe schifose e ributtanti e percorrere, in tempi di epidemia, i villaggi, distribuendo le medicine che il governo lodevolmente metteva a nostra disposizione a tale scopo ..
Il sacrificio d'un padre
Ma dove maggiormente rifulse la sua carità, fu appunto nel sacrificarsi che fece per i suoi figliuoli. Quanto sentiva la responsabilità del suo ufficio di Maestro dei Novizi! Sembrava che egli non vivesse che per il suo Noviziato, che voleva fosse come il giardino della Congregazione. Voleva che in quella Nazaret, sotto il placido sguardo di Gesù, Maria e Giuseppe e nell'imitazione della loro vita, si venissero formando religiosi di soda virtù, sacerdoti santi, zelanti apostoli. Per questo egli pregava istantemente, a questo era indirizzata la solerte sua attività: conferenze, prediche, funzioni liturgiche, privati colloqui ch'egli periodicamente, secondo la regola, aveva con ciascuno dei novizi. Quanto amava quei suoi cari figliuoli! Li consolava afflitti, li assisteva nelle loro difficoltà, e infermi amorosamente li curava, vegliando talora le notti al loro capezzale. In una parola, dimentico affatto di sé, egli si prodigava tutto per essi. In questa continua immolazione di se stesso, egli si logorò talmente la salute e consunse le sue forze al punto che contrasse quella malattia di petto, che doveva alfine trarlo al sepolcro: era il buon pastore che dava la vita per il suo gregge diletto.
La malattia: 7 anni di lento martirio
Si celebrava il secondo centenario dalla canonizzazione di S. Luigi, e il suo sacro Teschio veniva trasportato di città in città, tra entusiastiche acclamazioni di popoli. Il P. Bertenghi tanto si adoperò, da ottenere che la sacra reliquia venisse portata anche nella cappella del Noviziato di Venegono. Eravamo nel febbraio 1927. Fu un vero trionfo, coronato da un discorso commovente del P. Bertenghi, in cui, esaltando le grandezze del Santo, lasciava trasparire tutto il fervore della sua devozione. Non mai aveva parlato con tanta foga e slancio: ma era il canto del cigno.
Da quel giorno lo prese un certo malessere, che il buon Padre credeva effetto di stanchezza. Ma crescendo la debolezza e la febbre, non si tardò a comprendere che si trattava di ben altro: il male che non perdona già s’era impadronito di lui.
Egli stesso comprese che non avrebbe più potuto, senza pericolo per gli altri, rimanere in comunità. Lo si pose in una casa di cura in Valtellina. Fu uno strappo assai doloroso al suo cuore paterno il dover abbandonare i suoi figli di Venegono: ma fiat voluntas tua, esclamò. Da quel giorno incomincia per il buon Padre una vera via crucis. Lontano dai suoi confratelli, costretto a convivere con persone troppo differenti da lui per educazione ed abitudini, era per lui un ben duro esilio, alleviato solo dalle visite che, di tanto in tanto, gli facevano i superiori e qualche confratello. La Congregazione nulla risparmiò perché avesse le migliori cure. Per consiglio dei medici, dovette cambiare di posto parecchie volte; ma indarno: la malattia lentamente, ma inesorabilmente si avanzava. Quanto abbia sofferto il buon Padre, non è facile immaginare. Furono sette anni di lento martirio, che egli sopportò con perfetta rassegnazione ai divini voleri. Così il Signore voleva purificare quell’anima bella, accrescere i suoi meriti.
La morte di un santo
Quando la sua corona fu presso a compiersi, Iddio lo ricondusse a chiudere i suoi giorni vicino al suo amato Noviziato, in una casa di cura a Varese. Era verso la metà di maggio, ed egli cominciò a peggiorare rapidamente. Offrì, per l'ultima volta, il S. Sacrificio dell'Altare il 12 giugno: le forze più non gli reggevano. Il 17 celebravansi a Varese solenni feste per la canonizzazione di Don Bosco. Per compiacere il P. Bombieri, attuale Maestro dei Novizi, che amorosamente lo assisteva, chiese al Santo il miracolo della sua guarigione. Passata la festa, il Padre gli suggerì di tornare a raccomandarsi a Mons. Combani. Rispose: «No no, ormai ho un piede e mezzo in paradiso, e non mi piacerebbe di tornare indietro.» Il 18 il Padre gli amministrò il S. Viatico, che ricevette con vivo trasporto di amore, e poi gli diede l'Estrema Unzione, ed egli accompagnò il sacro rito con sentimenti di edificante pietà. Volle poi, a tutti i costi, che il Padre lasciasse l'ospedale per andare a riposarsi. Quanta delicatezza! Il giorno appresso, ricevuta ancora la S. Eucaristia, lo passò in preghiere e giaculatorie, in atti di uniformità alla volontà di Dio, in atti di dolore, chiedendo di tanto in tanto l'assoluzione. Al P. Bombieri disse che era contento di essere vissuto e di finire la vita nella Congregazione dei Figli del S. Cuore. Chiedeva perdono delle mancanze che avesse commesso, ringraziava tutti e in particolare il P. Vianello e lo scrivente, coi quali, nella sua vita religiosa, aveva avuto più intime relazioni. Disse che offriva la sua vita per la salute eterna dei suoi fratelli, per i suoi confratelli d'Italia e di Missione, e in particolare per il Noviziato. Seguì con pia attenzione le preghiere della raccomandazione dell'anima; ma, essendosi ad un certo punto, alquanto assopito, domandò al Padre perché non gli recitasse il Proficiscere; questi gli rispese che l'aveva detto, ma le ripeté volentieri, e parve goderne, come di un felice messaggio di liberazione.
Era la lampada che mandava i suoi ultimi bagliori, pure tra indicibili sofferenze, che egli offriva al Signore. Verso l'alba del 20 giugno, vigilia di S. Luigi e di mercoledì, giorno dedicato a S. Giuseppe, la sua bell’anima lasciava la terra per congiungersi a Dio.
Così chiudeva i suoi giorni un uomo tutto di Dio, che non aveva vissuto che per Iddio e per la sua gloria, e che aveva seguito fedelmente, per tutta la vita, le vestigia di nostro Signore.
Angelo tutelare
L'idea che il P. Bertenghi sia stato un uomo singolarmente caro al Signore, un santo, è comune tra i suoi confratelli, e il loro voto è che la sua vita venga largamente illustrata ad edificazione dei membri dell'Istituto e dei fedeli. Anche gli esterni, sacerdoti e secolari che lo conobbero, ne hanno il concetto di un santo. È bastata la permanenza di un mese del caro Padre nella casa di cura di Varese, perché tutti concordi, religiosi, inservienti ed ammalati, lo chiamassero un santo. Appena morto, le Suore dissero al P. Bombieri: «il nostro santo ha già fatto il suo primo miracolo: stamattina abbiamo veduto la balaustra della nostra chiesa affollata di persone a fare la S. Comunione. Non abbiamo mai veduto cosa simile. E ancora nessuno sapeva della morte del buon Padre.»
La sera del 21 la venerata salma fu trasportata a Venegono, nella cappella del Noviziato, ove fu vegliata tutta la notte dai Novizi, che a turni di quattro si succedevano a recitare l'ufficio dei Defunti. La mattina appresso furono celebrati i funerali, cui intervennero le autorità del paese, indi fu tumulato nel loculo centrale della nostra cappella nel cimitero di Venegono. Mirabili vie della Provvidenza! Colui che aveva presieduto al sorgere del Noviziato in Venegono, aveva edificato i novizi colle sue virtù, e che per essi si era consumato, veniva a riposare tra loro, divenendo così come l'Angelo tutelare del Noviziato.
Caro P. Bertenghi, tu che sei tanto caro a Dio, e che così degnamente portasti il nome di Figlio del S. Cuore, prega per l'amata Congregazione, perché vi si mantenga sempre vivo l'amore alla santità e lo zelo apostolico.
P. PAOLO MERONI f.d.S.C.
Da Nigrizia, Agosto 1934, pp. 115-119.122