P. Gian Paolo Pezzi: “Le ragioni profonde del mio ritorno in Africa”

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Domenica 4 aprile 2021
La pace e la gioia della Pasqua riempiano il tuo cuore. Da anni è un appuntamento riunirci intorno ad un messaggio nel desiderio di creare fra di noi una comunione spirituale e un’amicizia sempre più profonda. Questa volta ho deciso di lasciare da parte le notizie sulle mie attività e le problematiche che ci stanno intorno, per condividere le ragioni profonde del mio ritorno in Africa, in Congo precisamente, magari vicino a Goma, dove fu ucciso l’ambasciatore d’Italia. (Nella foto: P. Gian Paolo Pezzi a Kinshasa, nella RD. Congo, nel 2008)

La cosa più semplice è riscrivere adattandola un poco la lettera di commiato inviata al Consiglio dei Missionari Comboniani al termine del mio servizio negli Stati Uniti. Ecco cosa dicevo. All'avvicinarsi della data di uscita dal paese, due sentimenti sorgono nel mio cuore.

Il primo è la sensazione di soddisfazione per aver servito la comunità comboniana degli Stati Uniti al meglio delle mie capacità, anche se non perfettamente. Ma c'è qualcosa di perfetto in questa vita? Ho accettato di andare avanti e indietro da Chicago, quando quella comunità affrontava delle difficoltà, ho fatto tutte le giornate missionari che mi sono state richieste, ho servito in tutte le parrocchie dove la comunità mi ha mandato, e assicurato quasi tutto il servizio di lingua spagnola durante la malattia di p. Luigi Zanotto, quando per i miei altri impegni me lo permettevano. Provo anche soddisfazione nel constatare che il mio ministero era apprezzato dalle comunità francese, italiana, soprattutto spagnola, e perfino da quella inglese nonostante il mio accento!

L'unico rammarico è di aver visitato in modo molto ridotto questo interessante paese. Ricordo questo per dire che mai ho avuto intenzione di lasciare gli USA. Alcune delle mie parole potevano lasciarlo pensare; in realtà, miravano a spingere i superiori comboniani a trovare chi mi sostituisse nel lavoro tanto importante di Giustizia e Pace con VIVAT International all'ONU. L'impegno di GPIC e tutte le attività di cui ero responsabile, blog e obblighi pastorali in diverse lingue inclusi il, mi legavano agli USA. Scrissi ai miei superiori, non esprimendo mai desiderio "andare in Ecuador o in Colombia o in Congo", o di lasciare gli USA.

Dopo aver accettato la decisione di tornare in Congo, posso ora esprimere il mio secondo sentimento, ovvero una profonda gratitudine per i due doni ricevuti in questi anni.

Primo. Dalla guerra civile del Burundi nel 1972, passando per l'esperienza dei campi profughi del Ruanda prima della tragedia del 1994, cercavo di capire l'origine di tanti conflitti nel mondo, e in Africa in particolare. I contatti avuti a Roma durante il 2° Sinodo Speciale dei Vescovi per l'Africa e le richieste che questo Sinodo fece al Papa mi avevano portato a concludere che “la terra” è sullo sfondo di ogni conflitto, soprattutto l'ambiguo fenomeno, chiamato accaparramento di terre.

P. Gian Paolo Pezzi, nel suo 1° giorno in Burundi, ottobre 1969.

L’ONU non riconosce l’accaparramento di terre come la causa della violazione di molti diritti umani. Una lettera sul tema inviata al Papa durante il seminario in Perù era pure rimasta senza risposta. Il presidente della Commissione Nazionale di Caritas e Giustizia e Pace della Liberia commentando il fatto mi disse: “Se la chiesa si rifiuta di riconoscere le proprie responsabilità in quest’assunto di terre, si troverà in futuro coinvolta in molti conflitti ". Ebbene le due opportunità avute negli USA, lavorare con VIVAT International all'ONU e i corsi di formazione sull'argomento tenuti in una dozzina di paesi mi hanno confermato che il fenomeno accaparramento di terre sta al centro di tanti conflitti. Di questo ringrazio perché è una guida nel mio lavoro per la Giustizia e la Pace.

Il secondo dono è un ricuperato “gusto” per la missione. Un gusto che non si riferisce a cibi o frutti esotici, a piccoli o splendidi progetti - il Comboni ci chiede di essere pietre nascoste nell'edificio del Regno -, o alla scoperta di paesi e culture diverse. Tutto questo è bello ma non altro che il contorno. Il “gusto” della missione si trova altrove.

Per me tutto ebbe inizio nell'estate del 2010. Alcune lettere dal Congo mi chiedevano di aiutare a trovare fondi per “un” progetto della Provincia”. La formulazione era confusa e mi richiese un notevole scambio di messaggi per capire che in realtà si trattava di due progetti, di cui uno aveva l’approvazione -il Centro CeRFA-, l'altro no.

P. Gian Paolo Pezzi, ultima immagine in Congo, nel gennaio 2008.

Quasi per scusarmi per la richiesta di tanti chiarimenti, espressi alla fine il mio entusiasmo e “anche” il diretto appoggio al progetto del CeRFA, Centro di formazione alla spiritualità di Giustizia e Pace. Pensavo in una collaborazione saltuaria con seminari come quelli che facevo in altri paesi. Il superiore comboniano del Congo andò oltre suggerendomi di tornare nel Paese. Colto di sorpresa, considerando anche della mia età, la prima reazione fu: “Non chiederò certo di cambiare posto!”, non l’ho mai fatto in 60 anni di vita religiosa!

Poi, nell'ottobre 2020, durante gli esercizi spirituali annuali, mentre leggevo Il libro della mia vita di Teresa d'Ávila, mi sono sentito sfidato da alcune sue espressioni tipo: "E così ci inganniamo, se non ci affidiamo completamente alla volontà di Dio". Mi resi conto che effettivamente negli Stati Uniti anch’io avevo la mia ‘confort zone’: amicizie, strumenti adatti al mio lavoro, libertà, entrate extra per ‘buone azioni’, alloggio e cibo, una macchina ‘quasi’ personale e molte altre cose che rendono comoda la vita. Non erano tutte rose e fiori, ma per una vecchiaia decente, finché fosse durata, andavano bene.

Essendo già stato in Congo, conoscevo il prezzo da pagare: clima, cibo, ambiente, rischi, situazione culturale, politico ed economico non sono sempre facili. L’esperienza della guerra nel 2000 non era poi così lontana. La mia posizione: "Non chiederò", sottintendeva qualcosa che mi va a costare.

Ed ecco che tra capo e collo mi arrivò la parola di Teresa: "Siamo così lenti e così avari nel donarci completamente a Dio. Dobbiamo saper pagare il prezzo di una rigorosa auto-separazione". Una parola che Il Vangelo di Gabriele, la seguente lettura spirituale, radicalizza affermando che la chiamata fondante per il discepolo è: "Lasciati spogliare nudo". Nell’Eucaristia, la parola di San Pietro mi giunse come monito, "Sii sollecito a rendere permanente la chiamata a te rivolta". L’appoggio al Centro CeRFA offrendomi di continuare il lavoro di GPIC rimuoveva l'ultimo motivo valido per non pagare il prezzo di una radicale auto-separazione.

Durante questo dialogo con i superiori, mi accompagnava il ricordo di un caro amico, p. Pino Giannini. Avevamo passato del tempo insieme a Roma. Lo incontrai di nuovo quando lasciava il suo incarico di superiore nella nostra Casa Generalizia dei comboniani. Mi disse: "Il miglior regalo che ho ricevuto qui è stato recuperare un gusto vero per la missione: lasciare tutto e tornare in Africa". Lo fece. È morto in Malawi poche settimane fa.

Il nostro Superiore Generale mi fece però notare: "L'idea di assegnarti fuori dagli USA, in Congo, non parte da noi. Parte dai dialoghi che avete avuto tu e il superiore del Congo". Aveva ragione.

Ho accettato l’invito a vivere di nuovo in terra africana come una sfida di fede nel riscoprire che il vero gusto della missione è la capacità di accogliere la via con radicalismo evangelico.

Al momento di lasciare gli USA un dettaglio mi ha confermato in questo atteggiamento. Aver fiducia nella provvidenza è un’espressione un po’ stereotipata, però richiamo a vivere nella fede quando l’impegno di metterci in gioco con tutta la nostra intelligenza ed esperienza. Avevo fatto il tampone lunedì 15 marzo per averne l’esito mercoledì 17 mattina per poter partire in serata. Un’antifona nella preghiera delle Lodi mi fece ripetere, My hearts is ready, Lord, il mio cuore è pronto, Signore. A che? mi trovai a pregare. E pensai. Vai a vedere che il tampone risulta positivo. Se sono malato è un invito alla sofferenza. Se invece è un monito ad accogliere quanto mi resta di vita come una sfida a prendere decisioni nella fede, so come devo affrontarlo. E alle 10 del mercoledì arriva il risultato, positivo. In linea con la mia preghiera, vado al laboratorio, insisto che mi facciano un altro test, passo dall’aeroporto e riprogrammo il viaggio da mercoledì a venerdì. Giovedì in giornata arriva il risultato del test, negativo e venerdì sono partito. Avevo letto giusto il messaggio, adesso mi toccherà viverlo fino in fondo.

Ti assicuro la mia preghiera e ti auguro, come lo faccio a me stesso, che la tua vita sia un cammino di risurrezione e il tuo cuore sia sempre gioioso come… la Pasqua.
Gian Paolo Pezzi, mccj
Milano, 28 marzo 2021, terminando la quarantena