In Pace Christi

Gozo Giuseppe

Gozo Giuseppe
Fecha de nacimiento : 24/11/1893
Lugar de nacimiento : Savona/I
Votos temporales : 01/12/2017
Votos perpetuos : 22/12/1918
Fecha de fallecimiento : 23/12/1918
Lugar de fallecimiento : Brescia/I

GLI ANTECEDENTI

            I dati anagrafici li ha scritti egli stesso di sua mano nel Libro del Noviziato, n. 301: "lo, Gozo Giuseppe, figlio di Girolamo e di Tommasina Martinengo, nato a Savona il 24 novembre 1893, sono entrato nella casa di noviziato dei Figli del Sacro Cuore di Gesù in Savona il giorno 27 ottobre 1916, e ho vestito l'abito religioso in qualità di studente il 13 novembre 1916".

            Ma i dati anagrafici e quanto sopra riferito, sarebbero ben poca cosa, se non avessimo un breve profilo, scritto dalla sorella Angiolina, stampato dalla nostra tipografia di Verona nel 1920 col titolo: Giuseppe Gozo, pp. 142. Siccome il libro non è certo reperibile ai nostri giorni, attingeremo da questa fonte ulteriori particolari sulla sua vita di famiglia.

            Nella regione 1igure il diminutivo vezzeggiativo di Giuseppe è Pippo, e così era chiamato in famiglia e lo chiameremo anche noi finché la 1ascierà. Naturalmente, il Pippo ventenne non è il Pippo adolescente. D'altra parte un bel quadro deve avere le sue ombre. La sorella perciò completa il quadro, affinché si possa vedere come la grazia, unita ad una educazione forte e accurata, basata sullo spirito di sacrificio da una parte e dall'altra, può trarre dell'ottimo donde meno si attende.

            La sorella c'informa che Pippo era il nono figlio della famiglia, il terzo nato a Savona, perché gli altri sei erano nati un po' qua e un po' là, dove i genitori avevano peregrinato per ragioni d'ufficio, finché avevano potuto fare ritorno alla citta natale.

            "Il piccolino cominciò subito a soffrire. La mamma non era in grado di allattarlo e fu affidato ad una nutrice in campagna, la quale, di poca coscienza, in mancanza di latte, lo nutriva di vino. Naturalmente il bimbo deperiva. Conosciutone il motivo, dopo quattro mesi, un'altra balia, più vicina a casa e più coscienziosa, continuò ad allevarlo. Ma tutte le cure affettuose non poterono impedire che le sofferenze e la inedia dei primi tempi portassero il loro effetto. Fu seriamente ammalato e un giorno papà si senti chiedere telefonicamente un abitino nuovo per comporre il bambino nella bara.

            Invece si riebbe, dopo l ungo soffrire; divenne svelto, intelligente, e all'età di cinque anni era magro ma forte, pieno di energia e di appetito. Straordinariamente vivace, la sua vivacità lo mise più volte in pericolo. Lo ricordo piccolino cadere da un palco dall'altezza di qualche metro, restare privo di sensi per qualche momento, poi ritornare subito alla solita vivacità. Un'altra volta, un po' più grandicello, cadere dall'altalena e restare come morto. Trasportato a letto cominciava ben presto a respirare, mormorando a mezza voce: "Gesù mio misericordia!". Credeva di morire. Una mezz'ora dopo era a tavola con gli altri.

            Le condizioni pietose della sua prima infanzia e l'essere rimasto sempre il più piccino (una sorellina nata dopo di lui se ne volò in cielo appena nata) gli avevano acquistate le predilezioni di tutti di casa. La mamma era forse la meno indulgente alle continue scappatelle di questo birichino. La differenza di carattere dall'altro fratello, cosi sottomesso e diligente, le metteva timori sulla buona riuscita di Pippo, e se ne sfogava con papà. Che ne faremo di questo figliolo?

            All'epoca in cui Pippo era stato malato si faceva il processo di beatificazione del beato Perboyre, missionario e martire in Cina, e a lui si era sempre attribuito l'esito buono delle cure che l 'avevano risanato. Or dunque papà rispondeva: il beato Perboyre ci penserà, ne farà un missionario come lui!

            La vita che gli era mancata nei suoi primi anni sovrabbondava ora in questo corpicino tutto nervi. Il continuo saltare era per lui una necessità; la vita a tavolino un'agonia; quindi lavori buttati giù a casaccio. Che scarabocchi in quei quaderni! Le lezioni affidate con una lettura alla memoria assai pronta, e poi via di soppiatto in giardino. Ma quante volte il rumore lo tradiva, e una voce imperiosa gli intimava il retro-front!

            E non servivano l'intercessione e le lacrime delle sorelle (quando era in castigo): lui solo non si commoveva, capiva perfettamente che meritava la punizione, ma non si sentiva di promettere, perché non si sentiva coraggio di mantenere. Vi fu una volta che, non osando di presentare la pagella scadente come l'aveva meritata, pensò di correggere i punti; come il solito la ciambella non gli riuscì col buco. Conviene però ricordare che non serbava rancore alcuno per essere così spesso punito, anzi, appena uscito dal castigo, era pronto a rendere un servizio. E quando la mamma doveva in punizione negargli il piacere di uscire con gli altri, egli diceva: andate pure tranquilli, non vi preoccupate di me più di un topolino che lascierete a casa.

            Così fino ai dieci anni. Il 1904 fu per lui e per tutti un anno di tregua, perché dovette forzatamente curarsi la vista e lasciare la scuola. La sua condotta in casa ne guadagnò; mamma profittò di quella forzata vacanza per prepararlo alla prima comunione. Ogni mattina andava a servire la messa dalle suore, poi le istruzioni, qualche commissione fuori casa, che adempiva sempre bene e con piacere; le visite alle nipotine che sopra tutti amavano zio Pippo, e la giornata passava assai più tranquilla d'una volta. S'accontentava perfino dei giochi meno rumorosi e anch' egli prendeva parte alla chiesetta, il piccolo altare di legno coi relativi apparati, che aveva formato la delizia del fratello Vincenzo, ormai in collegio. Per le grandi feste comperava, con i suoi risparmi, tante minuscole candele, e invitava le sorelle e i cuginetti a sentire il discorso, copiato s'intende da qualche libro. Le cose andavano avanti seriamente, e la funzione finiva sempre con canti devoti accompagnati dal suono della sveglia, in mancanza di altri strumenti musicali.

            Riposavano i libri, lui e noi pure; però non gli mancavano occasioni di vincersi, e quel ragazzo di carattere pronto, irrequieto, golosetto, le sormontava per mettere insieme tanti fioretti per il gran giorno, che fu il 9 aprile festa del patrocinio di S. Giuseppe, nella chiesa dei padri Scolopi, suoi buoni maestri. Non ricordo nulla di speciale di lui in quel giorno. In seguito trovai un libricino di note in cui era scritto, nella sua calligrafia da bambino: Il giorno della prima Comunione è il più bello della vita.

            Aveva 5 anni quando cominciammo a passare la stagione della campagna a Dego, in una villetta in mezzo ai prati (al Colletto), Pippo era diventato presto l'amico di tutti i contadini che venivano al pascolo e a lavorare nei campi attorno alla casa: aveva aiutato tutti a raccogliere la meliga e le patate; a seminare il grano, a custodire le pecore, a mangiare le bruciate cotte sulla cenere di un bel fuocherello all'aria aperta. E pur divertendosi era tanto servizievole e non gli importava di sudare e pungersi per cogliere i bei cestini di more, che piacevano tanto alla mamma, ma sapeva anche mortificarsi non gustandone nel coglierle. Mamma aveva inoculata bene questa lezione!

            La posta in campagna è attesa come una festa, e Pippo aveva l'incarico di ritirarla quando, nel pomeriggio, nessuno aveva il coraggio di affrontare quel buon chilometro di strada al sole, che ci separava dal paese. "Pippo, è l'ora della posta!" E si levava dal suo solenne russare sull'erba e via, da ragazzo dietro al cerchio, da giovinetto sulla bicicletta; in pochi minuti andava e tornava, non senza essersi fermato un momento in chiesa a salutare il Signore, e qualche volta presso il suo amico calzolaio che gli regalava le punte di spago per le sue fruste. Tutti lo conoscevano e lo vedevano con piacere; in paese, quando arrivava alla posta colla borsa a tracolla che portava le iniziali G.V. lo chiamavano la grande velocità. I contadini dei dintorni sapevano tutti chi era, e la presentazione più precisa della sorella era quella di "sorella di Pippo".

            Come gli piaceva stare al Colletto e come si interessava di tutto quello che succedeva! Parecchie volte nella primavera mamma vi andava con uno di noi per una quindicina di giorni; naturalmente quelli rimasti a casa e quei che partivano restavano sempre legati da una fittissima corrispondenza, a cui Pippo pure prendeva parte con tutta la sua innocente ingenuità. Aveva dodici anni quando dalla città scriveva a noi ch'eravamo a Dego: "Quanti bambini ha quest'anno Giullina? Quante bestie hanno al Colletto? È cresciuto Delio? Pina, manda dei fiori campestri che non ne abbiamo più, e poi sono tanto belli, hai capito? Scrivimi una lettera di sei facciate di copia e così anche la mamma. Il garofano del giardino è rosso, ha più di trenta bottoni, dopo averne levati tanti - Pippo".

            "Fa tanto caldo che ho dormito in terra sul tappeto - Sono andato a confessarmi. Pippo". "Dì a mamma che mi mandi un soldo dei miei, per comperarmi una granita".

            Durante l'assenza di mamma la cura spirituale di Pippo toccava alla sorella Nina; mentre ordinariamente mamma si curava dell'anima, Nina del corpo (quante volte gli correva dietro per tutta la casa per pettinarlo colla riga!) e fra tante lacrime, toccava a chi stende queste memorie la sorveglianza scolastica. Quando mamma non c'era e Pippo voleva andare a confessarsi, Nina doveva aiutarlo nella preparazione: egli si sdraiava in terra sul tappeto accanto al letto e ad ogni ricordo che Nina risvegliava di mancanze commesse, rifletteva un momento e poi: avanti: Per indurlo a pentirsi non ci volevano lunghe esortazioni, che lui tagliava corto con un: ci penso io! E mamma faceva il confronto fra lui e il fratello che bisognava calmare perché si commoveva troppo, e pregava più intensamente per questo figliolo.

            Ricominciava l'anno scolastico e ricominciavano i guai: nei lavori di latino, per non darsi la briga di sfogliare il vocabolario, inventava termini (ed ancora oggi i cuginetti in casi simili dicono: come inventerebbe Pippetto). Lezioni studiate all'ingrosso; temi svolti alla svelta e trascritti alla peggio. Immancabilmente le lezioni dovevano essere ripetute prima di partire per la scuola, ma andava a farsi ripetere da tutti sperando, inutilmente, di trovare chi lo approvasse, che la colpa delle risposte date a sproposito era sempre di chi non sapeva interrogare. Forse eravamo un po' esigenti?

            Certo lui non era diligente e quel sistema di sorveglianza continua sui suoi doveri di scuola gli pesava assai e andava dicendo che ai suoi figlioli avrebbe lasciato più libertà. Aveva dalla sua un grande argomento: egli era sempre promosso, ma per sua disgrazia, perché arrivò alla quarta ginnasiale cosi impreparato che il professore non voleva tenerlo nella classe. Si cerco di supplire con lezioni private, ma lo sforzo di volontà che gli si domandava, era troppo, e mentre il maestro si sforzava di cacciargli in testa una regola di grammatica, Pippo gli contava i bottoni della sottana!

            Così quell'anno avvenne il primo naufragio, purtroppo atteso e spaventoso: quattro terribili materie da riparare per essere promosso alla quinta ginnasiale; solo lui non se l'aspettava; era stato sempre fortunato! Ma forse aveva ragione il P. Cocchi: non c'è da preoccuparsene, un po' d'umiliazione gli farà bene. In seguito a questo disastro cominciò a svegliarsi in lui quell'energia di volontà che fu sempre la sua grande dote.

            Per tutta la giornata della sconfitta non uscì di camera sua, si era punito da sé, era davvero confuso; buon segno. Le nipotine per cui zio Pippo era sempre stato il miglior amico dei giochi, non potevano capire questo contegno e l'attribuirono alla severità del nonno, che l'avesse confinato laggiù, e pian piano si avvicinavano all'uscio per consolarlo, ma non attaccava conversazione neppure con loro. Pippo aveva capito la sua posizione e non osava presentarsi; davvero gli avevano dato quel che meritava, in casa non avevano avuto torto a predirglielo.

            Si partì anche quell'anno per Dego, ma povero Pippo, che bagaglio di libri... non importa. Passato il primo sgomento ritornò la sua solita disinvoltura o meglio il suo carattere forte; bisognava sottostare ad un orario, prendere delle lezioni, rinunciare a tante belle cose; era inteso, se l'era meritato e basta. Così ragionava e ogni giorno partiva per Carcare al Collegio degli Scolopi, e si consolava con quelle volate in bicicletta, delle gite più belle a cui doveva rinunciare. E dovette rinunziare a tutte; però, col solito buon cuore, si occupava di preparare lui le borse per i partenti e con vero interesse voleva sapere al ritorno tutti i particolari delle belle giornate passate sui monti.

            A ottobre fu promosso, ma fu prudente fargli cambiare istituto, e l ' ultimo anno frequentò il ginnasio civico, ove coi metodi più blandi il suo ingegno pronto trionfò con poca fatica. Ed è forse a questo anno che egli pensa più tardi, quando parla degli sfoghi naturali del cuore giovinetto, dovuti alle compagnie delle scuole o a qualche leggerezza, che una sola parola di severo stupore della mamma era bastata a dissipare. Era evidente che questo ragazzo aveva bisogno forse più di tanti altri di espandersi; il suo carattere gioviale lo rendeva simpaticissimo a tutti, e tutti gli erano buoni amici, grandi e piccoli. Questa simpatia sì pronta, così generale, era di per se stessa un pericolo: dove lo avrebbe trascinato, quando l'occhio vigile e affettuoso che l 'aveva guidato fin qui non avesse potuto seguirlo?"

            Per il liceo i genitori lo affidarono al Collegio dei Gesuiti di Cuneo, che godeva ottima fama. Vi si trovava P. Giuseppe Picco, morto in concetto di santità a Gozzano, e che come padre spirituale tranquillizzava la famiglia, perché il fondo del ragazzo era buono e non si stupissero se gli permetteva la comunione ogni giorno. Questo perché le informazioni del rettore lo dicevano debolino nello studio e un po' sventatello, ma in ogni sua lettera Pippo spiegava sempre la causa delle note scadenti, più o meno dipendente dalla sua volontà.

            Contrasse anche amicizia con alcuni dei migliori collegiali, mentre negli anni precedenti ne aveva avuto in pratica uno solo, un certo Checco, suo cuginetto, col quale si riprometteva di fare tante belle gite in bicicletta durante le vacanze. Un giorno Checco manca all' appuntamento, va a cercarlo in casa e gli dicono: "Checco è morto!". Fu per lui una impressione vivissima assai dolorosa.

            Nell'ultimo mese di collegio tenne anche un diario. Strano questo ragazzo che si compiace di scrivere in un diario, come una giovinetta, i suoi sentimenti più intimi e sente tanto viva la nostalgia della casa, e mai ha sparso una lacrima lasciandola, ma sempre è partito sorridente.

            Che cosa farà ora? A quali studi si dedicherà? Gli sarebbe piaciuto fare il medico, studiare da ingegnere, e non sapeva decidersi per nessun ramo. Intanto era stato promosso agli esami pubblici.

Uscito dal collegio, egli dice: "Cosa strana, nessun ramo di studi mi allettava, nessuna carriera mi pareva abbastanza capace per appagare il cuore dell'uomo". Allora seguì il consiglio di papà e si diede agli studi commerciali. Furono tre anni di studi intensissimi, difficili, specialmente per quelli che li iniziano dopo il liceo, con una cultura più vasta, ma una preparazione meno adatta alle numerose materie che richiedono una grande e continua applicazione. Il ragazzo sventatello del ginnasio, il giovanetto incerto del liceo è diventato un giovane serio, risoluto, tutto dedito allo studio. Come mai questa trasformazione quasi improvvisa? Neppure lui lo sapeva.

            Per frequentare l'Università di Genova, alloggiava presso un giovane sacerdote, don Conte, che accoglieva giovani studenti e li assisteva. Un giorno papà gli domandava: "Come si regola mio figlio a Genova? - "Come si regola? Ma Pippo dà esempio a me!"

            La mattina si alzava presto, e i parrocchiani di S. Donato lo conoscevano per la sua assiduità alla Messa e alla comunione. Poi la scuola, le lunghe ore di studio nella sua cameretta o in biblioteca; la conversazione piacevolissima di don Conte e suoi ospiti, qualche gita con lui e i suoi ragazzi, qualche scappata all'Istituto Arecco dei Padri Gesuiti, dalla zia Luigina Superiora delle Suore della Carità a Marassi, qualche visitina a qualche parente, quelle ai poveri come confratello della S. Vincenzo, e poi a casa il più spesso possibile, ma non più di ogni quindici giorni. Ma per studiare nella sua carnera.

            Mamma avrebbe voluto che si trovasse un amico per condividere studi e appoggiarsi nelle comuni difficoltà. Ma Pippo preferiva stare così. Del resto, diceva alla mamma: "appena finiti gli studi mi cercherò un'amica".

            I progetti del primo anno però si andavano modificando, e al secondo, al terzo specialmente e soprattutto nell'attesa della laurea, una attrattiva potentissima tutto lo assorbì: essere missionario! Dove la causa? Neppur lui lo seppe mai, ed è il segreto di Dio. Ma nessuno seppe mai che questo era il movente di tutte le sue azioni. Solo il fratello Vicenza l'intuì e disse un giorno in casa nella primavera del 1916: "Non mi stupirei che Pippo si facesse prete".

            Però ci accorgevamo che egli era diventato molto pio, e nello stesso tempo, a modo suo, più espansivo. Tante volte, e questo specialmente nel 1916, la mattina quando ci alzavamo, Pippo non era più in casa. Qualcuno nel sonno l'aveva udito chiudere la porta di casa e quelle mattine veniva un po' più tardi a fare colazione. Era stato al Santuario della Madonna della Misericordia. Queste gite si ripetevano sovente, anche nell'inverno, senza dirlo a nessuno, perché non lo distogliessero. Papa e mamma che erano a parte del segreto… lasciavano fare, con piacere.

            Espansivo Pippo non era stato mai, ma affezionato tanto. Qualche volta le sorelle avrebbero desiderato anche qualche manifestazione esterna di questo affetto, ma, come fanno in generale i fratelli, preferiva mostrare la sua tenerezza con degli scherzi, e li studiava per farci indispettire, perché sapeva  che in fondo ci faceva piacere. Spegnerci di sorpresa la candela in mano, due, tre, quattro volte quando, in campagna, si stava la sera per portarci nelle nostre stanze; involarci improvvisamente il libro di lettura e fuggire…  eran dispettucci frequenti. Noi protestavamo, ma si provava gusto, e papà aveva l'immancabile frase: "siete sempre ragazzi!"

            Questo specialmente nell'ultima estate. Negli ultimi mesi che restò a casa voleva espandersi, voleva godersi, lasciarsi godere e non poteva parlare perché non voleva amareggiarci. Voleva nascondere, se era possibile, lo strazio della separazione che egli solo vedeva vicina, e sopportarlo tutto da solo col tenerci lontani dai suoi progetti. Qualche volta mi era venuta l'idea che Pippo meditasse un progetto di partenza; poi il suo fare disinvolto, quantunque un po' meno socievole ultimamente, i suoi progetti tanto seri riguardo ai suoi studi, il suo probabile prossimo impiego, e sopra tutto il suo attaccamento alla casa mi facevano dimenticare i miei dubbi.     Una sera d'inverno del '15 era passato dalla camera mia per darmi la buona notte, con un viso cosi diverso dal solito, e m'aveva guardato come quando voleva e non voleva parlare, ed era andato in camera di papà e mamma... Che avesse qualche cosa di grave da dire? Non sentii le sue parole, ma la risposta di papà: "Ti ho già detto che di queste cose non voglio parlare…" Che cosa erano queste cose? Nulla di male certamente, perché Pippo diventava tutti i giorni più sottomesso e condiscendente … era il nostro esempio. Quante volte lo sentivo la sera entrare in camera di mamma e chiedere scusa di qualche piccola mancanza, o se gli era sfuggita qualche parola più focosa davanti a noi, domandarne perdono innanzi a tutti!

            Però un giorno ebbi un barlume. Pina aveva con insistenza domandato (marzo 1916) di entrare in convento; sapevamo da tempo la sua intenzione. Da una certa frase di papà a questo proposito mi venne un sospetto su Pippo e cercavo il momento opportuno di 1evarmi da quella incertezza. Finalmente la sera uscimmo insieme, andammo in biblioteca per una sua ricerca, poi sul porto mi fece osservare tanti lavori, mi spiegò tante cose, ma il mio pensiero era sempre a quella domanda che gli volevo fare, e appoggiata al suo braccio, tenendoci per mano, come sempre si faceva, lo guardavo e parlavo poco. Finalmente quando fummo sulle scale, fattomi coraggio gli chiesi: "Anche tu un giorno farai come Pina?".

            "Oh! Io non faccio queste cose!"

            Ne ebbi abbastanza. Mi avesse risposto un si chiaro e tondo non si sarebbe spiegato meglio.

            Nel maggio 1916, quando credeva di essere alla vigilia della sua grande partenza, gli toccò superare una terribile prova, un vero martirio anticipato per la santa causa a cui voleva tutto dedicarsi.

            In seguito al cattivo allattamento e l'infermità sopportata nei primi tempi della sua infanzia, la conformazione del viso aveva subito un'alterazione per il mancato sviluppo di una mascella. Questo non era però il maggior danno, tanto più che l'espressione di vivacità e di intelligenza gli aveva sempre attirato tutte le simpatie, nonostante tutto; ma lo sviluppo anormale della mascella destra aveva impedito l'articolazione, e Pippo a 22 anni, come quando era piccolo, non apriva la bocca più di due centimetri, né metteva fuori più della punta della lingua; ciò nonostante mangiava in modo portentoso.

            Papà e mamma si preoccupavano per l'avvenire e l'avevano fatto visitare da un bravo professore, il quale però non seppe incoraggiar1i a tentare una operazione, temendo si sviluppasse chissà quale infezione in una bocca chiusa da più di venti anni! E Pippo diceva: "Lasciatemi in pace, sono vissuto benissimo fin qui, vivrò anche per l'avvenire". In seguito però venne qualche doloretto di denti, qualche infiammazione in bocca, qualche leggero mal di gola. Non gli si poteva far nulla, assolutamente nulla, neppure guardargli in bocca. Ma quando maturò la vocazione missionaria, fu lui a rinnovare la questione, volle di nuovo sentire il professore, che di nuovo lo dissuase dall'operazione, rimettendo ad ogni modo tutto al dopo la guerra. Ma ora, mentre l'autorità militare lo riformava, non avrebbe potuto farsi curare, ed esser cosi pronto per dedicarsi alla sua missione?

            Vi furono incertezze da parte di papà e mamma, nessuna da parte sua. La sua risoluzione vinse ogni titubanza; il 18 giugno partì per la casa di cura del prof. Rolando di Genova e il 19 la mamma lo raggiungeva. Partì allegro come il solito, e temendo che lassù lo mettessero a dieta da ammalato, pensò di fare una buona cena da sano prima di entrare. Non perdeva mai il suo buon umore e il suo appetito. Soleva dire: "Io sposerò una ragazza di buon appetito, perché non faccia mai preparare minestrine!"

            Il domani 20, mamma aspettava in cappella che i dottori finissero la loro tortura su quel viso che si contraeva sotto i ferri, quando vennero a dirle: "Il professore vuole parlarle! " Ma la suora non sorrideva soddisfatta come dopo un'operazione ben riuscita!

            Il professore aveva trovato, con sorpresa, una parte callosa che non si poteva rompere senza timore di danneggiare il cranio e perciò non riteneva di continuare l'operazione senza un ordine dei parenti. E Pippo? Pippo aspettava disposto a soffrire ancora e incoraggiava il professore, disposto anche a morire se Dio voleva. Naturalmente l'operazione fu sospesa, curata la ferita e Pippo ritornò in camera a far coraggio a mamma poveretta!

            Si temeva la febbre: nulla. Ogni mattina scendeva per la messa e la comunione in cappella; stava alzato quasi tutto il giorno; usciva anche un poco, aspettando che rimarginasse la ferita. Cominciava la novena del S. Cuore e Pippo tutto a Lui si affidava: non soffriva forse tutto per consacrarsi a Lui? La ferita si cicatrizzava più presto di quello che si credeva e il professore studiava il modo di salvare quel paziente che aveva tanta buona volontà di farsi curare. Dopo qualche giorno propose di tagliare la mascella al lato destro del mento, adattarsi cioè ad una operazione di ripiego, visto che non era stato possibile riattivare l'articolazione col primo taglio. Pippo non esitò un momento. L'organismo si mostrava cosi forte che il professore suggerì di tentare e dava buone speranze.

            Pippo si disponeva pregando con fiducia e coll'animo più sereno del mondo. I parenti, gli amici, i compagni di scuola andavano a trovarlo, ed egli narrava i particolari dell'operazione, faceva loro vedere i ferri che dovevano segare le sue ossa, come fossero gingilli.

            Il giorno scelto pel secondo taglio fu l'ultimo venerdì di giugno, festa del S. Cuore. Poteva darsi coincidenza migliore? Arrivammo in camera sua mentre aspettava lo portassero in sala operatoria: era allegro, disposto anche a una terza operazione, se non fosse riuscita questa seconda.

            Noi andammo in cappella ed egli di nuovo sotto i ferri, sempre perfettamente sveglio, incoraggiando i dottori che sudavano e trovavano sempre nuove difficoltà. Per appianare la via alla sega, il dentista dovette estirpare un dente perfettamente sano; il professore si stancò, si stancò l'aiutante, ma non si stancò il paziente in mezzo agli atrocissimi dolori che gli strappavano delle grida. Era troppo grande il Cuore in cui si era rifugiato, perché potesse mancargli il coraggio.

            Quando però rientrammo in camera e ci accolse tutto bendato, ci mostrò la bocca che si apriva, con le lacrime agli occhi. Si lamentava un po' per il dolore della ferita, ma voleva sempre parlare quantunque lo facesse con difficoltà. La suora ci consigliava di stare zitti, perché egli non sapeva resistere alla tentazione di prendere parte al discorso. Quando i dolori si calmavano, scherzava sul suo stato.

            Rimase nella casa di cura per una ventina di giorni. Non era sopraggiunta la febbre, nessuna infezione in bocca, tutti i denti trovati buonissimi, ma la ferita delicatissima richiedeva la sorveglianza del dottore. Stava alzato tutto il giorno; ogni mattina in cappella per la messa e comunione; poi studiava per ultimare la sua preparazione alla laurea, quanto potevano permetterglielo le forti nevralgie prodotte da un taglio cosi profondo attraverso la mascella. Dormiva poco, e ogni ora doveva regolarmente, nella notte come di giorno, fare esercizio con un cuneo introdotto fra le due mandibole, per impedire ai nervi di riavvicinarsi e per indurre la bocca ad aprirsi il più possibile. Passava qualche mezz'oretta con gli altri malati, che incuorava facilmente con la parola e con l'esempio; scendeva in giardino, dove la suora incaricata dei fiori era tanto grata al signorino che l'aiutava ad innaffiare.

            Il giorno 14 luglio, ancora tutto bendato, si presentò alla commissione per difendere la tesi di laurea. Qualche giorno prima scriveva a casa: "Il giorno dell'esame non è ancora fissato, fra il 12 e il 15. Speriamo di poterlo fare: sarà facile che vada male, perché non sono punto preparato, e temo di non conoscerne l'importanza e le difficoltà. Se andrà male me la piglierò in pace, come anche se non potessi presentarmi. Vorrà dire che il Signore non vuole mi insuperbisca riportando due vittorie in una volta, cioè operazione e laurea. Sono spiacente dell'accenno che mi fate in tutte le vostre lettere riguardo all'interesse che la mia operazione ha suscitato costì. Venendo a Savona, certamente vorranno lapidarmi, perciò non mi farò vedere tanto presto, o venendo me ne starò chiuso in casa, facendo pagare una tassa a chi mi vorrà vedere, e un'altra per vedere la lingua, la bocca, ecc. Cosi ci rifaremo delle spese". Il tipico genovese.

            L'esame andò benissimo e ne usci dottore con una splendida votazione. Tornò a casa finalmente alla fine di luglio e partì per la campagna. Era però meno socievole. Preferiva uscire solo, con la rete per la pesca. In agosto e settembre dovette assentarsi parecchie volte. Tornò finalmente ai primi di ottobre. Il 10 mamma ci disse che Pippo voleva andare a fare gli esercizi. Gli esercizi? E presso i padri dell'Africa? Allora capimmo che non sarebbe tornato più.

            Lui infatti pensava di restare in noviziato dopo gli esercizi senza più ritornare in famiglia. Ma tutti, specialmente la mamma volle che tornasse almeno per qualche giorno. Ubbidi e torno. Ma quanto ci costarono quei pochi giorni. E lui sempre sorridente.

            "Voi perdete me solo, io perdo tutti". Poi quando ero più triste: "Non piangere, ti farò un bel regalo" - "Un bel regalo? Che me ne importa se te ne vai?" - "Oh, ti farà piacere ... è tanto tempo che lo preparo".

            Era troppo sicuro e deciso, e non avrei voluto distoglierlo davvero. Un giorno mi disse: "Non lamentatevi, la colpa è vostra se io parto per essere missionario; non mi avete sempre raccomandato al beato Perboyre?" - "E se il Perboyre ti volesse in tutto simile a sé?" - "Cosi fosse!".

            Nessuno dei numerosi amici di Dego poté supporre che Pippo fosse alla vigilia di diventare novizio. Gli arrivavano intanto varie proposte d'impiego assai attraenti, ed egli con loro ne parlava tranquillamente dicendo a tutti che non sapeva quale scegliere. La sua scelta era già fatta, era la migliore, ma a quale prezzo!

            Non volle informare nessuno dei tanti amici e conoscenti. Mamma gli diceva: "Almeno don Conte avresti dovuto salutare prima di entrare in congregazione" - "Non tocca a me dare queste notizie; sono i parenti che comunicano la morte di quei di casa". E non ne parlò assolutamente, con nessuno, né parenti, né amici, ma fino all'ultimo sempre così, sempre affabile e faceva coraggio a noi.

            Il 27 ottobre alle 5 di sera ci lasciò. Prima d'andarsene, in ginocchio, domandò perdono a papà e mamma. Non li aveva largamente compensati delle sue birichinate fanciullesche coll'ottima condotta degli ultimi anni? Papà e mamma lo benedissero. Egli era tanto commosso. Papà e Pina l'accompagnarono fino a Valloria. Io lo baciai ancora sulla porta mentre mi spingeva indietro dicendomi: "Ti ho lasciato un libretto sotto il cuscino". Era il suo ultimo dono che mi preparava da tanto tempo. Dono che è ora tutto il mio tesoro, e ... ben inteso, che io lessi tutto quella notte, fra lacrime di tenerezza, rimpianto e anche di riconoscenza al Signore". ....(omissis)

NOVIZIO

            "Il 13 novembre 1916 - Festa di S. Stanislao Kostka. Al mattino dopo la meditazione vestizione di fr. Gozo, primo savonese della nostra congregazione. Assistevano all'augusta cerimonia i suoi genitori, modelli per la generosità con cui hanno fatto il sacrificio a Dio del loro figlio". Così il diario degli Scolastici (e Novizi) di Verona-Savona, 1914-1921. Qualche giorno dopo lo videro anche altri familiari. La sorella Angiolina lo descrive così: "Era un bel pretino, con barba folta e scura, con zucchetto e cintura. Ma quando il P. Maestro ci domandò se ci piaceva così, non potei rispondere: avevo un nodo alla gola; il vederlo così trasformato rendeva sensibile il distacco".........(omissis)

L'ULTIMA VISITA A CASA

            L'ultima visita a casa fu 1'8 luglio 1918, la vigilia della sua partenza per S. Pellegrino col R.mo P. Generale, che ammalatosi a Savona, l'aveva preso per suo infermiere. Ahimè! Non lo rivedremo più.

            Da S. Pellegrino e poi da Brescia continuò la corrispondenza mensile. Le sue lettere mostrano il lavoro di quell'anima, che ormai s'attaccava solo alla volontà del Signore. Anche l'Africa, il suo gran sogno, passava in seconda linea, se Dio così voleva. Pareva prevedesse i disegni di Dio.

            Speravamo di rivederlo in noviziato per l'emissione dei voti il 13 novembre. Ma il Padre Generale, ancora lontano dalla guarigione, non volle privarsene, ed egli accettò anche questo sacrificio, pronunziando i voti "quasi profugo in terra aliena", come egli si espresse. Così nessuno di casa gli fu vicino nella grande giornata. Troppo tardi si seppe questa decisione perché fossero pronti in tempo i passaporti per Brescia (ch'era in zona di guerra).

            Ma non doveva tardare l'avviso di partire. Il Padre Maestro scriveva il 15 dicembre che da Brescia l'avvertivano che Fratel Pippo era affetto dalla febbre, che faceva stragi in quei giorni; nulla di grave però.

            Si chiesero subito notizie precise per telefono, ma prima che giungessero (in quei giorni v'erano gravi disordini nei servizi postali e telegrafici) papà era partito la mattina del 18; mamma non aveva potuto seguirlo come sperava fino all'ultimo, perché costretta a letto e vi rimase finche papà fu a Brescia.

            Pippo aspettava i suoi: fu felice di vedere papà, desiderava e chiese ripetutamente la mamma, ma ne capì l'impossibilità dell'arrivo. Sperava giungesse Vincenzo, ma arrivò troppo tardi. Domandò di tutti di casa, notizie di Savona, perfino del movimento del porto. Aveva qualche momento di abbattimento, ma in genere era sollevato. Il pericolo non era imminente, ma il caso molto serio, dati i numerosi e sempre nuovi focolai che si andavano continuamente formando nei polmoni. Avrebbe vinto la fibra robusta o la violenza del male?

            I dottori davano speranze, lo visitavano più volte al giorno. Appena arrivato papà si fece un consulto con un distinto professore; la speranza non mancava. ....(omissis)

EPILOGO

Nella primavera del 1920, se ben ricordo, perché non trovo documenti al riguardo, la famiglia ottenne l'autorizzazione per l'esumazione e il trasporto della salma dal cimitero di Brescia alla tomba di famiglia in Savona. Tutti i novizi parteciparono in gruppo con i familiari, amici e conoscenti, al rito che si celebrò nel cimitero di Savona, oltre il Lettimbro, lontano dalla città.

            P. Angelo Negri, che poco dopo sarebbe partito per l'Uganda, disse appropriate parole di circostanza, proponendo il caro estinto come un modello di vita religiosa e missionaria. Forse lui non ha ora bisogno dei nostri suffragi, perché lo pensiamo già in possesso della visione di Dio, ma noi abbiamo bisogno della sua intercessione per seguire il suo mirabile esempio di totale dedizione con lo stesso ardore e costanza. 

Da  P. Leonzio Bano, Profili Comboniani 1, p. 1-33