Lunedì 3 dicembre 2018
Laureata alla Bocconi di Milano, Giovanna Ambrosoli prosegue l’opera dello zio missionario Giuseppe Ambrosoli, comboniano, morto a Lira (Uganda) il 27 marzo 1987, contando appena 63 anni: «Rinunciò all’azienda di miele e caramelle per un ospedale in Uganda». Nella foto: Giovanna Ambrosoli con suor Carmen a Kalongo (Uganda).

Giovanna Ambrosoli:
«Ho lasciato la finanza per seguire le orme di un santo: mio zio»

Intervista di Stefano Lorenzetto, in “Corriere della Sera” online

Era nato 95 anni fa a Ronago, vicino al lago di Como, nella terra del lattemiele, quella della «bella, dolce, cara mammina», cantata a «Carosello» dai sette frugoletti biondi disegnati da Tomislav Spikic. Non c’era una sola ragione perché andasse a schiantarsi di fatica a Kalongo, nella siccitosa Uganda, a parte quello slogan — «Che bontà!» — che nel 1965 reclamizzava in tv e sui giornali i prodotti dell’azienda di famiglia.

Sì, buono lo fu per davvero Giuseppe Ambrosoli, penultimo di otto figli, venuto al mondo nel 1923 insieme con la fabbrica fondata dal padre Giovanni Battista e proclamato venerabile da papa Francesco per l’eroicità delle sue virtù, ma già santo per tutti gli ugandesi. Avrebbe potuto, ricco com’era, intascare le rendite procurate da miele e caramelle. Invece scelse di diventare chirurgo e poi missionario comboniano. Il 17 dicembre 1955 fu ordinato prete a Milano dal futuro Paolo VI. Passati pochi mesi, era già in una capanna ai piedi della Montagna del Vento, con il camice bianco sopra la talare. Bisturi in una mano, Vangelo nell’altra.

Giovanna Ambrosoli, nipote di padre Giuseppe, è il motore della fondazione intitolata all’intrepido zio, che mantiene in vita l’ospedale di Kalongo. È tornata da lì due giorni fa. Sposata, madre di tre figli (28, 26 e 22 anni), laureata alla Bocconi, ha seguito a suo modo le orme del «medico della carità», come lo chiamano in Africa. Dopo essersi occupata di finanza in Montedison, nel 2009 ha lasciato un fondo di venture capital per dedicarsi interamente alla onlus da cui dipendono il Dr. Ambrosoli memorial hospital e la scuola di ostetricia St. Mary’s, scampati alla guerra civile che ha insanguinato l’Uganda per oltre vent’anni.

Aveva ragione Margaret Thatcher: nessuno si ricorderebbe del Buon Samaritano se fosse stato privo di soldi.
«Dobbiamo tutto a mio nonno, diplomato perito chimico nella Svizzera tedesca. Nel 1906 fu richiamato a Como per rinverdire l’allevamento del baco da seta. Invece puntò sulle api e iniziò a produrre miele. Arrivò a possedere 5.000 arnie. Il passo successivo furono le caramelle e la cera per lucidare i mobili. Ma sempre con un occhio attento alla carità».

Rivolto in quale direzione? 
«Opere sociali. Fu redarguito dal notaio perché dilapidò il proprio latifondo, donando a prezzi simbolici i terreni su cui i suoi dipendenti si costruivano la casa. Si devono a lui l’asilo di Ronago e la strada per Uggiate. Nello stabilimento la sirena suonava a mezzogiorno: voleva che le operaie tornassero a casa in tempo per preparare il pranzo a mariti e figli».

Gli italiani sono come gli Ambrosoli?
«Ancora più buoni. Chi crede nella missione avviata da mio zio diventa generoso oltre le sue possibilità. Potrei raccontarle episodi che la stupirebbero».

Mi stupisca.
«Un ex consulente aveva accudito una vedova, apparentemente povera, negli ultimi anni di vita. Quando la donna è morta, ha scoperto che lo aveva nominato erede di una fortuna. E lui, anziché tenerla per sé, l’ha girata in larga parte alla Fondazione Dr. Ambrosoli».

Qual è il primo ricordo che ha di padre Giuseppe?
«Io tredicenne che con papà vado a riceverlo a Fiumicino, proveniente da Entebbe. Doveva fare il giro delle sette chiese per sostenere l’ospedale di Kalongo».

E l’ultimo?
«Morì il 27 marzo 1987, un venerdì. Dovevo laurearmi il lunedì successivo. La vissi come un’enorme ingiustizia. Più avanti capii che fu la sintesi perfetta di quanto scrisse nel suo diario 70 anni orsono: “Fa’, o Signore, che viva ogni giorno come se quello fosse l’ultimo della mia vita e fa’ che faccia quello che dal letto di morte desidererei aver fatto”».

Come nacque in lui la vocazione?
«In sella alla sua moto Guzzi rossa girava il Comasco per le adunanze dell’Azione cattolica. Appena messo piede nel seminario comboniano di Rebbio, la prima cosa che chiese fu se un medico poteva fare il missionario e se un missionario poteva fare il medico. La specializzazione al London tropical disease institute non fu che il coronamento di un disegno che aveva ben chiaro in testa: salvare l’Africa con gli africani, come predicava il fondatore monsignor Daniele Comboni. Per questo aprì una scuola che ha già formato 1.300 ostetriche oggi operanti in tutto il continente».

Perché proprio a Kalongo?
«Scelse un distretto dell’Uganda in cui l’aspettativa di vita non arriva a 54 anni. Vi giunse nel 1956, dopo un viaggio massacrante: via mare da Venezia a Mombasa, in Kenya, e poi 1.280 chilometri, oltre 24 ore di jeep, su strade accidentate. Oggi l’ospedale è l’unico avamposto per la salute di mezzo milione di persone».

Quali sono le malattie più diffuse in quella zona?
«La malaria e le sindromi polmonari e diarroiche, che colpiscono mamme e neonati. Nel 2016 abbiamo avuto 10.000 ricoveri pediatrici anziché i soliti 4.000».

Non sarebbe tutto più semplice se venissero partoriti meno bambini?
«Capisco che intende dire. La contraccezione è un tema che tutta l’Africa, non solo l’Uganda, dovrà affrontare. Nel nostro distretto il tasso medio di fertilità è di 6,5 figli per donna, contro 1,24 in Italia. Il 63 per cento degli abitanti ha meno di 18 anni e il 14 per cento dei bimbi è orfano, spesso di entrambi i genitori».

Con quanti medici affrontate questa emergenza?
«Sei o sette, quando va bene. Tutto lo staff è locale. Abbiamo 250 dipendenti, che abitano lì con le famiglie: un quartiere di 800 anime. Il turnover è incessante, perché gli ugandesi per primi preferiscono andare a vivere in località meno impervie e dove sono meglio pagati».

Ma, nonostante tutto, lei non molla.
«Come non mollò padre Giuseppe. Nell’ultimo ventennio a Kalongo abbiamo curato 1 milione di malati, di cui 300.000 sotto i 5 anni, effettuato 60.000 parti assistiti, eseguito 35.000 interventi chirurgici. Ogni anno accogliamo 2.500 pazienti affetti da Aids».

Perché, a dispetto di questa situazione tragica, non c’erano ugandesi fra i 119.000 profughi approdati lo scorso anno in Italia dal Mediterraneo?
«Bella domanda. Non so rispondere. Osservo solo che l’Uganda, 34 milioni di abitanti, ha accolto 1,5 milioni di rifugiati, due terzi dei quali sudsudanesi in fuga dalla guerra. I richiedenti asilo rimasti in Italia nel 2017 sono stati 83.000».

La vostra fondazione teorizza che serve una «migrazione controcorrente».
«Sì, dal nostro Paese verso l’Uganda. Tito Squillaci, pediatra calabrese di Bova Marina, da giovane medico fu per due anni al fianco di padre Giuseppe. Aveva chiesto di essere sposato da lui, ma lo zio morì tre mesi prima delle nozze. Ora che ha tre figlie adulte, ha voluto lavorare per un anno a Kalongo con la moglie Nunziella. E ha già chiesto di tornarci».

Lo sa che negli archivi dei giornali non sono molti gli articoli dedicati a padre Ambrosoli? Come si spiega?
«Fosse vivo, si lagnerebbe anche di questa intervista. Non voleva raccontare ciò che faceva. Quando gli assegnarono il premio Carlo Erba come miglior medico, non venne in Italia a ritirarlo, pensando di non meritarlo. Anche i suoi fratelli stentavano a raccontarne le gesta, nel timore che si offendesse».

Eppure siamo qui a parlarne.
«Riuscì a far breccia persino nel cuore del sanguinario dittatore Idi Amin Dada, che rimase impressionato da una visita a Kalongo e gli donò un’autoambulanza».

Il 24 ottobre lei ha dato un charity dinner a Villa d’Este, con Alena Seredova come madrina. Crede che suo zio si sarebbe trovato a suo agio fra abiti da sera e tovaglie di fiandra?
«È un’ottima osservazione. No, sicuramente no. Però era una necessità: ogni invitato ha donato 150 euro. A volte mi chiedo che cosa penserà di me padre Giuseppe. Spero tanto che mi perdoni».

Ma i vostri benefattori che cosa cercano? Un lasciapassare per il paradiso?
«Io penso che vogliano sentirsi parte di un progetto più grande di loro».

Che a padre Ambrosoli costò la vita.
«È così. Secondo lui, “quello che Dio chiede non è mai troppo”. Nonostante le continue nefriti, che lo costrinsero a letto per un anno, proseguì fino all’ultimo a operare otto ore al giorno, con un solo rene funzionante. Dopo cena studiava al lume di candela. Le suore lo sorprendevano in preghiera anche di notte, quando le mamme si rifugiavano a Kalongo per non farsi portar via i bambini dai guerriglieri, bisognosi di nuove leve. Morì per salvare la scuola di ostetricia. Le truppe governative lo accusarono di assistere i ribelli e gli intimarono di evacuare l’ospedale in 24 ore. Riuscì a riparare a Lira con 1.500 fra pazienti, religiosi e civili. I superiori gli ordinarono di rientrare subito in Italia per farsi curare. Ma egli ritardò la partenza perché prima voleva che le sue ostetriche potessero riprendere le lezioni in un luogo sicuro, ad Angal».

Si fece anche sparare addosso.
«Schivò il colpo. Difendeva le studentesse dalla soldataglia che le rapiva. Era un uomo mite, ma molto energico. Affrontò i militari: “Questo è il mio ospedale e le regole sono quelle che detto io”. Spirò convinto che glielo avessero distrutto. Invece i confratelli e i medici tre anni dopo lo trovarono intatto: gli indigeni l’avevano salvato».

Padre Giuseppe fu sepolto a Lira?
«Sì. Poi la salma venne traslata a Kalongo. Ora riposa nella savana infinita, davanti all’ospedale. “La sala operatoria era diventata il suo santuario”, disse una collaboratrice. Aveva chiesto di giacere per sempre nella terra d’Uganda, avvolto da un semplice lenzuolo. Fu accontentato solo a metà».

Stefano Lorenzetto
In “Corriere della Sera” online