Sabato 16 marzo 2024
«Gli antichi Greci credevano che tutti i popoli di stirpe non ellenica fossero barbari, selvaggi incivili. Sarebbe stato del tutto fuori posto trattarli come individui veri e propri. E anche oggi in nazioni notevolmente progredite troviamo gente che considera popoli di razza, nazione e cultura diversa in modi non molto dissimili da quelli citati, soprattutto se il colore della loro pelle è diverso oppure se essi si differenziano per fede religiosa o credo politico». [...]

Tra l’ascolto delle culture ancestrali e il desiderio che i popoli conoscano Gesù

Antropologia e missione

«Gli antichi Greci credevano che tutti i popoli di stirpe non ellenica fossero barbari, selvaggi incivili. Sarebbe stato del tutto fuori posto trattarli come individui veri e propri. E anche oggi in nazioni notevolmente progredite troviamo gente che considera popoli di razza, nazione e cultura diversa in modi non molto dissimili da quelli citati, soprattutto se il colore della loro pelle è diverso oppure se essi si differenziano per fede religiosa o credo politico». Il linguaggio dell’antropologo britannico John Beattie è diretto e molto esplicito (Uomini diversi da noi. Lineamenti di antropologia sociale, Editori Laterza, Roma-Bari 1973) e non è un caso se questo pregiudizio rispetto alla cosiddetta alterità abbia pesantemente condizionato la storia dell’evangelizzazione anche nel vasto continente africano.

Lo riferisce un attento osservatore delle vicende africane nel xix secolo, William Whitaker Shreeve, il quale, a fronte di tassi di mortalità elevati, avversità climatiche e mancanza di presidi sanitari, scrisse queste testuali parole: «L’Africa, come tutte le terre in cui il Cristianesimo non è penetrato o nelle quali progredisce lentamente, è condannata alla tenebra della superstizione pagana o dei riti idolatrici ... alla poligamia, alla libidine, alla sfrenatezza e ad altri vizi ... Finché, infatti, non intervenga una qualche grande rivoluzione nella natura o qualche grande e graduale impresa umana, apparirà sempre essere “la tomba dell’uomo bianco” ... E diciamolo francamente: “lidi d’Africa sono lastricati di ossa dell’uomo bianco e i suoi cimiteri sono colmi di monumenti di imprese fallite”, ma come cristiani dovremmo e dobbiamo perseverare» (Sierra Leone: the Principal British Colony on the Western Coast of Africa — 1847). Un invito, dunque, nonostante le avversità, a continuare l’opera di evangelizzazione. Rimane il fatto che sebbene alcune componenti del mondo missionario abbiano avuto un approccio paternalistico e comunque influenzato dalla mentalità coloniale, molti di loro, come vedremo più avanti, hanno manifestato grande rispetto nei confronti del culture autoctone.

A questo proposito il giudizio di Beattie è benevolo e al contempo velatamente critico nei confronti del mondo missionario: «Nessuno sa meglio degli antropologi sociali quanto abbiano contribuito al benessere delle popolazioni africane molte migliaia di missionari di tutte le confessioni, che dedicarono la loro vita a tale scopo. Tuttavia, (…) il loro messaggio non è sempre stato capito, e spesso gli effetti prodotti (…) sono stati quelli di sconvolgere le istituzioni tradizionali, sia quelle moralmente innocue, sia quelle moralmente riprovevoli da un punto di vista cristiano». È comprensibile che possano esservi stati fraintendimenti e addirittura in alcuni casi delle critiche. D’altronde, come ha pertinentemente rilevato lo stesso Beattie «I missionari sono stati in grado di fare la loro antropologia. [Essi] hanno il vantaggio di un soggiorno prolungato in una singola comunità e, di solito, di una buona conoscenza della lingua indigena. Alcuni degli studi più profondi delle istituzioni e dei modi di pensiero indigeni sono dovuti a missionari».

In effetti, proprio perché la relazione tra antropologi e missionari data dall’origine della scienza antropologica, è innegabile che questi ultimi abbiano sempre raccolto materiali etnografici, utilizzandoli per progetti culturali. «Quei materiali — spiega Anna Casella Paltrinieri, docente di antropologia culturale all’Università cattolica di Brescia e Milano in un interessante articolo pubblicato dalla rivista «Missione Oggi» — hanno trovato posto nei musei missionari e hanno contribuito a salvaguardare un sapere altrimenti destinato a rapida scomparsa. Una pratica che non si è conclusa e che ha prodotto dizionari linguistici, raccolte di tradizione orale, grammatiche. Da una certa epoca in avanti, antropologia e missiologia hanno percorso strade differenti e polemiche». Vale a dire: gli antropologi hanno accusato i missionari di colonialismo, i missionari hanno visto nelle descrizioni degli antropologi un relativismo sospetto.

Verso gli uni e gli altri è comunque severo il giudizio di Alfonso Maria Di Nola, uno dei massimi antropologi italiani (1926-1997), riportato da Paolo Moiola in un interessante dossier pubblicato sulla rivista dei Missionari della Consolata di Torino. Di Nola vedeva sia nei missionari che negli antropologi «una prepotenza e una violenza immorale dell’uomo occidentale che si “autodimensiona” come unica realtà di cultura e nega la comprensione di ogni altro uomo come portatore di diversità e di alienità. La quale violenza e prepotenza — consolidate negli studiosi occidentali anche più eminenti da una colposa pigrizia a uscire eroicamente dal proprio guscio culturale e alimentata dal terrore di scoprire le dimensioni altre ed aliene, quasi fossero attentati alla propria sicurezza — è stata una delle cause di tragica incomprensione fra uomini e ha fondato i diritti all’aggressione, all’imperialismo, al colonialismo» (Dossier Missioni Consolata, maggio 2020).

Hanno comunque sparigliato per così dire le carte missionari del calibro di padre Paul Joachim Schebesta (1887-1967), considerato ancora oggi uno dei massimi esperti negli studi sui pigmei. “Feldforscher”, ovvero etnologo sul campo, Schebesta, missionario verbita, ebbe grande rispetto nei confronti degli abitanti della foresta pluviale centroafricana al punto tale da rinvenire coincidenze molto forti tra il Dio celeste, entità religiosa suprema dei pigmei, creatore di tutte le cose, e il Dio della Bibbia ebraico-cristiana. Per il suo lavoro, divenuto una pietra miliare dell’antropologia, fu attribuito da quelle stesse popolazioni autoctone, anche per la sua sensibilità e il rispetto dimostrato nei loro confronti, il titolo onorifico di “Baba wa bambuti” (Padre dei pigmei).

Una figura dello stesso spessore fu il comboniano padre Pasquale Crazzolara. Egli si distinse negli studi di fonetica e antropologia alle Università di Vienna e Londra. Pubblicò una grammatica e un dizionario della lingua Acholi (etnia del Nord Uganda), nonché un dizionario della lingua Lugbara, corredato da alfabeto fonetico e accenti. Scrisse anche due volumi sulle migrazioni Lwo, i primi nel loro genere. Gli fu conferita la Medaglia della Royal Society of London, l’M.B.E. (Membro dell’Impero Britannico) e la nomina a commendatore della Repubblica Italiana. All’età di sessant’anni iniziò lo studio particolareggiato di una piccola etnia della diocesi ugandese di Arua, gli Okebo. Già ottantenne intraprese la scrittura di una grammatica in Ngakarimojong, lingua parlata nel nordest dell’Uganda, che purtroppo non terminò. L’opera fu completata dai suoi confratelli Bruno Novelli e Mario Mantovani. Alla base della vita e degli studi di padre Crazzolara vi fu l’esigenza di promuovere l’inculturazione come venne definita da San Giovanni Paolo ii nell’Enciclica Slavorum Apostoli del 1985: «l’incarnazione del Vangelo nelle culture autoctone ed insieme l’introduzione di esse nella vita della Chiesa».

Sebbene non abbia svolto il suo ministero in Africa, è degno di menzione padre Silvano Sabatini (1922-2014), missionario della Consolata, 40 anni tra gli indigeni dell’Amazzonia. La sua — ha scritto Antonino Colajanni, antropologo dell’Università romana La Sapienza — è stata una magnifica storia di missionario «che si pone alla prova, che si trasforma con l’esperienza del contatto interculturale». Padre Sabatini — scrive ancora Colajanni — «passò rapidamente dallo “scandalo” per la nudità degli indios di fronte all’altare di Cristo alla comprensione dei loro diversi valori, del loro diverso senso del pudore. Colse immediatamente un tratto della cultura indigena, quella sorta di “teologia ambientale” che li fa sentire come parte del mondo naturale (e soprannaturale, a quello collegato) e non come dominatori della natura» (cfr. Dossier Missioni Consolata, maggio 2020).

Chi scrive, anni or sono, ebbe come docente di teologia dogmatica a Kampala padre Pietro Tiboni (1925-2017), missionario comboniano il quale trascorse gran parte della sua vita missionaria in Uganda. Egli soleva dare nelle sue lezioni molto spazio al tema dell’inculturazione. «Il missionario — scrisse — è chiamato per vocazione all’ascolto delle culture ancestrali nelle quali è chiamato ad esercitare, dialogando, il suo ministero, ma non può dimenticare che il suo desiderio, nella fede, è che quei popoli conoscano Gesù come un Dio d’amore». Se pensiamo a quello che è stato il Cristianesimo per il pensiero occidentale e per l’antropologia in termini generali, la grande novità che ha apportato alle civiltà è stata precisamente quella che la Storia ha una direzione, un fine. Motivo per cui è possibile porre dei passi verso una mèta possibile. Traguardo che l’areopago missionario ha ben chiaro nella convinzione che l’orizzonte è carico di speranza.

[P. Giulio Albanese – L’Osservatore Romano]