Giovedì 17 novembre 2022
Padre Giuseppe Ambrosoli sarà beatificato in Nord Uganda, nella parrocchia di Kalongo, precisamente nel polo medico di un’antica missione dell’East Acholi, il prossimo 20 novembre 2022. Non senza una stringente ragione, perché lì padre Giuseppe ha iniziato la sua esperienza missionaria il 19 febbraio 1956 e l’ha conclusa il 27 marzo 1987, profugo a Lira, a 124 chilometri a Sud di Kalongo, dopo 31 anni di fecondissima presenza evangelizzate.

PADRE GIUSEPPE AMBOSOLI
Beatificazione a Kalongo

il 20 novembre 2022

Una missione evangelica
all’insegna della “relazione”

Padre Giuseppe Ambrosoli sarà beatificato il 20 novembre di quest’anno in Nord Uganda, nella parrocchia di Kalongo, precisamente nel polo medico di quella che fu un’antica missione comboniana dell’East Acholi. La ragione di tale scelta è provvidenzialmente non eludibile. Lì padre Giuseppe ha iniziato la sua esperienza missionaria il 19 febbraio 1956 e l’ha conclusa il 27 marzo 1987, profugo a Lira, a 124 chilometri a Sud di Kalongo, dopo 31 anni di fecondissima presenza evangelizzate.

Trascorsi sette anni, è stato richiesto a gran voce dagli abitanti di Kalongo e vi è stato riportato il 9 aprile 1994. Padre Giuseppe ha portato a massimo splendore le due perle di Kalongo: l’ospedale (il “piccolo” ospedale della savana, come lui eufemisticamente lo chiamava: 370 letti!)  e la Scuola Ostetriche (il fiore all’occhiello), sovrastati dal blocco basaltico denominato “got oret” (montagna spaccata) e protetti dalla sagoma, ora allargata, della prima chiesa di Kalongo. Una bella storia missionaria di sacrifici e di passione quella della missione di Kalongo, quasi subito segnata in ottobre del 1936 dalla repentina morte per malaria di due giovani missionari, p. Arturo Chiozza di 28 anni e suor Lucidia Vidale di 31. I frutti si sarebbero visti solo più tardi. E perché non vederli, anche oggi, idealmente fioriti con la beatificazione di padre Ambrosoli?  Vero tributo a colui che ha racchiuso in sé stesso il prete e il medico in un’armonia accattivante: fede e carità, bontà e competenza, fiammella del Santissimo e campo luce della sala operatoria, mani consacrate e mani da chirurgo così intrecciate dal non poterle più separare. Insomma, un vero figlio del Comboni che voleva i suoi: “santi e capaci”.

Sembra di poter dire che padre Ambrosoli ha iniziato il suo percorso missionario dal verso giusto: privilegiare su tutto “la relazione”. Noi avremmo iniziato, con delle idee, con delle costruzioni, con un bando ecc. Il “Cogito di Cartesio” difficilmente ci abbandona, almeno noi occidentali. Da qualche parte ha scritto Papa Francesco nella Evangelii Gaudium che in certi emisferi il “tempo” prevale sullo “spazio” e la “realtà” prevale ed è più importante della “idea”. E il tempo e la realtà sono la trama della “relazione” vera. Un figlio di Kalongo divenuto famoso, l’on Ambrogio Okulu, divenuto parlamentare e che ha seguito il padre da quando è arrivato sul posto fino alla fine, ha scritto di Ambrosoli che era un “uomo sociale”, ma subito dopo ha sentito la necessità di specificare che il “padre dott. Ambrosoli ha scelto di essere due cose: un prete di Dio e perciò una guida per gli altri in ordine alla loro salvezza e un medico che si specializzò in ginecologia e chirurgia e quindi un salvatore della vita degli altri. Perciò conclude, si potrebbe dire che lavorò propriamente nel ministero della vita”. Sarebbe così bello, ogni tanto, ascoltare cosa dicono di noi missionari coloro che abbiamo evangelizzato e cosa è rimasto nel loro cuore del Vangelo proclamato!

Quanti metodi missionari dovrebbero essere rivisti, quanti progetti ecclesiali capovolti! Per noi: “Cogito, ergo sum” - penso quindi esisto”. Per l’africano: “Sono in relazione quindi esisto – senza relazione non esisto” perché la forza vitale dipende dalla relazione. Padre Ambrosoli ha iniziato da qui fino a invitare le persone ad “entrare nel cerchio della Trinità”: ossia entrare nella “relazione” all’infinita potenza da cui tutto nasce e si sprigiona. Padre Giuseppe, il nostro missionario beato, in Africa è immediatamente entrato attraverso questa porta. Una corsia divina dalle infinite possibilità e un’antropologia altamente credibile.

Infatti il missionario, prete e medico di 33 anni, Ambrosoli, è entrato a Kalongo alla guida di un camion che non sapeva guidare, a cui però si era adeguato per il sovraffaticamento di un fratello che lo aveva caricato assieme ai suoi operai e non reggeva più il volante; padre Giuseppe, prima di servirsi a tavola, si guardava sempre in giro per osservare se il piatto di qualchedun altro  era vuoto: sempre l’ultimo a servirsi e il primo a servire; la sua jeep, pur stracolma, aveva sempre posto di riserva: le puerpere trovate per strada, così provate da non riuscire ad arrivare all’ospedale, non erano mai troppe per fermarsi e caricarle: c’era invece sempre un posto ad accoglierle sulla sua jeep;  da primario dell’ospedale era sempre il primo a presentarsi all’ambulatorio e a sera l’ultimo a ispezionare i pazienti, dopo magari 400 e più chilometri percorsi su strada sterrata da Kampala;  aveva un occhio di riguardo per tutti, specie per chi si trovasse abbandonato dai suoi e se lui, padre Giuseppe, ne avvertisse il bisogno e l’angustia: non mancava una spremuta portata furtivamente. A mezzanotte, un suo amico elettricista, colpito da malaria, scorgeva nella penombra la figura di padre Giuseppe chinato sul lavandino a lavargli i calzini. Insomma, all’occorrenza, Ambrosoli, primario o meno, diventava anche facchino di qualche medico arrivato a ore improponibili dall’Italia o si fermava con disarmante naturalezza a riassettare con la massima naturalezza il letto di qualche ammalato trascurato da tutti ecc.

Questa è storia di “relazione”, storia reale di missione del beato Ambrosoli. Ognuno lo sentiva fratello, padre, confratello, sorella, madre, confidente. Ognuno si sentiva assolutamente accolto, come se per lui nessun’altro esistesse al mondo.  Da maestro chirurgo quale era, si faceva insegnante generoso e paziente, intransigente solo se vedesse faciloneria, ma subito dopo amico comprensivo nascondendo e riparando sbagli altrui, anche molto gravi, senza infierire con giudizi, con critiche, con riferimenti deprezzativi, pungenti o umilianti … Mai! Se questa non è santità! «Credo che se i santi esistono, padre Ambrosoli ne fa parte di diritto» scrive il dott. Cosulich. Sempre che esista un diritto nei confronti della grazia, per padre Ambrosoli bisognerebbe tuttavia, con tutta umiltà, fare un’eccezione! Ma la gente capiva, anzi lo aveva testimoniato chiaramente al Processo canonico: “Si vedeva che aveva anteposto l’amore a Gesù e ai fratelli alla sua stessa professione medica”, di cui peraltro era maestro riverito e ricercato. Eppure, qualcuno diceva che era dabbenaggine, debolezza, incapacità a intervenire, quasi ostaggio di persone che approfittavano della sua straordinaria pazienza e bontà!

Invece, a costo di ripeterci, proprio dal punto di vista dell’evangelizzazione, padre Ambrosoli ha iniziato dal punto di vista giusto: ha privilegiato prima di tutto “la relazione”. Antropologicamente e soprannaturalmente non poteva iniziare in Africa in maniera più avveduta, immediata, semplice, profonda ed efficace. Anzitutto ha iniziato dalla relazione umana vera, riflesso della “relazione divina”, dove le persone si identificano come tali. Senza la relazione non esiste Dio e in Africa neppure la persona. Il missionario medico P. Ambrosoli si vedeva e si sentiva costantemente di fronte alla persona, ovunque, fosse il tragitto dalla casa all’ambulatorio o dalla chiesa alla sala operatoria il suo era un mondo affollato di persone per cui gli veniva spontaneo suggerire: “entriamo nella Trinità” o in momenti particolarmente difficili in sala operatoria: “Vuoi pregare”! Ha ragione il prof. Mario Mascetti a dire “che non staccava mai la spina dal circuito della grazia”. Era un Vangelo aperto capibile da tutti.

Padre Mario Marchetti, colui che ha preso l’iniziativa di sollecitare l’inizio di questa Causa di Beatificazione ed è stato suo Provinciale ed estatico ammiratore, deponeva a Kalongo nel maggio del 1999:

«Sono convinto che p. Ambrosoli è un buon esempio da proporre alla nostra cristianità qui in Uganda e nella Chiesa intera. Un esempio di fedeltà e amore alla propria vocazione e di impegno serio nella propria professione. Unisce una vita professionale ineccepibile, che è messa a servizio della missione in modo eroico, a una semplicità e umiltà straordinarie. Questo esempio è atto anche al rinnovamento degli istituti di vita attiva, e alla promozione vocazionale, e in generale costituirà un modello attuale e uno stimolo per medici e operatori assistenziali».

Per chiudere ridiamo la parola al nostro figlio di Kalongo, il quale ha conservato indelebili nel cuore le motivazioni per cui questo prossimo e primo beato comboniano deve essere ricordato:

Ci sono sei ragioni chiave, continua l’acuto osservatore di Kalongo, per dire che il dott. Ambrosoli era grande. Primo, era un uomo di grande coraggio. Conosciamo l’importanza del coraggio nella storia umana. Beni come la libertà di culto, la democrazia ecc. sono state conquistate all’umanità dal coraggio. In tutti gli sconvolgimenti dell’Uganda il dott. Ambrosoli affrontò con lo stesso coraggio, religiosi zelanti, politici vendicativi, ufficiali militari indisciplinati. Non cedette a nessuno per paura. Secondo, primeggiava per l’umiltà. S. Agostino domanda: “Vuoi essere grande?” “Allora comincia ad esser piccolo (umile)” - continua il Santo. “Guarda dove il dott. Ambrosoli lavorò, per chi lavorò e come lavorò e vedrai perché era umile”. Terzo, stupefacente controllo di sé. Mai visto arrabbiato o insolente. Sempre pieno di gentilezza, umanità, amore e comprensione per gli altri. Quarto, dotato di alto senso del dovere. Il dott. Ambrosoli visse per il dovere. Nessuna meraviglia che sia morto per e sul posto del suo dovere. Quinto splendeva per rettitudine di coscienza. Come avrebbe potuto fare tanto bene e avere tanto controllo di sé se Dio non era con lui? Era senza alcun dubbio pieno di rettitudine interiore. Infine, sesto, sempre rivestito dell’abito feriale della generosità. È venuto in Uganda per amore, ha lavorato per amore ed è morto per amore insieme ai suoi poveri contadini. È venuto e ci ha dato la sua persona, le sue competenze e la sua totale disponibilità alla nostra causa come aveva promesso a Dio.

Oltre a questa semplice riflessione vorremmo offrire qui due contributi ponderosi preparati da chi ha incontrato personalmente padre Giuseppe e che ci aiutano ad accostarlo nella sua interiorità e quotidianità missionarie? Uno del prof. Emilio Russo dal titolo: Punti significativi di una biografia: partire dal paese e arrivare in Africa. Il Russo un professore e politico Comasco che ha trascorso la sua vita a Ronago ed è tragicamente scomparso in settembre 2020 in un’escursione in montagna. L’altro è di un comboniano, professore di Teologia al Seminario Maggiore di Juba (South Sudan), padre Guido Oliana, che ha scritto “La testimonianza di santità missionaria del medico P. Giuseppe Ambrosoli nel contesto socio-politico-religioso dell’Uganda del suo tempo”.
Roma, 14 ottobre 2022
P. Arnaldo Baritussio
Postulatore Generale mccj

Padre Giuseppe Ambrosoli: Un cuore di sacerdote e medico al centro dell’Africa.
(Immagine di Umberto GAMBA)

Per saperne di più vedi allegati: 1. Dati biografici: Biografia di una vita missionaria nel vivo della storia; 2. Personaggio per oggi: La carità e l’umiltà su tutto; 3. L’ospedale oggi; 4. Giovanna Ambrosoli: Kalongo, il “piccolo grande miracolo” che ci ha lasciato Padre Giuseppe Ambrosoli; 5. Perfezione e paradosso; 6. Carità nel quotidiano; e 7. Positio di P. Giuseppe Ambrosoli.

Video su YouTube, finanziati dal Centro missionario di Como:
1) Martire della carità: P. Giuseppe Ambrosoli e la sua opera a Kalongo [36:29]
2)
Un uomo libero. Per tutti! P. Giuseppe Ambrosoli, il missionario e il medico. Da Ronago a Kalongo [32:55]
3)
P. Giuseppe Ambrosoli è venuto qui e ci ha cambiato la vita [18:27]
Christine, studentessa alla scuola per ostetriche di Kalongo, Uganda, racconta la figura di P. Giuseppe Ambrosoli.
4)
Il prete dottore. P. Giuseppe Ambrosoli missionario a Kalongo [10:01]
Una mamma, Mary, racconta ai suoi due figli piccoli chi era e cosa è stato p. Giuseppe Ambrosoli.

Seguono due contributi ponderosi preparati da chi ha incontrato personalmente padre Giuseppe e che ci aiutano ad accostarlo nella sua interiorità e quotidianità missionarie? Uno del prof. Emilio Russo dal titolo: “Punti significativi di una biografia: partire dal paese e arrivare in Africa” e l’altro del comboniano, professore di Teologia al Seminario Maggiore di Juba (South Sudan), padre Guido Oliana, che ha scritto “La testimonianza di santità missionaria del medico P. Giuseppe Ambrosoli nel contesto socio-politico-religioso dell’Uganda del suo tempo”. Si raccomanda una lettura ad intervalli per poter gustare e non essere sopraffatti dalla molteplicità dei contenuti.

Punti significativi di una biografia:
partire dal paese e arrivare in Africa

Emilio Russo

Padre Giuseppe Ambrosoli (Rivista Além-Mar)

Potremmo titolare questa rivisitazione di alcuni elementi della biografia del padre dott. Giuseppe Ambrosoli semplicemente come “ricordi scarni eppure significativi”. L’estensore, originario della stessa comunità di Ronago, e giovane studente, ricorda oltre all’unico incontro con padre Ambrosoli alcuni aspetti significativi della sua biografia che emergono con tutta discrezione e di cui si dovrà sempre tener conto.

Ronago un tipico paese del Comasco anni ‘40

Nel 1949, quando il giovane medico Giuseppe Ambrosoli bussa alle porte del seminario di Rebbio per comunicare la sua volontà di entrare a far parte della famiglia dei Padri Comboniani, il piccolo paese da cui è partito ha un volto che per un giovane di oggi sarebbe difficile persino immaginare. Le strade sono ancora lastricate di pietre, l’ufficio postale più vicino si trova a qualche chilometro di distanza, dove c’è anche il capolinea delle corriere, con il radiatore sporgente sul davanti e lo scarico che sbuffa zaffate di nafta. Il latte si va a prenderlo direttamente nella stalla. In autunno, quando ci si reca nei boschi a raccogliere le castagne, si possono incontrare i contadini con i carri pieni di foglie ormai secche raccolte per fare “il letto alle mucche” e, quando nevica (e allora nevicava per davvero), le strade vengono sgombrate dallo spazzaneve trainato dai buoi. Partiti dalla medesima aia in cui, d’estate, la trebbiatrice solleva nuvole dense di polvere e pula attirando i ragazzi da tutto il paese. Proprio lì, nella cascina che sta davanti alla “fabbrica”.

Del resto, Ronago è ancora un agglomerato di cortili e di cascine, dove la vicinanza con la Svizzera è una benedizione per chi cerca un lavoro (e per chi pratica magari un po’ di contrabbando), ma il vanto del paese è la fabbrica che produce miele, caramelle, lana d’acciaio per pulire le pentole e cera per lucidare mobili e pavimenti. E dove poter lavorare rappresenta un motivo d’orgoglio oltre che un’opportunità. A mezzogiorno le donne staccano un quarto d’ora prima del suono della sirena per poter preparare il pranzo; per le mogli e i mariti che lavorano lì, c’è la possibilità di alternare i turni di lavoro per poter badare ai figli.  Tra gli operai girano le tessere per andare allo stadio a seguire senza pagare il biglietto le partite del Como. Poi ci sarà anche la partecipazione agli “utili” dell’azienda pagati sotto Natale. Un welfare aziendale alla buona, con qualche venatura di paternalismo ma anche la prova di un legame forte tra azienda e territorio, la testimonianza di quella che più tardi si sarebbe definita “responsabilità sociale” della fabbrica. L’esempio di un capitalismo virtuoso ancora capace di riconoscere il valore del lavoro e la dignità delle persone. Conosciute una ad una e mai lasciate sole.

La fabbrica era nata dall’intuizione geniale di una donna, Marianna Nessi, la cui iniziale (N) compare ancora sul balcone della casa padronale degli Ambrosoli, che aveva orientato la riconversione –come si direbbe ora- delle produzioni svolte nelle proprietà di famiglia, la bachicoltura e la viticoltura. Per produrre e commercializzare il vino erano state costruite da poco le grandi cantine del Roncaccio, giusto in tempo, però, perché la diffusione della fillossera facesse strage del 90 percento delle viti italiane. E dopo che il nipote Giovanni Battista, il padre di Giuseppe, aveva saputo trasformare l’iniziale attività artigianale in un marchio conosciuto nel mondo, il futuro del nome degli Ambrosoli –ma anche quello del paese- da quel momento, sarebbe stato legato a quello delle api.

Ambrosoli: un cognome dalle radici illustri

Prima il nome degli Ambrosoli si era distinto in altri campi. Il bisnonno del Padre, nato a Como nel 1827, amico di Vincenzo Monti e Pietro Giordani, era stato bibliotecario a Brera, docente di filologia e di estetica nell'università di Pavia, Accademico della Crusca e autore di numerose opere. Aveva esordito traducendo la Geografia di Strabone, la Storia della letteratura antica e moderna di F. Schlegel e le Storie di Ammiano Marcellino Nello stesso periodo di tempo aveva composto una Grammatica della lingua italiana , ristampata in seguito più volte, e un Manuale della lingua italiana, entrambi parte di una serie di manuali concepiti all’interno del programma di una enciclopedia di scienze, lettere ed arti. Ancor giovane, aveva scritto e pubblicato la sua opera più importante, il Manuale della letteratura italiana (Milano 1831-32, voll. 4), ristampato più volte e con un successo notevole[1].

Il figlio, suo omonimo, laureato in Giurisprudenza, aveva invece scelto di diventare giornalista, in un’epoca il cui in Italia si stava diffondendo la stampa periodica. Aveva diretto un quotidiano di orientamento “moderato-indipendente”[2], “L’Araldo”, fondato, nel 1881 insieme con il fratello Solone, numismatico di fama nazionale e tra i promotori del Museo di Como (che gli ha dedicato una via).  Poi venne l’impegno politico e Francesco Ambrosoli fu eletto per quattro legislature, dal 1890 al 1900, alla Camera dei Deputati del Regno d’Italia.  L’Italia –e Como- vivevano anni convulsi, che gli storici definiscono come “la crisi di fine secolo”, culminata nell’attentato che costò la vita al re Umberto I. Anni in cui il tema al centro della discussione era legato ai modi e ai tempi dell’industrializzazione del paese e in cui la classe dirigente finì per dividersi attorno all’ alternativa tra una torsione autoritaria degli ordinamenti liberali e l’opportunità invece di adottare politiche inclusive in grado di integrare nella realtà sociale e politica le masse dei lavoratori e le loro espressioni sindacali e politiche. Centrale, in questo contesto, era divenuto il tema del rapporto tra la rappresentanza parlamentare e la legittimazione dei governi. Tra la possibile evoluzione degli ordinamenti in senso democratico e “il ritorno allo Statuto”, invocato in particolare dal capo della destra, Sidney Sonnino, in un famoso intervento in cui veniva auspicato che il re, nell’investire i governi, ritornasse a prescindere dall’esistenza di una maggioranza parlamentare[3].

Nel vivo della polemica, nel corso del 1895, Francesco Ambrosoli pubblicò un pamphlet di grande efficacia fino dal titolo, Salviamo il Parlamento[4], in cui difendeva l’istituto parlamentare e avanzava proposte interessanti su come ridargli una centralità che rischiava di andare perduta, proponendo, tra l’altro, un’indennità a favore dei parlamentari e una più intensa attività di indirizzo nei confronti dei governi[5].

La ferita della questione romana, conclusasi nel 1870 sul piano militare ma quanto mai aperta nella coscienza degli italiani, provocava ancora, negli ultimi anni del XIX secolo, una frattura profonda nel tessuto della società. L’esclusione dei cattolici dalla vita politica nazionale, in parte “compensata” dall’attivismo in campo sociale, culturale ed economico, soprattutto dopo la pubblicazione della Rerum Novarum nel 1891 – insieme con l’appoggio alle masse che si riconoscevano nel Partito socialista - rappresentava una delle cause di fondo della debolezza del nuovo Stato italiano. Capitava così che la faglia tra il progressismo e la conservazione venisse vista attraverso la contrapposizione tra laici – spesso decisamente laicisti - e cattolici, con l’aggravante che lo stesso mondo socialista finì per collocarsi sul fronte dell’anticlericalismo, segnando così una profonda distanza dalle masse cattoliche che avrebbe pesato non poco nella storia successiva del paese. 

Il “non expedit”, che dal 1868[6] aveva imposto ai cattolici di non essere “né eletti né elettori”[7] dovette provocare un problema di coscienza anche a Francesco Ambrosoli, che tuttavia, nel suo ruolo di parlamentare,  non rinunciò a battersi per l’indipendenza della Chiesa, come appare da una interrogazione in cui, insieme con il collega Enrico Scalini[8], originario di Dongo e deputato del collegio di Appiano, chiedeva al ministro di grazia e giustizia di “conoscere quali criteri generali o quali ragioni speciali indugino da oltre un anno la concessione dell'Exequatur al vescovo di Como”, ovvero la ragione per cui – come talvolta allora accadeva per un semplice dispetto ai cattolici - il governo avesse scelto di ostacolare la presa di possesso dell’incarico nella diocesi del vescovo designato dalla Santa Sede[9].

Dal paese al mondo in un solco diverso eppure non illogico

L’Africa: chissà come gli è venuta in mente? Se questo era il retroterra famigliare, sociale, culturale di Giuseppe Ambrosoli, la domanda è tutt’altro che peregrina. Forse è più facile immaginare che sulla scelta di diventare medico possa avere pesato l’ammirazione per la figura dell’altro nonno, quello materno, il dottor Costantino Valli, il padre della madre Palmira, capostipite di una famiglia in cui si erano manifestate numerose vocazioni religiose e sacerdotali. Al punto che si potrebbe persino azzardare l’ipotesi che molte delle inclinazioni di Giuseppe Ambrosoli siano maturate proprio dalle suggestioni ricavate dalla famiglia materna. Del resto, non si comprenderebbero alcuni tratti fondamentali della sua psicologia se si prescindesse dallo stretto rapporto con la madre. Il parroco di Ronago, don Carlo Porlezza, che ebbe la grazia di assistere alla maturazione umana e religiosa di Padre Giuseppe, amava ricordare una confidenza ricevuta dalla signora Palmira. La mamma gli diceva che da piccolo, mentre gli infilava i calzini, Giuseppe le confidava di voler farsi prete. E lei, ridendo, lo spingeva sul divano scuotendo la testa. In realtà, compiaciuta, si può immaginare, di quella lontana eventualità.

Più complesso, va detto, deve essere stato il rapporto con il padre. Quando Giuseppe nasce, nel 1923, settimo di otto fratelli, sei dei quali maschi, Giovanni Battista Ambrosoli è il sindaco del paese, e lo sarà fino alla nuova legge che sostituirà la figura del podestà a quella dei sindaci elettivi. La sua personalità meriterebbe di essere approfondita meglio. Quello che si può intuire del fondatore della “ditta” (come veniva definita in paese) è che la sua esistenza deve essere stata segnata dalla scomparsa prematura del padre (avvenuta nel 1908, a soli 62 anni) e dalla personalità di una madre straniera[10], rimasta alla morte del marito priva di riferimenti. Destinato a dirigere le proprietà di famiglia e le attività agricole connesse, Giovanni Battista compie studi tecnici a Zurigo per poi essere richiamato, dopo la scomparsa del padre, per farsi carico delle sue nuove responsabilità in un contesto non facile. È un uomo, si direbbe oggi, che “si è fatto da solo”, affrontando la sfida di una attività imprevista e sapendo realizzare il passaggio di un ambito produttivo tradizionalmente artigianale e limitato ai mercati locali in una moderna attività industriale. Il miracolo riesce grazie al sacrificio di una parte delle proprietà, a una forte capacità di innovare[11] e persino ai prestiti richiesti e ottenuti da alcune delle famiglie del paese.

Giovanni Battista è un imprenditore di altri tempi, erede di una tradizione liberale fatta di sobrietà e di rigore, fiduciosa nelle capacità di un élite illuminata di trasformare il paese, radicata in una visione cristiana della vita e della società ma non del tutto convinta della necessità di mantenere un legame organico con le realtà ecclesiastiche. Una sorella, suor Antonietta, è entrata nella congregazione delle Orsoline ma si intuisce una certa difficoltà a comprendere la scelta di Giuseppe. In occasione dell’ordinazione, ricevuta nel Duomo di Milano il 17 dicembre 1955 da Giovanni Battista Montini, il futuro papa Paolo VI, e della prima messa a Ronago, il padre è rimasto nel buen ritiro di San Remo, dove è solito passare l’inverno, con la giustificazione di uno stato psico-fisico precario, e sarà il figlio a fargli visita nei giorni successivi.

A Ronago, intanto, nei giorni che avevano preceduto l’ordinazione, si era svolta alla spicciolata la processione delle famiglie che lasciavano negli uffici della “ditta” i regali per il novello sacerdote. Un commovente spettacolo di popolo -a cui chi scrive ebbe la grazia di partecipare- culminato nella fiaccolata serale degli uomini del paese che avevano atteso Padre Giuseppe alle porte di Ronago con i clacson delle Vespe e delle Lambrette lucidate per l’occasione. Fino all’apparizione di quel giovane dalla vocazione adulta[12], dall’aspetto ascetico e visibilmente commosso, accolto dal fratello Francesco, allora sindaco del paese, e dal parroco don Carlo Porlezza sulla piazza in cui la chiesa e il municipio si guardano negli occhi da sempre.

Gli anni difficili della guerra all’epoca della scelta: dal ’40 al 50’ in poi

Erano, quelli, anni di grandi speranze, alimentate dai primi segni di una ripresa poderosa dell’economia e dal realizzarsi delle aspirazioni di un benessere diffuso. Anni diversi da quelli che li avevano preceduti, quelli del fascismo e dei conflitti laceranti nella coscienza dei credenti e degli uomini di buona volontà, quelli di una guerra assurda finita nel dramma e di una difficile ricostruzione, morale prima ancora che materiale che ora, dopo le ubriacature delle ideologie totalitarie, si affidava soprattutto al recupero dei valori cristiani. Ora si parlava di pace e di sviluppo, di Europa e di Nazioni Unite, ed era iniziata la stagione in cui le potenze coloniali stavano per abbandonare i territori d’oltremare occupati spesso da secoli, oggetto di aspre controversie e terreno di coltura delle tensioni e degli odi nazionalistici che avevano provocato due sanguinose guerre mondiali e terribili genocidi.

Di quegli anni, Giuseppe era stato spettatore e vittima. Dopo le scuole elementari frequentate in paese e le medie terminate in un collegio religioso in Liguria, Giuseppe aveva concluso gli studi al Liceo Volta di Como nel 1942, promosso senza avere sostenuto gli esami di maturità, soppressi a causa della guerra[13]. Poi si era iscritto alla Facoltà di Medicina alla Statale di Milano. Ma quelli non erano tempi facili, e il giovane Giuseppe –aveva allora 19 anni- si divideva tra la frequenza dei corsi, l’attività nell’Azione Cattolica e l’impegno, assai rischioso, ad aiutare “persone invise al regime, soprattutto ebrei perseguitati” a riparare nella vicina Svizzera dopo il 25 luglio 1943[14].  Secondo la testimonianza di un suo compagno[15] nel campo di addestramento tedesco di Heuberg, vicino a Stoccarda, dove Giuseppe sarà più tardi inviato, sarebbe stata questa la ragione della decisione di rifugiarsi in Svizzera. È da notare che la circostanza, ignota ai più, rappresenta un’ulteriore conferma del carattere schivo, antieroico e antiretorico di Giuseppe Ambrosoli, solito a evitare di assumere atteggiamenti da protagonista anche a proposito di comportamenti che altri avrebbero invece esibito pubblicamente. E tuttavia si tratta di un passaggio significativo della sua biografia in quanto manifesta il coraggio e la rettitudine di un giovane che, negli stessi anni, stava maturando, in un contesto drammatico, la sua vocazione.

Esonerato dal servizio militare in quanto aveva due fratelli che già erano sotto le armi, Giuseppe, dopo l’8 settembre non poteva invece sottrarsi al bando emesso dalla Repubblica di Salò e che prevedeva la pena di morte per i renitenti. In realtà, le vicende del periodo che va dalla fine del 1943 alla Liberazione avvenuta nella primavera del 1945 appaiono caratterizzate da una particolare concitazione e contrassegnate dall’imposizione violenta che fascisti e autorità di occupazione esercitarono su persone incolpevoli. Giuseppe, dopo essere transitato per Chiasso per sfuggire al reclutamento forzato, era stato smistato in una località vicina a Zurigo con lo status di internato. Visse allora un conflitto, che dovette essere lacerante, tra l’etica della convinzione e l’etica della responsabilità. Pesava su di lui il ricatto esercitato nei confronti della famiglia, che gli suggerì – o meglio, gli impose- la scelta di rientrare in Italia. Lo fece senza attenersi però alle disposizioni fissate. Non essendo riuscito a sconfinare nei pressi di Novazzano, il paese svizzero al confine con Ronago, si vide costretto a passare la frontiera in una località tra Ponte Tresa e Luino insieme con l’amico Mattiroli di Albiolo. I due vennero però catturati dai militi di una caserma posta proprio nei paraggi e destinati al campo di raccolta di Fossoli, da dove i prigionieri venivano poi smistati nei lager tedeschi. Il suo compagno, prima di essere allontanato, fece in tempo a scrivere un biglietto, che venne recuperato da una ragazza del posto e fatto avere alla madre e da questa agli Ambrosoli.

Il fratello Carlo, accorso immediatamente per tentare di salvare Giuseppe, ottenne il suo rilascio in cambio però della decisione di arruolarsi come infermiere nelle truppe repubblichine. Il povero Mattiroli, invece, inviato in un lager, non vi fece più ritorno.

Il periodo trascorso per “l’addestramento” nel campo tedesco di Heuberg è ricco di testimonianze sui comportamenti e sulla personalità di Giuseppe. Se ne ricava l’immagine di un giovane diventato ormai un uomo risoluto, dotato di forti convinzioni e di una preparazione teologica che colpisce i compagni oltre che di una straordinaria disponibilità al dialogo. Riferisce Camillo Terzaghi: “Ambrosoli aveva come camerati altri studenti di medicina, di cultura e tradizioni diverse: anarchici e comunisti, credenti e atei (…) e manteneva un atteggiamento rispettoso e conciliante”.

Qui, per la prima volta, si apprende in modo esplicito il progetto di vita di Giuseppe, consegnato in quell’inferno di stenti e di prigionia, a uomini diversi di buona volontà: “laurearsi in Medicina, specializzarsi in Malattie tropicali e poi diventare sacerdote e missionario”. E “da allora –da quando c’era stata quella rivelazione, conclude Terzaghi- Ambrosoli era diventato il confidente e il consolatore e, per tutti, anche l’amico fidato”[16].

Le vicende successive vedono Giuseppe trasferito lungo la linea gotica in qualità di infermiere, del tutto estraneo –secondo tutte le testimonianze- ai fatti di sangue terribili dell’inverno 1944-45 e, anzi, impegnato a ridurre le distanze tra partigiani e soldati della RSI e “ad aiutare tutti”. Così secondo Luciano Giornazzi, medico comunista di Busto Arsizio, il quale molto tempo dopo, dichiarerà: “Sono trascorsi ormai 55 anni, ma il ricordo di Padre Ambrosoli in me è sempre vivido e limpido ed io sono sempre più persuaso che in quei lontani e tristi giorni ho avuto la fortuna di avere conosciuto un ragazzo che con il suo comportamento verso il prossimo mi ha confermato che i santi esistono ancora ai nostri giorni”[17].

Il resto della vita di Padre Giuseppe Ambrosoli è forse più noto. I propositi espressi nel campo di Heuberg si realizzeranno e in tempi più brevi rispetto a quanto si sarebbe potuto immaginare. Nel 1949 Giuseppe diventerà dottore e confermerà la scelta di approfondire lo studio della Medicina tropicale a Londra, dove approfitterà per fare pratica di Inglese. Prima, però, annuncerà ai Padri Comboniani di Rebbio la richiesta di entrare nella Congregazione, chiedendo la garanzia di poter essere insieme medico e missionario e specificando che l’alternativa, quella di diventare un gesuita, gli era sembrata più problematica proprio per l’incertezza riguardo alla possibilità di dedicarsi alla pratica medica in Africa, com’era nei suoi desideri[18].

Intanto vive intensamente l’esperienza del Cenacolo, un gruppo dell’Azione Cattolica animato da don Silvio Riva e operante nella pieve di Uggiate Trevano di cui Giuseppe diventa l’anima percorrendo i paesi della zona con la sua mitica Guzzi 500 e costruendo amicizie che dureranno nel tempo. Non mancherà nemmeno una parentesi dedicata all’impegno nell’Amministrazione comunale di Ronago, sostenuta da un’ispirazione ideale esplicita: “non basta che gli altri mi dicano democristiano”. Come dire che le classificazioni dovute alle appartenenze politiche non possono mai esprimere del tutto la tensione morale che è alla base di un impegno per il bene comune. Vicesindaco nella giunta guidata da Andrea Ghielmetti, fu l’artefice della costruzione della nuova scuola elementare, progettata dal cugino ingegner Valli.

L’uomo è il suo stile

Sia consentito di concludere con un ricordo personale, quello di un bambino nato a poche centinaia metri dal luogo in cui, ventisette anni prima, aveva visto la luce il Beato Giuseppe Ambrosoli. L’unica occasione di un incontro da adulto risale agli inizi del 1969, quando, grazie ai buoni uffici del parroco di allora, don Matteo Censi, la redazione del giornalino allora realizzato da un gruppo di ragazzi volonterosi ottenne di intervistarlo durante un breve periodo trascorso in Italia per curare la salute già gravemente compromessa. “Una pausa – scrivemmo- particolarmente densa di studi e di impegni: aggiornamento sul piano delle nuove tecniche chirurgiche, giri di conferenze, raccolte di medicinali. Tutto per servire meglio Dio nel prossimo”[19]. Quello che colpì me e Gianni Conconi, allora giovane studente di medicina poi prematuramente scomparso, che fummo incaricati di fargli visita, fu soprattutto la sua straordinaria modestia. Eppure, annotammo nel nostro pezzo, si trattava di una persona che aveva da poco ottenuto il Premio “Missione del medico” come riconoscimento delle sue capacità professionali. Ma questo non gli impedì di fare un’affermazione –l’ultima dell’intervista” – particolarmente umile: “Quello che soprattutto interessa è che siano molti medici laici, che, magari, sono più bravi di noi, sotto tutti gli aspetti”.

Gianni gli domandò: “Qual è stata la sua più grande gioia?”. Risposta: “Non so, forse l’essere riuscito a fare un’operazione, avere salvato qualche vita: ecco, forse il primo taglio cesareo che ho eseguito da solo”. “E il suo più grande dolore?”. “Certamente quando si vede che non si è capaci di fare niente per un malato. Magari si pensa: ‘Se avessi studiato di più, forse l’avrei salvato’. Questa è una grossissima amarezza. E poi l’ingratitudine, che è sempre dolorosa: come c’è in Italia, c’è pure in Uganda”.

Nell’atteggiamento e nelle parole “estorte” a Padre Giuseppe in un locale a piano terra della fabbrica di famiglia, leggemmo un grande amore per gli uomini, inteso come il riflesso e la concretizzazione di una vocazione più alta. E non potemmo fare a meno di pensare che la parte dell’umanità a cui l’affetto e la sollecitudine di Padre Giuseppe si rivolgevano era quella più fragile e indifesa, quella dei malati, quella delle donne, quella dei neri (“negri” li definiva ancora, senza alcuna connotazione dispregiativa), vittime spesso delle pretese di dominio del nostro mondo, oggetto ieri, e talvolta ancora oggi, di disprezzo e di sentimenti di odio. A quei neri, uomini come noi, nostri fratelli, Padre Giuseppe aveva dedicato la sua esistenza con una assoluta dedizione, e lo avrebbe fatto ancora, fino a morirne.
Emilio Russo

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[1]  A. ASOR ROSA, Dizionario Biografico degli Italiani, vol. II, Treccani, 1960.
[2] Secondo il Manuale della Provincia di Como, Ostinelli editore.
[3] Torniamo allo Statuto è un articolo pubblicato il 1º gennaio 1897 nella rivista “Nuova Antologia”.
[4] Contro la retorica antiparlamentarista di chi denunciava la mediocrità dei rappresentanti del popolo, Ambrosoli scriveva: “Nel sistema parlamentare muore la poesia delle grandi epopee, delle epoche splendide. ma trovano protezione tutti i desideri modesti, le condizioni di prosperità oscura e locale, quelle condizioni intrinseche del pubblico bene che i posteri non ammireranno forse, ma che noi troviamo buone e chiamiamo con qualche orgoglio la nostra civiltà”.
[5] Nella Introduzione, l’Autore di definisce “un giornalista disoccupato” e, in effetti, la pubblicazione de “L’Araldo” era cessata nel 1893 e, da alcuni anni, la direzione del giornale era già stata affidata a Luigi Massuero, che poi sarebbe diventato il primo direttore del giornale “La Provincia”, di orientamento liberale-radicale e vicino agli ambienti della massoneria.
[6] In vigore fino al 1919 ma che aveva subito una significativa attenuazione nel 1913 in occasione del cosiddetto Patto Gentiloni.
[7] In realtà questa formula venne utilizzata già in occasione delle prime elezioni svoltesi subito dopo la proclamazione del Regno d’Italia nel 1861 e venne coniata dal direttore del quotidiano cattolico “L’Armonia” don Giacomo Margotti.
[8] Oltre che collega, Scalini fu buon amico di Francesco Ambrosoli. Fu lui a pronunciare l’orazione funebre in occasione della morte avvenuta nel 1908 e a donare i marmi della cava di sua proprietà a Musso per la realizzazione del monumento funebre che si trova nel cimitero di Ronago. Particolarmente longevo – era nato nel 1857 e morì nel 1946 -, non essendo stato tra i sostenitori del fascismo, dopo la Liberazione venne chiamato a far parte della Consulta Nazionale, che si costituì tra il settembre 1945 e le elezioni dell’Assemblea costituente del giugno dell’anno successivo.
[9] Si tratta del vescovo Teodoro Valfrè di Bonzo, che succedette al beato Andrea Carlo Ferrari entrando in possesso della sede nel marzo 1895 e che, dieci anni dopo, diventerà vescovo di Vercelli.
[10] Maria Weghuber, austriaca, andata a sposa ventunenne a Vienna nel 1881 con Giovanni Battista.
[11] Colpisce, in particolare, l’attenzione, allora straordinaria, per le politiche di marketing, che, nel tempo, ha visto la partecipazione della società alle prime edizioni della Fiera Campionaria di Milano, la presenza nella carovana del Giro d’Italia ciclistico, le campagne promozionali affidate alla cartellonistica ecc.
[12] Padre Giuseppe aveva allora 32 anni, un’età piuttosto inusuale per un’ordinazione sacerdotale a quei tempi.
[13] La figlia di Santino Amante, suo compagno di scuola, medico come lui e uomo di sinistra, ricorda ancora con commozione la profonda amicizia mantenuta con padre Giuseppe e la sua abitudine di andare a trovarlo all’ospedale di Como ad ogni rientro in Italia.
[14] Positio, p.27.
[15] Si tratta di Giuseppe Terzaghi. La testimonianza, riportata in Positio, Summarium documentorum, p. 161, venne raccolta a Varese nel settembre 1999.
[16] Positio, p. 29.
[17] Dalla testimonianza di Luciano Giornazzi, raccolta a Busto Arsizio nel settembre 1999, in Positio, Summarium Documentorum, p. 162.
[18] Confermerà questa circostanza anche nel dialogo registrato da “Comunità 68” nei primi mesi del 1969.
[19] “Comunità 68”, s.d.

LA TESTIMONIANZA DI SANTITÀ MISSIONARIA
DEL MEDICO P. GIUSEPPE AMBROSOLI
NEL CONTESTO SOCIO-POLITICO-RELIGOSO
DELL’ UGANDA DEL SUO TEMPO

Fr. Guido Oliana

Padre Giuseppe Ambrosoli.
(Immagine di Umberto GAMBA)

INTRODUZIONE

Vari motivi mi hanno indotto a condividere alcune riflessioni sulla significativa figura di P. Giuseppe Ambrosoli, con particolare attenzione al complesso contesto socio-politico-religioso durante la sua vita di missione in Uganda (1956-1987), che in parte anch’io ho condiviso nel mio servizio missionario (1975-1981; 1994-2005).[1]

In primo luogo, ho accettato di dare il mio contributo per fare un favore a chi me lo chiedeva. Ma, alla fine dell’impresa, questo si è trasformato in un favore di grazia fatto a me, per l’opportunità di avvicinare la straordinaria santità di Ambrosoli ed esserne positivamente beneficato. In secondo luogo, sento un certo legame con P. Ambrosoli, perché nel 1979 durante i miei primi mesi di vita missionaria nella parrocchia di Kasaala (allora diocesi di Kampala e ora di Kasaana-Luwero) ebbi modo di incontrarmi con lui personalmente. Gentilmente mi visitò per un mio presunto problema di salute, e poi mi disse. “Mi sembra che tutto vada bene, ma io non sono proprio un esperto in materia.” Rimasi perplesso e al contempo meravigliato per la sua umiltà. In terzo luogo, ho sempre avuto un sentimento speciale per Kalongo. Quando ero provinciale in Uganda (1999-2004) visitai Kalongo varie volte. I ribelli del Lord’s Resistance Army (LRA) erano ancora attivi nella zona. Questo mi faceva sentire una certa partecipazione affettiva ai drammi vissuti a Kalongo ai tempi di Ambrosoli.

La Positio super Vita, Virtutibus et Fama Sanctitatis (2009), curata dal Postulatore della causa P. Arnaldo Baritussio, è un prezioso compendio della vita e delle virtù di P. Giuseppe Ambrosoli. Gli elementi essenziali della sua testimonianza di santità missionaria vi sono espressi in maniera esaustiva. In questo mio contributo mi limito a sottolinearne alcuni.

Nell’introdurre la figura missionaria di Ambrosoli due riflessioni mi sembrano ispiranti quale chiave interpretativa teologica della sua vicenda. Queste pongono la sua testimonianza di santità missionaria nella prospettiva di una visione di intensa fede cristologica ed eucaristica precisamente come identificazione col Maestro Gesù che curava i malati.[2] La prima è un’affermazione del superiore generale di allora, P. Francesco Pierli, alla notizia dell’evacuazione da Kalongo. La seconda è una considerazione di P. Maurizio Balducci, studente a Kampala al tempo della morte di P. Ambrosoli.

Il 16 marzo 1987, P. Pierli scrisse una lettera a P. Giuseppe pochi giorni prima della sua morte, avvenuta il 27 marzo 1987. La lettera inizia con le seguenti significative parole: “Pace e bene nel cuore di Cristo, la cui trafittura esperimentiamo nel nostro stesso cuore attraverso la sofferenza che ci sta causando l’attuale situazione del Nord Uganda.”[3] La tragedia della chiusura dell’ospedale di Kalongo, con le risonanze esistenziali nel cuore di P. Ambrosoli, fondatore e padre dell’ospedale, di tutti i suoi collaboratori, della gente del posto, della Chiesa locale e dei Missionari Comboniani, viene vista come una dolorosa trafittura, che attualizza nel contesto del Nord Uganda la trafittura di Cristo proprio nel momento del fallimento umano della sua missione. Qui si consuma anche la testimonianza missionaria del medico comboniano P. Ambrosoli quale compendio di tutta una vita di dedizione sacrificale per la missione.

In una lettera da Lecce del 20 marzo 1992, P. Balducci descrive la sua esperienza di P. Ambrosoli del marzo 1987 quand’era studente a Kampala. “Io ero scolastico a Kampala quando P. Ambrosoli fu ‘sbattuto fuori’ da Kalongo. Un giorno lo invitammo a celebrare la Messa tra noi che letteralmente pendevamo dalle sue labbra. Con l’abbozzo di un sorriso, diverse volte parlò del suo ‘amato fallimento’ (‘beloved failure’) [ispirato dalla spiritualità di Charles De Foucauld[4]]. Ma si capiva che in fondo c’era tanta amarezza, non certo consolazione. Allo scambio della pace ebbe un barcollo e si appoggiò all’altare che era un semplice tavolo. Il calice si rovesciò e lui ne fu ulteriormente amareggiato. Per noi, invece, fu come un segno. Credo che il Padre morì non più tardi di una settimana dopo, e noi collegammo questo inaspettato evento al sangue di Cristo versato sull’altare. Davvero il suo sangue si mescolò con quello di Cristo. Il suo ‘amato fallimento’ fu redentore come quello di Cristo.”[5] Il sangue di Cristo versato sull’altare si unì al sangue di P. Ambrosoli versato nella sua morte, segno del suo amore sacrificale per Kalongo e per i suoi ammalati.

P. Manuel Grau, Missionario Comboniano e medico, che fu a Kalongo per un certo tempo, dà la sua testimonianza su P. Ambrosoli, sottolineando l’importanza di attualizzarne la ricca eredità di testimonianza missionaria al di là delle situazioni esistenziali in cui egli si venne a trovare in Uganda.[6] In questo mio contributo, in primo luogo, cerco di cogliere la sua testimonianza che va al di là di tali circostanze particolari per poi applicarla al contesto socio-politico-religioso dell’Uganda.

Mi sembra perciò importante, anzitutto, recuperare il concetto di santità apostolica in termini di “attrazione” sviluppato da Ambrosoli nel suo generoso ed impegnato itinerario spirituale, a fondamento della sua testimonianza missionaria a Kalongo. La traiettoria è, dunque, duplice: 1) Missione come “attrazione” in quanto fondamento strutturale della sua interiorità spirituale: 2) Missione come “attuazione” in quanto esplicitazione concreta della sua spiritualità missionaria. Questa chiave di lettura dell’esperienza missionaria di P. Ambrosoli viene giustificata dalla caratterizzazione che il collega Camillo Terzaghi nel campo di addestramento militare in Germania aveva evidenziato, cioè la presenza di due caratteristiche complementari: la dolcezza e la decisione. “Già da allora, la decisione di Ambrosoli era pari alla sua dolcezza”![7]

La prima parte della mia presentazione, perciò, considera la santità missionaria nell’autocoscienza di P. Ambrosoli in termini di dolcezza o amabilità, e quindi di “attrazione”. La seconda parte sviluppa la dimensione della decisione o fortezza della sua testimonianza missionaria concreta nel tormentato contesto socio-politico-religioso dell’Uganda del suo tempo, e quindi di “attuazione”, in cui emerge il suo fare e vivere la Missione come mediazione, pacificazione e difesa della dignità della persona umana ad imitazione del Cristo mediatore, pacificatore e difensore della dignità della persona umana.

I. AUTOCOSCIENZA SPIRITUALE MISSIONARIA COME “ATTRAZIONE”

Riassumo qui l’itinerario spirituale di P. Ambrosoli con alcune espressioni emblematiche sue e di altre persone, che manifestano la sua crescente autocoscienza spirituale missionaria, dall’inizio del suo cammino fino alla sua consumazione finale nella morte, in termini di “attrazione” o “influenza per contagio”, fugando ogni forma di imposizione apologetica o di proselitismo. Già Papa Benedetto XVI parlava della missione come “attrazione”. Papa Francesco riprende l’idea, esplicitando che la missione non è proselitismo, ma “attrazione”. “La Chiesa non cresce per proselitismo ma ‘per attrazione’ ”.[8] Ciò è chiaramente percepibile nella spiritualità missionaria di Ambrosoli che non voleva mai imporre la fede in modo fanatico, ma lasciava che l’amore di Cristo trasparisse spontaneamente nel suo comportamento, nelle sue azioni concrete.

Considero brevemente il cammino spirituale di Ambrosoli in tre fasi: 1) Il giovane Giuseppe; 2) Il missionario comboniano in formazione; 3) Il medico, missionario e sacerdote a Kalongo.

Mani di sacerdote e di medico...
(Immagine di Umberto GAMBA)

1. Il giovane Giuseppe

Nel giovane Giuseppe Ambrosoli si possono cogliere due elementi fondamentali del suo cammino spirituale missionario: 1) La gioia di fare la Volontà del Padre; 2) Irradiare la vita soprannaturale che è in noi.

a) La gioia di fare la Volontà del Padre

Nel 1943 il Giuseppe ventenne (nel secondo anno di Medicina e Chirurgia) scriveva all’amico dell’Azione Cattolica Renzo Corti parole pregnanti che mettono subito in luce la dimensione di fede nel fare la volontà di Dio come fonte di gioia anche nelle situazioni più impensate di dolore. “È proprio vero che nel dolore, che nei momenti di sconforto si sente il valore della nostra fede. Quando tutto ci abbandona, quando tutti i nostri ideali umani e materiali cadono, quando precipitano tutte le nostre speranze ed illusioni, quando in conclusione ci sentiamo soli, soli; allora unica la nostra fede ci conforta, ci sta vicino facendoci comprendere che tutto avviene per Volontà di Dio, facendoci sentire anche nel dolore tutta la gioia di fare la Volontà del Padre”.[9]

Notiamo la lettera maiuscola della parola “volontà” per sottolineare la dimensione soprannaturale dell’atteggiamento di obbedienza a Dio. Sembra di trovare qui un’anticipazione del momento finale della vita di P. Ambrosoli dopo l’amara esperienza dell’“amato fallimento” dell’evacuazione da Kalongo. Il fare la volontà di Dio incarna la dimensione delle fede nella concretezza delle motivazioni, degli atteggiamenti e delle azioni concrete della vita di ogni giorno. La dimensione della fede era connaturale in P. Giuseppe. Non poteva non manifestarla con amabilità e anche coraggio nelle varie situazioni socio-politico-religiose di conflitto che esperimenterà a Kalongo.

La dimensione della testimonianza di fede, che non si impone apologeticamente o fanaticamente motivando il proselitismo, si nota in Ambrosoli fin dalla sua giovinezza. Nella sua esperienza militare in Germania il suo collega Camillo Terzaghi testimonia il suo atteggiamento di pacatezza e di conciliazione “non scandalizzandosi delle contraddizioni e palesando i principi dell’amore, della disponibilità verso gli altri e della fratellanza. Naturalmente per questa pacatezza angelica veniva rispettato e considerato, mentre gli altri credenti, per la loro intransigenza, venivano duramente attaccati e anche offesi.”[10] Ho già notato la caratterizzazione da parte di Terzaghi del giovane Giuseppe in termini di dolcezza e decisione.[11] “Quel giovane impressionava per la capacità di stare assieme nella più schietta convivialità e disponibilità. Pur senza rinunciare alla sua convinta appartenenza religiosa, più vissuta che orgogliosamente sbandierata.”[12]

Nella frequentazione del movimento del “Cenacolo” (associazione comasca di giovani impegnanti nell’Azione Cattolica animata da don Silvio Riva), P. Giuseppe ne assimilò la spiritualità missionaria che lo accompagnerà per tutta la vita. Questa era compendiata nell’affermazione: “Per essere apostoli bisogna essere santi”.[13] La santità è connaturale con la dimensione delle fede che è un percepire la volontà di Dio come motivazione fondamentale del nostro agire.

Negli anni giovanili, nel novembre del 1946, quando Giuseppe era impegnato nell’Azione Cattolica scriveva all’amico Virgilio Somaini: “Il nostro tempo prezioso che dedichiamo all'Azione Cattolica ha in ogni momento una finalità soprannaturale. E non c'è pericolo ci si possa disperdere in cose vane perché questo lavoro ci porta sempre più vicini a Lui, il Cristo!”.[14] Il fare la volontà di Dio diventa per P. Ambrosoli una preoccupazione costante. Più tardi dirà: “Noi dobbiamo agire obbedendo a Dio, cioè secondo la sua volontà, lasciando che lui faccia di me quello che vuole. Il cristiano è l’esecutore perfetto della volontà di Dio. […] Dio in tutto e tutto in Dio”.[15]

Fin dalla gioventù Giuseppe fu guidato dal principio di “dare gloria a Dio” al di sopra di ogni altro interesse accademico, di carriera, di successo o di gratificazione personale. “Se così non fosse, al termine della vita ci direbbe il Signore: ‘Avete già ricevuto la vostra ricompensa’. Se lavoriamo per l’apostolato, solo per il Signore, lontano da ogni brama di ricompensa terrena, certo questo non capiterà, ma anzi l’opposto.”[16] Giuseppe guardava alla sostanza che trasparentemente si afferma da sé e non all’apparenza che - come un cosmetico - ha bisogno di continui sforzi apologetici per essere dimostrata e difesa.

b) Irradiare la vita soprannaturale

In un quadernetto di Esercizi Spirituali del 1947, P. Ambrosoli sottolinea la dimensione soprannaturale dell’apostolato, che si irradia spontaneamente quando uno si identifica con il Cristo. “Devo comprendere che l’apostolato non è solo quando vado in propaganda, ma in tutti i momenti posso fare apostolato. […] Non basta che gli altri mi dicano democristiano; devono sentire l'influenza del Gesù che porto con me; devono sentire che in me c’è una vita soprannaturale espansiva ed irradiantesi per sua natura.”[17]

P. Giuseppe fu fedele a questo ideale sino alla fine della sua vita. Poco prima del brano citato, egli mette in luce l’apostolato di attrazione nel vivere la carità e il rapporto con i poveri con semplicità e umiltà. “Devo amare anch’io i poveri, non temere di stare con loro, devo mettermi sul loro piano e portare loro una parola buona […]. Un grande amore per i peccatori, mai avvicinarli con superbia, mai considerarli dall’alto in basso, ma bensì fratelli che per il fatto che si trovano nell’errore hanno diritto a tutta la mia carità. Gesù ha avvicinato i peccatori con amore. Non importa se riuscirò a convertire quelli lontani da Gesù, resterà però sempre nell’anima loro una traccia, una breccia fatta dall’amore (non quello mio, umano) ma quello di Gesù che ha operato in me, e che ha infiammato il mio cuore”.[18]

Notiamo in queste espressioni il superamento di ogni posizione apologetica o ideologica delle fede, di ogni forma di proselitismo militante. L’identità cristiana e cattolica si dimostra nell’amore gratuito che diffonde per contagio l’influenza trasformatrice della presenza di Cristo che vive dentro di noi, così che “non vivo più io, ma Cristo vive in me” (Gal 2:20).

2. Il Missionario Comboniano in formazione

Potremmo indicare quattro dimensioni che P. Ambrosoli assimilò e visse nel suo cammino di formazione alla santità missionaria comboniana: a) L’inginocchiatoio e il tavolino; a) L’amore di Gesù, misura della nostra carità, e giudizio di amabilità; c) Essere specchio che riflette un’impegnata responsabilità sacerdotale; d) Un attraente buon esempio di equilibrio umano e spirituale.

a) L’inginocchiatoio e il tavolino

Giuseppe cercò la sua vocazione con radicale determinazione. Negli Esercizi Spirituali a Varese il 3 dicembre 1950, l’anno prima di entrare dai Missionari Comboniani, annota. “Io sono tutto da Dio, niente da me. Io sono tutto di Dio, niente di me. Io sono tutto per Dio, niente per me […]. Devo risolvere il problema della vita in una maniera totalitaria e completa.”[19] Finalmente decide di entrare dai Missionari Comboniani per mettere a disposizione la sua preparazione medica e il suo sacerdozio a servizio delle missioni in Africa.[20]

I due simboli che sintetizzano le due colonne portanti dell’itinerario spirituale missionario di Ambrosoli sono l’inginocchiatoio e il tavolino. Il primo evidenzia l’importanza della preghiera e della vita interiore che devono portare all’unione con Dio e allo slancio spirituale. Il secondo sottolinea l’importanza dello studio, “virtù indispensabile” per il sacerdote, perché rende il cammino spirituale più consistente e profondo.[21] Indirettamente sono qui messi in luce i due perni del futuro dottor Ambrosoli a Kalongo: santità missionaria e professionalità nel servizio medico e sacerdotale come espressione della carità di Cristo.

b) L’amore di Gesù, misura della nostra carità, e giudizio di amabilità

In estratti degli Esercizi Spirituali (1951-1953), emerge il cammino spirituale dell’Ambrosoli nel vivere l’amore di Gesù come carità, superando ogni forma di gratificazione o affermazione personale nel proprio servizio e ogni giudizio o pregiudizio temerario degli altri. “D’ora in avanti per amor tuo, o Gesù, vorrò fare con tutto l‘impegno anche quel lavoro che non mi darà soddisfazioni […]. L’amore di Gesù per noi deve essere la misura della nostra carità verso i fratelli. Saper scusare, saper considerare, sapere comprendere! Considerare gli altri sempre con occhio sereno e buono.”[22]

P. Ambrosoli sottolinea, poi, l‘importanza di associare l’amore di Cristo con un “giudizio di amabilità” dei confratelli, cioè nel trovare gli aspetti di amabilità in loro per poterli apprezzare ed amare più facilmente. “Si ama una persona quando si trova in essa un non so che di amabilità. Per potere amare i miei confratelli devo formarmi di essi un giudizio di amabilità. Devo sforzarmi di giungere a questo cercando ciò che è amabile nei miei confratelli. Associando questo all’amore del prossimo per amore di Gesù ne uscirà una vera e profonda carità”. La carità deve essere espressa concretamente. “La carità si alimenta con piccole cose, piccole attenzioni, piccoli riguardi, piccole cortesie.”[23]

Vediamo in questa visione il superamento di ogni forma di volontarismo, che spesso rende antipatiche le persone super impegnate nella fede e nella carità, e le fa sentire poco attraenti perché diventano intransigenti, giudicando moralisticamente gli altri che non raggiungono i loro livelli di presunta santità o zelo apostolico. Queste persone rivelano un atteggiamento fondamentalista di proselitismo e non di “attrazione” o “influenza per contagio”.

c) Essere specchio che riflette un’impegnata responsabilità sacerdotale

Possiamo cogliere alcune espressioni significative in occasione della sua ordinazione sacerdotale, avvenuta il 17 dicembre 1955. Per Ambrosoli essere sacerdote significa agire in umiltà, attribuendo a Dio ciò che è di Dio. Il sacerdozio implica responsabilità in un continuo impegno di vita santa per rendere fecondo l’apostolato. “Dopo tutto quello che Dio ha fatto per me, sono moralmente impegnato a lavorare e crescere nella santità. Questo potenzierà l’aiuto cui le anime hanno diritto. Per loro sono sacerdote.”[24] L’ordinazione sacerdotale per Ambrosoli accumula un grandissimo debito di dedizione generosa alla gente che il sacerdote deve assolvere nel suo ministero. Uno è sacerdote per il popolo e non per sé stesso.

Questi sentimenti vengono espressi nella bella immagine dello specchio che riflette la luce che riceve. “La mia parte deve essere quella dello specchio, che, ricevuto un fascio di luce, lo riflette in altra direzione secondo le sue leggi fisiche; devo, cioè, secondo giustizia riflettere le vostre cordiali manifestazioni.” Qui P. Ambrosoli intende dire che le festose manifestazioni ricevute dai suoi compaesani durante la sua prima Messa implicano un serio impegno a non deluderne le aspettative. Egli sottolinea ancora una volta il senso di responsabilità che uno si assume come sacerdote a servizio degli altri e che solo la grazia di Dio può aiutare a realizzare in pienezza. “Un tale impegno si può adempiere solo con l’aiuto constante di Dio e di Maria Santissima. E questo si ottiene con i sacrifici e con la preghiera.” [25]

d) Un attraente buon esempio di equilibrio umano e spirituale

Molte testimonianze di confratelli, che conobbero Ambrosoli in formazione, confermano la sua coerenza con i principi sviluppati nel suo cammino interiore. La sua influenza per attrazione o contagio era evidente a tutti. Si presentava come un esempio e modello. Bastino la testimonianza del Padre maestro P. Giovanni Giordani e di P. Luigi Gusmeroli, compagno di studi teologici.

P. Giordani attesta: “In lui era molto evidente la carità e l’umiltà, virtù che all’udire di lui in Africa sempre sono state ammirate. […] A tutti diede buon esempio. Anche lui, come gli altri, a fare gli umili lavoretti di scopare, di tenere puliti i gabinetti […]. Compiva tale ufficio [di infermiere, lui medico] con delicatezza materna.”[26] P. Gusmeroli sintetizza la capacità di attrazione spontanea che P. Giuseppe esercitava sulla comunità. “È sempre stato un modello e un esempio di vita religiosa e missionaria: a contatto con lui si sentiva lo spirito che animava la sua vita. La sua serenità e la sua pazienza, sempre presenti nelle sue parole e nel suo modo di agire, lo rendevano una persona che attirava tutti.”[27]

Chi viveva con P. Giuseppe vedeva trasparire nelle sue azioni concrete tutta la spiritualità che egli viveva dentro. Non aveva bisogno di fare grandi discorsi. P. Giordani usa la tradizionale espressione “buon esempio”, che traduce il concetto di “influenza per contagio”. P. Gusmeroli esplicita il potere di attrazione che il suo esempio aveva sugli altri.

3. Il medico, Missionario Comboniano, e sacerdote a Kalongo

Si potrebbe caratterizzare l’evolversi della spiritualità missionaria di P. Ambrosoli nei 31 anni passati a Kalongo (1956-1987) con quattro traiettorie principali: 1) Impersonificare la bontà del Maestro, agendo in modo soprannaturale; 2) Ricerca delle modalità di amare secondo i bisogni della gente; 3) Spirito di abbandono e “amato insuccesso”; 4) “Si faccia la tua volontà […] fosse anche cento volte”.

a) Impersonificare la bontà del Maestro

Raggiunto l’ospedale di Kalongo, P. Ambrosoli vive la santità missionaria in particolare in termini del suo servizio ai malati come medico. Egli si impegna generosamente a curare i rapporti umani con la gente che incontra nel suo servizio ospedaliero.

In un estratto dei suoi Esercizi Spirituali nel settembre del 1957, un anno dopo il suo arrivo in Uganda, evidenzia il suo servizio come medico quale impersonificazione di Cristo, medico dei corpi e dello spirito. “È molto importante che io faccia un proposito sulla carità verso gli africani nella mia funzione di medico […]. Devo impersonificare in me il Maestro quando curava i malati che venivano a Lui”.[28] Notiamo la sensibilità di Ambrosoli nel considerare le reazioni dei malati al suo comportamento medico. Incontrare e soddisfare le attese della gente era molto importante per lui. Non era di certo un atteggiamento di buonismo diplomatico o demagogico per farsi ben volere per un’autoaffermazione personale, ma un atteggiamento di spirito missionario volto ad amare in un modo concreto ed efficace che lascia il segno. Ecco allora l’imitazione di Gesù e l’identificazione con lui, che era medico dei corpi e dello spirito, quale metodologia sicura di carità autentica.

Negli Esercizi Spirituali dell’agosto del 1958, P. Ambrosoli insiste sulla bontà che conquista i cuori ad imitazione di Cristo. “Un proposito molto importante da fare è quello della bontà coi neri ad imitazione della bontà di Gesù nella sua vita pubblica. […] È la bontà che conquista i cuori anche i più rozzi. Che nessuno parta spiaciuto dai miei cattivi modi”.[29]

Negli Esercizi Spirituali del settembre 1959, sottolinea l’importanza di non cercare gratificazioni naturalistiche, ma di agire soprannaturalmente. “Devo puntare sulla vita interiore di unione con Dio e attraverso l’unione con Lui agire più soprannaturalmente.”[30] E ancora: “C’è troppo di umano nei miei ideali. Lavoro per scopi troppo umani. Invece bisogna che cerchi Te solo ed in Cruce”.[31] Negli Esercizi Spirituali del settembre 1960, insiste sullo spirito di distacco dal proprio orgoglio professionale che mira al successo.[32] Questo distacco si ottiene con la preghiera. “Certo la cosa più importante è di essere costanti nella preghiera perché l’apostolo vale in tanto in quanto prega.”[33] Già negli Esercizi Spirituali del novembre 1948 aveva scritto: “La preghiera è necessaria a noi come l’ossigeno per respirare, soprattutto per l’apostolato”.[34]

b) Ricerca delle modalità di amare secondo i bisogni della gente

P. Ambrosoli è in continua ricerca delle modalità per vivere la carità di Cristo in maniera sempre più autentica. Negli Esercizi Spirituali dell’agosto del 1963, scrive: “Intendo fare anche questo proposito: trattare coi neri con molta più carità, affabilità, bontà, cercando di adattarmi alla loro mentalità.”[35]

Negli Esercizi Spirituali dell’aprile 1971, insiste sul suo bisogno di pazienza e di disponibilità. “Credo che mancando di pazienza (coi malati, Suore ed infermieri) io frustro una buona percentuale del bene spirituale del mio lavoro. Essere maggiormente a disposizione altrui nel mio lavoro ed in comunità. Col passare degli anni, guai se mi fisso nei miei schemi e non voglio essere disturbato. Accettare di essere disturbato, con spirito di penitenza.”[36]

Negli Esercizi Spirituali del 1972, sottolinea l’importanza della vita interiore, della carità nella vita di comunità e con gli ammalati favorendo con questi più pazienza. “Con più amore interiore con Dio sono certo che sarà più facile essere paziente coi malati”.[37]

In un Ritiro del 1974, scriveva che la carità di Cristo deve manifestarsi nel modo di trattare gli ammalati. “Maggior carità nel rapporto con gli ammalati. Potessero vedere Gesù in me! Non si tratta di fare cose diverse, ma è il modo di trattare gli ammalati. Devono sentire che il contatto è fraterno per la carità di Cristo”.[38]

All’amico Piergiorgio Trevisan scrive sull’importanza di curare allo stesso tempo corpo e spirito. “È attraverso il lavoro medico che possiamo arrivare all'anima di tanti malati. In questi paesi la pastorale passa sempre attraverso il corpo.”[39]

Il credo spirituale-missionario di P. Ambrosoli poteva riassumersi così: “Dio è amore, c’è un prossimo che soffre, io sono il loro servitore”.[40] Questa frase, che riassume tutta la vita di P. Ambrosoli, è stata impressa sulla lapide posta sopra la sua tomba a Kalongo.

c) Spirito di abbandono e “amato insuccesso”

Con l’aggravarsi della sua condizione medica, e quindi della necessità di ridurre il suo lavoro in sala operatoria, P. Ambrosoli sembra concentrarsi maggiormente sulla vita interiore in quanto tale senza troppi riferimenti diretti al suo lavoro come medico. C’è una progressiva purificazione interiore in termini di maggiore abbandono alla volontà di Dio e di vedere l’insuccesso come una grazia per crescere in una fede pura e gratuita.

Nel 1980 P. Ambrosoli si sente ispirato dalla spiritualità di Charles De Foucauld.[41] Fu trovato un foglietto nei suoi libri di preghiera con la “preghiera dell’abbandono” di De Foucauld.[42]  Nel novembre del 1980 scrive all’amico Trevisan, informandolo che sta facendo “un’esperienza nuova spirituale approfondendo la spiritualità di De Foucauld attraverso gli scritti di Voillaume. È sulla linea di S. Paolo e porta direttamente a Gesù.”[43] Allo stesso Trevisan scrive ancora: “Sto cercando di vivere la quaresima secondo lo spirito di De Foucauld (da cui sono lontanissimo!) per arrivare un po’ più vicino a Gesù nella sua via della Croce”.[44]

Negli Esercizi Spirituali del gennaio del 1981, parla di questa sua conversione del 1980. Scrive: “L’avere cercato di approfondire la spiritualità del De Foucauld in questi mesi mi ha fatto bene. Resta che devo continuare nello sforzo di vivere la presenza di Gesù nel mio cuore e chiedermi frequentemente cosa farebbe lui al mio posto”.[45] In una lettera agli amici della Charitas di Bologna, riferendosi alla sua malattia (“un grave deficit renale”), parla di un esempio dell’“insuccesso amato” di De Foucauld. “Questo tempo mi serve per pensare, per pregare ed accettare anche il dono della malattia dalle mani di Dio. È un po’ l’“insuccesso amato” (per amore di Dio) di De Foucauld”.[46] P. Ambrosoli ripeteva la frase della preghiera dell’abbandono di De Foucauld, sottolineando la frase “accetto tutto” nel pensare di dover sottomettersi alla dialisi.[47] P. Ambrosoli riconosce che De Foucauld lo aiutò nella preghiera. “De Foucauld mi ha aiutato tanto ad organizzare la mia preghiera (purtroppo sempre povera e fatta solo di parole – sono ancora all’asilo).”[48]

P. Giuseppe accetta la sua delicata situazione medica dalle mani di Dio. Nonostante i suoi limiti fisici, è contento di essere ancora in missione e rendersi utile per quanto possibile nel fare sempre la volontà di Dio qualunque essa sia. “La cosa più bella è di pensare che, comunque vada, sarà sempre volontà di Dio e quindi tutto bene, sia per la vita che per la morte”.[49]

d) “Si faccia la tua volontà […] fosse anche cento volte”

Negli ultimi momenti della vita di P. Ambrosoli l’abbandono nelle mani di Dio diventa totale. P. Ambrosoli si identifica con l’atteggiamento di Gesù sulla croce: “Nelle tue mani affido il mio spirito” (Lc 23,46).

Due settimane prima di morire P. Ambrosoli, riferendosi alla triste e dura vicenda dell’evacuazione da Kalongo, scrive agli amici della Charitas di Bologna parlando del sostegno dell’amore di Dio e del bisogno di purificazione e di crescere nell’amore e confidenza in Dio. “È stato molto dura ma il Signore ci ha sostenuti. Credo che sia anche stata un’occasione unica per crescere nell’amore e confidenza in Lui. Quel che Dio vuole ‘poi’ non è mai troppo. Così siamo in ‘esilio’ ma pronti ad incominciare da capo”.[50] All’amico Trevisan, il 22 marzo, cinque giorni prima della morte, attesta: “Ora siamo esuli! È stata molto dura, ma il buon Dio ci ha aiutato e dato la forza. Possa anche questo servirci per crescere nel suo amore e maturare spiritualmente. Quello che Dio vuole non è mai troppo.”[51]

P. Ambrosoli era convinto che Dio non si lascia vincere in generosità e non è mai troppa la nostra generosità verso di lui. “Tutto quello che noi possiamo fare per Lui [Dio] non è mai abbastanza per ricambiare il bene che ci vuole.”[52] Alla fine della sua vita, dopo l’evacuazione da Kalongo esclama: “Il cuore soffre ma la fede e la speranza addolciscono tutto”.[53] I suoi ultimi sforzi furono per la sistemazione ad Angal (West Nile) delle infermiere ostetriche affinché non perdessero l’anno e potessero fare i loro esami finali regolari.[54] Poco tempo dopo, sul letto di morte sussurra: “Signore si faccia la tua volontà”, e in un ultimo soffio: “Fosse anche cento volte”.[55] I laici, che hanno il “sensus fidei”, hanno saputo interpretare profondamente la morte di P. Ambrosoli: “P. Ambrosoli è morto per la sua gente, come il buon Pastore che dà la vita per le sue pecore”.[56]

P. Ambrosoli aveva tra le mani il mistero della vita.
(Immagine di Umberto GAMBA)

II. UNA SANTITÀ MISSIONARIA PER “ATTRAZIONE” CHE NON LASCIAVA INDIFFERENTI

L’impatto della santità missionaria di P. Ambrosoli non lasciava indifferenti. Chi lo incontrava ne rimaneva contagiato. Questo aveva qualcosa di “fenomenale”, umanamente inspiegabile, se non in riferimento al dono della grazia che lavorava in lui in sinergia con la sua cooperazione attiva. Si può qualificare tale situazione di missione per “attrazione” o “influenza per contagio” con quattro caratteristiche che colgono l’originalità della sua santità missionaria: 1) Il santo della vita ordinaria; 2) Conciliazione dei ruoli di sacerdote, missionario e medico; 3) Non semplice filantropia, ma un’autentica carità cristiana; 4) Spiritualità simpatica ed attraente, che motivava accoglienza e rispetto.

1. Il santo della vita ordinaria

P. Ambrosoli rivela una forte consistenza con i suoi valori, vissuti nella quotidianità, tanto da essere definito il santo della ferialità che vive con eroicità. Il Dott. Luciano Terruzzi dà una sintetica visione della personalità spirituale di P. Ambrosoli, sottolineandone la coerenza, consistenza ed equilibrio. “C’era in P. Giuseppe, solido e compatto, tutto quel tessuto di equilibrio, di virtù umane e di coerenza ai principi della fede in Dio che è Amore, della carità per il prossimo che soffre e della speranza in un mondo più giusto. Su tale tessuto non può che disegnarsi il ricamo di un’eroica santità”.[57]

Un compagno di Ambrosoli in gioventù, Don Piercarlo Contini, ne mette in luce la disponibilità, la riservatezza gioiosa, cordialità serenità e semplicità. La sua era una “santità feriale, quotidiana.”[58] Mons. Gianvittorio Tajana di Como definisce Ambrosoli “il santo della ‘vita ordinaria’”.[59]

Il Postulatore conclude la Silloge delle virtù di P. Ambrosoli, sviluppando il tema della “santità feriale, quotidiana”. “In generale sembra di poter dire che il Servo di Dio ha fatto assumere al quotidiano, così sempre eguale, anonimo, piccolo, usuale, ripetitivo e terribile, dimensioni inaspettate.”[60]

2. Conciliazione dei ruoli di sacerdote, missionario e medico

P. Ambrosoli era riuscito a conciliare serenamente il suo essere medico, sacerdote e missionario. “Quando celebrava la Messa sembrava estasiato: era felice quando poteva celebrare in qualche villaggio fuori di Kalongo. Si mostrava disponibile, nei limiti delle sue disponibilità, per ascoltare le confessioni. Riusciva benissimo a conciliare i ruoli di sacerdote, missionario e medico”.[61] Come già menzionato, egli chiosava: “In questi paesi la pastorale passa sempre attraverso il corpo”[62] nel sottolineare che l’attività medica deve essere a servizio della pastorale. Egli preparava la gente a morire quando non c’era più nessuna speranza di vita. “Ci siamo accorti che anche il preparare uno ad accettare la morte rientra nei doveri del medico e riflette il rispetto che si deve avere dell’uomo tutto intero: corpo e spirito”.[63] A maggior ragione uno che, come P. Ambrosoli, era anche missionario e sacerdote. P. Ambrosoli così sancisce l’interazione vitale tra le tre dimensioni della sua vocazione missionaria.

P. Ambrosoli attraeva gli ascoltatori nella sua predicazione. I laici che lo ascoltavano erano affascinati dalle sue semplici parole. “Predicava molto bene alla gente, che era contenta sentirlo, anche se la sua lingua Acholi non era perfetta”.[64] Ancora: “La sua predicazione era qualcosa di incomparabile con quella di altri predicatori. L’assemblea lo ascoltava con ammirazione, interesse, rispetto e grande attenzione. Non ci si stancava come succedeva con altri predicatori”.[65]

3. Non semplice filantropia, ma un’autentica carità cristiana

La santità di P. Ambrosoli aveva un’attrazione speciale e accattivante che non lasciava indifferenti, ma non era pura filantropia, ma vera carità cristiana. La sua carità, che traspariva nel suo servizio medico, non guariva solo i corpi ma anche gli spiriti. P. Stelvio Benetazzo attesta: “Tutti i pazienti che ho incontrato dopo il ritorno da Kalongo erano diversi, non solo guariti nel corpo, ma cambiati dentro. La bontà, la gentilezza, la serena e gioiosa disponibilità di P. Giuseppe penetrava negli animi, li cambiava, li avvicinava a Dio”.[66] Lo stesso viene affermato da una persona laica locale, Rosalba Okello. “Molte persone guarivano solo a vederlo anche se lui non le esaminava. La fiducia che la gente aveva in lui, lui non voleva che fosse divulgata in giro”.[67] Matthew Okello conferma la stessa impressione. “Le sue parole consolavano e davano sollievo. Infatti tre quarti dei pazienti che lasciavano l’ambulatorio erano così fiduciosi in lui che si sentivano curati con una semplice medicina (e preghiera). E questo avvenne davvero.”[68]

P. Raffaele, Di Bari, ucciso a Pajule dai ribelli del Lord’s Resistance Army (LRA) nel 2000, sottolinea che P. Ambrosoli “come dottore aveva per gli ammalati un’attenzione premurosa preoccupandosi non solo della malattia ma anche e specialmente della persona sofferente, interessandosi (anche) della sua situazione familiare. Penso che tutti rimanessero affascinati dalla sua premurosa affabilità”.[69]

Il Dott. Alfred Stoffel, medico protestante, che lavorò a Kalongo per cinque anni, dichiara la profonda impressione suscitata in lui dalla bontà e gentilezza di P. Ambrosoli: “Il dott. Ambrosoli fu per me l’uomo più buono e più gentile che abbia conosciuto al mondo. Non solo egli lavorava molto e con grande competenza, ma aveva un vero carisma che tutti sentivamo, europei e africani. Tante volte rimasi colpito dalla sua compassione, generosità ed infinita pazienza”.[70]

La bontà di Ambrosoli non era un buonismo superficiale. Dott. Gianfranco Carletti afferma che “Ambrosoli non si presta per niente ad una agiografia a buon mercato […]. Un solo esempio: quanto era amabile, cordiale, socievole, ecc. fuori dell’ospedale. Altrettanto era serio, rigido e severo nell’ambito medico.” Poi, concludendo: “Che fosse nel giusto, si sentisse nel giusto, lo dimostrava la sua gioiosità abituale, il fatto che quanto faceva non lo gestiva per farsi conoscere, conseguire premi, citazioni, porsi come personaggio, ma lo faceva in umiltà, nascondimento, si direbbe ‘non sappia la tua mano destra quel che fa la sinistra’”.[71]

Il Dott Bruno Turchetta, che lavorò a Kalongo per due anni, sottolinea la capacità di P. Ambrosoli di infondere speranza e fiducia in Dio anche in pazienti mussulmani. “Aveva sempre una parola di speranza, anche di fronte ai casi più drammatici, si scusava sempre di non potere fare molto di più come medico, ma come sacerdote chiedeva sempre: vuoi che preghiamo insieme? Ricordo pazienti mussulmani pregare con lui con grande semplicità di fronte all’ora fatale. E le parole che mi sono rimaste nel cuore sono quelle di: ‘Rubanga tye, Rubanga konyo’ (‘Dio esiste, Dio provvede’).”[72] Lo stesso dottore sottolinea che l’impegno medico del P. Ambrosoli “non era semplice filantropia, ma un’autentica carità cristiana”.[73]

4. Spiritualità simpatica ed attraente

Don Dott. Palmiro Donini, che lavorò a Kalongo per molti anni assieme a P. Ambrosoli, evidenzia come la spiritualità di P. Giuseppe trasparisse nel suo stile di vita come un qualcosa di simpatico e attraente. “La vita di p. Giuseppe è stata un predica convincente espressa in modo simpatico”.[74] “Non dobbiamo dimenticare che […] il [suo] modo di vivere le virtù era amabile, piacevole, così che egli rendeva il suo stile di vita molto attraente anche per coloro che non erano credenti”.[75]

Il Dott. Luciano Tacconi, che spese molti anni a Kalongo, mette in luce la professionalità medica, il rispetto delle decisioni altrui come il suo matrimonio con una ragazza ugandese, la tolleranza per chi si professava ateo e il senso di corresponsabilità che creava con i colleghi in ospedale, Infine, Tacconi sottolinea il “gusto” e la “soddisfazione” che uno sentiva nel lavorare con P. Giuseppe. “Lavorare a Kalongo con P. Ambrosoli era bello, non era pesante e dava tanta, tanta soddisfazione interiore; si percepiva che si stava lavorando ‘insieme’ per il Regno di Dio e questo dava coraggio e forza per superare le pur sempre presenti difficoltà”.[76]

P. Ambrosoli era conosciuto e rispettato per la sua dedizione ai malati. Il dott. Giuliano Rizzardini, a Kalongo nel momento dell’evacuazione, dà la seguente testimonianza a proposito del rispetto che gli stessi ribelli avevano per P. Ambrosoli. “I militari ci dissero di non avere timore perché ci avrebbero protetti loro. In realtà era una notte di luna piena e i ribelli avrebbero potuto spararci quando avessero voluto. Non uno ci fece alcunché di male, perché anch’essi erano pieni di rispetto per P. Ambrosoli.”[77]

5. Dolcezza e fortezza

La breve carrellata fatta finora su alcuni aspetti della spiritualità missionaria per “attrazione” di P. Ambrosoli, sotto l’attributo di amabilità o dolcezza, ci permette di elaborarne un breve profilo sintetico, enucleando alcune conclusioni essenziali. 1) La spiritualità di P. Ambrosoli è definita missionaria poiché ha un dinamismo espansivo volto all’apostolato, cioè a fare del bene anche spirituale alle persone che egli incontrava attraverso il servizio medico o assistenziale in genere. 2) È una spiritualità missionaria “simpatica” che muove spontaneamente i cuori delle persone in quanto autentica carità cristiana e non pura filantropia. 3) È una spiritualità che è frutto del ministero unificato di sacerdote, missionario e medico. Non c’è discrepanza tra le tre dimensioni vitalmente interagenti. Per questo essa è efficace ed attraente. 4) È una spiritualità integrale che tocca sia il corpo che lo spirito. 5) È una spiritualità per “attrazione” o “influenza per contagio” che fugge da ogni forma apologetica o di proselitismo, perché è una spiritualità del quotidiano, della ferialità, espressa nelle situazioni più ordinarie e disparate della vita di ogni giorno.

Se finora abbiamo considerato l’emergere della dimensione dell’amabilità e dolcezza nella sua spiritualità missionaria in termini di missione come “attrazione”, nella seconda parte di questa riflessione evidenziamo la dimensione della fortezza o decisione, cioè di “attuazione”.

Il costante impegno nel cammino spirituale già indicava anche l’atteggiamento di decisione o fortezza. Questo spirito si percepiva anche in sala operatoria dove non ammetteva dilettantismi e superficialità ma rigorosa professionalità, Tale attitudine di fortezza venne espressa da P. Ambrosoli nella gestione dell’ospedale in un costante e deciso impegno a perseguire i suoi obiettivi di ammodernamento del servizio medico e della formazione del personale locale in particolare delle infermiere ostetriche.

Alla virtù cardinale della fortezza il Postulatore gli dedica ben dieci pagine.[78] Sottolineo in particolare una dimensione: Il prezzo del perseverare. “La fortezza si riduce alla fine ad un ‘sì’ detto in ogni circostanza. Un ‘sì’ che racchiude l’accettazione di tutto se stesso e dell’insieme del mondo con cui si è in rapporto, un avanzare con fiducia verso il proprio futuro, incluse le incognite, agendo, impegnandosi, trasformando e trasformandosi”.[79]

Ora vediamo come la fortezza di P. Ambrosoli si espresse nella sua testimonianza di santità missionaria come missione di “attuazione” nel complesso e tormentato contesto socio-politico-religioso in cui si venne a trovare durante i suoi 31 anni spesi a Kalongo come medico missionario.

Dopo una breve descrizione esistenziale della situazione nel contesto socio-politico-religioso, vedremo come P. Ambrosoli abbia operato in essa riflettendo la sua santità missionaria. Questa emerge come missione in termini di mediazione (nel contesto del protettorato inglese e cammino verso l’indipendenza), di pacificazione (sotto i regimi di Amin, Obote I-II, Tito Okello e Museveni) e di difesa della dignità della persona umana (in situazioni di fame, malattie e conflitti vari) ad imitazione del Cristo mediatore, pacificatore e difensore della dignità della persona umana. Ovviamente, queste tre dimensioni intercomunicanti sono presenti sotto diversi aspetti in tutta la vita e attività di Ambrosoli come missionario medico e sacerdote. Qui vengono separate per focalizzarle nella loro vitalità in un particolare contesto esistenziale.

Mani di uomini e di donne. Mani di sacerdote e di medico.
Mani di Dio per le persone.
(Immagine di Umberto GAMBA)

III. UNA SPIRITUALITÀ MISSIONARIA NEL CONTESTO SOCIO-POLITICO-RELIGIOSO DELL’UGANDA (1956-1987)

P. Giuseppe Ambrosoli arrivò in Uganda nel 1956 durante gli anni del protettorato inglese che si preparavano a dare l’indipendenza all’Uganda, che fu celebrata il 9 novembre 1962. Durante i 31 anni di vita di missione, P. Ambrosoli esperimentò le forti tensioni create dai successivi regimi di Milton Obote I, Idi Amin Dada, Obote II, Tito Okello e finalmente di Yoweri Kaguta Museveni. La sua spiritualità missionaria non venne mai meno anche nelle situazioni più dolorose e paradossali.

1. Governorato inglese e indipendenza dell’Uganda. Missione come “mediazione”

L’atteggiamento e comportamento missionario di P. Ambrosoli viene qualificato in termini di missione come “mediazione” nel senso di saper raggiungere i propri obiettivi medico-missionari accettando le situazioni concrete di difficoltà senza recriminazioni o ribellioni, in altri termini, vivendo le caratteristiche della virtù cardinale della fortezza nella ferialità. Qui mettiamo in luce una dimensione dello spirito di mediazione di P. Ambrosoli nel contesto sociale-politico-religioso del suo tempo, che però deve essere allargato anche ad altre dimensioni della sua vita.

a) Situazione esistenziale

La dominazione inglese in Uganda durò 69 anni, dal 1893 al 1962, l’anno in cui fu proclamata l’indipendenza. L’Uganda divenne protettorato inglese quando il re del Buganda Mwanga e il generale Frederick Lugard firmarono un trattato nel lontano 26 dicembre 1890.[80] Il passaggio dal regime inglese all’indipendenza non fu né semplice né indolore. Ciò che rese complessa la transizione furono due fattori principali: 1) il regno del Buganda che pretendeva una certa egemonia nella nazione; 2) il tradizionale contrasto tra protestanti e cattolici.[81] Le informazioni seguenti sono una sintesi personale.

Il partito dei Baganda sosteneva il loro re (Kabaka Yekka, solo il re) come futuro presidente della nazione. Un vero Muganda doveva sentire il dovere di votare per questo partito. Chi non era di questo partito tradiva la sua identità etnica e culturale. C’erano altri due partiti alternativi: Il Democratic Party (DP), che faceva a capo a Benedict Kiwanuka, cattolico e il Congress Party (CP), che faceva capo a Milton Obote, protestante. Al momento decisivo delle elezioni in occasione dell’indipendenza, molto scaltramente, il partito del Congresso si alleò con il partito del re per sconfiggere il Partito Democratico. Attraverso metodi illegali e fraudolenti, con la segreta cooperazione del governo inglese, i cattolici furono impediti di ottenere quella maggioranza che avrebbero ottenuto.

Di fronte alla virulenza dei sostenitori Baganda del partito del Kabaka Yekka, che accusavano i cattolici di tradimento perché sostenevano il DP, il grande e coraggioso vescovo cattolico Joseph Kiwanuka (il primo vescovo africano) scrisse una lettera pastorale, dichiarando che era pericoloso fare entrare il re nella politica nazionale quale presidente della nazione; ne sarebbe stata la fine. I cattolici che optavano per una opzione differente, lasciando il re fuori della politica nazionale, erano i veri difensori del prestigio del re e non il partito del Kabaka Yekka, che avrebbe contributo alla fine del re in questione. Come poi avvenne.

La storia d’Uganda era, inoltre, caratterizzata da una forte tensione tra i cattolici e protestanti. Originariamente i cattolici venivano identificati con i Francesi (Bafaransa) e i protestanti con gli Inglesi (Bangeresa). Per evitare questa contrapposizione nazional-religiosa, furono invitati come missionari in Uganda anche i Padri di Mill Hill (Inglesi).[82]

b) Missione come “mediazione”

Durante il protettorato P. Ambrosoli dovette sottostare alle leggi inglesi e collaborare con esse per ottenere tutti i permessi necessari per lo sviluppo dell’ospedale di Kalongo. La situazione politica di questo periodo fino al 1966 non ebbe grande influenza nello sviluppo dell’ospedale. Qualche difficoltà fu creata dai protestanti del governo per gelosia.

Uno dei problemi principali per il quale P. Ambrosoli dovette trattare con il governo inglese fu l’approvazione della Scuola Infermiere. Il Governo non aveva fretta e inoltre richiedeva un medico specializzato a Londra in ostetricia e ginecologia. Da Kampala venne la professoressa Rendle Shirt ad ispezionare la Scuola Infermiere. Faceva un sacco di complimenti, ma a Kampala essa presentò in cattiva luce l’opera di Kalongo perché si trattava di una scuola cattolica. Inoltre, P. Ambrosoli dovette subire l’umiliazione di non vedere riconosciuta la sua esperienza professionale nei casi di emergenza in maternità. Se avesse voluto il riconoscimento del suo lavoro avrebbe dovuto frequentare un corso di un mese al reparto di ostetricia a Mulago (Kampala). Umilmente P. Ambrosoli si sottomise alla richiesta.[83]

Finalmente, “dopo tanto tribolare”[84], nel 1958 la scuola fu approvata. L’obiettivo missionario dell’Ambrosoli, per cui si impegnò con tutte le sue forze per ottenere l’approvazione del Governo, era chiaro. Egli scrive: “Vorremmo a tutti i costi salvare la scuola che consideriamo opera di apostolato medico molto importante nel futuro sviluppo cattolico del paese.”[85] La Scuola Ostetriche viene ribadito “oggi è l’opera più importante che noi abbiamo da sostenere in vista dello sviluppo cattolico del paese”.[86] Per questo P. Ambrosoli si diede da fare per trovare medici che avessero le qualifiche necessarie, superando ogni disguido e frustrazione. “Dai molteplici contatti epistolari emergeva un Ambrosoli estremamente deciso, nonostante i contrattempi e le difficoltà economiche non lievi”.[87]

P. Ambrosoli pensava al futuro sviluppo medico dell’Uganda nel preparare competenti ostetriche cristiane in varie nuove maternità[88] che avrebbero servito con dedizione le donne nella generazione dei figli, e così trasformare umanamente e cristianamente la società ugandese. E questo è nella linea di San Daniele Comboni, che vedeva nell’ “onnipotente ministero della donna del Vangelo” un fattore importante per la rigenerazione dell’Africa.[89]

Nell’atteggiamento di Ambrosoli notiamo la capacità di adeguarsi alle circostanze ai fini di raggiungere il suo obiettivo missionario che lo animava e gli dava la forza di sottoporsi pazientemente alle esigenze impostegli. Notiamo qui il suo concetto e vissuto della missione come “mediazione”, cioè come “fare ponti” per superare gli ostacoli che si interpongono nel raggiungimento dei propri obiettivi.

Durante questo primo periodo della sua presenza in Uganda, due situazioni mettono in luce come P. Ambrosoli abbia dovuto mediare con pazienza anche con la chiesa locale. La prima situazione è connessa con la difficoltà che inizialmente il vescovo Gianbattista Cesana presentava nell’approvare l’idea che il dispensario di Kalongo diventasse ospedale forse per paura delle implicanze finanziarie e gestionali.[90] La seconda situazione è un atteggiamento del vescovo Cipriano Kihangire, appena insediato a Gulu, quando espresse a Kitgum questa infelice affermazione su P. Ambrosoli: “Fate sapere a P. Ambrosoli di non credersi il boss dei dottori che lavorano in diocesi!” P. Giovanni Fortuna (Senior), parroco di Kitgum, intervenne facendo notare al vescovo l’inadeguatezza del suo giudizio su P. Ambrosoli.[91] Il vescovo tacque.

Anche in queste circostanze, almeno indirettamente, possiamo notare il concetto di missione come “mediazione” in pratica. La statura missionaria di P. Ambrosoli faceva sì che, grazie al suo atteggiamento personale di pazienza e tolleranza di fronte alle avversità e la conseguente stima e collaborazione dei suoi confratelli comboniani, P. Malandra nel primo caso e P. Fortuna nel secondo, le difficoltà si appianassero e l‘obiettivo missionario fosse raggiunto come pensato. Un atteggiamento di aggressività e di rivalsa avrebbe rovinato il progetto di Kalongo. La capacità di mediare situazioni e incongruenze senza aggressività è la strada maestra della missione. I grandi santi ci sono maestri. Penso a santa Caterina da Siena, santa Teresa d’Avila e San Daniele Comboni.

c) Segno di Cristo “mediatore”

Con un approfondimento cristologico possiamo allargare a tutte le dimensioni della santità missionaria di P. Ambrosoli il concetto di missione come “mediazione”, qui applicato ad una situazione particolare socio-politico-religiosa. Cristo viene chiamato da Paolo mediatore tra Dio e gli uomini. “Uno solo, infatti, è Dio e uno solo il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, che ha dato sé stesso in riscatto per tutti” (1 Tim 2:5).

Il sacerdote ordinato viene definito “segno della mediazione di Cristo”. Come presbitero, P. Ambrosoli fu segno di questa mediazione, di questo collegamento tra Dio e gli uomini nella sua identificazione con il Cristo mediatore, che sa dare la propria vita per la salvezza altrui. La sua testimonianza come segno della mediazione dell’amore di Cristo è visibile in tutti gli aspetti della vita di Ambrosoli nella sua attività come medico e presbitero.

2. I vari regimi in Uganda. Missione come “pacificazione”

Alla descrizione della situazione socio-politica-religiosa durante il regime di Milton Obote I (1967-1971) e di Idi Amin Dada (1971-1981), Obote II (1980-1985), Tito Okello (1985 e Yoweri Kaguta Museveni 1986-1987), fa seguito una riflessione sulla testimonianza di P. Ambrosoli della missione come “pacificazione”.

a) La situazione sul terreno

Dopo le elezioni il re (Muteesa II) fu fatto presidente dell’Uganda e Obote divenne primo ministro. Per le forti tensioni tra il regno del Buganda e Obote nel 1966 ci fu una grave crisi costituzionale. Obote sospese la costituzione, impose l’unico partito il Congress Party, chiamato Uganda People Congress (UPC), eliminando quindi il Partito Democratico (DP) e fu proclamato Presidente della Repubblica d’Uganda. Il re Muteesa II si rifugiò a Londra dove morì di etilismo all’età di 45 anni (il 35° re di una gloriosa dinastia Baganda).[92]

Obote fece passare una legge in parlamento sull’immigrazione, colpendo in particolare gli asiatici che avevano in mano il potere commerciale ed economico dell’Uganda.[93] Ben presto anche i missionari subirono le stesse restrizioni. Nel gennaio del 1967 una decina di missionari comboniani furono espulsi dall’Uganda, tra cui P. Alfredo Malandra, il parroco e superiore di Kalongo, grande collaboratore di P. Ambrosoli. Erano accusati di aver sostenuto i movimenti di liberazione del Sudan Meridionale (Anya-nya = “serpente velenoso”) e di avere parlato male all’estero del Governo ugandese, accusandolo ingiustamente di avere fatto accordi con il Governo di Khartoum per distruggere la gente del Sud-Sudan. “La verità in effetti era un’altra, si trattava di pregiudizi sempre presenti nelle alte sfere politiche contro i cattolici. Si trattava di favorire in tutti i modi i protestanti a svantaggio dei cattolici, il cui influsso e peso politico era divenuto sempre più evidente, specialmente nelle regioni del nord del paese.”[94] P. Ambrosoli era cosciente della situazione. L’ospedale di Kalongo continuava il suo lavoro abbastanza tranquillo.

Nel gennaio 1971 Obote partecipò alla conferenza dei capi di stato del Commonwealth a Singapore. Durante questa sua assenza, motivato dall’instabilità politica creatasi negli ultimi anni della presidenza di Obote, il 25 gennaio 1971 il generale Idi Amin Dada guidò un gruppo di militari e fece un colpo di stato. Depose Obote, abolì il parlamento e sospese ogni attività di partiti per cinque anni. Il 12 marzo 1971 Amin si proclamò presidente della nazione.[95]

La situazione politica non era tranquilla, poiché l’Uganda era “alla mercé dell’arbitrarietà del dittatore Amin”. Il 3 luglio 1973, 16 missionari comboniani vennero espulsi. “Si diceva, per l’incompatibilità della loro presenza con l‘obiettivo dell’indigenizzazione dei quadri che il Governo perseguiva. […] Le vere intenzioni […] erano quelle di sbarazzarsi di testimoni scomodi e influenti. Si accusavano i missionari di essere implicati nel contrabbando di beni, di dedicarsi ad attività di spionaggio e soprattutto di superare il numero di protestanti e mussulmani”. Si voleva in particolare intralciare il lavoro della Chiesa cattolica e colpire il vescovo Cipriano Kihangire di Gulu che aveva denunciato i crimini di Amin.[96]

“Gli ultimi mesi del 1978 e tutto il 1979 sarebbero coincisi con un periodo molto difficile per l’Uganda. Il paese non ne poteva più”.[97] Nel 1979 intervenne Nyerere, presidente della Tanzania, dopo che Amin invase la Tanzania, rivendicandone una zona di frontiera. Nyerere mandò in Uganda le sue truppe (12.000 soldati) per destituire Amin ed eventualmente ristabilire l’amico Milton Obote che rientrerà dalla Tanzania nel 1980. Amin fu destituito l’11 aprile 1979. Le truppe tanzaniane setacciarono ogni parte del paese da Sud a North. Amin fuggì in Arabia Saudita e i suoi soldati si diedero alla fuga come meglio poterono, facendo disastri contro la popolazione locale.[98]

A Pasqua del 1979 le truppe tanzaniane arrivarono a Kitgum e Kalongo e con giubilo si festeggiò la liberazione.[99] Ma un nuovo tormentato periodo della storia d’Uganda si presentava all’orizzonte. Questo comprendeva il regime del secondo Obote (17 dicembre 1980-27 luglio 1985), l’interregno di Tito Okello (29 luglio 1985-26 gennaio 1986) e il regime di Museveni (che prese il potere il 26 gennaio del 1986). Dopo la caduta di Amin (13 aprile 1979) si succedettero due presidenti Yusufu Lule (13 aprile 1979-20 giugno 1979) e Godfrey Binaisa (20 giugno 1979-11 maggio 1980). Una Commissione Militare poi prese in mano le redini della nazione (12 maggio 1980-22 maggio 1980) con Paul Mwanga come coordinatore. Successivamente si formò una Commissione Presidenziale (22 maggio 1980-15 dicembre 1980).[100]

Gli intrighi elettorali perpetuati in occasione dell’indipendenza della nazione a danno dei cattolici e del PD, si ripeterono dopo l’interregno di Lule e Binaisa. Di nuovo, attraverso un procedimento fraudolento, i risultati furono ribaltati in favore dei protestanti e quindi del partito che essi appoggiavano: il partito di Obote (UPC). Questo fece sì che Obote ritornasse al potere per la seconda volta il 17 dicembre 1980.

Nello stesso anno 1980 Museveni creava il proprio gruppo armato (NRA: National Resistance Army) con base nella zona di Luweero a nord-est di Kampala. Si accese un conflitto sanguinoso tra il Governo di Obote e il suo esercito (UNLA: Uganda National Liberation Army,) e i ribelli capeggiati da Museveni. La zona di Luweero divenne famosa come il “Luwero triangle”, in cui molti civili trovarono la morte o furono torturati.[101] I morti o torturati furono complessivamente circa 300.000 e 750.000 persone furono costrette a rifugiarsi in campi protetti.[102]

In luglio 1985 la situazione politica ugandese esplodeva. I generali Basilio Olara Okello e Tito Okello (Acholi) reagirono violentemente contro Obote per i suoi favoreggiamenti alla tribù dei Lango, da cui proveniva. Il 27 luglio riuscirono a deporre Obote e due giorni dopo Tito Okello diventò presidente dell’Uganda. Il suo regno durò solo sei mesi. Infatti il 17 dicembre 1985 Tito Okello e Museveni si incontrarono a Nairobi per un accordo di intesa politica. Ma, unilateralmente subito dopo Museveni e il suo National Resistance Army (NRA) ruppero l’intesa, continuando nella loro lotta verso il potere. Il 25 gennaio 1986 occuparono Kampala e il 26 gennaio Museveni venne eletto presidente dell’Uganda. L’esercito degli Okello fuggì vero il Nord. Molti soldati si abbandonarono a saccheggi e assassinii della gente del Sud, mentre l’odio tribale cresceva nelle tribù del Nord. Le nostre missioni non furono risparmiate.[103]

Gli ultimi due mesi prima della chiusura dell’ospedale di Kalongo furono devastanti. Le forze militari governative si fronteggiarono con i gruppi di ribelli che intensificavano le imboscate. Verso la fine del 1986, mentre si spegneva la guerriglia degli Okello (UPDA: Ugandan People Democratic Army), un gruppo di ribelli Acholi formarono un gruppo religioso-militare attorno ad Alice Auma Lakwena con il nome di Movimento dello Spirito Santo (HSMF: Holy Spirit Mobile Force). Lakwena con il suo movimento fu disperso nella zona di Jinja il 4 novembre 1986. Sconfitto questo gruppo, un nuovo gruppo sorse sotto la guida di Joseph Kony, nominato Esercito di Liberazione del Signore (LSA: Lord’s Salvation Army). Tale movimento nel 1994 si trasformò nell’Esercito di Resistenza del Signore (LRA: Lord’s Resistance Army).[104]

Nel dicembre del 1986 Kalongo, sotto il controllo delle forze governative, diventò l’epicentro di una mini-guerra civile, di tensione insopportabile tra le forze militari regolari e i ribelli (per il comportamento indisciplinato dei soldati), e quindi di morti.[105] “Il 30 gennaio 1987 la situazione precipitava. Le autorità militari radunavano il personale dell’ospedale e della missione per comunicare loro che da quel momento non avrebbero potuto uscire dalla linea di difesa, posta a pochissimi metri dalle case della missione. L’accusa era di complicità con i guerriglieri e di atteggiamenti autoritari. Le frasi con cui alcuni soldati avevano affrontato i padri non lasciavano presagire nulla di buono: ‘Non vogliamo altri Mussolini qui!’ ”.[106] P. Ambrosoli stesso scrisse che i soldati notavano “un cambiamento della nostra attitudine nei loro confronti” con una “tendenza nostra imperialista e fascista”.[107] Il 7 febbraio 1987 alle ore 18.00 il comandante di brigata annunciò la necessità di evacuare Kalongo. “In poche parole ci ha detto che dovevamo lasciare Kalongo e trasferirci a Lira portando via tutto il possibile.”[108]

b) Missione come “pacificazione”

P. Ambrosoli, pur realisticamente cosciente delle varie situazioni drammatiche che descriveva con lucidità nelle sue lettere agli amici, manteneva sempre un atteggiamento pieno di speranza per la pacificazione dei contrasti, senza mai venir meno nello spirito di vicinanza fisica e morale alla gente che soffriva. In particolare, egli era interessato nella pacificazione interiore degli animi traumatizzati delle persone. “Un magistero eloquente di pacificazione e di unione in momenti in cui la violenza assumeva connotazioni sempre più incontrollabili”.[109]

Appena le truppe tanzaniane arrivarono a Kalongo, Ambrosoli riflette sulla situazione e ne dà un giudizio di fede con prospettiva missionaria di pacificazione e guarigione interiore. “Speriamo che tutto finisca in fretta così da poter rincominciare la ricostruzione e il lavoro. Purtroppo la più difficile a guarire sarà la ferita della coscienza di tanti. Finora sappiamo di un prete africano e di tre padri comboniani uccisi nelle nostre zone. Occorre guardare in alto e ringraziare Dio che siamo ancora vivi, pronti a riprendere il lavoro, possibilmente con migliore spirito puntando soprattutto al bene integrale di questa nostra gente che ci ha sentiti vicini a loro in questo periodo”.[110]

Notiamo nuovamente la coscienza critica e realistica della situazione, ma con due accenni importanti di impegno missionario: 1) il fatto di essere vicini alla gente in spirito di solidarietà facendo causa comune con le loro ansie e speranze; 2) il compito di illuminare le coscienze della gente, aiutandole ad una crescita integrale della persona, fisica e morale. Si tratta, in altre parole, di un impegno missionario di pacificazione sociale e di guarigione interiore degli animi. Infatti, l’atteggiamento di P. Ambrosoli richiamava il nuovo obbiettivo: la ripresa di nuovi rapporti e il centro a garantire il processo: il cuore purificato.

Le difficoltà create dal regime di Amin spinsero P. Ambrosoli ad impegnarsi di più e perciò ad attirarsi la stima anche di coloro che non avevano tanta simpatia per i missionari. “Tutte queste difficoltà portarono il dott. Ambrosoli a lavorare ancora di più e questo gli fece guadagnare la stima di quelli che odiavano i missionari”.[111] Ancora una volta nella stima che diffondeva per il suo servizio disinteressato cogliamo la sottolineatura della forza di pacificazione degli spiriti del P. Ambrosoli.

In occasione del 25° di Messa, verso la fine del 1980, P. Ambrosoli fu umiliato e offeso. “Alcuni politicanti, di religione protestante, lo avevano invitato ad andarsene; la sua presenza non era indispensabile, l’ospedale sarebbe stato comunque gestito bene anche da personale cinese. Senza lamentarsi con la sua solita calma, aveva risposto che se il governo centrale avesse inviato i medici cinesi non avrebbe avuto alcuna remora a lasciare Kalongo e a trasferirsi altrove a prestare il proprio servizio!”[112] Anche in questa occasione evidenziamo la dimensione di pacificazione del suo approccio missionario alla realtà. La sua testimonianza di calma e tolleranza portava alla pacificazione degli animi, proprio perché lui prima degli altri era pacificato interiormente.

In questo ultimo periodo della vita missionaria di P. Ambrosoli (1980-1986), oltre che le pressanti responsabilità della gestione dell’ospedale, divenuto sempre più complesso, si aggiunse il problema medico della sua carenza renale. Ora aveva un solo un rene che funzionava al 30%. La spiritualità di Charles de Foucauld[113] gli venne in aiuto ai fini di sviluppare in se stesso una pacificazione dello spirito con la dura volontà di Dio, mettendo pace così anche nei collaboratori e nella gente con il suo spirito di fede e di abbandono nella mani della Provvidenza.

P. Ambrosoli sapeva conciliare gentilezza e amabilità con coraggio e determinazione. “Tanto era gentile, quanto era coraggioso e determinato.”[114] L’on. Ambrogio Okulu esprime efficacemente il coraggio di Ambrosoli: “Negli sconvolgimenti dell’Uganda di allora il dott. Ambrosoli affrontò con lo stesso coraggio religiosi zeloti, politici vendicativi e ufficiali indisciplinati. Mai fece un passo indietro per paura.”[115] Questo spirito di fortezza e determinazione era volto a portare la pacificazione degli spiriti in termini di giustizia e rispetto della persona umana come supremo valore della convivenza civile. Si direbbe che il carattere pacifico e fondamentalmente flemmatico di P. Ambrosoli lo avrebbe dovuto inclinare a rifuggire ogni espressione di coraggio e fortezza. E invece avveniva il contrario. Da dove gli veniva questo forte atteggiamento nell’affrontare senza paura chi causava ingiustizie? Mr. Okulu trova la fonte del coraggio di Ambrosoli nella presenza di Dio in lui. “Come avrebbe potuto fare tanto del bene, assolutamente dimentico di sé, se Dio non fosse stato con lui? Era semplicemente ripieno di rettitudine interiore.”[116]

Abbiamo visto che la vita soprannaturale che egli curava nel suo spirito, cioè il continuo identificarsi con la volontà di Dio e con la carità di Cristo, aveva portato P. Ambrosoli a una tale pacificazione interiore che si manifestava esternamente nella sua amabilità e nel suo sorriso disarmante. Era tale pacificazione interiore che diventava in lui fonte di coraggio e fortezza nel resistere alle ingiustizie e quindi esigenza di pacificazione anche esterna per rispetto alla persona e salvaguardia strutture di carità.   

Alle ingiustizie provocate dalla situazione socio-politica si possono aggiungere le ingiustizie causate da individui (forse soldati) che rubavano macchinari a servizio dell’ospedale come lo strumento per misurare il vento (anemometro) piazzato a 200 metri dall’ospedale e la batteria e il caricabatterie. P. Ambrosoli scrive al fratello Carlo sul furto: “Spiacevole episodio che ci richiama il dovere di una promozione non solo umana ma anche cristiana di questi nostri fratelli.”[117]

Notiamo lo spirito di pacificazione, in primo luogo, nel chiamare i ladri “nostri fratelli” e nella sua preoccupazione della loro formazione e promozione umana e cristiana. Troviamo qui un’altra manifestazione della testimonianza della santità missionaria di P. Ambrosoli come pacificazione degli spiriti basata sulla promozione di un’autentica conversione umana e cristiana delle coscienze.

P. Ambrosoli definisce l’ultimo anno della sua vita il 1986 come “il più difficile dei trent’anni a Kalongo”.[118] A causa del conflitto tra ribelli Acholi e le guarnigioni governative. In tale situazione P. Ambrosoli intervenne rischiando la sua vita per difendere un soldato e quattro donne del Sud. Si era interposto tra i guerriglieri e queste persone dicendo: “Prima di ucciderle dovere uccidere me”.[119] La moglie del dott. Rizzardini poté testimoniare la determinazione di P. Giuseppe.[120] “I ribelli davanti a tanto coraggio, e per il breve tempo che avevano a disposizione, desistettero dal loro malvagio desiderio di vendetta e scapparono via.”[121] In questa tesa situazione P. Giuseppe soccorreva tutti indistintamente sia gente del Nord sia gente del Sud. Egli si prese cura personalmente di un ammalato del Sud abbandonato da tutti. Gli portava da mangiare spesso privandosi del suo stesso cibo.[122] “Momenti di luce in un buio scenario di incertezze e di odi”.[123]

In una lettera circolare del 1986 P. Ambrosoli scrive: “Il futuro umanamente parlando si presenta oscuro, non vedendo un accordo pacifico tra le due parti”. P. Ambrosoli, coscio della situazione, aggiunge: “A noi resta di stare qui ad aiutare tutti quelli che possiamo, pregando il Signore che illumini gli animi e i cuori”.[124] Il dott. Tacconi testimonia come in questi momenti drammatici il P. Ambrosoli si mantenesse sereno e calmo e rincuorasse tutti, pregando con grande intensità.[125] “In quei cruciali momenti l’ho sempre visto ‘calmo’, abbandonato alla volontà di Dio, dentro lo si vedeva soffrire all’inverosimile, ma fuori non traspariva niente e rincuorava gli altri. Quanto ha sofferto in quelle ore!!! È stato veramente il suo Getsemani! […] Quanta sofferenza morale, psichica e fisica ha gravato su di lui in quel momento; lo spirito reggeva, ma il suo corpo già debole non ce l’ha fatta. E per colmo dell’“abbandono”, permesso da Dio nei suoi confronti, ha agonizzato ed è morto, senza la presenza vicina di nessuno di noi medici! lui che era stato il medico di tutti!”[126]

Gli ultimi mesi della vita di P. Ambrosoli furono mesi di passione con il suo Getsemani, crocifissione, morte e sepoltura. Si è così identificato con Cristo in tutto. Il suo Getsemani, come afferma Tacconi, furono i mesi cruciali del conflitto tra forze governative e i ribelli in seguito all’accusa che il personale appoggiasse i ribelli per cui la minaccia dell’evacuazione o dell’abbandono di Kalongo. La crocifissione fu lunga e penosa. Evacuazione durata 21 ore. Stando alla descrizione di P. Ambrosoli stesso. “Dopo 21 ore di polvere, sete, angoscia, paura e tanta stanchezza finalmente arrivammo a Lira”.[127] La morte avvenne dopo poche settimane, il 27 marzo 1987. La sepoltura in due tappe: a Lira il 28 marzo 1987 e la traslazione a Kalongo l’8 aprile 1994. Ma dopo la sepoltura c’è la resurrezione. La fama di santità che ne perpetua la memoria e la beatificazione sono segni e riflessi della sua risurrezione. Lui, che volle identificarsi con Cristo, si identifica ora anche con la sua risurrezione.

c) Segno di Cristo “pacificatore”

Possiamo qui sviluppare teologicamente la spiritualità missionaria di pacificazione in P. Ambrosoli. La pacificazione esterna non è tanto frutto di un attivismo sociale, che molte volte si limita a denunciare ingiustizie, ma per P. Ambrosoli è un diventare lui stesso sacrificio di pacificazione come Cristo sulla croce, come dice San Paolo: “Piacque a Dio […] per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose, rappacificando con il sangue della sua croce, cioè per mezzo di lui, le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli” (Col 1:19-20). Ecco, quindi, l’invito di Paolo di diventare ministri di riconciliazione o pacificazione. Si tratta perciò di rivestire le disposizioni del Cristo diventando anche noi servi della riconciliazione secondo il suo esempio. “Dio […] ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione” (2 Cor 5:18).

P. Ambrosoli diventerà lui stesso un sacrificio di espiazione e di pacificazione e riconciliazione nel suo corpo, accettando con spirito di abbandono la croce dell’evacuazione da Kalongo e la successiva morte. In questi due atti finali P. Ambrosoli consumò la sua testimonianza missionaria come sacrificio di pacificazione e riconciliazione, identificandosi con Cristo sulla croce, realizzando così in pienezza quel cammino spirituale che aveva identificato con l’ “arrivare un po’ di più vicino a Gesù nella sua via della Croce”[128], con cercare lui “solo in Cruce”,[129] col “vivere la presenza di Gesù nel mio cuore” e col fare ”quello che farebbe lui al mio posto”.[130] Questo era il  significato ultimo delle parole con cui ispirò: “Si faccia la tua volontà […] fosse anche cento volte”.[131]

3. Fame, malattie e conflitti. Missione come “difesa della dignità della persona umana”

Raccogliamo sotto questo titolo quelle situazioni in cui troviamo la persona umana distrutta dalla fame, dalla malattia come il colera, da violenti conflitti tra forze governative e ribelli, o a causa delle razzie dei Karimojong. Nelle sue lettere P. Ambrosoli parla frequentemente di queste situazioni con vivo realismo. In queste situazioni peculiari evidenziamo un’altra dimensione della spiritualità missionaria di P. Ambrosoli: la missione come “difesa della dignità della persona umana” chiunque essa sia: Acholi o gente di altre tribù, soldati governativi o ribelli, bianchi o neri.

a) Situazione esistenziale

Varie volte nelle sue lettere P. Ambrosoli parla delle devastanti incursioni dei Karimojong come quella del 1979 e del 1980.[132] Nel 1980 la fame e il colera complicarono la situazione già precaria. “C’è un’area vasta di 100.000 persone negli Acholi con gran fame. In tutto il Karamoja poi muoiono di fame [...].”[133] E ancora: “É stata una dura prova per la nostra gente ed anche per l'ospedale. Parecchi, specie, tra vecchi e bambini, sono morti di fame e molti, di ogni età, sono morti di colera.”[134]

In un’altra incursione i Karimojong fecero molte vittime tra i soldati e gente comune. I feriti furono circa 40.[135] Con l’inizio della Settimana Santa del 1983 a causa di queste incursioni, la gente correva da ogni parte verso la Missione. In lontananza si vedevano fuochi di capanne incendiate. Le mitragliatrici incominciarono a crepitare seguite dallo scoppio assordante di bombe. I soldati inseguirono i razziatori che scappavano verso il monte con il bestiame, cibarie e altri oggetti rubati.[136] La Domenica in Albis avvenne un’altra razzia in un paese vicino. “Ancora morti, feriti, distruzione, odio e miseria!”[137]

I conflitti aumentarono nel 1986 quando Museveni pigliò il potere, sgominando il regime degli Okello, e quindi creando tensione tra la gente Acholi e la gente del Sud (o non-Acholi), considerati conniventi con il nuovo regime. Questa rivalità si avvertì nell’ospedale dove c’erano circa un centinaio di persone del Sud. In questa tragedia di tribalismo vendicativo, P. Ambrosoli nota l’episodio drammatico di un comandante Acholi che il 12 marzo del 1986 per tribalismo uccise un soldato Muganda (una persona del Sud) dell’esercito uscente. In contrasto ricorda un altro commovente fatto di una persona morente per un tumore ai polmoni che chiese alla suora che lo assisteva: “Suora salva il mio autista (era un Muganda del Sud); lui ha salvato me, io devo salvarlo”.[138]

P. Ambrosoli descrive vividamente l’arrivo delle truppe di Museveni a Kalongo il 29 marzo 1986 mentre preparavano la Veglia Pasquale e i disastri di una nuova incursione dei Karimojong.[139]

P. Ambrosoli riferisce che i mesi successivi nel 1986 il conflitto si fa più acceso tra i soldati governativi (NRA) e le forze dei ribelli. I militari Acholi arrivati a Kalongo il 21 ottobre volevano uccidere un soldato e quattro donne dell’esercito governativo (NRA). “Vi fu anche un colpo di rivoltella, sparato davanti a noi, per intimidirci, ma avevano troppa fretta di scappare e alla fine i cinque erano salvi.”[140] Le difficoltà di questo periodo furono anche dettate da fatto che i soldati governativi pensavano che l’ospedale supportasse i ribelli Acholi.

b) Missione come “difesa della dignità della persona umana”

Notiamo come il valore della “difesa della dignità della persona umana” sia stato sempre presente nell’attività medica e missionaria di P. Ambrosoli. Esso fu alla base del suo servizio medico e chirurgico in ospedale. Qui lo evidenziamo in modo particolare nei toni drammatici delle varie situazioni per contrastarlo con il poco valore dato alla dignità della vita umana dalle persone coinvolte negli abusi, sottolineando invece lo spirito di carità cristiana di Ambrosoli e del personale dell’ospedale che aveva come motivazione principale il rispetto e la difesa di tale dignità.

Nell’incursione dei Karimojong del 1979 descritta sopra, P. Ambrosoli testimonia l’operato dell’ospedale nel soccorrere i feriti nella speranza che i Tanzaniani possano ristabilire l'ordine.[141] P. Ambrosoli vede come la gente sia abusata nella loro dignità di persone che desiderano e meritato una situazione di pace per vivere felici. Per questo Dio ci ha creati.

Nella situazione di fame e di colera del 1980, P. Ambrosoli narra l’assistenza offerta. “Molti malati sono morti nei loro villaggi o in strada, per mancanza di mezzi di trasporto. Abbiamo fatto vari viaggi a Gulu (170 km) col nostro camion ed abbiamo potuto distribuire una buona quantità di farina di granoturco. In missione abbiamo raccolto 250 bambini, in condizioni gravi di magrezza e deperimento organico”[142] E ancora: “Mercoledì scorso sono stato a 30 km da qui a vedere i bambini e ne ho portati a casa 35 malati. Vorremmo cercare di fare dei turni per riportarli a casa loro in condizioni di poter resistere ancora qualche settimana, e così prendiamo gli altri più brutti. Certo è una cosa molto penosa. E vederli con che avidità prendono i primi pasti di polenta. In tutto questo quadro già triste imperversa il colera, abbiamo distribuito in un paio di giorni 200.000 capsule di tetraciclina, ed il male si è quasi fermato, per poi riprendere.”[143] P. Ambrosoli sente che la fame e il colera ledono la dignità di quella immagine di Dio che ogni uomo porta in sé. L’aiuto medico e di cibo era dettato da motivi di carità cristiana che intendeva promuovere e difendere la dignità dell’essere umano, dall’infante al vecchio morente.

In occasione della guerra tra Acholi e Karimojong nel 1983, “quando P. Ambrosoli seppe dell’incidente prese la macchina e andò sul posto, raccolse i feriti e li portò in ospedale curandoli e operandoli per molte ore nell’unica sala operatoria. Faceva tutto con bontà e amore. Senza perdere mai la pazienza.”[144]

Durante la Settimana Santa del 1983, alla messa del mattino dopo la devastante scena di violenza e terrore del giorno prima - confessa P. Ambrosoli - “non fu certo facile parlare di amore, di speranza, di perdono, di gioia della Risurrezione a quella folla di bambini, donne, vecchi, ammalati terrorizzati e desolati, mentre ci giungeva regolarmente l’eco delle bombe che scoppiavano in lontananza. Eppure, in chi sperare, a chi rivolgerci se non a quel Cristo che prima di noi aveva subito ingiustamente persecuzione e morte per salvarci, e il cui Sacrificio si stava rinnovando ancora oggi su quell’altare?”[145] P. Ambrosoli connetteva il sacrificio dell’Eucarestia, che esprime il dono gratuito di Gesù all’umanità come la motivazione che dà senso e speranza all’immane dolore della distruzione della vita umana. Questo motivava il sacrificio di P. Ambrosoli e del personale dell’ospedale nell’assistere i feriti e moribondi.

P. Ambrosoli si commosse davanti a Peter, un ragazzo giovane in fin di vita che fece il suo atto di contrizione con intensa fede, che P. Ambrosoli gli aveva suggerito. Descrive lo scenario dell’ospedale a fine giornata con tocchi drammatici. “Alla fine della giornata in sala operatoria ci trovammo con un secchio di arti amputati tra i quali sporgeva una mano aperta, come volesse ringraziarci e chiedere pietà.” E si chiede con passione “Quando finirà tale vita di dolore e di pianto?” Narra, poi, delle mamme che cercano qualcosa per sfamare i loro piccoli e degli uomini depressi e sfiduciati, invocando la Provvidenza che non mancherà di soccorrerli.[146] P. Ambrosoli proclama la dignità di queste persone abusate e sofferenti perché sono ad immagine di Dio, e quindi Dio non può abbandonare le sue creature.

Nella razzia della Domenica in Albis del 1983, pensando al significato storico di questa domenica quando i neofiti deponevano le vesti bianche, P. Ambrosoli aggiunge una riflessione commovente. “Nei primi tempi del cristianesimo, la Domenica in Albis, i cristiani novelli deponevano le vesti bianche indossate per il battesimo che avevano ricevuto durante la Veglia Pasquale. Quasi duemila anni dopo a Kalongo, fuori dalla sala operatoria, abbiamo deposto ben altre vesti, cioè uniformi militari a brandelli, inzuppate di sangue. Alcuni come Quirino, Peter, Bruno ed altri le lasceranno per sempre per vestire la veste candida e seguire l'Agnello Immolato nel Regno del Padre dove c'è la pace e la gioia senza fine”.[147] P. Ambrosoli esprime il legame tra vita umana e vita sacramentale. C’è ancora il richiamo dell’Eucarestia come identificazione con il sacrificio di Cristo che implica la passione, ma è anche foriero di risurrezione e di immortalità.

P. Ambrosoli sottolinea il lavoro nascosto e umile dell’ospedale. Egli spera che con tutto questo impegno la gente lasciasse l’ospedale con il ricordo della nostra fraterna comprensione e simpatia e [...] amore. È questo il lato umano, tanto importante ovunque, ma soprattutto in un ospedale missionario.”[148] P. Ambrosoli sottolinea la dimensione missionaria che dà le ragioni divine per l’amore e la fraternità fondate sulla dignità della persona umana redenta dal sangue di Cristo, e quindi avente un valore infinito.

Di fronte all’episodio commovente dell’uomo morente, che chiede di salvare la vita del suo autista Muganda, P. Ambrosoli aggiunge: “Quanto è stata bella e commovente questa testimonianza in un momento così drammatico, mentre un suo fratello Acholi aveva appena colpito a morte un uomo, solo per tribalismo! L’uno aveva il fucile per uccidere, l’altro aveva un cuore moribondo che sapeva ancora amare.”[149] P. Ambrosoli proclama l’amore di Cristo come il motivo che fa superare gli odi e amare anche i nemici, perché anch’essi sono ad immagine di Dio e sono stati salvati al caro prezzo del sangue di Cristo.

P. Ambrosoli conclude il suo racconto della tesa situazione a Kalongo nella Pasqua del 1986, parlando del lavoro dei missionari che sono segno di speranza per tanta gente. “Il lavoro dei missionari in questo periodo è stato di salvezza, conforto, aiuto per tante persone di qualsiasi tribù, un segno di speranza in mezzo a tanta tristezza. Confidiamo nell’aiuto del Signore per avere la forza e il coraggio di cominciare da capo ancora una volta, affiancando questo popolo nella ricostruzione morale e materiale del paese.”[150] La speranza in un futuro migliore della società si fonda sulle energie di bene che ogni uomo contiene in sé, se sviluppate e potenziate. L’evangelizzazione ha come scopo fare scoprire alle persone queste energie di vita e di amore e potenziarle alla luce della grazia di Cristo e dello Spirito Santo a gloria di Dio creatore.

Di fronte alla situazione tesa creatasi a Kalongo negli ultimi mesi del 1986, P. Ambrosoli commenta: “A noi resta di stare qui ad aiutare tutti quelli che possiamo, pregando il Signore che illumini gli animi ed abbonisca i cuori a trovare una soluzione pacifica ai problemi politico-militari.”[151] La pace politica si basa sul rispetto, sulla difesa e promozione della dignità della persona umana, valori che abboniscono il cuore umano nel collaborare per la costruzione della pace.

c) Segno di Cristo “difensore della dignità della persona umana”

Qui vediamo un P. Ambrosoli identificato con il Maestro che guariva e sanava le persone. Egli si era impegnato a “impersonificare […] il Maestro quando curava i malati che venivano a Lui”.[152] Voleva “vivere la presenza di Gesù” nel suo cuore e “fare cosa farebbe lui” al suo posto”.[153] Era vivo in Ambrosoli il testo di Mt 25:31-46, dove Gesù si identifica con il prigioniero, l’ammalato, l’affamato, il carcerato e l’ignudo.

P. Ambrosoli visse l’affermazione di Giovanni Paolo II, fatta propria da papa Francesco: “La sola ragione è sufficiente per riconoscere il valore inviolabile di ogni vita umana, ma se la guardiamo anche a partire dalla fede, ‘ogni violazione della dignità personale dell’essere umano grida vendetta al cospetto di Dio e si configura come offesa al Creatore dell’uomo’ ”.[154] Per questo P. Ambrosoli difese la dignità della persona umana con tutto il suo impegno di medico missionario.

Dopo l’evacuazione da Kalongo, il superiore generale P. Francesco Pierli scrivendo a P. Ambrosoli metteva in luce il “farsi carico delle piaghe della gente” da parte dell’ospedale di Kalongo.[155] Nella carne dei poveri (ammalati, feriti e morti) P. Ambrosoli vedeva la carne sofferente di Cristo che venerava e serviva, come Papa Francesco scrive nell’Evangelii Gaudium: “La comunità evangelizzatrice si mette mediante opere e gesti nella vita quotidiana degli altri, accorcia le distanze, si abbassa fino all’umiliazione se è necessario, e assume la vita umana, toccando la carne sofferente di Cristo nel popolo.”[156]  E ancora: “Noi dobbiamo diventare cristiani coraggiosi e andare a cercare quelli che sono proprio la carne di Cristo! […]  Questo è il problema: la carne di Cristo, toccare la carne di Cristo, prendere su di noi questo dolore per i poveri.”[157] P. Ambrosoli toccava questa carne sofferente di Cristo per sanarla nel corpo e nello spirito. Difendendo la dignità della persona umana significa venerare la persona di Cristo stesso con cui i bisognosi sono identificati (cf. Mt 25:31-46).

CONCLUSIONE

Abbiamo enucleato alcuni aspetti della ricca eredità che Ambrosoli ci ha lasciato come medico e missionario. Questi devono ispirare ogni missionario, qualunque sia la sua specializzazione professionale. Per vivere la spiritualità missionaria come fece P. Ambrosoli non è necessario essere medici. Ogni situazione può diventare un’occasione per vivere un’analoga spiritualità missionaria

Abbiamo sviluppato la nostra riflessione sulla spiritualità missionaria di P. Ambrosoli su due traiettorie: la dimensione della dolcezza (missione in termini di “attrazione”) e della decisione o fortezza (missione in termini di “attuazione” come mediazione, pacificazione e difesa della dignità della persona umana). La prima dimensione è su imitazione del Cristo “umile e dolce di cuore” (cf. Mt 11:28) e la seconda su imitazione di Cristo mediatore (cf. 1 Tim 2:5), pacificatore e riconciliatore (cf. Col 1:19-20; 2 Cor 5:18) e difensore della dignità della persona umana (cf. Mt 25:31-46).

In primo luogo, abbiamo considerato l’esperienza di santità missionaria di P. Ambrosoli in termini di “attrazione” o “influenza per contagio”, sulla linea di Papa Francesco, fugando ogni forma di proselitismo o fondamentalismo apologetico. Questa dimensione fu possibile in P. Ambrosoli grazie alla simbiosi tra la grazia di Dio e l’impegno personale all’opera nel proprio cammino spirituale. Il suo spirito missionario era simpatico ed attraente perché non aggressivo ed intollerante. Il suo atteggiamento non era buonismo a buon mercato per affermarsi e diventare popolare. Non era mera filantropia, ma autentica carità cristiana, che cercava di incarnare l’amore di Cristo nella quotidianità dell’impegno ospedaliero e pastorale.

Nel contesto socio-politico-religioso dell’Uganda del suo tempo, nel tormentato e violento succedersi di regimi dittatoriali, razzie dei Karimojong e situazioni di fame e malattie varie, P. Ambrosoli visse la missione in fase di “attuazione”, sviluppando in particolare tre dimensioni che lo identificarono con Cristo mediatore, pacificatore e promotore della dignità della persona umana, toccando la carne sofferente di Cristo nei poveri.

In primo luogo, la sua testimonianza missionaria si esplicitò nella dimensione della “mediazione”, cioè nell’adattamento paziente in particolare alle leggi e disposizioni del governo inglese. Questa capacità di adattamento senza aggressività e recriminazioni, il suo legare sempre Dio con le situazioni umane, fu sempre una costante di P. Ambrosoli in tutte le situazioni della sua vita. In tutta la sua vita egli divenne segno di Cristo mediatore

In secondo luogo, si esplicitò come pacificazione o riconciliazione nei conflitti di vario tipo. Il suo ministero di “pacificazione” non fu tanto nell’impegnarsi in attivismi socio-politici, ma nel pregare che la pace sanasse i conflitti tribali esterni e gli spiriti delle persone si riconciliassero e sanassero interiormente. Il suo servizio medico nel salvare i corpi era sempre accompagnato dalla preghiera con lo scopo di sanare anche lo spirito. Tutto questo impegno di carità pacificatrice degli altri era possibile perché P. Ambrosoli era sanato e pacificato interiormente con se stesso, con Dio e con la realtà. Perciò egli fu segno di Cristo pacificatore.

In terzo luogo, nel contesto della fame, malattia e guerra, la motivazione che continuamente animava i suoi interventi medici o assistenziali in favore dei poveri, feriti e ammalati era la difesa della dignità della persona umana, riflesso nell’immagine di Dio che ognuno porta in sé dalla nascita, resa preziosa dalla redenzione mediante il sangue di Cristo. P. Ambrosoli fu così segno del Cristo difensore della dignità della persona umana.

L’impegno di mediazione, pacificazione e difesa della dignità della persona umana raggiunse la sua consumazione e identificazione con il mistero di Cristo nel duro evento dell’evacuazione da Kalongo, il suo Getsemani. P. Ambrosoli ha dato il suo contributo più qualificato alla missione in Uganda accettando la passione con spirito di fede. Egli ha dato “il contributo di un cuore trafitto che sanguina. È un cuore che diventa offerta al Padre, è un cuore che emette sangue e ripete le parole di Cristo: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno.”[158]

P. Ambrosoli visse così la trafittura del Cristo crocifisso in termini di “insuccesso amato” nello spirito dell’abbandono totale alla volontà di Dio. Il vino consacrato che al momento della pace inavvertitamente P. Ambrosoli versò sull’altare, su un povero tavolo nello studentato di Kampala, divenne segno premonitore del sacrificio supremo di pacificazione verificatosi nel versamento del sangue nel suo povero corpo, consunto dalla fatica e dalla malattia, durante la sua morte avvenuta a Lira il 27 marzo 1987 a conclusione del suo calvario. Allora la sua testimonianza di santità missionaria raggiunse il suo “consummatum est”. La fama di santità e la prossima beatificazione sono riflessi della sua partecipazione anche alla risurrezione del Maestro che volle imitare fino alle estreme conseguenze.

P. Guido Oliana, MCCJ

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[1] La presente riflessione è fondamentalmente basata sulla Positio Super Vita, Virtutibus et Fama Sanctitatis. Beatificationis et Canonizationis Servi Dei Iosephi Ambrosoli Sacerdotis Congregationis Missionariorum Combonianorum Cordis Iesu (1923-1987), Roma: Tipografia Nova Res s. r. l., a cura di P. Arnaldo Baritussio. L’opera è divisa in tre parti: Informatio super virtutibus; Summarium super virtutibus; Summarium documentorum. Per chiarezza nelle note si farà riferimento alle tre parti come qui espresse. Nella Positio si trova un riferimento alle fonti originali dei vari documenti citati che in questo studio non riporto. Farò uso anche di altri documenti che si trovano nell’Archivio dei Missionari Comboniani di Roma (ACR). Sono state scritte le seguenti biografie su P. Ambrosoli: Lorenzo Gaiga, Padre Ambrosoli medico della carità, Bologna: EMI 1988; Palmiro Donini, L’altro. Padre Giuseppe Ambrosoli medico missionario comboniano, Milano: San Paolo Edizioni 1998; Marco Magheri, Padre Giuseppe Ambrosoli missionario in Uganda, Roma: Tipografia Vaticana 2007; Elisabetta Soglio - Giovanna Ambrosoli, Chiamatemi Giuseppe - Padre Ambrosoli, medico e missionario, Milano: Ed. San Paolo 2017.

[2] Estratto degli Esercizi Spirituali (Lachor Seminary, Gulu, 3 settembre 1857): “Devo cercare di impersonificare in me il Maestro quando curava i malati che venivano a Lui”, in Summarium Documentorum, 215, no. 83.

[3] Lettera di P. Francesco Pierli a P. Giuseppe Ambrosoli (Roma, 16 marzo 1987), in ACR, C. 253, b. 19/18. Un estratto della lettera, che non contiene il passo citato, si trova in Summarium Documentorum, 260, no. 135.

[4] Cf. Informatio super virtutibus, 110-113.

[5] Lettera di testimonianza di P. Maurizio Balducci (Lecce, 20 marzo 1992) (ACR, C. 405, b. 6/37), in Informatio super virtutibus, 132-133; Summarium Documentorum, 263, nota 149.

[6] Cf. Lettera di testimonianza di P. Manuel Grau (Milano, 24 agosto 1996) in ACR, C. 405, b. 6/7.

[7] Estratto della testimonianza di Camillo Terzaghi (Varese, 3 settembre 1999), in Informatio super virtutibus, 30; Summarium documentorum, 161, no. 29.

[9] Lettera a Renzo Corti (Nikitikon, Svizzera 27 gennaio 1944), in Informatio super virtutibus, 28; Summarium Documentorum, 158, no. 28.

[10] Estratto della testimonianza di Camillo Terzaghi (Varese, 3 settembre 1999), in Summarium Documentorum, 160-161, no. 29.

[11] Cf. Estratto della testimonianza di Camillo Terzaghi (Varese, 3 settembre 1999), in Informatio super virtutibus, 30; Summarium Documentorum, 161, no. 29: “Già da allora, la decisione di Ambrosoli era pari alla sua dolcezza”!

[12] Informatio super virtutibus, 29.

[13] Lettere del Cenacolo di don Silvio Riva, in Archivio Storico Diocesano Como (ASDC), in Informatio super virtutibus, 34.

[14] Lettera a Virginio Somaini (Ronago, 21 novembre 1946), in Informatio super virtutibus, 38; Summarium Documentorum, 169, no. 34, a). 

[15] Esercizi Spirituali (I Meditazione: I miei rapporti con Dio) (Varese, 3 dicembre 1950), in Quaderno dell’anima (Esercizi Spirituali), in ACR, C. 233, b. 9/2.

[16] Lettera a Virgilio Somaini (Ronago, 15 maggio 1947), in Informatio super virtutibus, 39; Summarium Documentorum, 173, no.34 f).

[17] Estratti degli Esercizi Spirituali (Galliano, 3 novembre 1947), in Summarium Documentorum, 174-175, no. 35.

[18] Estratti degli Esercizi Spirituali (Galliano, 3 novembre 1947), in Summarium Documentorum, 174-175, no. 35.

[19] Estratti degli Esercizi Spirituali (Varese, 3 dicembre 1950), in Summarium Documentorum, 183, no. 42.

[20] Cf. Estratto della testimonianza di P. Simone Zanoner (12 settembre 1999) circa il primo contatto con i Comboniani (1949), in Informatio super virtutibus, 44; Summarium Documentorum, 179-180, no. 39; Lettera al Padre Generale P. Antonio Todesco (Ronago, 5 settembre 1951), in Summarium Documentorum, 183, no. 43.

[21] Cf. Giornata di Ritiro personale (Verona, 22 novembre 1951), in Summarium Documentorum, 185, no. 46.

[22] Estratto degli Esercizi Spirituali (Gozzano, 21 ottobre 1951), in Summarium Documentorum, 189, no. 51.

[23] Estratto degli Esercizi Spirituali (Gozzano, 7 febbraio 1951), in Summarium Documentorum, 190, no. 51.

[24] Pensieri in occasione dell’ordinazione presbiterale (Milano, 17 dicembre 1955), in Summarium Documentorum, 207, no. 74.

[25] Pensieri in occasione della prima Messa a Ronago (Ronago, 18 dicembre 1955), in Summarium Documentorum, 208, no. 75.

[26] Testimonianza di P. Giovanni Giordani (Roma, 23 agosto 1999), in Summarium Documentorum, 187-188, no. 49.

[27] Testimonianza di P. Luigi Gusmeroli (Doba in Chad, 15 giugno 2006), in Summarium Documentorum, 296, no. 155.

[28] Estratto degli Esercizi Spirituali (Gulu, Lachor Seminary, 3 settembre 1957), in Summarium Documentorum, 215, no. 83.

[29] Estratto degli Esercizi Spirituali (Gulu, Lachor Seminary, 4 settembre 1958), in Summarium Documentorum, 216, no. 85.

[30] Estratto degli Esercizi Spirituali (Gulu, Lachor Seminary, 2 settembre 1959), in Summarium Documentorum, 217, no. 87.

[31] Estratto degli Esercizi Spirituali (Gulu, Lachor Seminary, 4 settembre 1959), in Summarium Documentorum, 218, no. 87.

[32] Cf. Estratto degli Esercizi Spirituali (Gulu, Lachor Seminary, 1settembre 1960), in Summarium Documentorum, 218, no. 87.

[33] Estratto degli Esercizi Spirituali (Gulu, Lachor Seminary, 2 settembre 1960), in Summarium Documentorum, 218, no. 87.

[34] Quaderno dell’anima (Esercizi Spirituali - II Meditazione: L’incarnazione e la vita privata) (2 novembre 1948), in ACR, C. 233, b. 9/2.

[35] Estratto degli Esercizi Spirituali (Comboni House, Ngeta-Lira, 22 Agosto 1963), in Summarium Documentorum, 220, no. 89. Il termine “neri” in questo e altri testi, non viene usato da P. Ambrosoli in senso dispregiativo, ma in senso affettivo.

[36] Estratto degli Esercizi Spirituali (Comboni House, Ngeta-Lira, 18-24 aprile 1971), in Summarium Documentorum, 223, no. 92.

[37] Estratto degli Esercizi Spirituali (Ombaci, West Nile, 26 agosto-1 settembre 1973), in Summarium Documentorum, 229, no. 98.

[38] Propositi del Ritiro del 1974 (ACR, 233/8/7), in Summarium Documentorum, 229, nota 101.

[39] Lettera al Sig. Piergiorgio Trevisan (Kalongo, 30 settembre 1981), in ACR, C. 405, b. 17/25.

[40] Secondo la testimonianza di Don Dott. Palmiro Donini: “Tenacemente fedele al suo credo: Dio è amore, c’è un prossimo che soffre, io sono il loro servitore […]”. “A quattro mesi dalla santa morte del chirurgo Padre missionario Dott. Giuseppe Ambrosoli, Comboniano in terra ugandese”, in ACR, C. 405, b. 7/4. Cf. anche la lettera di aprile 1987 di Don Donini a P. Lorenzo Gaiga che raccoglieva dati per la sua biografia di P. Ambrosoli, in ACR, C. 405, b. 7/17. La stessa affermazione viene riportata nella testimonianza di Massimino Leonard Oyoo, impiegato nell’ospedale di Kalongo, VIII Teste, nel Processo di Gulu, sess. III (Kalongo, maggio 1999), in Summarium super virtutibus, 25, Ad 7.

[41] Cf. Informatio super virtutibus, 110-113.

[42]  Cf. Testimonianza di Don Dott. Donini, X Teste, nel Processo di Gulu, sess. IV (Kalongo, 14 maggio 1999), in Informatio super virtutibus, 31, nota 20, in cui si dice che si sono conservati dei foglietti con le preghiere che P. Ambrosoli aveva nel Breviario, tra cui la preghiera dell’abbandono di De Faucauld.

[43] Estratto della lettera a Piergiorgio Trevisan (Kalongo, 2 novembre 1980), in Summarium Documentorum, 237, no. 111. P. Giacomo Ambrogio, che fu parroco a Kalongo dal 1997 al 1984, conferma questa scoperta della spiritualità di De Foucauld. Cf. Testimonianza di P. Giacomo Ambrogio, XXXI Teste, nel processo di Gulu, sess. X (Gulu, 6 agosto 1999), in Summarium super virtutibus, 48, Ad 9.

[44] Lettera al Sig. Piergiorgio Trevisan (Kalongo, 2 novembre 1980), in ACR, C. 405, b. 17/22.

[45] Estratto degli Esercizi Spirituali (9-15 gennaio 1981), in Summarium Documentorum, 238, no. 112.

[46] Estratto della lettera agli amici della Charitas (Ronago, 31 gennaio 1983), in Summarium Documentorum, 242-243, no. 120.

[47] Cf. Testimonianza di Sr. Caterina Marchetti, LXXVII Teste, nel Processo Rogatoriale di Como, sess. X (Como, 15 febbraio 2000), in Summarium super virtutibus, 104, Ad 7.

[48] Estratto della lettera a Mons. Costantino Stefanetti (Lira, 21 maggio 1982), in Summarium documentorum, 241, no. 117.

[49] Lettera a don Antonio Fraquelli (parroco di Ronago) per il 50° di Kalongo (Kalongo, 8 settembre 1984), in Summarium Documentorum, 246, no. 125.

[50] Lettera agli amici della Charitas (Lira, 14 marzo 1987), in Summarium Documentorum, 259, no. 133.

[51] Lettera a Piergiorgio Trevisan (22 marzo 1987), in Summarium Documentorum, 309.

[52] Frase riportata dalla testimonianza di P. Raffaele Di Bari, XXXIII Teste, nel processo di Gulu, sess. (6 agosto 1999), in Summarium super virtutibus, 50, Ad 7.

[53] Citate nella lettera del Superiore Generale, P. Francesco Pierli, scrittagli dopo l’evacuazione da Kalongo: “Faccio mie le tue parole scritte a mano a conclusione della lettera: “il cuore soffre ma la fede e la speranza addolciscono tutto”. La lettera continua con questa significativa riflessione: “Siamo in quaresima, Cristo sta avvicinandosi alla sua passione, al momento nel quale al contributo di salvezza dato attraverso l’azione, la predicazione e i miracoli del Nord Uganda sembra volere questo contributo: il contributo di un cuore trafitto che sanguina. È un cuore che diventa offerta al Padre, è un cuore che emette sangue e ripete le parole di Cristo: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Lettera di P. Francesco Pierli a P. Giuseppe Ambrosoli (Roma, 16 marzo 1987), in ACR, C. 253, b. 19/18. Per l’estratto della lettera, cf. Summarium Documentorum, 200, no. 135.

[54] Cf. Informatio super virtutibus, 133-135.

[55] Queste sono le parole raccolte da P. Mario Marchetti, presente nel momento della sua morte. Cf. Gli ultimi giorni e le ultime ore di P. Giuseppe Ambrosoli (Lira-Ngeta, 28 agosto 1987), in Informatio super virtutibus, 136; Summarium Documentorum, 263, nota 148.

[56] Testimonianza di John Ogaba, XXX Teste, in Processo di Gulu, sess. IX (Kalongo, 5 agosto 1999), in Informatio super virtutibus, 47, Ad 7.

[57] Testimonianza del Dott. Luciano Terruzzi, medico primario in pensione dell’ospedale di Tradate (VA), LVI Teste nel Processo Rogatoriale di Como, sess. II (Como, 16 novembre 1999), in Summarium super virtutibus, 77, Ad 4.

[58] Testimonianza del Don Piercarlo Contini, LX Teste nel Processo Rogatoriale di Como, sess. III (Como, 23 novembre 1999), in Summarium super virtutibus, 83, Ad 19.

[59] Testimonianza del Mons. Gianvittorio Tajana, XCII Teste, nel Processo Rogatoriale di Como, sess. XVIII (Como, 23 maggio 2000), in Summarium super virtutibus, 130, Ad 1.

[60] Informatio super virtutibus, 274. Cf. tutta la discussione sul quotidiano, Ibid., 274-277.

[61] Testimonianza di Sr. Enrica Galimberti, LXXXV Teste, nel Processo Rogatoriale di Como, sess. XIV (Como, 14 febbraio 2000), in Summarium super virtutibus, 121.

[62] Lettera al Sig. Piergiorgio Trevisan (Kalongo, 30-9-81), in ACR, C. 405, b. 17/25.

[63] Testimonianza del dott. Luciano Tacconi, LXXVIII Teste, in Processo Rogatoriale di Como, sess. X (Como, 8 febbraio 2000), in Summarium super virtutibus, 110, Ad 6.

[64] Testimonianza di Alfred Ocan, VII Teste, nel Processo di Gulu, sess. III (Kalongo, maggio 1999), in Summarium super virtutibus, 23, Ad 3.

[65] Testimonianza di Matthew Okello, XLIV Teste, nel Processo di Gulu, sess. XIII (Kalongo, 18 agosto 1999), in Summarium super virtutibus, 64, Ad 7.

[66] Testimonianza di P. Stelvio Benetazzo (Lachor, 13 agosto1996), in Summarium Documentorum, 289-290, no. 150.

[67] Testimonianza di Rosalba Okello, XI Teste, nel Processo di Gulu (Kalongo 21 maggio 1999), in Summarium super virtutibus, 32, Ad 5.

[68] Testimonianza di Matthew Okello, XLIV Teste, nel Processo di Gulu (18 agosto 1999), in Summarium super virtutibus, 63, Ad 2.

[69] Testimonianza di P. Raffaele Di Bari nel processo di Gulu, sess. X, Gulu 6 agosto 1999, XXXIIII Teste, in Summarium super virtutibus, 50, Ad 6.

[70] Frase riportata in Informatio super virtutibus, 89, citata nel libro di P. Donini, L’Altro. Padre Giuseppe Ambrosoli medico-missionario comboniano, 138 (ACR, 405/6/28).

[71] Testimonianza del dott. Gianfranco Carletti (22 settembre 1999), in Summarium Documentorum, 292-293, no. 152.

[72] Testimonianza del Dott. Bruno Turchetta, XXXVII Teste nel processo di Gulu, sess. XI (Kalongo, 10 Agosto 1999), in Summarium super virtutibus, 57, Ad 4.

[73] Testimonianza del Dott. Bruno Turchetta, LXXII Teste, nel Processo Rogatoriale di Como, sess. VII (18 gennaio 2000), in Summarium super virtutibus, 98, Ad 10.

[74] Testimonianza di Don Dott. Palimiro Donini, X Teste, nel Processo di Gulu, sess. IV (Kalongo, 14 maggio 1999), in Summarium super virtutibus, 31-32, Ad 13.

[75] Discorso fatto in inglese da Don Donini nel marzo 1995, probabilmente in occasione del trasferimento delle spoglie del P. Ambrosoli dal cimitero di Lira-Ngeta al cimitero di Kalongo, in ACR, C. 405, b. 7/1.

[76] Testimonianza del Dott. Luciano Tacconi, LXVIII Teste, nel Processo Rogatoriale di Como, sess. X (8 febbraio 2000), in Summarium super virtutibus, 111-112, Ad 6.

[77] Testimonianza del Dott. Giuliano Rizzardini, LXXXIX Teste, nel Processo Rogatoriale di Como, sess. XV (11 aprile 2000), in Summarium super virtutibus, 128, Ad 17.

[78] Cf. Informatio super virtutibus, 227-237.

[79] Informatio super virtutibus, 236.

[80] Per la storia del protettorato, cf. A. Medeghini, Storia d’Uganda (Museum Combonianum 29), Bologna: Editrice Nigrizia 1973, 262-288. Per la situazione ai tempi di Ambrosoli, cf. anche Informatio super virtutibus, 67-78.

[81] Per una breve ma precisa presentazione della situazione in Uganda nel processo verso la conquista dell’indipendenza, cf. A. Medeghini, Storia d’Uganda, 532-562. Per la situazione della Chiesa che diventa maggiorenne, cf. Ibid., 563-593.

[82] Per una visione storica del problema, cf . Medeghini, Storia d’Uganda, 269- 275, 340-345; 332-339; 345-353; 397-402; 503-505.

[83] Cf. Informatio super virtutibus, 73-74.

[84] Informatio super virtutibus, 74; Lettera alla dott.ssa B. Morelli per la sostituzione del dott. Piero Tozzi (Kalongo 28 febbraio 1959), in Summarium documentorum, 217, no. 86

[85] Lettera alla dott.ssa B. Morelli per la sostituzione del dott. Piero Tozzi (Kalongo, 28-2-1959), in Summarium Documentorum, 217, no. 86.

[86] Informatio super virtutibus, 74; Lettera al prof. F. Canova segretario del CUAMM (Kalongo, 4 agosto 1957) Summarium documentorum, 214, no. 82

[87] Informatio super virtutibus, 75.

[88] Cf. Summarium documentorum, 214, nota 85.

[89] D. Comboni, Gli scritti, Bologna: EMI 1991, no. 5284; cf. anche Indice analitico alla voce “donna” in Ibid., 2134.

[90] Cf. Informatio super virtutibus, 69.

[91] Informatio super virtutibus, 83.

[92] Cf. A. Medeghini, Storia d’Uganda, 558.

[93] Cf. A. Medeghini, Storia d’Uganda, 558.

[94] Informatio super virtutibus, 82.

[95] Cf. A. Medeghini, Storia d’Uganda, 558.

[96] Informatio super virtutibus, 93.

[97] Informatio super virtutibus, 96.

[98] Cf. Informatio super virtutibus, 96-97.

[99] Cf. Informatio super virtutibus, 97.

[100] Cf. en.wikipedia.org/wiki/Uganda; Informatio supe r virtutibus,  107, nota 3.

[101] Cf. Informatio super virtutibus, 108.

[102] Cf. Informatio super virtutibus, 115.

[103] Informatio super virtutibus, 122.

[104] Cf. Informatio super virtutibus, 126-127;  Summarium documentorum, 252, nota 127.

[105] Cf. Informatio super virtutibus, 127.

[106] Informatio super virtutibus, 127; testimonianza di Suor Rosa Magri, in Summarium documentorum. 253, nota 128.

[107] Estratto della lettera sulla chiusura e sull’evacuazione da Kalongo (Kalongo, 20-2-1987), in Summarium documentorum 252, no. 131. Essa non è firmata ma è scritta probabilmente dallo stesso P. Ambrosoli, cf. Summarium documentorum, 252-255, no. 131. Per una dettagliata narrazione della drammatica evacuazione, cf. tutta la lettera in ACR, C. 405, b. 17/30.

[108] Estratto della lettera sulla chiusura e sull’evacuazione da Kalongo (Kalongo, 20-2-1987), in Summarium documentorum 253, no. 131

[109] Informatio super virtutibus, 267.

[110] Informatio super virtutibus, 97; Estratto della lettera agli amici della chiarita di Bologna (Kalongo, 27 maggio 1979), in Summarium Documentorum, 235, no.107.

[111] Discorso pronunciato nella Chiesa di Mbuya (Kampala) dall’on. Ambrogio Okulu di Kalongo in occasione della commemorazione di P. Ambrosoli (3 aprile 1987), in Informatio super virtutibus, 93; Summarium Documentorum, 268, no. 138.

[112] Cf. Informatio super virtutibus, 109. Riferisce l’episodio il dott. Luciano Tacconi, LXXVIII Teste, nella sua testimonianza nel Processo Rogatoriale di Como, sess. X (Como, 8 febbraio 2000), in Summarium Documentorum, 111, Ad 7.

[113] Cf. Informatio super virtutibus, 110-113.

[114] Informatio super virtutibus, 106.

[115] Informatio super virtutibus, 102; Discorso dell’on. Ambrogio Okulu, in Summarium Documentorum, 269, no. 138.

[116] Informatio super virtutibus, 106; Discorso dell’on. Ambrosio Okulu, in Summarium Documentorum, 270, no. 138.

[117] Estratto della lettera a Carlo Ambrosoli (Kalongo, 25-11-1948), in Informatio super virtutibus, 120; Summarium Documentorum, 247, no. 126

[118] Summarium documentorum, 252, nota 127. La prima parte che narra questi eventi non è riportata. Viene riportata solo le informazioni sull’evacuazione dall’ospedale.

[119] Riportato in ACR, 233/14/18; Informatio super virtutibus, 123; Summarium documentorum, 252, nota 127. La prima parte della lettera che narra questi eventi non è riportata nella Positio. Cf. anche Testimonianza di P. Ponziano Velluto, II Teste, nel Processo di Gulu, sess. II (Kalongo, maggio 1999), in Summarium documentorum, 13, Ad 7.

[120] Cf. Testimonianza del dott. Giuliano Rizzardini, LXXXIX Teste, nel Processo Rogatoriale di Como, sess. XV (Como, 11 aprile 2000), in Summarium documentorum, 127, Ad 11.

[121] Testimonianza di P. Ponziano Velluto, II Teste, nel Processo di Gulu, sess. II (Kalongo, maggio 1999), in Summarium documentorum, 13, Ad 7. Lo stesso P. Ambrosoli descrive questo fatto: “Abbiamo dovuto quasi combattere per salvare cinque membri del NRA (un soldato ferito e quattro donne), che ci erano stati affidati dai militari acholi. Vi fu anche un colpo di rivoltella, sparato davanti a noi, per intimidirci, ma avevano troppa fretta di scappare e alla fine i cinque erano salvi” in una Lettera da Kalongo (25 novembre 19869, in ACR, C. 405, b. 16/25.

[122] Dalla testimonianza si Suor Rosa Maria Magri, in ACR 233/10/11, riportata in Informatio super virutibus, 123.

[123] Informatio super virtutibus, 123.

[124] Lettera sulla chiusura e sull’evacuazione da Kalongo, in ACR 405/16/26. La prima parte che narra questi eventi non è riportata nella Positio, cf. Summarium documentorum, 252, no. 131, nota 127.

[125] Cf. Testimonianza del dott. Luciano Tacconi, LXXVIII Teste, nel Processo Rogatoriale di Como, sess. X (Como, 8 febbraio 2000), in Informatio super virutibus, 125; Summarium documentorum, 112, Ad 8.

[126] Cf. Testimonianza del dott. Luciano Tacconi, LXXVIII Teste, nel Processo Rogatoriale di Como, sess. X (Como, 8 febbraio 2000), in Summarium documentorum, 113, Ad 8.

[127] Lettera sulla chiusura e sull’evacuazione da Kalongo (ACR 405/16/26), in Summarium documentorum, 255, no. 131. Probabilmente impiegarono 19 ore e non 21. Cf. Summarium documentorum, 255, nota 130.

[128] Lettera al Sig. Piergiorgio Trevisan (Kalongo, 2 novembre 1980), in ACR, C. 405, b. 17/22.

[129] Estratto degli Esercizi Spirituali (4 settembre 1959), in Summarium Documentorum, 218, no. 87.

[130] Estratto degli Esercizi Spirituali (1981), in Summarium Documentorum, 238, no. 112.

[131] Parole raccolte da P. Mario Marchetti al momento della morte, in Informatio super virtutibus, 136; Summarium Documentorum, 263, nota 148.

[132]Cf. Lettera alle infermiere (Kalongo, 25 novembre 1979), in ACR, C. 405, b. 16/16; e Lettera alle infermiere (Kalongo, 30 novembre 1980), in ACR, C. 405, b. 16/18.

[133] Estratto della lettera agli amici della Charitas di Bologna (Kalongo, 20 luglio 1980), in Summarium Documentorum, 237, no. 110.

[134] Lettera alle infermiere (Kalongo, 30 novembre 1980), in ACR, C. 405, b. 16/18.

[135] Cf. Testimonianza di Jovitta Laboke, XXIX Teste, nel Processo di Gulu, sess. IX (Kalongo, 5 agosto 1999), in Summarium super virtutibus, 46, Ad 6.

[136] Una Lettera da Kalongo nel 1983 (ad un destinatario non identificato), in ACR, C. 405, b. 16/20.

[137] Una Lettera da Kalongo nel 1983 (ad un destinatario non identificato), in ACR, C. 405, b. 16/20.

[138] Lettera (Kalongo, 10 aprile 1986), in ACR, C. 405, b. 16/24.

[139] Cf. Lettera (Kalongo, 10 aprile 1986), in ACR, C. 405, b. 16/24.

[140]  Lettera (Kalongo, 25 novembre 1986): ACR, C. 405, b. 16/25

[141] Cf. Lettera alle infermiere (Kalongo, 25 novembre 1979), in ACR, C. 405, b. 16/16.

[142]  Lettera alle infermiere (Kalongo, 30 novembre 1980), in ACR, C. 405, b. 16/18.

[143] Estratto della lettera agli amici della Charitas di Bologna (Kalongo, 20 luglio 1980), in Summarium Documentorum, 237, no. 110.

[144] Testimonianza di Jovitta Laboke, XXIX Teste, nel Processo di Gulu, sess. IX (Kalongo, 5 agosto 1999), in Summarium super virtutibus, 46, Ad 6.

[145] Una Lettera da Kalongo nel 1983 (a un destinatario non identificato), in ACR, C. 405, b. 16/20.

[146] Cf. Una Lettera da Kalongo nel 1983 (ad un destinatario non identificato), in ACR, C. 405, b. 16/20.

[147] Una Lettera da Kalongo nel 1983 (ad un destinatario non identificato), in ACR, C. 405, b. 16/20.

[148] Lettera a Carlo Ambrosoli (Kalongo, 25 novembre 1984), in ACR, C. 405, b. 16/22

[149] Lettera (ad un destinatario non identificato) (Kalongo, 10 aprile 1986), in ACR, C. 405, b. 16/24.

[150] Lettera (ad un destinatario non identificato) (Kalongo, 10 aprile 1986), in ACR, C. 405, b. 16/24.

[151] Lettera (ad un destinatario non identificato) (Kalongo, 25 novembre 1986): ACR, C. 405, b. 16/25

[152] Estratto degli Esercizi Spirituali (Lachor Seminary, Gulu, 3 settembre 1957), in Summarium Documentorum, 215, no. 83.

[153] Estratto degli Esercizi Spirituali, in Summarium Documentorum, 238, no. 112.

[154] Francesco, Evangelii Gaudium, no. 213. Per la citazione di Giovanni Paolo II, cf. Esortazione apostolica Christifideles laici, no. 37.

[155] Estratto della lettera di P. Francesco Pierli a P. Giuseppe Ambrosoli (Roma, 16 marzo 1987) (ACR, C. 253, b. 19/18), in Summarium Documentorum, 260, no. 135

[156] Francesco, Evangelii Gaudium, no. 24.

[158] Lettera di P. Francesco Pierli a P. Giuseppe Ambrosoli (Roma, 16 marzo 1987), in ACR, C. 253, b. 19/18. Cf. sopra nota 53.