In Pace Christi

Giacomelli Casimiro

Giacomelli Casimiro
Fecha de nacimiento : 25/01/1861
Lugar de nacimiento : Predazzo TN/I
Fecha de ordenación : 30/05/1884
Fecha de fallecimiento : 19/11/1924
Lugar de fallecimiento : Helouan/EG

Don Casimiro Giacomelli nacque a Predazzo, nel Trentino sud-Tirolese, il 21 maggio 1861. A due anni perse la mamma; fu con grande affetto allevato dal nonno materno Giovanni. Di sentimenti delicati e squisiti, il giovane Casimiro ricorderà in seguito in versi queste due persone così care al suo cuore.

            Nel 1876 entrò in collegio a Trento, seguendo suo fratello Isidoro. Ivi nel 1879 vede per la prima volta e ascolta Mons. Daniele Comboni. Tale incontro genera in lui il desiderio di diventare missionario dell'Africa Centrale. Viene dunque accettato nel 1880 nell'Istituto di Verona, mentre suo fratello Isidoro era entrato l'anno precedente nel Seminario di Trento. L'8.12.1880 prende la veste talare dal Superiore, P. Sembianti, avendo quale compagno il giovane Pietro Muller del Lussemburgo. Il 19 ottobre 1881, pochi giorni dopo la scomparsa del Comboni, partecipa a Predazzo ad una solenne cerimonia commemorativa. L'entusiasmo missionario si accresce nell'incontro a Verona con alcuni missionari reduci nel 1882. "Si sta aspettando la nomina del nostro capo .. . ", dice a p. 25 del suo "Giornale" che, fortunatamente per noi, egli aveva già iniziato a comporre.

            E qui è bene dare un accenno a questo Giornale che si presenta diviso in due volumetti. Il primo va dalla sua nascita fino al 1889, anno in cui Mons. Sogaro gli chiede che vada a Suakin sul Mar Rosso, dove P. Carlo Titz, suo grande amico, era rimasto solo. Il secondo descrive la sua permanenza a Suakin dall'ottobre 1889 fino al marzo 1892 quando, debilitato in salute, parte per ritornare in patria per un breve periodo di vacanze. Racconta il suo pellegrinaggio in Terra Santa nei mesi maggio- giugno 1892, insieme a Don Bonomi, Don Giuseppe, e Mons. Sogaro. Dopo aver lasciato 23 pagine in bianco, descrive (pp. 112-118) una corrida in Spagna, dove era andato allo scoppio della Prima Guerra Mondiale. Così termina questo "Giornale. Preso complessivamente, potrebbe essere diviso a grandi linee così: a) dalla nascita nel 1861 al suo arrivo in Cairo, nel novembre 1885; b) l'attività al Cairo nell'Istituto dei Neri prima e poi nella Colonia Agricola della Gesira, con gli umili inizi del lavoro a Helouan, sino alla partenza per la missione di Suakin sul Mar Rosso nell'ottobre 1889; c) la sua attività nel suo primo periodo a Suakin tra l'ottobre 1889 e marzo 1892.

Il Primo

            Ma ritorniamo alla sua storia. Il 30.5.1882 riceve gli ordini minori, insieme ai compagni Geyer, Muller, Titz, Speeke e Bertocchi, dal Card. Luigi di Canossa. Con dispensa sull'età canonica, è ordinato sacerdote a Trento, il 30.5.1884, insieme a suo fratello Isidoro. Il 19.1l.l885 parte da Verona per imbarcarsi a Trieste col Ch. Titz, per il Cairo, dove arrivano il26.11.1885. Don Carlo Titz è ordinato sacerdote "alla fine del 1886 o primi del 1887" (v. P. L. Bano, Missionari del Comboni, p. 128).

            Si mette subito a studiare l'Arabo, tanto che nei mesi di marzo e aprile del 1886 può accompagnare Mons. Sogaro nell' Alto Egitto, per le cresime ai Copti cattolici. Toccano Assiut, Tahta, Ghilgah, Luxor, Sohag. Da Scellal arriva P. Bonomi per discutere con Monsignore la liberazione dei prigionieri dei Mahdisti. In giugno gli si propone di tornare in Italia, per rimettersi in salute. Ma non parte. Parte invece Monsignore, il quale doveva cercare di evitare i grandi caldi.

            Don Giacomelli, sotto P. Bonomi superiore, si occupa dei ragazzi della scuola. In novembre torna Monsignore dall'Italia e il P. Francesco Saverio Geyer va a Suakin, dove l'anno precedente i PP. Leone Hanriot e Luigi Speeke avevano aperto una missione. Scopo: aprire una scuola. Questa viene aperta il 2 novembre 1886. Alla fine di dicembre anche il P. Serafino Schmitt parte alla volta di Suakin. I PP. Hanriot e Speeke vengono trasferiti a Scellal, dove a 34 anni muore di tifo il 4-8-1887 il P. Speeke, come ricorda con accenti di dolore nel suo Giornale (vol. 1 , p. 191). Nel gennaio 1887 don Casimiro continua ad occuparsi dei ragazzi della scuola dell'Istituto dei Neri a Cairo. Molti, purtroppo, muoiono di tisi; tra cui anche Gabriele "che considerava come figlio , perché era il primo che avessi istruito, confessato e preparato alla prima comunione in Arabo" (Giornale, voI. 1 , p. 177).

Alla Gesira

            Nel marzo 1887 succede un avvenimento importante, che determinò gli inizi della futura attività ad Helouan. Mons. Sogaro è ammalato, un po' forse immaginario, e gli viene consigliato di cambiare l'aria di Cairo con quella più salubre di Helouan, famosa anche per i bagni termali. Don Giacomelli l'accompagna. Sono ospiti della famiglia Bonavia ed hanno l'opportunità d'incontrare un maltese molto devoto, che li invita a celebrare la S. Messa. Ecco come Don Giacomelli ne parla nel suo Giornale (p. 187): "22 marzo 1887. Ieri, in una riunione dei principali cristiani di qui (il signor Bonavia e tre altri), fu deciso che Monsignore, dopo domandata l'autorizzazione al Vic. Ap. dell'Egitto, aprirebbe una cappella e una scuola. -Se ciò sarà permesso, sarò io il parroco e il maestro primo di questa cittadella". Nel mese di giugno 1887 Mons. Sogaro parte per l'Europa col P. Daniele Sorur, Dinca, in cerca di fondi. Restano a Cairo: "Don Carlo Titz, io, P. Leone e D. Bonomi, superiore" (p. 190). Don Giacomelli scrive una commediola (Giaden o lo Schiavo Dinca) da rappresentare al ritorno del Vescovo. "D. Carlo dipinge i teloni e le quinte" (p. 200).

            Purtroppo, il luogo dove vivono è malsano per i neretti, che spesso si ammalano e muoiono. Si pensa ad un luogo più sano per essi. Grazie a Dio, il 2 giugno 1888, l'estesa Campagna di Gesira, che in seguito si chiamerà Colonia Agricola S. Giuseppe, è aggiudicata alla Missione. D'ora innanzi Don Giacomelli lavorerà alla Gesira, fino alla sua partenza per Suakin nel mese di settembre 1889. Il 29 luglio 1888 così scrive nel Giornale (pp. 205-206): "Don Carlo e il P. Schmitt, arrivato da Suakin, andranno al mio posto ad Helouan; ma non soltanto la domenica come facevo, ma per istabilirsi; il P. Vicentini a Suakin, con D. Daniele; il P . Geyer qui al Cairo con D. Luigi; ed io in Gesira, a incominciare la Colonia" . Don Giacomelli si affeziona molto al suo lavoro alla Gesira; ama molto i neri e ne è riamato. L'8 maggio 1889 Don Carlo viene da Helouan a dargli l'addio perché va a Suakin, a sostituire D. Daniele Sorur che si reca in Europa col P. Geyer, a cercare soldi (p. 227). Il 2 luglio 18891a Gesira è in festa (p. 230) per 18 battesimi e 6 matrimoni. Le pagine del diario sprizzano di gioia.

Sono pronto

            Ma il l0 agosto 1889, Mons. Sogaro lo chiama e gli chiede d'andare a Suakin, dove Don Carlo Titz è rimasto solo, dopo la partenza di Don Domenico Vicentini. Così si esprime Don Giacomelli nel suo Giornale (p. 233): "Una novità grande. Monsignore venne qui e mi fece chiamare in camera. Mi raccontò che era molto angustiato per la partenza di D. Vicentini da Suakin ... D. Carlo, rimasto solo, domandava con istanza un compagno ... Chi mandare? Vidi la sua tristezza e ne indovinai il pensiero: Monsignore, dissi, se crede cha vada io, sono pronto. Grazie, ripose Monsignore, baciandomi in fronte, tanto m'aspettava da voi. Grazie, preparatevi e venite".

            Terribile è il distacco dai suoi cari neri. "Fu come una rivoluzione, un gridare, un piangere, un correre dietro al carro che mi portava. Sia fatta la volontà di Dio. A me pure costò moltissimo, perché infine li amavo i miei neretti, tanto che avrei dato la vita per la salvezza di ognuno di loro" (ivi, p.235.). Da Cairo va in treno a Suez, da Suez a Suakin sul Mar Rosso in vapore, toccando anche i porti dell' Arabia Saudita. Il 1 ottobre giunge in vista di Suakin. Su una barca D. Carlo, col maestro di Arabo della scuola, lo sta aspettando. Con quanta sua gioia! Così termina il primo volume di "Il mio Giornale" di D. Casimiro Giacomelli, inviato dal P. Agostino Capovilla, il 7 marzo 1967 a Roma con questa lettera (ACR, A45): "Cariss. P. Pistolozzi, Le mando per l'Archivio questo "Giornale di P. Giacomelli" trovato in casa nostra ad Helouan, dove il Padre morì nel 1924. Narra la sua vita nell'Istituto di Verona (1880-85) e poi in Egitto (l885-sett. '89) e infine il suo viaggio a Suakin (sett. '89). Ha dei tratti interessanti circa il lavoro dei vecchi Missionari in Egitto, veramente ammirabile. Sorprende il fatto, certamente intenzionale, che manchi ogni accenno alla Congregazione e ai suoi membri, coi quali pure dovette essere a contatto in Egitto". Sì, neppure l'inizio del Noviziato -il 28 ottobre 1885- è nel suo ricordo. Ma Don Giacomelli non aveva aderito alla proposta di vita religiosa. Rimarrà dunque come missionario apostolico come i PP. Hanriot, Bonomi, Ohrwalder e Titz, e come loro, morrà in Africa.

A Suakin

            Il 2° volume del "Mio Giornale", ritrovato dal fr. Aldo Benetti nel 1983 a Helouan, copre la permanenza di Don Giacomelli a Suakin dall'ottobre 1889 al marzo 1892. Sappiamo che, dopo le vacanze in patria del 1892, egli ritornò 38 a Suakin, dove rimase fino al 1894 quando, non si sa in quale mese, fu trasferito a Cairo, quindi a Helouan. Ma di questa seconda permanenza non vi è alcun cenno; forse però aveva intenzione di descriverla perché lasciò 23 pagine bianche nel Giornale, prima di descrivere la corrida in Spagna, dove si rifugiò all'inizio della Prima Guerra Mondiale, essendo cittadino austriaco. Anche su Helouan non è rimasto niente, e sì ch'egli vi lavorò fino alla sua morte nel 1924; ma forse scrisse un altro volume a parte, che non è stato ancora rintracciato.

            Il 2 volume del Giornale inizia in ottobre 1889 con una descrizione di Suakin (p . 1). Suakin, costruita su un'isola corallina, è in quel momento una cittadina di grande importanza; infatti, "per il momento, essendo il Sudan chiuso, tutta l'amministrazione, e i Soldati del Sudan, sta concentrata a Suakin" (p. 3). Fa poi un breve accenno all'attività scolastica della missione cattolica: "Noi abbiamo qui una scuola di 60 ragazzi, greci copti musulmani e neri. Suakinesi proprio del paese solamente due" (p. 5).

            Il giorno dei Morti, 1 novembre, descrive la cerimonia nel Camposanto, "posto in un punto della spiaggia al principio del porto. Non vi si va che in barca" (p. 8). Il 20 novembre cadono delle piogge torrenziali; tanto che, "per dormire D. Carlo trovò l'unico posto asciutto sotto una tavola, io sotto l'architrave d'una porta" (P. 9). Di conseguenza, il 23 novembre è "ammalato con la febbre" (p. 10); però, ricorda con gioia che "la frequenza alla chiesa aumenta e Don Carlo, che è abilissimo in disegno, cominciò il quadro di S. Eustachio con la famiglia nell' Arena" (p. Il).

            L'anno 1889 termina con un ricordo del S. Natale e del fatto che degli amici di tanto in tanto invitano i due Padri a casa loro. Così, "almeno una volta la settimana mangiamo da cristiani" (p. 12).     La sua penna facile coglie al volo degli avvenimenti notevoli per descriverli: la famosa festa del Ramadam, il santone Morgani, il funerale d'un notabile musulmano, delle nozze abissine. Il 6 marzo 1890, giorno del suo onomastico (S. Casimiro), il suo cuore delicato è commosso al ricordo della festa data in suo onore. "I Signori Mei mi hanno fatto un'improvvisata col dare un pranzo il giorno della mia festa" (p. 16). A Pasqua ricorda come la chiesa è più bella col nuovo dipinto di D. Carlo (S. Ignazio e S. Francesco Saverio); i ragazzi cantano la Messa del Paoletti per la 1.a volta (p. 17).

            Viene poi il tempo della vacanza in Europa per il suo caro amico, Don CarIo Titz. Ecco come ricorda: "4 luglio 1890. D. Carlo è partito e sono stato molto contento che il vescovo gli abbia permesso di andare per due mesi in Europa... Così tiro avanti la scuola solo ... " (P. 21). Quando Don Carlo ritornerà, troverà una casa nuova. "Ho saputo che Monsignore ha accolto favorevolmente la mia domanda di cambiar casa, e che è in trattative per comperare quella di Bruster Bey, direttore della Dogana. E' una bella casa per qui, con due grandi cortili, e posta sul mare" (p. 21). Il 29 luglio vi si era già trasferito. Adesso attende con impazienza il ritorno di Don Carlo e prosegue nel suo lavoro pastorale. "Altri ragazzi della scuola domandano di farsi cristiani ed intervengono regolarmente al catechismo. Queste sono le mie sole ma grandi consolazioni" (p. 25.).

Anche peggio

            In ottobre 1890 scrive tutto entusiasta: "Finalmente D. Carlo è. tornato!" (p. 27). Ma con lui giungono anche gli echi dei contrasti tra Mons. Sogaro e i nuovi membri religiosi. Mentre nel l volume, come scrive P. Agostino Capovilla, "sorprende il fatto, certamente intenzionale, che manchi ogni accenno alla Congregazione e ai suoi membri, coi quali pure dovette essere in contatto in Egitto" (cfr. ACR, A45, introduzione), nel 2 volume Don GiacomeIli, da quella persona moderata che era, vi accenna leggermente. Del resto, egli aveva usufruito della opzione permessa ai singoli candidati da Mons. Sogaro di scegliere o meno la vita religiosa, ed era stato accettato a lavorare in missione quale membro dell'Istituto Missionario Comboniano per l'Africa Centrale (cfr. P. Aldo Gilli, Storia dell'Istituto Missionario Comboniano, p. 113). Volle così sempre rimanere in una posizione neutrale, dalla quale fare i suoi commenti con una certa ironia.

            Ecco come si esprime nel suo diario (2 voI. p. 28): "A Verona ed al Cairo si agitano per far saltare Mons. Sogaro, il quale dopo aver cambiato l'istituto da società di missionari secolari in congregazione religiosa, vorrebbe ora disfare quello che ha fatto perché gli pare che non vada avanti. Infatti i nuovi venuti della Congregazione devono prima dipendere dal loro Superiore di Verona (Gesuita dato loro da Mons. Sogaro) e poi ubbidire a lui. Questo non gli va, inde irae.

            Ci hanno scritto una lettera informandoci che da un giorno all'altro sarà cambiato il Vicario Apostolico, di star (p. 29) attenti a insorgere anche noi. Io risposi che non voleva intrigarmi in queste cose, che Monsignore, ci aveva mandato qui a lavorare e non per tramare, che del resto il Signore fa quello che nei suoi decreti saprà essere il meglio. Fra il caldo e i patimenti di questo clima ci è dolce il pensiero di vederci tranquilli operare colla benedizione del Signore".

            Questo suo modo di sentire può essere completato col secondo, ed ultimo accenno alla Congregazione Religiosa che si ha a p. 68 del 2 volume, in data 15 aprile 1892, a Cairo. "Monsignore è molto taciturno e triste. Sempre in lotta coi figli della Congregazione che volle fondare lui. L'altro giorno, al passeggio, mi raccontò il manco di rispetto che usano contro lui i congregazionisti, le sue pene e miserie, una infinità di dettagli che mi commossero fino alle lacrime. Del resto, l'ha voluto egli e certamente anche i congregazionisti non hanno torto. (p. 69) Li ha voluti religiosi, coi voti, proprio come i frati, ed ora non vuol subirne le conseguenze. Come tali, devono dipendere dal loro Superiore, il P. Gesuita di Verona; Monsignore invece vorrebbe che dipendessero da lui. Queste cose fanno male anche a dirle ma prevedo che ne avverrà anche peggio, per Monsignore e per noi missionari secolari" .   Per concludere l'argomento, è opportuno riferire quanto il P. Leonzio Bano scrive al termine del suo profilo di Don Casimiro Giacomelli in "Missionari del Comboni" (p. 43): "Se ne ha invece qualche cenno nella sua corrispondenza. P. Giacomelli e P. Geyer, secondo una lettera di P. Sembianti del 29 giugno 1894, "in addietro pare siensi mostrati propensi di entrare nella Congregazione" (ACR, A/42/16/94). In seguito mantenne intimi rapporti (n.d.r. - Si era forse incardinato nel Vicariato Copto Cattolico?) con l'istituto, ne volle per molti anni qualcuno in aiuto a Helouan, affidò loro parrocchia, scuola e collegio, durante il suo "esilio" in Spagna, durante la Prima Guerra Mondiale, dove era andato per sfuggire l'internamento, e lasciò quanto aveva a Helouan alla congregazione alla sua morte".

A Tokar

            Ma ritorniamo al diario, anno 1891. Ricorda con sentimenti d'immensa gratitudine la famiglia Mei, la quale già al tempo del Comboni s'interessava dei missionari di passaggio da Suakin (p. 31). Con mal celata soddisfazione (p. 32), il 30 gennaio 1891 ricorda che una sua commedia in lingua italiana, preparata durante l'estate precedente, era stata rappresentata con grande successo. "Finalmente si fece la prima rappresentazione drammatica che abbia mai visto Suakin. Tutto Suakin era nel nostro cortile: gli europei in frack, gli indigeni colle loro vesti di gala".

            Altro importante avvenimento: la campagna di Tokar decisa e finalmente conclusa in settembre, con la presa di Tokar e la fuga di Osman Digna.

            Ma è nel mese di dicembre che ci sono due ricordi tutto speciali: la sua grave malattia e l'arrivo di P. Leone Hanriot. "18 dicembre 1981 (p. 43). Sono stato sull'orlo della tomba, e se la misericordia di Dio non si fosse mostrata miracolosa con me, a quest'ora mi riposerei spero in seno a Dio coll'anima, e col corpo in qualche seno del porto rivolto al mattino là dove le onde s'infrangono e infrangendosi innalzano un inno eterno alla bontà divina". D. Carlo lo assiste; viene anche Mons. Sogaro. Per la prima volta accenna ai dolori di fegato che l'accompagneranno nel resto di sua vita e che lo porteranno alla tomba nel 1924. "

            Pochi giorni dopo ha una grande gioia nel riabbracciare D. Hanriot. "28 dic. 1891. Per Natale abbiamo avuto la grata sorpresa dell'arrivo del nostro carissimo confratello P. Leone. Pieno di " zelo com'è, non può aspettare che s'apra una volta il Sudan, ma appena arrivò al Cairo la notizia della presa di Tokar subito pensò che là si poteva fondare una colonia agricola per neri" (p. 46). Difatti adesso egli viene da Tokar.

            Nel 1892 gli avvenimenti incalzano. Don Leone riparte da Suakin e va a stabilirsi a Tokar, in una capanna di canne di durah. Don Giacomelli lo va a trovare tra la fine di gennaio e il mese di febbraio. Ci lascia una descrizione di tutto il viaggio, andata e ritorno (pp. 50ss). Ormai non gli resta che poco tempo da stare a Suakin, per stendere i contratti per la nuova Chiesa, di cui porrà la prima pietra il 14 febbraio (Nigrizia, genn. 1893, p. 1l).

            "14 gennaio 1892. lo sono richiamato al Cairo per andare poi in Europa a curarmi. .. E' già arrivato il mio rimpiazzante; D. Teodoro, tirolese tedesco" (p. 46).

Grazie, grazie, mio Dio

            Cosi il 19 marzo parte da Suakin in vapore, ripercorrendo il solito viaggio fino a Suez; indi, in treno, a Cairo. Qui si decide di fare un pellegrinaggio in Terra Santa. Ci vanno, con Mons. Sogaro, Don Giacomelli e i PP. Ohwalder e Bonomi, i quali ultimi due, durante la prigionia del Mahdi, avevano fatto voto di visitare i luoghi santi se fossero arrivati ad essere liberi. P. Bonomi era giunto dall’Asmara, dove era stato mandato come cappellano delle truppe italiane. Là anche morrà nel 1927, mentre il P. Ohrwalder morrà a Omdurman nel 1913, ultimi coi PP. Hanriot e Titz dei Missionari del Comboni a morire in Africa.

            Lo strapazzo di questo viaggio si ripercuote sulla salute di Don Giacomelli. "Il mio male di fegato mi disturba di tanto in tanto specialmente dopo il viaggio in Terra Santa. Il medico mi dice che devo andare per alcuni mesi in Europa" (p. 111). Così il 7 giugno 1892 parte da Cairo col fratel Santoni. "Cara patria. cari miei che credetti di non più rivedere. dunque vi rivedrò ancora. Oh! grazie. grazie. mio Dio!" (p. 111). Dalla Nigrizia di settembre 1982 (p. 130) sappiamo che fu visitato a Cavalese da Mons. Sogaro e P. Ohrwalder.

            Rientrato dalle vacanze in patria, Don Casimiro ritorna a Suakin. dove riprende il suo lavoro accanto al P. Carlo Titz e al P . Teodoro (Kirchlechner), il quale (secondo SPV. n. 127) sarà poi licenziato dal Cairo nel dicembre 1893 e ritornerà all'Ordine Teutonico nel 1894. Qui ci aiuta la Nigrizia del 1893, sulla quale appaiono varie lettere di P. Casimiro Giacomelli da Suakin. specialmente quella del 7 agosto 1893, che descrive l' apertura della nuova chiesa di Santa Croce.           Rimane a Suakin fino al 1894 quando viene trasferito prima a Cairo. quindi ad Helouan (v. Nigrizia. febbraio 1896), dove lavorerà quale direttore di scuola e parroco fino alla sua morte nel 1924. previa una breve parentesi in Spagna all’inizio della Prima Guerra Mondiale.

            Purtroppo il secondo volume del "Mio Giornale". dopo aver lasciato 23 pagine in bianco. aggiunge al diario soltanto una corrida di tori (pp. 112-118). Come argutamente osserva: "Venire in Spagna e non assistere a una Corrida di tori sarebbe come andare a Roma e non vedere il Papa". Che si fosse spoetizzato o che la sua attività a Helouan l'avesse descritta in un volume a parte, non sappiamo.      In questi due volumetti però abbiamo materiale sufficiente per conoscere la personalità di questo missionario che volle rimanere fedele al suo giuramento "titulo missionis"; spirito delicato. romantico; poeta e letterato; equilibrato nella sua posizione tra i vecchi missionari del Comboni e i nuovi religiosi; padre dei neri alla Ghesirah, pastore solerte a Suakin, fondatore dell'attività pastorale ed educativa ad Helouan.

La fine

            Sfogliando la Nigrizia fino al 1924 s'incontrano rari cenni al lavoro del Cairo e di Helouan; nel giugno del 1911 c'è la descrizione d'una Prima Comunione ad Helouan del P. Faustino Bertenghi; cerimonia presieduta dal "M.R.P. Casimiro Giacomelli. Superiore zelante e tanto benemerito di questa Stazione". Nel giugno del 1914 si parla della Congregazione Mariana nel Collegio di Helouan. "Accanto alla Chiesa (p. 99) ... sorge il Collegio della S. Famiglia. Sotto l' impulso intelligente ed energico del P. Casimiro Giacomelli, esso ebbe in pochi anni un grandissimo sviluppo".

            L'ultimo accenno è a p. 192 della Nigrizia di dicembre 1924. Ma è la necrologia del P. Casimiro Giacomelli, deceduto il19 novembre ad Helouan. "Parroco per più di 30 anni. fondò un Collegio per i fanciulli neri.. che diresse fino alla morte, portandolo a floridezza straordinaria con circa 400 alunni di cui circa 150 interni. Buono, pio, affabile con tutti, di cuore sommamente caritatevole, ebbe la stima, l’affetto, la venerazione di tutti. I suoi funerali riuscirono un trionfo per l'umile sacerdote di Cristo".

            A pago 37 dello Stato Personale dell'Istituto delle Missioni d' Africa in Verona (cfr. ACR. B43) il P. Agostino Capovilla postillò di suo pugno: "La sua memoria sarà sempre in benedizione".

P. Antonino Orlando

Da Bollettino n. 150, luglio 1986, p. 35-42

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Nato il 21 maggio 1861 a Predazzo (Trento).

Dal ginnasio vescovile di Trento entrò a Verona il 29 ottobre 1880, vestì l'abito ecclesiastico la festa dell'Immacolata 1880, ebbe la tonsura e gli ordini minori il 30 maggio 1882 da S. Em. di Canossa. Con dispensa di 10 mesi sull'età veniva ordinato suddiacono il 22, diacono il 24, sacerdote il 29 giugno 1884 a Trento dal principe vescovo Riccabona.

Partì pel Cairo il 19 novembre 1885. Fu parroco per molti anni a Héluan, dove fondò e fece prosperare il Collegio della S. Famiglia. Morì colà il 19 novembre 1924. La sua memoria sarà sempre in benedizione (SPV, 82).

P. Giacomelli lasciò un diario personale. P. A. Capovilla inviandolo a Verona scriveva il 7 marzo 1967: "Le mando per l'archivio questo Giornale di p. Giacomelli, trovato a casa nostra a Héluan, dove il padre morì nel 1924. Narra la sua vita nell'Istituto di Verona (1880-1885) e poi in Egitto (1885-settembre 1889) e infine il suo viaggio a Suakin (settembre 1889). Ha dei tratti interessanti circa il lavoro dei vecchi missionari in Egitto, veramente ammirabile. Sorprende il fatto, certamente intenzionale, che manchi ogni accenno alla Congregazione e ai suoi membri, coi quali pure dovette essere a contatto in Egitto" (A/145/8).

"Il mio giornale" rivela un carattere sensibile, affettuoso, che spesso negli anni della gioventù si esprime in versi. "Nel 1879 vidi per la prima volta mons. Comboni. Diventerei io missionario dell'Africa Centrale? Questo pensiero, mentre mi colmava di spavento, e lo scacciava, mi si figgeva sempre più nella mente. Coll'aiuto di Dio lo realizzai".

Però, quando salutati con lacrime i suoi cari, arrivò alla porte dell'Istituto a Verona, e rivide i suoi sfilarglisi davanti ad uno ad uno "ho esitato alquanto, ma Dio mi diede forza, rimandai il cocchiere e tirai il campanello" (ivi, 6).

La notizia della morte del Comboni lo raggiunse a Predazzo il 19 ottobre 1881: "Che colpo, mio Dio! E' morto dunque il capo della povera nostra missione, mons. Comboni è morto! Me lo scrisse oggi il rettore p. Sembianti, e grandissimo è il mio dolore. I miei fanno le meraviglie perché piango, e s'offendono perché non posso prender cibo, ma se sapessero come mi sono tutto dato alla missione, e come ho amato e amo sinceramente i capi e fratelli, tutti, cesserebbe la loro meraviglia.

"In dicembre abbiamo avuto in duomo spendidissime esequie a mons. Comboni. Assistettero tre vescovi, cioè il vescovo cardinale di Canossa, il vescovo di Ceneda ed il vescovo ausiliare di Brescia. Tutti hanno in bocca mons. Comboni, e meritamente; egli fu grande in tutto, e l'attestano i suoi figli reduci dalla missione, che colle lagrime agli occhi raccontano qualche aneddoto o fatto della sua vita in Africa". (ivi, 23).

Nel 1885 fu nell'istituto neri di Cairo, dove ricorda la morte di alcuni alunni esuli da Khartum; "anche la vecchi Boba (haboba = nonna) morì, l'ultima rimasta dei cristiani fatti dal provicario Knoblecher".

Questa era morta il 6 giugno 1885 (De. 339), quindi prima che p. Giacomelli arrivasse al Cairo in novembre; si vede che ha ritenuto degno di nota questo particolare. E aggiunge: "A seconda che questi neri entrano nella missione, altri se ne vanno al cielo. E che morti! E perché non sono io uno di loro? Quasi tutti passano agli eterni riposi colla battesimale innocenza, fregiata da indicibile sofferenza portate con tutta rassegnazione. Il tempo passa e le nostre novità sono l'arrivo di qualche nuovo moretto o la morte di un altro". (ivi, 177-178).

Inedito questo particolare: "Marzo 1887. Sono a Héluan, un'ora di ferrovia lontano dal Cairo, dove accompagnai mons. Sogaro. Già 15 giorni or sono egli incominciò a sentirsi poco bene. Pauroso com'è, incominciò a chiamare il medico della casa, poi perché quello diceva che non era nulla, ne chiamò un altro; poi non contento ne dimandò un terzo, e disgrazia o fortuna volle che tutti e tre, benché non chiamati, si trovassero per accidente l'un dopo l'altro insieme nella sua camera. Il medico di casa si lamentò con acerbe parole della poca stima che aveva di lui, l'altro egualmente; il terzo non disse naturalmente nulla, ma come il più vecchio, invitò gli altri due a far con lui un consulto, dal quale risultò che mons. Sogaro doveva portarsi a Héluan e farvi la cura di quell'aria. Ce ne volle prima che il malato si decidesse. Volle fare testamento, incominciò a parlare a fiato, pareva che fosse agli estremi, e non aveva nulla fuorché paura. Infine, quando Dio volle, si venne qui: l'ammalato, io e un nero per fare da mangiare. Nel viaggio non parlò nulla, come se fosse assorto nella contemplazione della morte, avvolto nel suo scialle, stava sdraiato nel suo coupè di prima classe...

Non vi può esser nulla di più lunatico di un ammalato immaginario, né cosa che faccia più impazzire quanto assistere certi ammalati. S.E. Monsignore è, salva reverentia, ammalato immaginario, ed ogni momento se ne immagina una nuova..." E racconta varie peripezie sul cibo e come finalmente la signora Bonavia, accortasi della situazione, provvide di persona a nutrirlo con cibi prelibati a pranzo e a cena, fino a rimetterlo in piedi, proprio quando andava deperendo di giorno in giorno per la sua astinenza. Il 15 marzo poté scrivere: "La cosa marcia a meraviglia; ancora qualche paura, ma le forze sono tornate". E questo fu l'inizio della nostra opera a Héluan.

"L'altro giorno siamo andati giù fino al Nilo. Alla macchina, che manda l'acqua del Nilo a Héluan, abbiamo trovato un impiegato maltese che vive colà colla sua famiglia. Quando ci vide, alzò le braccia al cielo e : Signore, ti ringrazio, esclamò, che posso vedere finalmente un sacerdote. E si spiegò come fosse là da 6 anni, e che essendo solo, non può lasciar la macchina, e perciò 6 anni senza messa e senza sacramenti. Monsignore promise che un giorno saremmo andati là a dir messa, e quel buon vecchio ne fu tutto consolato. Il 22 marzo fui a dir messa al Nilo, contentando così le brame di quella famiglia. Ieri, in una riunione dei principali cristiani di qui fu deciso che monsignore ... aprirebbe qui una cappella e una scuola. Se ciò sarà permesso, sarò io il parroco e il maestro primo di questa cittadella" (IVI, 178-187).

Racconta poi l'avventura dei ragazzi inviati da Massua al Sogaro, che furono trattenuti otto giorni dalle autorità egiziane a Suez e a Port Said, e finalmente, con l'intervento dei consoli italiano e austriaco, condotti da p. Giacomelli al Cairo. E poi a Gesira (ivi, 192-200):

"22 agosto 1888. Eccomi a Gesira, in mezzo a questa vasta campagna tutta verdeggiante e biondeggiante di messi mature. Vi sono venuto il 17 corrente con un carro che portava i nostri effetti, 24 neri grandi non maritati e quattro maritati, cristiani, già colla loro famiglia. Il luogo è lontano dal Cairo una buona ora a piedi, e ne abbiamo fatto il cammino con una allegrezza indicibile: i ragazzi per la novità della cosa, io per molte ragioni". Descrive poi la spiazzo degli sport, la villa fantastica del khedive Ismail, che vi accolse gli ospiti imperiali venuti per l'apertura del canale di Suez, e finalmente "si arrivò al posto di Zamalek, o camere per uomini, che così si chiamano qua le caserme. Queste saranno un 18 tutte della stessa grandezza, con finestre di vetri, coperte di lastre di zinco e fatte di legno a un sol piano. Ora sono vuote e pare che il governo non le voglia più usare, ed è per questo che concesse alla missione di poter abitare una di queste fino che si fabbricherà una casetta. Quella scelta da noi è l'ultima della fila, in buono stato, circondata da una veranda, formata dal prolungamento delle piastre di zinco del tetto, sostenute da colonne di legno. Dentro non vi è divisione alcuna: è uno stanzone lungo 25 metri e largo 9 o 10. Verso sud abbiamo la terra incolta colle sue spine, viali di alberi della passeggiata e giù più lontano le piramidi. Verso il nord la nostra campagna e un centinaio di casette di fango, unite le une alle altre, e divise da lunghi corridoi, che servirono già per le donne dei soldati (ivi; 206).

"Si scaricò il carro colle nostre povere masserizie. Una tavola, due sedie, 4 panche, un altare, ovvero armadio ... siccome è l'unico mobile che ha la chiave, così là devo mettere arredi di chiesa vestiti provvisioni ecc. tutto; una quarantina di zappe nuove per lavorar la terra, due materassi per me e pel fratello Pietro Santoni, le sue stuoie e le coperte pei ragazzi, ecco tutta la nostra mobiglia. Il tetto sarebbe un articolo troppo di lusso qui in campagna, d'altra parte, dovendo dormire tutti insieme in questa camera senza divisioni, è meglio dormire per terra come i ragazzi.

"Appena arrivati si dovette pensare alla cena, e subito alla legna. Si andò a tagliare colle zappe un mucchio di spine che sono erbose, è vero, ma quando sono secche bruciano bene. In un'ora sono tagliate e in due secche. Intanto i ragazzi più piccoli sono andati al vicino canale, pieno di tanti pesciolini, da poterli così prendere col fazzoletto, e ne fanno una buona pesca. Per cuocerli non ci volle molto. Si accese il fuoco e si gettarono dentro. Naturalmente riuscirono chi crudi chi bruciati, ma l'appetito ottimo li accomodò nello stomaco e li mangiammo col pane con grande allegria.

"La sera dopo le orazioni si dispongono i ragazzi a dormire intorno alla pareti. Dopo una mezzora faccio il giro dello stanzone, li conto se sono tutti e mi getto anch'io sul materazzo stanco ma contento. Di buon mattino il fratello Pietro dà il segnale di alzarsi battendo le mani e tutti ci alziamo, andiamo al vicino canale a lavarci, poi di ritorno mettiamo da parte le stuoie e le coperte e adattiamo la camera come una chiesa e dico la messa, durante la quale i ragazzi recitano le preghiere. Poi, mangiato un pezzo di pane e cipolla e presa la zappa, andiamo al campo, lasciando Giulio, che è troppo debole per lavorare, alla custodia della casa.

"La più parte della campagna essendo già affittata prima che la comperassimo, resta in mano di fellah arabi; noi abbiamo per adesso un 15 feddani da lavorare, ed è bene che così possono imparare meglio. L'arabo Tantani, vecchio di 70 anni, che ci fa da fattore, insegna ai ragazzi le diverse seminagioni della stagione e la maniera di coltivarle. I ragazzi lavorano di buona lena e sono allegri. Verso mezzogiorno arrivano due monache con 4 ragazze. Esse vanno ad abitare nelle casette di fango, lontano dalla nostra casa 200 metri, e ci preparano il mangiare. Che povertà anche presso le monache. Non hanno che alcune coperte e quattro utensili vecchi di cucina. V'era una paletta nuova, e sr. Elisa, nella sua semplicità, "questa", disse, "non può essere per noi; deve essere uno sbaglio", e la mise da parte. Infatti oggi sono venute altre monache a visitarle e portarono via la famosa paletta.

"1 settembre. La cosa va a meraviglia. Di tanti ragazzi nessuno che non faccia tutto quello che può per far bene. Perfino Stefano, che scappò 2 volte da casa, che faceva baruffa ogni momento, qui lavora e fa bene. Ogni giorno arrivano dalla città dei neri che domandano di esser ricevuti. Io spiego loro lo scopo della colonia, come devono intervenire al catechismo, e poi, se il Signore vuole, farsi cristiani. Tutti dicono che faranno come io vorrò. Allora dò loro un nome cristiano, una coperta ed una zappa e sono ricevuti. Così sono già venuti diversi ... (a fa nome di singoli e di famiglie), alcuni dei quali, vecchi e buoni cristiani, devono sorvegliare i maritati e le donne, i quali abitano le casette di fango dietro le suore." (ivi, 211).

"18 settembre. Avanti ieri fummo o a fiera. Il mercato settimanale di una borgata lontana un'ora di qua. Gli arabi fanno bene le loro fiere. Nessuno compera altrove, o in altro giorno che in quello di mercato. Così in tal giorno essi portano al suo come lo chiamano, tutto il vendibile e comperano quanto loro abbisogna, incominciando dal grano per fare il pane. Io comperai due tori da lavoro, una bufalo per il latte e 14 altre piccole vitello e bufale..

"Adesso ho diviso il personale così. I piccoli vanno al pascolo colle vacche e tagliano le spine pel fuoco, gli altri ragazzi cristiani lavorano il giardino nel quale si vedono già far pompa i cocomeri, i cavoli, le melanzane nere, i pomidoro, le bamie, le cipolle e le zucchettine. Tutta roba che si vende molto bene. I ragazzi catecumeni lavorano al campo nelle grandi seminagioni di dura, frumento, canna da zucchero e cotone, e i maritati fanno i lavori più grossi aggiustando strade, praticando nuovi canali per l'acqua ecc. I piccoli e i giardinieri li sorveglio io, i grandi e catecumeni li sorveglia il fratello Pietro. Il piccolo Amadio, venuto dal Cairo per cambiar aria con Benedetto e Pierino, portano a noi il mangiare. Alle 12 ci ritiriamo sotto l'ombra di giganteschi sicomori che stanno all'estremità del giardino, e là mangiamo tutti assieme, anche i maritati, chè le donne portano là il loro mangiare e mangiano coi loro mariti. Dopo il pranzo, mentre stanno così seduti sull'erba e all'ombra, faccio loro il catechismo.

"1 ottobre 1888. E' capitato con noi, mandatoci da monsignore, con ordine di trattarlo e averlo come fratello, un signore francese dell'età di circa 26 si chiama Maurizio Renould. Pieno di spirito, istruitissimo in tutto, con maniere così distinte, non so come potrà adattarsi al cibo e alle privazioni di questa campagna. Egli deve, come intendente di architettura, incominciare i lavori per una casa che dovrà alloggiarci, e una chiesetta, per noi, con un convento per le monache ... Scrive lettere a contesse, a principesse e riceve lettere da certe celebrità della camera francese; egli mi sembra nascondere un mistero ... Scrive moltissime lettere, annotazioni, e quando ha finito un notes, lo manda ad un notaio di Parigi" (ivi, 213-214).

"22 ottobre. Il Signore ci ha esauditi. I bruchi si erano moltiplicati sui cavoli in tanta copia da prevedere che li avrebbero distrutti. Allora presi con me il fratello Pietro, che ha tanta fede da trasportare i monti, due ragazzi neri che sono due santarelli, Enrico e Samuele, e andammo al giardino. Allora ci mettemmo a pregare: "Signore, se ci vanno a male le raccolte, come potranno vivere tanti poveri neri, e se qui non trovano da vivere, come e dove impareranno la vostra santa legge, la vostra divina dottrina? Fate adunque che questi bruchi escano dal giardino e vadano nelle vicine spine". E mentre Pietro, Enrico e Samuele pregavano, presi l'acqua benedetta e aspersi i cavoli. Dopo due ore non v'era più un bruco, con meraviglia degli arabi, che non conoscono la potenza dell'acqua santa. Così i due tori, che erano ammalati da morire, guarirono colla benedizione del rituale romano. Sia lodato Iddio.

"5 novembre. Ne abbiamo passate di belle! Ci hanno cacciato dalle casette ed ora siamo qui provvisoriamente, ma chi sa ancora per quanto, sotto le tende. Senza avvisarci, un'orda di soldati sono venuti ad occupare le caserme e ci intimarono di lasciar il posto libero la su due piedi. Come fare? Maurizio Renould era in letto colla solita febbre, io non sapevo dove andare. Le donne dei soldati irruppero nelle casette di fango e cacciate le famiglie dei maritati, volevano far altrettanto con le suore. A chi ricorrere, come fare, con un'orda di gente simile? Alcuni dei maritati andarono colle loro poche robe sotto i sicomori, le altre famiglie li seguirono. Io spedii in Cairo ad avvisare che provvedessero, e intanto, pressato e sospinto quasi da quei soldati, raccomandando la calma ai miei neri, che già avevano cominciato a far baruffa e ad adoperar le zappe, ordinai di trasportare tutto sotto i sicomori vicino ai neri maritati. Che giorno di angoscia! Il più fu a trasportar la roba delle suore. Mentre i neri erano occupati a trasportar le cose nostre, diedi una corsa per veder come andava dalle monache; le trovai tutte in sudore a radunar le loro masserizie, che quando si tratta di trasportarle, sono sempre troppe. Le ragazze, invece di aiutarle, piangevano. Le suore si domandavano dove avrebbero passata la notte? Insomma, una desolazione. Il dopo pranzo venne dal Cairo d. Luigi (Bonomi), portando una tenda, che fu montata e destinata per le suore. Già era calato il sole, quando si ricordarono di una madia piena di pasta per il pane, dimenticata in una cameretta dove avevano fatto un piccolo forno. Bisogno andar a prenderla, se v'era ancora! Presi il carrettino coll'asino; non ebbi il coraggio di chiamare i neri, sì perché erano più morti che vivi di stanchezza, sì perché temeva, caldi come sono, una baruffa. La madia c'era, ma tanto pesante che è un miracolo se non mi sono rovinato a metterla sul carretto. Il più terribile però fu a portarla ai sicomori. L'asino non poteva tirarla così sul terreno molle dei campi. Bisognava tirare, io davanti con lui, suor Elisa e una ragazza a spingere di dietro; insomma mettemmo più di un'ora per fare 300 metri o poco più di strada. Ora le suore entrarono nella tenda e si accomoderanno alla meglio, e noi si dovette passare la notte a ciel sereno. Mettemmo le vacche ed i buoi nel mezzo, poi i piccoli e i grandi all'intorno dovevano fare la guardia perché temevamo che qualche soldato non tentasse rubarci qualche cosa o qualche neretto. Infatti nella notte vennero alcuni, girando intorno a noi, ma visto che si stava sull'attenti, se ne andarono.

"Il giorno dopo arrivarono altre 3 tende dal Cairo; le spiegammo, e in una entrai io col fratello Pietro e il sig. Maurizio; nelle due altre i ragazzi, quanti ci stavano; per gli altri e per i maritati si costruì un capannone di 20 metri di lunghezza e 8 di larghezza, fatto con fasci di steli di granoturco legati insieme con rami e legni di palma. Si lavorò febbrilmente 3 giorni per finirlo, chè non si poteva stare così, lavorammo anche il giorno di Tutti i Santi, e si fini alla meglio, che per dir la verità è una casa che con un pugno si butta giù, e le pareti lasciano passar l'aria che è una meraviglia. Che il Signore ci scampi e liberi dal fuoco! Se prende nel capannone, muoiono tutti arrostiti dentro. I buoi e le vacche sono sempre sotto i sicomori, sotto la guardia di Vito Ammad, che è il ghaf¡r, e di Medoro, il mio cane bravo e fedele, regalatomi dal carissimo maestro d'arabo, Sciaui.

"Il sig. Maurizio fa andare aventi più che può la fabbrica della chiesa, fatta anche di fango, ma grande, che finita che sarà, ci ricovererà meglio che la tenda, intanto che si fabbricherà la casa. Ogni tanto viene qualcuno dal Cairo a trovarmi, d. Leorie, d. Luigi, visite carissime, ma più di tutte quella di d. Carlo Titz che viene da Héluan dove, poveretto, non si trova in buona compagnia ... e vorrebbe venir qui... Una visita inaspettata fu quella di d. Morichetti, sacerdote trentino che va a Gerusalemme. Mi trovò nei campi ... e vista la nostra povertà, pianse di compassione. Io sono diventato col callo al cuore e sugli occhi, niente mi impressiona delle cose esterne e ho cuore solamente per i neri. (ivi; 215-218).

"Siamo pieni di serpenti; ogni giorno, dacché siamo venuti qui, ne uccidiamo due o tre o più. L'altro giorno ne trovò uno Medoro tanto grande che faceva paura. Chiamai il fratello Pietro e mi feci dare il suo badile, che misi sul collo al serpente, dicendogli che mentre lo tenevo gli fracassasse la testa. Ma quella bestia aveva tanta forza da sollevarmi col badile per aria. Chiamai Pietro in aiuto, e tutti e due insieme ancora non potevamo tenerlo. Buon per noi che intanto vennero alcuni dei nostri neri e colle zappe lo uccisero. Ogni tanto vengono uomini che fanno il mestiere di giocare con i serpenti, e mi domandano il permesso di cercarne. Naturalmente acconsento, ed essi in 2 o 3 ore trovano e prendono 7, 8 serpenti che chiudono in un sacco e se li portano a casa. Uno di loro mi fece vedere come faceva a renderli innocui. Li prendeva con gran suo pericolo, ma con incredibile destrezza, per il collo, e tenendo loro aperta la bocca, rompe il dente del veleno, poi li stimola, li aizza finché stanno ritti sulla coda ingrossando il collo in modo spaventoso. Questo è il più bel gioco che fa; ne fa degli altri, ma non valgono nulla. (ivi;219).

"7 dicembre 1881. Il camerone che dovrà servire da chiesa è finito, cioè finito il tetto e la muratura, e pel momento serve da chiesa e da dormitorio dei ragazzi con Pietro; io resto nella tenda sempre; la camera di dietro, che servirà da sacristia, serve al momento per stalla, perché già più volte tentarono rubarci le vacche e se non era la bravura di Medoro, che inseguendo i ladri e abbaiando insegnò ai neri il luogo dove erano, si sarebbero perdute per sempre. Abbiamo celebrato le festa di Natale qui dentro. Certo non vi sarà luogo al mondo dove il Signore scenda in mezzo a tanta povertà. I muri di terra, senza pavimento, per finestre il riparo di una semplice stuoia! Proprio al punto dell'elevazione alla messa di mezzanotte , non so come, si staccarono due buoi e vennero fuori in chiesa! Non ci mancava che l'asinello! Ma quanto raccoglimento nei neri! Oh! il mio cuore giubila; essi sono cresciuti già fino a 180 e la chiesetta è piena, e vi si sta con devozione. Quando uno arriva nuovo, non sa naturalmente come mettersi, ma subito gli altri lo spingono vicino alla panca, lo tirano per le braccia, pei piedi, fino che è in ginocchio. Se uno dorme, subito il vicino gli dà una gomitata da svegliare un morto, quando predico o faccio il catechismo alle domeniche. Mi rispondono nella predica: "Hai ragione, padre, bisogna esser dabbene, ricevere il battesimo, altrimenti andiamo all'inferno. Il vecchio Fadelmula Michele mi si mise in ginocchio dinanzi mentre predicavo e disse: "Padre, dammi subito il battesimo, perché io sono uno scellerato che andai alla guerra, e uccisi uomini e donne e fanciulli, e coll'anima in questo modo, se non mi aiuti, mi danno. Stanno là incantati davanti al presepio, e aprono le loro larghe bocche ad un sorriso di compiacenza al veder il re moro che adora Gesù Bambino .(ivi; 220-221).....(omissis)

"10 agosto 1889. Una novità grande. Monsignore venne qui e mi fece chiamare in camera. Mi raccontò che era molto angustiato per la partenza di d. Vicentini da Suakin... D. Carlo, rimasto solo, domandava con istanza un compagno... Chi mandare? Vidi la sua tristezza e ne indovinai il pensiero: "Monsignore, dissi, se crede che vada io , sono pronto". "Grazie" rispose monsignore, baciandomi in fronte, tanto m'aspettava da voi, grazie, preparatevi e venite” (ivi, 233). Rimase ancora 6 giorni a Gesira. "Il giorno della partenza fu terribile per me e pei miei neri. Non avevo detto nulla a nessuno, ma se ne accorsero quando videro portar via la mia roba. Allora fu come una rivoluzione, un gridare, un piangere, un correre dietro al carro che mi portava. Sia fatta la volontà di Dio. A me pure costò moltissimo, perché infine li amavo i miei neretti, tanto che avrei dato la vita per la salvezza di ognuno di loro". (ivi, 235).

Il 25 agosto s'imbarcò a Suez, e il 1 ottobre si era già "installato letteralmente nella camera libera della vecchia catapecchia che teniamo in affitto per abitazione in questa cittaduccia" (ivi, 236).

In pochi anni, scrive p. Tappi, provvide la missione di casa, scuola e chiesa, e altrettanto fece nel 1894 quando fu trasferito a Héluan....(omissis)

P. Capovilla non trovò nel diario di p. Giacomelli alcun cenno alle divergenze che afflissero le relazioni tra i missionari anziani del Comboni e i religiosi usciti dal noviziato di Verona. I dissidi pero si accentuarono dopo il 1890, e il diario arriva solo al 1889. Se ne ha invece qualche cenno nella sua corrispondenza, ma molto attenuato. P. Giacomelli e p. Geyer secondo una lettera di p. Sembianti del 29 giugno 1894: "in addietro pare siensi mostrati propensi di entrare nella congregazione" (A/42/16/94). In seguito mantenne intimi rapporti con l'istituto, ne volle per molti anni qualcuno in aiuto a Héluan, affidò la parrocchia, scuola e collegio durante il suo "esilio" in Spagna, durante la prima guerra mondiale, dove era andato per sfuggire l'internamento, e lasciò quanto aveva a Héluan alla congregazione alla sua morte. Scrisse p. Capovilla, "la sua memoria sarà sempre in benedizione" (SPV, 82).

Da P. Leonzio Bano, Missionari del Comboni 4, p. 31-44