Mercoledì 8 luglio 2015
P. Giuseppe Cavallini, comboniano a lavorare in Etiopia, è uno dei partecipanti al XVIII Capitolo Generale dei Missionari Comboniani che si terrà a Roma fra due mesi. Recentemente ha scritto una breve riflessione legata al Capitolo, un po’ in replica all’articolo “Missionari reinventiamoci” di P. Francesco Pierli sulla rivista Nigrizia di marzo scorso. P. Pierli, 73 anni, è stato superiore generale dal 1985 al 1991. Ha fatto 29 anni di missione in Africa, tra cui 6 in Uganda e 23 in Kenya, dove si trova attualmente.

 

P. Giuseppe
Cavallini.

 

Riflessione
in vista del XVIII Capitolo Generale


“Missionari reinventiamoci!”,  titola l’articolo di Francesco Pierli su Nigrizia di marzo. Scritto nella prospettiva del 18° Capitolo Generale dei Comboniani, le ficcanti provocazioni che presenta, mi spingono ad una replica d’obbligo, ancor più perchè sarò tra i delegati al Capitolo. Quando leggo Pierli mi ritrovo, sul piano teorico, in assoluta sintonia con le sue analisi e la sua proverbiale capacità di leggere la realtà con il biblico trasporto dell’uomo dall’“occhio penetrante”! Ritengo encomiabile lo stimolo a riflettere che egli ci offre, in un tempo in cui tutti percepiamo quanto sia decisiva per il nostro futuro la sfida a ridefinire la “missionarietà” nel mutato e mutante contesto teologico-ecclesiale e della ‘missione globale’.

Che il criterio ‘geografico’ con cui tuttora si esercita la ‘governance’ dell’Istituto rappresenti una modalità ‘preistorica’ di gestire le Province è un elemento assodato ma che purtroppo non sappiamo superare, nonostante i reiterati tentativi di affrontarlo con maggiore serietà proposti in vari Capitoli… In verità, da decenni siamo alla ricerca (in sé mai conclusa…), di rinnovare l’identità di noi che – come singoli e come Istituto – di ‘missione’ ci nutriamo  e riempiamo le nostre giornate, nel tentativo di rispondere alle tante fedeltà  cui siamo chiamati: al carisma di Comboni, alla vocazione missionaria, alla collaborazione con le chiese locali, alla costruzione del Regno, all’opzione preferenziale per i più poveri e abbandonati ecc.

Nella recente Assemblea provinciale qui in Etiopia ci siamo chiesti tra l’altro: “Quale formazione per quale missione?”. Pierli giustamente afferma che da una formazione basata su documenti spesso datati e superati dalla storia (di Chiesa, d’Istituto, di Chiese locali ecc…) si deve passare ad una formazione che renda capaci di leggere l’evoluzione della società e del mondo oggi, comprendendone le dinamiche con l’aiuto offerto dalle scienze sociali. La capacità di analizzare in tal modo gli eventi permette a ogni missionario (laico o religioso) di aiutare la gente tra cui lavora a capire e agire, illuminata dalla fede, nella trasformazione positiva della realtà in cui vive.

La domanda che poniamo al Capitolo in merito alla formazione odierna, pertanto, non è ingenua, e intende stimolare i capitolari a chiedersi che figura di Comboniano emerge oggi, dopo il lungo curriculum previsto dalla formazione di base. Temo che a livello di spiritualità, di visione di missione, di consapevolezza della modalità in cui l’Istituto è governato, come pure di prospettive per il futuro, molti giovani comboniani abbiano le idee alquanto confuse. Se prendiamo per valido il principio che ‘a tempi nuovi’ necessitano ‘persone nuove’, stiamo dicendo che ‘re-inventarsi’ come Comboniani deve essere soprattutto impegno delle ‘forze nuove’ dell’Istituto. E comunque non può essere anzitutto opera di membri dell’Istituto che stanno velocemente giungendo alla fine della propria corsa, né di confratelli che nell’epoca ‘informatica-internettiana’ e dei ‘social media’ vengono definiti – talora con compassione - ‘nomadi’ piuttosto che ‘indigeni’ digitali, gente cioè che (come il sottoscritto…) sa servirsi in modo solo approssimativo di questi nuovi mezzi. Con questo non intendo dire, evidentemente, che siano le ‘nuove leve’ ad avere in tasca la soluzione ai problemi odierni dell’Istituto. Tra l’altro, va detto che il numero dei comboniani ‘stagionati’ appare sempre molto più alto di quello delle ‘new entries’, convinte spesso che a dettare legge siano in fondo sempre… gli stagionati! Va anche detto che è estremamente difficile conservare, nonostante l’età che avanza, la freschezza che permette di ‘ricliclarsi’ per saper rispondere in modo nuovo alle nuove sfide del nostro tempo.

Perché scrivo tutto questo? Perché tra i ‘nuovi ministeri’ che una rinnovata ‘autorità e governance dell’Istituto’ dovrebbe provvedere a istituire o promuovere, nelle proposte di Pierli, viene sottolineato quello della ‘comunicazione’, una crescente area di missione. Di fatto, ci sono decine di confratelli ‘a metà del guado’ (50/60tenni…) che si destreggiano con i ‘Nuovi media’ e si sanno servire di essi nella propria attività di animazione o di cura pastorale ecc. Tuttavia è di certo la nuova generazione comboniana che si sente in prevalenza votata – come ‘indigena digitale’, nata cioè con i media tra le mani – a impostare il proprio servizio missionario radicandolo nell’uso dei ‘social media’. Qui, tuttavia, si nasconde il rischio di una trappola mortale: invece che ad un miglior servizio missionario, l’uso dei media si rivela in molti giovani comboniani spesso così ‘personalizzato’ e… ‘fine a se stesso’, che si trasforma in inesorabile e imperdonabile perdita di tempo e perdita di senso! Spero che nessuno dei ‘nuovi comboniani’ me ne voglia ma, aldilà delle buone intenzioni espresse da Pierli in merito, ho la netta sensazione che l’ottimo strumento dei media stia diventando per molti un espediente per evitare i sudori che l’attività di evangelizzazione un tempo comportava. Insomma, come i mezzi di trasporto motorizzati, da un lato hanno facilitato l’opera missionaria rispetto ai tempi eroici del ‘missionario a piedi o in bicicletta’, ma possono anche trasformarsi in strumenti ‘ad uso privato’ per inutili e dispendiosi andirivieni invece che come strumenti per un miglior servizio alla missione; allo stesso modo i nuovi media rischiano di essere posti egoisticamente a servizio… di se stessi e del proprio bisogno di entrare nel giro dei vari ‘facebook’, ‘skype’, ‘twitter’ ecc. che aiutano il singolo a soddisfare il naturale bisogno di ‘essere riconosciuto’ dandogli la sensazione che ‘esiste’!

Peraltro concordiamo tutti che non sono i social media a farci ‘reinventare’ come missionari e come comboniani, e a ben guardare non sono necessariamente neppure le ‘specializzazioni’ e i ‘further studies’ cui sembrano mirare molti giovani comboniani, invece che desiderare un intenso, prolungato e concreto servizio missionario ‘sul campo’. Se infatti – come capita - non sono sufficientemente chiare nei singoli le motivazioni per cui è importante oggi dotarsi di preparazione socio-teologica e di conoscenze metodologiche e pastorali come quelle offerte dai corsi della facoltà universitaria di Ministero Sociale di Tangaza (e, d’altro canto, di qualsiasi altra facoltà di specializzazione in quasiasi continente…), si rischia di ritrovarsi con laureati e super-specializzati che, con la pretesa o l’illusione di sapere (e di insegnare) finalmente come va fatta la missione, rischiano poi di ritrovarsi frustrati e in crisi perché le proprie aspettative e i propri sogni vengono affossati dalle esigenze e dagli imprevisti che la missione per sua natura comporta.

Devo anche dire che in vari casi – nonostante le buone intenzioni di educare a vivere e lavorare ‘in squadra’ – come ancora afferma Pierli – quando si giunge alla realtà dei fatti si nota quanto sia difficile vincere l’innato istinto comboniano all’individualismo e all’auto-affermazione. Questo vale anche per chi è stato educato nel contesto del Social Ministry, quando arriva il momento di tradurre in effettiva e concreta collaborazione quanto elaborato in teoria. Se, come afferma Pierli, noi comboniani dobbiamo scoprirci più che mai ‘traghettatori’ verso un mondo nuovo e ministri che sanno promuovere fraterne relazioni interpersonali tra la gente, così da far percepire loro la presenza e l’azione dello Spirito, strada da fare ne abbiamo ancora molta.

Un’altra mia convinzione infatti – pur nel limite della mia quotidiana esperienza nella Provincia in cui lavoro - è che, aldilà dei reiterati propositi che si fanno nelle assemblee, negli incontri di comunità ecc. di vera contemplazione se ne vede ben poca, e credo siano solo una piccola minoranza i comboniani che dedicano davvero tempo sufficiente a incontro personale con Cristo, preghiera, lettura, studio della Bibbia e momenti di silenzio di fronte a Dio. Mi viene il dubbio che sia proprio l’invasione di telefonini, tablets, computers e dispositivi simili che diventano i maggiori impedimenti a porre alla base della nostra azione missionaria oggi la dimensione di spiritualità e di contemplazione che permettono di dare un senso anche alle contraddizioni e alle situazioni negative che incontriamo nel nostro impegno di evangelizzazione. Credo che sarà importante – durante il Capitolo entrante – dedicare tempo e spazio sufficienti a discutere su questi temi, per molti versi tra i più urgenti e decisivi nella ricerca di reinventarci come comboniani e nella prosecuzione della nostra azione evangelizzatrice.
Giuseppe Cavallini, mccj