Una lettura della “Evangelii gaudium” nella luce della pastoralità

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Martedì 6 marzo 2018
Secondo l’autore dell’articolo, fr. Enzo Biemmi [nella foto], la ‘pastoralità’ è il principio regolatore della Evangelii gaudium di Papa Francesco. Fr. Biemmi arriva a questa conclusione leggendo l’esortazione apostolica sotto tre diverse angolature: la struttura dell’esortazione, il suo linguaggio e il contenuto coniugato secondo tre criteri guida (essenzialità, gerarchia delle verità, gradualità). Per Evangelii gaudium la ‘pastoralità’ è «costitutiva della Chiesa e diviene criterio per custodire, comprendere e comunicare il “depositum fidei”, facendo di esso un patrimonio di vita in crescita e non oggetto da museo».

Una lettura della Evangelii gaudium
NELLA LUCE DELLA PASTORALITÀ

Leggere la EG nella luce della pastoralità vuol dire avere in mano la chiave interpretativa di tutto il magistero di papa Francesco e la sua novità rispetto al magistero precedente, non solo in linea con il Concilio ma oltre il Concilio stesso.

Quando ho ricevuto la domanda di offrire un intervento sulla dimensione pastorale di EG, mi sono chiesto perché. Perché questo approccio della “dimensione pastorale dell’EG” o per “pastoralità”? È una dimensione del testo accanto ad altre (come ad es. il concetto di evangelizzazione, la dottrina sociale che propone, cosa intende per kerigma, ecc.) o la chiave interpretativa fondamentale non solo di EG ma di tutto il magistero di Papa Francesco e la sua novità rispetto al magistero precedente, in linea con il concilio ma oltre il concilio stesso?

Un abbozzo di riscrittura del Concilio

Inizio facendo mia l’ipotesi di lettura del teologo gesuita Theobald, il quale afferma che EG è un abbozzo di riscrittura del Concilio. Egli sostiene, ed è difficile dargli torto, che papa Francesco, rispetto ai suoi predecessori, sembra avere un rapporto più libero con il concilio, un rapporto caratterizzato dall’averne pienamente assunto la prospettiva ma dal sentire la necessità di riformularne alcune linee di fondo per il contesto attuale profondamente mutato. Definisce EG “un’interpretazione originale del concilio”. Vista «la distanza culturale dal concilio, - scrive - e senza la prospettiva di un nuovo concilio, è necessario trovare un tipo di “riscrittura” che sia sufficientemente ancorata nell’ultima espressione normativa del cattolicesimo mondiale e al tempo stesso sufficientemente libera rispetto ad essa per rispondere all’oggi di Dio con sufficiente creatività». Ma aggiunge a questa ragione storica, una ragione propriamente teologica: la “pastoralità” del Vaticano II aveva bisogno di «una ripresa stilistica, certo ampiamente preparata da Paolo VI, ma rimasta in stato di latenza durante tutto un periodo postconciliare troppo preoccupato dell’ossatura “dottrinale” del corpus testuale del concilio».

Con l’espressione “ripresa stilistica” della pastoralità del Vaticano II Theobald fa ricorso alla sua nozione privilegiata, quella di “stile” (si veda la sua opera maggiore Il cristianesimo come stile), con la quale ara il campo di tutta la teologia e ridisegna un nuovo modo per la chiesa di stare al mondo e di intendere il vangelo. Questa “riscrittura” del Vaticano II in assenza di un nuovo concilio è stata abbozzata, dice Theobald, da EG. Un abbozzo, naturalmente, perché una sua riscrittura totale può essere fatta solo da un nuovo concilio. Questo abbozzo di riscrittura si riassume, nel linguaggio del teologo gesuita, nell’espressione “nuovo stile di evangelizzazione”, ma che di fatto è il risultato, a mio parere, di una piena “pastoralità della fede cristiana”.

Parto quindi da questa posizione e cerco di indagare il senso di pastoralità di EG (in linea con il Vaticano II ma anche come sua riscrittura) attraverso tre indizi chiari (tre “spie”): il suo impianto generale, il suo linguaggio, la sua concezione del contenuto e della dottrina.

1. Evangelii gaudium cornice apostolica della Chiesa

Iniziamo dunque guardando la logica che detta la struttura del testo. Per coglierne la portata è bene partire dall’autoconsapevolezza che di essa ha lo stesso papa Francesco. Vi riporto le parole che ha detto recentemente in un incontro con i Gesuiti e che ha ripetuto ai Superiori Generali il 25 novembre scorso.

«Vi raccomando l’Evangelii gaudium, che è una cornice. Non è originale, su questo voglio essere molto chiaro. Mette insieme l’Evangelii nuntiandi e il documento di Aparecida. Pur essendo venuta dopo il Sinodo sull’evangelizzazione, la forza dell’Evangelii gaudium è stata di riprendere quei due documenti e di rinfrescarli per tornare a offrirli su un piatto nuovo. L’Evangelii gaudium è la cornice apostolica della Chiesa di oggi».

L’espressione chiave è questa: EG è la cornice apostolica della Chiesa di oggi. Con un’immagine papa Francesco esplicita le sue intenzioni: EG è un nuovo quadro di riferimento per la vita della Chiesa, non un documento come gli altri. «Credo che l’Evangelii gaudium vada approfondita, - aggiunge - che ci si debba lavorare nei gruppi di laici, di sacerdoti, nei seminari, perché è l’aria evangelizzatrice che oggi la Chiesa vuole avere. Su questo bisogna andare avanti. Non è qualcosa di concluso, come se dicessimo: è andata, ora tocca a Laudato si’. E poi: è andata, adesso c’è Amoris laetitia...».

Se EG è la cornice, possiamo allora dire che Laudato si’ e Amoris laetitia sono le due tele che il papa ha già dipinto dentro questa cornice, due coniugazioni della pastoralità di EG in due campi cruciali per la vita di tutti: la custodia del creato e la cura della famiglia. Siamo sicuri che la terza tela, quella sui giovani, avrà la stessa cornice. Papa Francesco non smentirà mai la sua cornice.

Una cornice ha quattro lati. Proviamo a rimanere su questa immagine e a individuare i 4 lati di questa cornice apostolica, cioè le coordinate con le quali la “pastoralità” di EG riscrive la visione di vangelo, di missione, di chiesa e in fin dei conti di Dio.

Il primo lato della cornice, quello di sinistra da cui parte EG, è la gioia. «La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù. Coloro che si lasciano salvare da Lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento. Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia».

È bene notare che sia la cornice (EG) sia le due tele (Laudato sì e AL) partono dalla gioia. Particolarmente chiara è AL:

«La gioia dell’amore che si vive nelle famiglie è anche il giubilo della Chiesa. […] “l’annuncio cristiano che riguarda la famiglia è davvero una buona notizia”». L’evangelizzazione ha come sorgente e motivazione la gioia di coloro che sono già stati raggiunti dalla grazia del vangelo. Non eravamo abituati a queste partenze. Di solito i documenti ecclesiali cominciano presentando la lista delle difficoltà, dei limiti di questa cultura, quel lungo elenco di “ismi” nel quale la Chiesa ha rischiato di chiudersi. A questa diagnosi segue la terapia, di cui la chiesa dispone. EG e le sue tele non partono né da una diagnosi né subito da una proposta, ma da un riconoscimento. Papa Francesco afferma che l’annuncio parte dalla gioia di avere ricevuto il dono del vangelo e della fede. Il punto di appoggio dell’evangelizzazione non sono le analisi sociologiche sulle condizioni culturali attuali, più o meno favorevoli al vangelo, ma la bellezza di quanto i credenti hanno ricevuto per grazia. Il cammino della Parola non è quindi determinato dalla situazione dei terreni, come si vede dall’apparente sprovvedutezza del seminatore della parabola evangelica (Mc 4, 3-9). Ogni cultura è adatta al vangelo, basta che la Chiesa che lo annuncia manifesti una vita pervasa dalla gioia, perché è questa la sorgente della sua testimonianza (“per attrazione e non per proselitismo”). Ci accorgiamo subito che è escluso un approccio che rilancerebbe la missione fondandola su un cambio di strategie pastorali. Il mal sottile della Chiesa non sono la mancanza di strategie pastorali, dice il testo, ma l’intristimento per mancanza di fede della comunità cristiana.

Il secondo lato della cornice, quello di destra (quello cioè in faccia alla gioia, come sua eco), è la missione. Essa si riassume in una sigla che conosciamo bene: “la Chiesa in uscita”. Il n. 21 è esplicito: «La gioia del Vangelo che riempie la vita della comunità dei discepoli [cornice di sinistra] è una gioia missionaria [cornice di destra]».

EG chiarisce sia la finalità della missione, sia la condizione da mettere in atto. La finalità è che a tutti, proprio a tutti, giunga l’amore di Dio, la sua amicizia, la sua misericordia. La Chiesa, infatti esiste per questo e non deve mettere ostacoli all’amore di Dio. La Chiesa esiste per evangelizzare, diceva EN. La condizione indicata da EG è però inedita: la “conversione” in prospettiva missionaria non solo dell’impianto pastorale, ma di tutte le dimensioni della vita della Chiesa.

«Sogno una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione. La riforma delle strutture, che esige la conversione pastorale, si può intendere solo in questo senso: fare in modo che esse diventino tutte più missionarie, che la pastorale ordinaria in tutte le sue istanze sia più espansiva e aperta, che ponga gli agenti pastorali in costante atteggiamento di “uscita” e favorisca così la risposta positiva di tutti coloro ai quali Gesù offre la sua amicizia.» (EG 27).

Il nesso tra missione e conversione è esplicito e va considerato il passo in avanti sia rispetto alla prospettiva pastorale del Vaticano II, sia rispetto a EN, che pure costituisce, come abbiamo visto, il riferimento diretto di EG. Questo nesso prende una parola che il Sinodo sulla nuova evangelizzazione non aveva osato pronunciare: riforma. La finalità è la missione, la sua condizione è la riforma, interiore e delle istituzioni.

Il Sinodo aveva dato una risposta spirituale alla sfida dell’evangelizzazione: perché l’evangelizzazione sia nuova occorre che diventino “nuovi” gli evangelizzatori. L’invito alla conversione dei soggetti ecclesiali è stato la parola d’ordine del Sinodo, riassunta nell’appello alla santità (si veda il Messaggio al popolo di Dio, in particolare il numero 5). I motivi sono noti: la celebrazione del Sinodo ha coinciso con una grave crisi interna alla Chiesa: pedofilia, lotte di potere in Vaticano, scandalo dello IOR. Ma il Sinodo aveva fatto metà strada. Papa Francesco va oltre e propone l’altra metà: la conversione personale chiede la conversione istituzionale, cioè la riforma delle strutture. Assume l’esigenza della conversione interiore e la completa chiedendo la riforma delle strutture. Il nesso rinnovamento–conversione–riforma risulta determinante perché la Chiesa sia “sacramento”, cioè segno e strumento della grazia del vangelo. Il rinnovamento dell’evangelizzazione (la necessità che sia veramente “nuova”) richiede la conversione dei singoli credenti (santità) e prende corpo come riforma della figura di Chiesa, affinché ogni sua espressione parli del Vangelo, in modo che le parole siano visibili nella forma di vita e il modo di vivere sia esplicitato nelle parole. Non è altro che la conseguenza per la Chiesa dello stesso stile di Dio: «eventi e parole intimamente connessi, in modo che le opere, compiute da Dio nella storia della salvezza, manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle parole, mentre le parole proclamano le opere e illustrano il mistero in esse contenuto» (Dei Verbum, 2). È questo un punto cruciale della concezione di missione proposta da EG.

Il terzo lato della cornice, quello che sta da base, quello su cui poggia la missione, è la storia. La storia è il campo della missione della Chiesa e il luogo ove essa non solo opera, ma ascolta, discerne i segni del Verbo. Tutta EG è pervasa da questo radicamento nella storia, nella vita della gente, nelle sue sofferenze e nelle sue speranze. Papa Francesco riporta la fede in questo mondo, strappandola da una concezione privata, tipica del nostro approccio europeo. La radice è Aparecida e più indietro Medellin e Puebla. «Non si tratta di fuggire la storia, e neppure di costruire un’altra storia parallela, ma di accogliere responsabilmente il tempo presente, facendoci carico di tutta la sofferenza che in esso si realizza». Il contatto con la storia contiene l’esigenza della scelta privilegiata dei poveri.

Tra i molti passaggi possiamo leggere il 269 e 270.

«Gesù stesso è il modello di questa scelta evangelizzatrice che ci introduce nel cuore del popolo. Affascinati da tale modello, vogliamo inserirci a fondo nella società, condividiamo la vita con tutti, ascoltiamo le loro preoccupazioni, collaboriamo materialmente e spiritualmente nelle loro necessità, ci rallegriamo con coloro che sono nella gioia, piangiamo con quelli che piangono e ci impegniamo nella costruzione di un mondo nuovo, gomito a gomito con gli altri. Ma non come un obbligo, non come un peso che ci esaurisce, ma come una scelta personale che ci riempie di gioia e ci conferisce identità (EG 269).

A volte sentiamo la tentazione di essere cristiani mantenendo una prudente distanza dalle piaghe del Signore. Ma Gesù vuole che tocchiamo la miseria umana, che tocchiamo la carne sofferente degli altri. Aspetta che rinunciamo a cercare quei ripari personali o comunitari che ci permettono di mantenerci a distanza dal nodo del dramma umano, affinché accettiamo veramente di entrare in contatto con l’esistenza concreta degli altri e conosciamo la forza della tenerezza. Quando lo facciamo, la vita ci si complica sempre meravigliosamente e viviamo l’intensa esperienza di essere popolo, l’esperienza di appartenere a un popolo» (EG 270).

EG prende così le distanze da ogni forma di intellettualismo e di spiritualismo dalla fede, che sono due modi per ripararsi dalla vita. Una fede che fa i conti con la storia la toglie dalla sfera del privato, dicevamo, e ne rivela immediatamente l’impatto sociale e politico.

Il quarto lato della cornice è lo Spirito Santo. È l’ultimo capitolo di EG. Il testo è basato così su una bella inclusione: inizia con la gioia e termina ricordando che l’evangelizzazione è l’azione misteriosa dello Spirito e che l’annuncio da parte della comunità ecclesiale è un servizio di mediazione alla sua opera, una diaconia dello Spirito Santo. All’inizio sta la sorpresa gioiosa del dono, alla fine la gratuità di condividerlo sapendo che non è competenza nostra farlo accogliere, ma opera dello Spirito Santo. Al centro sta la conversione missionaria che manda la Chiesa fuori da sé (estroversa, non autoreferenziale, non impegnata a preservare se stessa).

Questa inclusione colloca l’agire della Chiesa non nello spazio del dovere, né in quello della necessità, ma della grazia e della libertà.

La cornice di EG potrebbe essere rappresentata da un quadro molto noto di Van Gogh, il seminatore. La parabola del seminatore è stata dipinta moltissime volte dall’artista, il quale era figlio di un pastore protestante e il testo di Mc 4,3-9 fu proprio il primo che egli dovette commentare in un sermone festivo, nella sua veste di aiuto predicatore. In uno di questi dipinti si vede il seminatore che con la mano sinistra tiene sul cuore il sacco del seme, custodisce la Parola. Con la destra con gesto solenne, liturgico, la dona alla terra. Ma c’è un particolare: egli non segue i solchi dell’aratura e sbanda verso la sua sinistra, ancora pochi passi ed è oltre la cornice di destra, esce dal quadro. Egli va a gettare il seme verso i bordi, nelle periferie.

Possiamo allora dire che EG è la cornice apostolica della Chiesa e il suo lato destro la porta ad uscire, a sbandare verso la storia, a esporsi. Meglio una Chiesa accidentata che una Chiesa riparata.

2. Il linguaggio “pastorale” di EG

Dopo aver visto la struttura del testo, il suo impianto e la logica che lo sostiene (struttura e logica già significativi per cogliere la pastoralità del documento), un secondo indizio è il linguaggio. In pratica papa Francesco fa dal punto di vista linguistico quello che chiede di fare alla Chiesa: la conversione missionaria. Afferma che ogni dimensione di Chiesa è chiamata alla riforma e senza dirlo fa vedere che egli stesso riforma il linguaggio. E che riforma! La riforma del linguaggio di EG è una trasgressione notevole rispetto al linguaggio magisteriale precedente, compreso quello del Concilio. Quest’ultimo utilizza un linguaggio impregnato delle Scritture e dei Padri (che gli conferisce un afflato sapienziale e spirituale) rimanendo però nei codici della grammatica ecclesiale decifrabile per chi è all’interno della Chiesa e ha una cultura ecclesiastica. Il linguaggio di EG è marcatamente differente, e lo possiamo definire a ragione “pastorale” in senso forte. Perché?

a) Si tratta di un linguaggio autoimplicativo (io), e questo non si era mai visto in un documento ufficiale. EG parla con l’io, mai il redattore si esenta da ciò che dice (si veda il caso della riforma del modo di esercitare il ministero petrino, n. 32 ), non teme di far riferimento alla sua esperienza (ad es. di quando era a Buenos Aires, EG 7, 49, 76…).

b) Si tratta di un linguaggio ospitale, nel quale è presente costantemente l’interlocutore (tu), la sua vita concreta, la sua storia, le sue sofferenze, le sue inquietudini. È un linguaggio che guarda le cose non dal centro, ma dalla periferia, guarda le cose dal punto di vista di chi le vive e non dalla sola oggettività di quanto la Chiesa è chiamata ad annunciare.

c) Si tratta di un linguaggio significativo, il cui messaggio cioè è reso costantemente nella sua dimensione di “buona notizia”, e quindi ricondotto all’essenziale: questo essenziale è di mostrare che ogni dimensione della fede riguarda la misericordia di Dio per ciascuno. Il vangelo è bella notizia per la tua vita, parola di misericordia.

Occorre ragionare bene su queste tre caratteristiche del linguaggio di EG che sono un’ottima spia per cogliere la concezione pastorale di papa Francesco: autoimplicativo (la Chiesa non sta fuori da quello che dice); ospitale (la Chiesa non lascia fuori la vita reale delle persone in quello che dice e si lascia ospitare da questa vita); significativo nel suo contenuto (la Chiesa non lascia fuori il volto di Dio misericordioso nelle formulazioni di quello che dice, non si limita a trasmettere una dottrina).

Definisco tutto questo la più palese trasgressione di papa Francesco, non solo in EG (dove è evidentissima) ma in tutti i suoi interventi (la prima apparizione, le catechesi, le omelie, le interviste…). Quella più sconcertante e quella che maggiormente incide sulla visione di Chiesa.

L’approccio ecclesiale della fede è veramente pastorale quando custodisce l’intreccio di tre soggetti: il testimone, il soggetto destinatario, il volto di Dio. Se ne lascia fuori uno non è più pastorale. Possiamo così delineare tre modi di intendere la missione evangelizzatrice della Chiesa, tre rappresentazioni che io ho visto in atto durante i dibattiti del Sinodo sulla nuova evangelizzazione.

– La prima rappresentazione lascia fuori colui che annuncia, lo lascia riparato dietro al contenuto che è chiamato ad annunciare, dietro al lato oggettivo della fede. In questo caso l’approccio è marcatamente dottrinale e così facendo non solo non implica chi annuncia, ma non raggiunge neppure il destinatario, la sua vita reale. La difesa della dottrina diventa in questo modo uno scudo per non implicarsi.

– La seconda rappresentazione è tutta concentrata sulla parola del testimone, sulla sua forte esperienza di fede. In questo caso la fede viene fatta coincidere inconsapevolmente con la propria esperienza spirituale e diviene secondaria la realtà della vita di colui a cui ci si rivolge. La testimonianza è sempre uguale a se stessa. È lo stesso kerigma per tutti. È proprio di un approccio carismatico.

– La terza rappresentazione intreccia le tre storie: la propria come persona raggiunta dalla grazia e sempre in cammino, quella dell’interlocutore ascoltata come storia di salvezza in corso per riconoscervi l’agire di Dio e mettersi al suo servizio, quella del Signore Gesù annunciato come “evangelo” per la situazione concreta di quella persona precisa. In questa modalità il vangelo annunciato è sempre uguale e sempre nuovo. È un approccio “pastorale” in senso forte. Esso modifica continuamente i tre soggetti implicati, nel senso che li cambia, li mantiene in cammino, in stato di ridefinizione, di sequela: sia chi annuncia, sia chi riceve l’annuncio, sia il contenuto dell’annuncio.

Che il linguaggio così inteso sia una questione decisiva per cogliere la “pastoralità” di EG e per assumere il suo invito alla conversione pastorale lo dice esplicitamente il testo, in un passaggio notevole:

«Gli enormi e rapidi cambiamenti culturali richiedono che prestiamo una costante attenzione per cercare di esprimere le verità di sempre in un linguaggio che consenta di riconoscere la sua permanente novità. Poiché, nel deposito della dottrina cristiana «una cosa è la sostanza […] e un’altra la maniera di formulare la sua espressione ». A volte, ascoltando un linguaggio completamente ortodosso, quello che i fedeli ricevono, a causa del linguaggio che essi utilizzano e comprendono, è qualcosa che non corrisponde al vero Vangelo di Gesù Cristo. Con la santa intenzione di comunicare loro la verità su Dio e sull’essere umano, in alcune occasioni diamo loro un falso dio o un ideale umano che non è veramente cristiano. In tal modo, siamo fedeli a una formulazione ma non trasmettiamo la sostanza. Questo è il rischio più grave. Ricordiamo che «l’espressione della verità può essere multiforme, e il rinnovamento delle forme di espressione si rende necessario per trasmettere all’uomo di oggi il messaggio evangelico nel suo immutabile significato» (EG 41).

3. Il contenuto dell’annuncio nell’ approccio pastorale

Siamo così giunti al terzo indizio, alla terza “spia”: il contenuto dell’annuncio.

EG 41, come abbiamo visto, riprende il discorso di apertura del Concilio di Giovanni XXIII, basato su quella distinzione (una cosa è la sostanza, un’altra la sua formulazione) che permise la realizzazione del concilio. EG assume e porta avanti questa prospettiva pastorale e il risultato è che il contenuto della fede che propone ne esce rivisitato in modo sostanziale. Questa riformulazione, o nuova comprensione, avviene per il fatto che la pastoralità ripensa il contenuto sulla base di tre criteri: l’essenzialità, la gerarchia dell’importanza, la gradualità.

– Prima di tutto il ritorno all’essenziale, che è il kerigma. Papa Francesco si esprime così:

«Abbiamo riscoperto che anche nella catechesi ha un ruolo fondamentale il primo annuncio o “kerygma”, che deve occupare il centro dell’attività evangelizzatrice e di ogni intento di rinnovamento ecclesiale… Sulla bocca del catechista torna sempre a risuonare il primo annuncio: “Gesù Cristo ti ama, ha dato la sua vita per salvarti, e adesso è vivo al tuo fianco ogni giorno, per illuminarti, per rafforzarti, per liberarti”». (Evangelii gaudium, 164).

Attraverso una semplicità disarmante, EG riconduce all’essenziale: in un contesto missionario occorre tornare al fondamento della fede, che non è la dottrina, ma un evento testimoniato nel kerigma (per utilizzare una espressione di Giovanni Paolo II: non si tratta di totalità estensiva ma di totalità intensiva).

«Una pastorale in chiave missionaria non è ossessionata dalla trasmissione disarticolata di una moltitudine di dottrine che si tenta di imporre a forza di insistere. Quando si assume un obiettivo pastorale e uno stile missionario, che realmente arrivi a tutti senza eccezioni né esclusioni, l’annuncio si concentra sull’essenziale, su ciò che è più bello, più grande, più attraente e allo stesso tempo più necessario. La proposta si semplifica, senza perdere per questo profondità e verità, e così diventa più convincente e radiosa» (Evangelii gaudium 35).

– Il secondo criterio è quello della “gerarchia delle verità”. EG invita a porre tutti gli “aspetti secondari” (o meglio “secondi”) in stretto legame con il cuore del vangelo, l’essenziale, il kerigma (EG 34-39). Viene indicato un ordine di priorità: l’annuncio dell’amore di Dio precede la richiesta morale; la gioia del dono precede l’impegno della risposta; l’ascolto e la prossimità precedono la parola e la proposta.

«La centralità del kerygma richiede alcune caratteristiche dell’annuncio che oggi sono necessarie in ogni luogo: che esprima l’amore salvifico di Dio previo all’obbligazione morale e religiosa, che non imponga la verità e che faccia appello alla libertà, che possieda qualche nota di gioia, stimolo, vitalità, ed un’armoniosa completezza che non riduca la predicazione a poche dottrine a volte più filosofiche che evangeliche. Questo esige dall’evangelizzatore alcune disposizioni che aiutano ad accogliere meglio l’annuncio: vicinanza, apertura al dialogo, pazienza, accoglienza cordiale che non condanna» (Evangelii gaudium 165).

– Il terzo criterio è quello della gradualità. Esso consiste nel riconoscere le “possibili tappe di crescita delle persone che si vanno costruendo giorno per giorno” e ciò “senza sminuire il valore dell’ideale evangelico” (EG 44). Corrisponde a uno dei 4 principi di EG: il tempo è superiore allo spazio.

«Dare priorità al tempo significa occuparsi di iniziare processi più che di possedere spazi. […] Questo criterio è molto appropriato anche per l’evangelizzazione, che richiede di tener presente l’orizzonte, di adottare i processi possibili e la strada lunga» (GS 225).

La forza di questo terzo criterio viene applicata in tutte le sue conseguenze da AL, che arriverà a dire: «un piccolo passo, in mezzo a grandi limiti umani, può essere più gradito a Dio della vita esteriormente corretta di chi trascorre i suoi giorni senza fronteggiare importanti difficoltà» (AL 305). La finezza di AL sta nell’aver trasformato il principio del “male minore” in quello del “bene possibile”. La prima prospettiva tende a limitare i danni e quindi inibisce ricordandoti il tuo limite e il tuo peccato; la seconda ti fa vedere il bene che già vivi e quello che ti sta davanti, e quindi mette le ali, invitandoti a camminare verso un bene sempre più grande, il bene storicamente possibile per te secondo la grazia di Dio. La prima prospettiva aspira, la seconda ispira. La prospettiva del bene possibile ha l’effetto di essere magnetizzati dal bene che attira e non risucchiati dal male che paralizza. È l’attrazione del bene che motiva, qualunque sia la situazione in cui ci si trova.

L’intervento di questi tre criteri sul contenuto della fede (dottrina e morale) e del suo annuncio fa capire la forza innovatrice dell’approccio pastorale sul contenuto stesso, cioè sulla sua dottrina.

4. Un approccio pastorale che ridà carne tenera alla dottrina

Dopo questo sguardo sull’impianto di EG, sul suo linguaggio e su come interviene nella riformulazione del contenuto siamo ora in grado di comprendere come l’approccio pastorale incide sulla figura di fede.

Da un sistema chiuso di principi non negoziabili (e codificati in leggi di comportamento) la pastoralità di EG trasforma il “depositum fidei” in un patrimonio di vita che cresce nel tempo. Proprio in quanto veramente pastorale l’approccio di EG è veramente dottrinale, perché non è dottrinale nella fede cristiana se non ciò che è realmente pastorale, che non permette cioè a tutti di essere raggiunti dalla grazia della Pasqua. È la figura di fede custodita dall’affermazione centrale del Simbolo: “per noi e per la nostra salvezza”. L’approccio pastorale alla fede, che implica l’assunzione della storia e della vita in tutta la sua complessità, salva la dottrina, le impedisce di diventare una ideologia, le conferisce il suo senso salvifico profondo.

EG assumendo fino in fondo la pastoralità restituisce a Dio il nome con il quale si è rivelato, il misericordioso. In questo modo riapre la comprensione della dottrina cristiana. Restituisce vita a Dio e carne tenera alla dottrina della Chiesa. E pone così le premesse per una chiesa che non separi più ciò che Dio ha unito: dogma e storia, dottrina e vita, vangelo e esperienza umana. Con una espressione cara alla catechesi: fedeltà a Dio e all’uomo.

Dobbiamo quindi riconoscere che le obiezioni di chi dice che papa Francesco tocca la dottrina sono legittime. Egli interviene sull’interpretazione autorevole della dottrina, facendo quello che ha più volte detto, e ultimamente richiamato ai vescovi italiani: «La dottrina cristiana non è un sistema chiuso incapace di generare domande, dubbi, interrogativi, ma è viva, sa inquietare, sa animare. Ha volto non rigido, ha corpo che si muove e si sviluppa, ha carne tenera: la dottrina cristiana si chiama Gesù Cristo» (Discorso di Papa Francesco al Convegno ecclesiale Nazionale di Firenze, 10-11-2015).

Possiamo indicare con precisione il perno sul quale poggia la rivisitazione pastorale del cuore della dottrina cristiana, del suo dogma: sta nell’aver trasformato un attributo di Dio (misericordioso), nel tratto qualificante della sua identità, e quindi nel principio ermeneutico per conoscerne e custodirne il volto e di conseguenza per custodire e interpretare il deposito della fede cristiana.

Da Giovanni XXIII a Papa Francesco

All’inizio del mio intervento ho espresso l’obiettivo che mi proponevo: aiutarci a capire che la “pastoralità” non è una delle tante dimensioni di EG, ma ne è il principio regolatore, il quadro orientativo, la cornice apostolica della Chiesa. L’ho fatto osservando EG attraverso tre angolature, che ho definito “spie”: la sua struttura, che ne rivela la visione di fondo e indica nella missione l’identità stessa della Chiesa; il suo linguaggio con le tre caratteristiche (implicazione, ospitalità, significatività); il contenuto della missione della Chiesa, che è il kerigma della misericordia, coniugato sulla base di tre criteri guida (essenzialità, gerarchia di importanza, gradualità).

Questi tre punti di osservazioni hanno portato progressivamente, almeno lo spero, a chiarire cos’è “pastoralità” in EG, spostandone il significato dal livello semplicemente funzionale (la pastorale come azione pratica della Chiesa per applicare la sua dottrina) al suo statuto fondamentale e al suo valore interpretativo del vangelo stesso. Essendo l’identità della Chiesa ridefinita dalla sua missione ed essendo la sua missione quella di far giungere a tutti la misericordia di Dio, allora la pastoralità è costitutiva della Chiesa e diviene criterio per custodire, comprendere e comunicare il “depositum fidei”, facendo di esso un patrimonio di vita in crescita e non un oggetto da museo.

Mi sembra così che possiamo confermare la tesi di Theobald: il magistero di papa Francesco è un abbozzo di riscrittura del Vaticano II, in fedeltà al suo corpo dottrinale ma in maniera sufficientemente libera per farlo camminare in avanti. La fonte di questa riscrittura fedele e libera è proprio, a mio parere, l’applicazione fino in fondo della “pastoralità”.

Papa Francesco riprende infatti il principio pastorale di Giovanni XXIII, ma lo porta avanti nelle sue conseguenze.

Così si esprimeva papa Giovanni nel solenne discorso di apertura del Vaticano II:

«È necessario che questa dottrina certa e immutabile, che deve essere fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo che risponda alle esigenze del nostro tempo. Altra cosa è infatti il deposito della fede, vale a dire le verità che sono contenute nella nostra dottrina, altra cosa è la forma con cui quelle vengono enunciate, conservando ad esse tuttavia lo stesso senso e la stessa portata. Bisognerà attribuire grande importanza a questa forma e, se sarà necessario, bisognerà insistere con pazienza nella sua elaborazione: e si dovrà ricorrere ad un modo di presentare le cose, che più corrisponda al magistero, il cui carattere è preminentemente pastorale.

Questa distinzione tra “la dottrina certa e immutabile” e la sua formulazione è ciò che ha permesso il grande balzo del Vaticano II. Eppure, a distanza di 55 anni, non possiamo non renderci conto che questa distinzione tra il deposito della fede e la forma con la quale esso viene annunciato è insoddisfacente. Si basa ancora sul presupposto che da una parte ci sia il contenuto che non cambia e dall’altra il modo di dirlo che può modificare. Questa concezione del linguaggio come semplice rivestimento di un contenuto è stata ampiamente superata. Per poco che conosciamo la riflessione sul linguaggio e le teorie della comunicazione (e per poco che abbiamo esperienza di comunicazione tra umani) noi abbiamo capito che la parola ha forza performativa, fa venire alla luce la realtà, le dà forma e corpo in senso pieno. EG porta in fondo l’affermazione di Giovanni XXIII e onora il suo mandato finale: il carattere del magistero è preminentemente pastorale. Ricongiungendo dogma e storia, contenuto e forma, kerigma e linguaggio papa Francesco supera una dicotomia possibile tra deposito della fede e sua formulazione e con la sua “pastoralità” offre alla Chiesa e al mondo una figura di fede che è grazia di umanità. Egli non divide più ciò che Dio nel suo Figlio incarnato ha definitivamente unito.

EG è una applicazione straordinaria, a più di 50 anni di distanza, del principio pastorale che ha animato il Concilio Vaticano II. Ne è anche in qualche modo il compimento, o almeno un grande passo verso l’esplicitazione della sua piena fecondità.

Diventano così profetiche le parole che Papa Giovanni XXIII scrisse come conclusione del suo Giornale dell'anima, il suo libro di pensieri spirituali: «Non è il vangelo che cambia, siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio».

EG non è un altro vangelo, ma sicuramente una sua comprensione migliore, la prova del fatto che esso è sempre lo stesso ma che noi impariamo a comprenderlo meglio quando non stiamo fuori dalla storia. E proprio questa è la “pastoralità”.

Il vangelo infatti è alle nostre spalle, con il suo valore normativo, ma è anche sempre davanti a noi, perché il vangelo è il Signore risorto che ci precede nella storia e tramite il suo Spirito ci condurrà “alla verità tutta intera”.
Fratel Enzo Biemmi