I discepoli erano chiusi in casa per paura dei Giudei e per paura di sé stessi. La paura paralizza la vita. Anche oggi un cenacolo chiuso, dorato, e sbarrato al dolore del mondo, paralizza la Chiesa, e diventa comodo rifugio per uomini timorosi, con poca fede, e molti interessi da difendere.

Tommaso e il suo misterioso gemello
Giovanni 20,19-31

Oggi, seconda domenica di Pasqua, è la Pasqua di San Tommaso! I temi che la Parola ci propone sono tantissimi: la domenica (il primo giorno della settimana), la Pace del Risorto e la gioia degli apostoli, la Missione degli apostoli (secondo il vangelo di Giovanni), la Pentecoste giovannea, il dono e il compito affidato agli apostoli di perdonare i peccati (per cui da alcuni anni si celebra oggi la domenica “della Divina Misericordia”), il tema della comunità (dalla quale Tommaso si era assentato!), ma soprattutto della fede. Mi soffermo sulla figura di Tommaso.

Tommaso, nostro gemello

Il suo nome, Tommaso, significa “doppio” o “gemello” (dalla radice ebraica Ta’am, in greco Dídimo). Tommaso ha un posto di rilievo tra gli apostoli, forse per questo gli furono attribuiti gli Atti e il Vangelo di Tommaso, apocrifi del IV secolo, “importanti per lo studio delle origini cristiane” (Benedetto XVI, 27.9.2006).

Ci piacerebbe conoscere di chi Tommaso è gemello. Potrebbe essere di Natanaele (Bartolomeo). In effetti, l’ultima professione di fede di Tommaso trova corrispondenza con la prima, fatta da Natanaele, all’inizio del vangelo di Giovanni (1, 45-51). Inoltre il loro carattere e comportamento sono sorprendentemente simili. Infine, i due nomi appaiono relativamente vicini nella lista dei Dodici (Matteo 10, 3 e Atti 1, 13).

Questa incognita dà spazio per affermare che Tommaso è “gemello di ciascuno di noi” (Don Tonino Bello). Tommaso ci conforta nei nostri dubbi di credenti. In lui ci specchiamo e, attraverso i suoi occhi e le sue mani, anche noi “vediamo” e “tocchiamo” il corpo del Risorto. Una interpretazione che ha il suo fascino!

Tommaso un “doppio”?

Nella Bibbia la coppia di gemelli più famosa è quella di Esaù e Giacobbe (Genesi 25, 24-28), eterni antagonisti, espressione della dicotomia e polarità della condizione umana. Non sarà che Tommaso (il “doppio”!) porta dentro di sé l’antagonismo di questa dualità? Capace, talvolta, di gesti di grande generosità e di coraggio, mentre altre volte si manifesta incredulo e caparbio. Ma, confrontato con il Maestro, emerge di nuovo la sua identità profonda di credente che proclama la fede con prontezza e convinzione.

Tommaso porta dentro il suo “gemello”. L’apocrifo Vangelo di Tommaso sottolinea questa duplicità: “Prima eravate uno ma siete diventate due” (n°11). “Gesù disse: Quando di due ne farete uno, allora diventerete figli di Adamo” (n°105). Tommaso è immagine di tutti noi. Anche noi ci portiamo dentro tale “gemello”, inflessibile e strenuo difensore delle proprie idee, ostinato e capriccioso nei suoi atteggiamenti.

Queste due realtà o “creature” (l’antico e il nuovo Adamo) convivono male, in contrasto, talvolta in guerra aperta, nel nostro cuore. Chi non ha mai sperimentato la sofferenza di questa lacerazione interiore?

Ora, Tommaso ha il coraggio di affrontare questa realtà. Egli permette che si manifesti il suo lato oscuro, avverso e “incredulo”, e lo porta a confrontarsi con Gesù. Accetta la sfida lanciata dalla sua interiorità “ribelle” che chiede di vedere e toccare… La porta da Gesù. E, davanti all’evidenza, il “miracolo” accade: i due ‘Tommasi’ diventano uno solo e proclamano la medesima fede: “Mio Signore e mio Dio!”

Purtroppo non è questo che accade con noi. Le nostre comunità cristiane sono frequentate quasi esclusivamente da “gemelli buoni” e sottomessi, ma anche passivi e amorfi! Manca la vitalità a quei corpi! Il fatto è che non stanno là in tutta la loro “interezza”. La parte energica, istintiva, quella che avrebbe bisogno di essere evangelizzata, non compare all’ “incontro”.

Gesù disse che veniva per i peccatori, ma le nostre chiese sono frequentate da “giusti” che non sentono la necessità di convertirsi! Quello che dovrebbe convertirsi, l’altro gemello, il “peccatore”, lo lasciamo tranquillamente a casa. È domenica, approfitta per “riposare” e affida la giornata al “gemello buono”. Il lunedì, poi, il gemello degli istinti e delle passioni sarà in piena forma per riprendere il comando.

Gesù alla ricerca di Tommaso

Avesse Gesù molti Tommaso! Nella celebrazione domenicale, è soprattutto di loro che il Signore viene alla ricerca… Saranno essi i suoi “gemelli”! Dio cerca uomini e donne “reali”, che si relazionano con lui come sono: peccatori che “soffrono” nella propria carne la tirannia degli istinti. Credenti che non si vergognano di comparire con questa parte incredula e resistente alla grazia. Che non vengono per fare una bella figura nell’ “assemblea dei credenti” ma per incontrarsi con il Medico Divino ed essere curati. È di questi che Gesù si fa fratello!

Il mondo ha bisogno della testimonianza di credenti onesti, capaci di riconoscere i propri errori, dubbi e difficoltà, che non nascondono la propria “duplicità” dietro una facciata di “rispettabilità” farisaica.

La missione necessita, pure, di discepoli che siano persone autentiche e non “dal collo torto”! Di missionari che guardino dritto la realtà della sofferenza e che tocchino con le loro mani le piaghe dei crocifissi di oggi!

Tommaso ci invita a riconciliare la nostra doppiezza per fare Pasqua!

Parola di Gesù, secondo il Vangelo di Tommaso (n° 22.27): “Quando farete in modo che due siano uno, e farete sì che l’interno sia come l’esterno e l’esterno come l’interno, e l’alto come il basso, e quando farete del maschio e della femmina una cosa sola (…) allora entrerete nel Regno!”

P. Manuel João, comboniano
Castel d’Azzano (Verona), aprile 2023

C’è un tempo per morire e un tempo per risorgere
Gv 20,19-31

Non solo nella vita di Gesù ma anche in quella dei suoi discepoli e quindi della Chiesa, accadono innumerevoli episodi di morte che contengono nuova vita. Sottrarsi a questa logica comporterebbe la perpetua chiusura in nuovi e comodi sepolcri, distanti dalle contraddizioni e dalla storia concreta dell’umanità. Subire il tempo del morire come se fosse solamente una sorte sfavorevole ci conduce a costruire castelli difensivi e relazioni artefatte per evitare altre dolorose ferite. Restare ripiegati sul dolore della morte ci impedisce di allungare lo sguardo oltre, per gustare le sorprese di Dio.

Infatti il Risorto, venendo incontro ai suoi discepoli, sigillati dentro per paura dei giudei, mostra proprio le sue ferite: «Venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: “Pace a voi!”. Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco» (Giovanni, 20, 20). Con inaudita libertà il Cristo torna in mezzo a loro proprio con quelle ferite che li avevano scandalizzati e costretti a fuggire lontano: quelle ferite furono la causa della loro fuga verso chiusure più rassicuranti. È possibile uscire dalle chiusure asfissianti soltanto accettando il rischio di ferirsi e di sporcarsi: permettendo alle nostre piccole sicurezze di schiantarsi con la realtà che richiede di essere accolta e perdonata. Sono quelle ferite il segno di un amore radicale che supera i confini ristretti di un sepolcro oscuro.

C’è un tempo per morire e un tempo per risorgere. Anche alla Chiesa capita di rimanere intrappolata nella sindrome della tomba: meglio chiusi per paura di ferirsi piuttosto che aperti ai rischi di andare incontro a tutti, meglio abili nelle lamentele che creativi nelle novità. La Chiesa diventa beata se crede senza vedere, se crede che non possa darsi da sola questa libertà di aprirsi, bensì la riceve come dono gratuito dello Spirito. «Ricevete lo Spirito santo»: dal soffio del Risorto la Chiesa rinasce continuamente perché si apre alla libertà dello Spirito, simile al «vento che soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene e dove va» (Giovanni, 3, 8).

Non si può rinascere in Chiese chiuse e rassegnate, malate di numeri e aride spiritualità. Non si può rinascere in Chiese che credono troppo nei calcoli umani e poco nella rivoluzione del Vangelo. Non si può rinascere in Chiese paralizzate dalla paura di sbagliare, ripiegate sul ritmo monotono di abitudini senza vita. Si può rinascere solo in Chiese in cui si vive della libertà dello Spirito che il Vivente dona a chiunque, perché germogli l’umanità che costruisce la pace. 

di Roberto Oliva

Toccare le ferite
è la nostra vera vocazione

II Domenica di Pasqua

I discepoli erano chiusi in casa per paura dei Giudei e per paura di sé stessi. La paura paralizza la vita. Anche oggi un cenacolo chiuso, dorato, e sbarrato al dolore del mondo, paralizza la Chiesa, e diventa comodo rifugio per uomini timorosi, con poca fede, e molti interessi da difendere.

Gesù però viene lo stesso. Irrompe senza chiedere il permesso dove c’è chiusura, diffidenza, disperazione. Non viene per giudicare o rimproverare, non viene mantenendo le distanze, ma «stette in mezzo»; in mezzo è il luogo del Risorto, lo stesso luogo dove Gesù aveva sempre messo i bambini, i poveri, i malati, quelli che voleva mettere al centro del Suo amore e della nostra vita. In mezzo è anche il luogo dove tutti lo possono vedere da vicino e non ci sono primi posti.

Il Risorto dice: «Pace a voi». Non è una promessa ma un dono. Non è una fatica da compiere ma una Grazia da accogliere che ti cambia dentro, ti ribalta la pietra del cuore. Sappiamo bene che a volte anche il nostro cuore è chiuso, sbarrato alla Grazia, ma Gesù risorto torna ancora otto giorni dopo, e ogni giorno ritornerà.

Dona anche lo Spirito: «Soffiò e disse loro: ricevete lo Spirito Santo». Come sugli apostoli la sera di quel giorno, il primo della settimana, così anche oggi su ognuno di noi irrompe lo Spirito che con noi grida non paura, ma Abbà Padre. Questo è il grido perenne della Chiesa.

Non dimentichiamo mai che la fede, non è nata dal ricordo di Gesù, ma dalla Sua presenza di Risorto; la Chiesa vive della Sua presenza protesa verso l’incontro definitivo e non vive di nostalgici e ridicoli sguardi indietro.

Il Risorto è presente in una Chiesa dove c’è posto per tutti, anche per la debole fede, tanto istruttiva per noi, di Tommaso; non nasconde i suoi dubbi, nessuno lo giudica ma tutti lo accompagnano nel suo cammino. Che bella una comunità dove ci si sostiene a vicenda, si portano i pesi gli uni degli altri e dove nessuno si sente escluso. Tommaso come un giorno Paolo e tanti altri si arrende all’amore del Risorto, un amore concreto e quotidiano come testimoniano le Sue ferite. Toccare le ferite del Risorto. Toccare le ferite gli uni degli altri è la nostra vera vocazione, la vocazione della Chiesa, la nostra chiamata perenne; toccare, per scoprire che non fanno più male, ci sono ancora, ci saranno sempre, ma il Signore le ha redente, salvate, gli ha dato un senso, specialmente alla ferita più grande che è la morte.

«“Maestro, dove abiti?” — “Venite e vedrete”» (Gv 1, 35-39) così all’inizio del vangelo; oggi Gesù completa la risposta abitando nelle nostre ferite.

Che bella la Chiesa come casa che accoglie le ferite del mondo e le offre al Signore che le risana.

«In Cristo, Dio ha dato vita anche a noi, perdonandoci tutte le colpe, e annullando il documento scritto contro di noi, che con le prescrizioni ci era contrario. Lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce» (Col 2, 14). Chiediamo al Signore Risorto di aiutarci a togliere di mezzo, dentro di noi, nella Chiesa, nel mondo, le prescrizioni che umiliano l’uomo e sono ostacolo alla misericordia.

Continuiamo il nostro pellegrinaggio, verso il mistero di Dio e dell’uomo. Usciamo dalla nostra terra, come Abramo, usciamo dalle nostre sicurezze, per scrivere la nostra parte “in questo libro” di misericordia, per scoprire che c’è ancora tanto amore da ricevere e da dare.
[L’Osservatore Romano – Francesco Pesce]

Beati quelli che CREDONO nonostante le tante oscurità

La VITA gli sarà illuminata

At 2,42-47; Salmo 117; 1Pt 1,3-9;
 Gv 20,19-31

Oggi siamo alla seconda domenica di Pasqua, la sua Ottava, che nell’antichità era chiamata “In albis”, perché coloro che erano stati battezzati durante la Veglia pasquale si presentavano ancora con il vestito bianco! Da pochi anni la chiamiamo “della divina misericordia”, per ricordare che Gesù oggi consegna agli apostoli il dono e il compito di perdonare i peccati!

Nel calendario liturgico questa domenica si chiama Seconda di Pasqua, e le altre che verranno saranno la terza, la quarta, fino alla settima. Sette domeniche che anche nel nome fanno tutt’uno con la Pasqua. Si tratta di un modo per la Chiesa di celebrare e contemplare il grande avvenimento che sta alla base della sua fede: la Risurrezione del Signore nostro Gesù Cristo.

La Chiesa intende così meditare profondamente sulle conseguenze che esso ha per il mondo, ed appropriarsene le virtù. Anche la liturgia della parola per il tempo pasquale ha una sua struttura; essa è unitaria nel senso che i quattro testi delle letture sono assai consonanti pur nelle loro diverse prospettive. Il brano evangelico, da Giovanni, che racconta il duplice incontro del Risorto con i suoi discepoli dà l’intonazione a questa domenica.

Possiamo fissare l’attenzione su tre aspetti riguardanti quest’incontro: anzitutto il dono della pace, che non è soltanto serenità di spirito, ma la grazia divina, la gioia e la speranza. I discepoli di Gesù avevano bisogno di questa vera pace interiore ed esteriore, perché alcuni l’avevano rinnegato, altri erano fuggiti, tristi e dubbiosi nella fede.

Ora gioiscono molto nel vederlo risorto. Poi l’effusione dello Spirito, che “è Signore e dà la vita”, per cui possono essere rimessi i peccati. Gesù lo aveva promesso prima come Consolatore e Spirito che introduce i discepoli alla pienezza della verità. Il soffio di Gesù che trasmette lo Spirito ai discepoli evoca il gesto iniziale di Dio creatore. Quindi nell’esperienza dell’incontro con Gesù risorto trova le sue radici la nuova creazione inaugurata dal dono dello Spirito Infine la professione di fede di Tommaso, il quale guarito dall’incredulità riconosce Gesù come Signore e Dio.

Nella scena di Tommaso è interpellata la comunità di tutti i discepoli chiamati a percorrere fino in fondo l’itinerario della fede pasquale. Tommaso accoglie l’invito di Gesù a superare la soglia dell’incredulità di chi pretende di vedere e controllare per credere, e fa una professione di fede che rappresenta l’apice o il punto focale di tutto il quarto vangelo: “Mio Signore e mio Dio”. Egli riconosce l’identità nascosta di Gesù che coincide con quella di Dio. E scocca, a questo punto, l’unica beatitudine registrata nel quarto vangelo: “Beati quelli che pur non avendo visto crederanno”.

È la beatitudine di tutti i credenti che non possono seguire il percorso della fede dei “dodici” e Tommaso, che hanno visto e creduto. Essi sono “beati”, cioè candidati alla salvezza e alla vita eterna, perché senza aver visto Gesù direttamente (esperienza storica riservata ai primi testimoni), credono tuttavia che Egli è presente nella Chiesa e lo scorgono lì anche se velato.

La prima lettura dagli Atti degli apostoli presenta il quadro ideale della prima comunità cristiana nata dalla forza dello Spirito, dono del Signore risorto. Ecco che cosa distingue questa primitiva comunità ideale: l’ascolto della parola degli apostoli, la carità vicendevole, l’eucaristia e le preghiere comuni. Questa comunità rimane il modello per noi cristiani di oggi. La risposta corale, attraverso il salmo responsoriale, della comunità cristiana che oggi contempla e celebra le opere meravigliose compiute a Pasqua dall’amore di Dio, è suggerita da alcune strofe del salmo 117, che rientra nel gruppo dei salmi dell’Hallel che accompagnavano la celebrazione della cena pasquale ebraica.

Nella seconda lettura, San Pietro, capo della Chiesa, ringrazia Dio per l’opera di salvezza da lui realizzata in Cristo morto e risorto, e invita i cristiani sottoposti a varie prove a restare fedeli nella prospettiva della “speranza viva” conservata per essi da Dio nei cieli. È la risurrezione di Cristo che ha infuso nel nostro cuore questa speranza viva, capace di farci raggiungere l’eredità dei cieli, la comunione gloriosa col Signore. Cioè anche se la nostra vita continua a riservarci contraddizioni e sofferenze, tuttavia quel Gesù che amiamo ci ha portatati una grandissima gioia: la certezza che in lui saremo salvati. Le celebrazioni pasquali, con la parola di Dio vi annunciata e ben selezionata, dovrebbero aiutarci a fare un passo avanti nell’amore verso il Signore misericordioso, nella solidarietà e carità con gli altri.

La domenica particolarmente, giorno della Risurrezione, giorno del Signore e signore dei giorni, dovrebbe alimentare la nostra fede in Gesù e favorire il nostro incontro con lui. In quel giorno, giorno della Chiesa o dell’assemblea, i primi cristiani presero la consuetudine di riunirsi. Di fatto la domenica ha un’importanza fondamentale per la fede. Purtroppo, siamo portati ai rapporti spesso occasionali col Risorto, a ridurre la domenica a un tempo di esclusivo riposo o divertimento. Non per nulla un autore aveva detto: “un popolo ateo è un popolo senza domenica”. La nostra responsabilità e dignità di Cristiani, come pure le celebrazioni pasquali ci sollecitano a ricomprendere la domenica, a ricuperarla e a viverla, in un mondo sempre più secolarizzato e scristianizzato. Ogni domenica è Pasqua, e Cristo risorto si lascia incontrare vivo nella celebrazione domenicale.
Don Joseph Ndoum

Quattro regali del Risorto:
la pace, lo Spirito, il perdono, la missione

Atti 2,42-47; Salmo 117; 1Pietro 1,3-9; Giovanni 20,19-31

Riflessioni
È significativa la cronologia che ci offre il Vangelo di Giovanni riguardo a “quel giorno, il primo della settimana” (v. 19), il giorno più importante della storia. Perché in quel giorno Cristo è risorto. Quel giorno era iniziato con l’andata di Maria di Màgdala al sepolcro “di buon mattino, quand’era ancora buio” (Gv 20,1). Nel Vangelo di oggi; siamo alla “sera di quel giorno… mentre erano chiuse le porte… per timore dei Giudei” (v. 19). L’ambientazione spazio-temporale, ed anche psicologica, è completa. È iniziata ormai la storia nuova per l’umanità, nel segno di Cristo risorto. Prescindere da Lui sarebbe una perdita di valori e un rischio per la stessa sopravvivenza umana.

Le porte chiuse e la paura sono superate con la presenza di Gesù, il Vivente, che per ben tre volte annuncia: “Pace a voi!” (v. 19.21.26), provocando la gioia intensa dei discepoli “al vedere il Signore” (v. 20). Pace e gioia sono fra le caratteristiche più evidenti della prima comunità cristiana (I lettura): prendevano i pasti con letizia e semplicità di cuore e godevano il favore di tutto il popolo (v. 46-47). Un favore giustificato, data la solidità e l’irradiazione missionaria di quel nuovo gruppo che si reggeva su quattro pilastri (v. 42): insegnamento degli apostoli, frazione del pane, preghiere e koinonía (unione fraterna, condivisione di beni). San Pietro (II lettura), da parte sua, esorta i fedeli ad essere “ricolmi di gioia, anche se… afflitti da varie prove” (v. 6). La Pasqua di Gesù fa superare le paure; la fede, che porta all’incontro con Cristo risorto, aiuta a superare anche tante difficoltà psicologiche, quali angoscia, timori, depressione…

Oltre alla pace, Cristo risorto offre alla comunità dei credenti altri tre grandi doni: lo Spirito Santo, il perdono dei peccati e la missione. Il frutto più grande della Pasqua è certamente il dono dello Spirito Santo, che Gesù soffia sui discepoli: “Ricevete lo Spirito Santo” (v. 22). Egli è lo Spirito della creazione redenta e rinnovata, che Gesù effonde nel momento della morte in croce (Gv 19,30), come preludio della Pentecoste (Atti 2).

Per San Giovanni il dono dello Spirito è necessariamente collegato al dono della pace e, quindi, al perdono dei peccati, come disse Gesù: “A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati” (v. 23). La pace vera ha le sue radici nella purificazione dei cuori, nella riconciliazione con Dio, con i fratelli e con l’intera creazione. Questa riconciliazione è opera dello Spirito, perché “Egli è la remissione di tutti i peccati”, come affermano chiaramente la preghiera sulle offerte, nella Messa del sabato prima di Pentecoste, come pure la nuova formula della assoluzione sacramentale. Per l’evangelista Luca “la conversione e il perdono dei peccati” sono il messaggio che i discepoli dovranno predicare “a tutte le genti” (Lc 24,47). Il sacramento della riconciliazione è un inestimabile regalo pasquale di Gesù: è il “sacramento dell’allegria cristiana” (Bernardo Häring).

I doni del Risorto sono da annunciare e da condividere con tutta la famiglia umana; per questo Gesù, in quella stessa sera, annuncia una missione universale, che Egli affida agli apostoli e ai loro successori: “Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi” (v. 21). Sono parole che vincolano per sempre la missione della Chiesa con la vita della Trinità, perché il Figlio è il missionario inviato dal Padre a salvare il mondo, con l’amore.

“Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi”; parole da leggere in parallelo con queste: “Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi” (Gv 15,9).

Le due affermazioni stabiliscono un legame inscindibile fra missione-amore, amore-missione. Con queste parole resta definitivamente sancito che la Missione universale nasce dalla Trinità (Concilio, AG 1-6) ed è dono-impegno pasquale di Gesù risorto.

I doni del Risorto: la pace, lo Spirito, la riconciliazione e la missione, sono vissuti da noi nella fede.

Il Signore Gesù chiama “beati” (v. 29) coloro che credono in Lui e Lo amano, pur senza vederLo. Tommaso, chiamato gemello (v. 24), è diventato nell’immaginario popolare lo scettico, il duro a credere, colui che ci vuole mettere il naso (v. 25). È l’immagine di tutti noi che - tra dubbi, incertezze, ricerche, incredulità, ostinazioni - sperimentiamo la fatica di credere. Queste sono difficoltà normali nella vita di un cristiano, giacché, come dice il Card. Carlo M. Martini, ognuno porta dentro di sé un po’ del credente e del non-credente. Nel difficile cammino del credente, Tommaso diventa nostro fratello gemello; beati noi se, come lui, facciamo il salto, ci fidiamo di Dio, e facciamo nostra anche la sua totale professione di fede: “Mio Signore e mio Dio” (V. 28). 

Dal Cenacolo Gesù ci offre un’altra Beatitudine: “Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto” (v. 29). Questa beatitudine è per noi, qui, oggi, che cerchiamo di credere in Gesù Cristo, anche se non l’abbiamo visto. Gesù ci dice: “beati voi”; e l’evangelista Giovanni spiega in che senso: “perché, credendo, abbiate la vita nel Suo nome” (v. 31); siamo beati perché credere ci aiuta a vivere, ci insegna ad affrontare domande difficili sul senso della vita, il mistero del male e della morte. La fede non ti rende la vita più sana, più ricca, più comoda o più lunga. Il credere non ti libera dal dolore e dalla malattia, ma ti dà la forza di vivere in essi senza disperarti; di accettarli come via di salvezza per te stesso e per altri, perché sei certo che Gesù ti è vicino e che porta anche Lui un po’ della tua croce.

Siamo grati all’apostolo Tommaso che ha voluto mettere la mano (v. 25; vedi la famosa pittura del Caravaggio) nella ferita del Cuore di Cristo, che “cubiculum est Ecclesiae”, è la stanza intima della Chiesa (S. Ambrogio). Quel Cuore è il santuario della Divina Misericordia, titolo-tesoro che nella domenica odierna è celebrato con crescente fede e devozione. (*) “Il culto della Misericordia divina non è una devozione secondaria, ma dimensione integrante della fede e della preghiera del cristiano” (Benedetto XVI). La misericordia divina è, da sempre, la più globale e consolante rivelazione del mistero cristiano: “La terra è piena di miseria umana, ma strapiena della misericordia di Dio” (S. Agostino). Questa è la ‘buona notizia’, solida e permanente, che la Missione porta all’umanità intera.

Parola del Papa

(*) “La Chiesa deve essere il luogo della misericordia gratuita, dove tutti possano sentirsi accolti, amati, perdonati e incoraggiati a vivere secondo la vita buona del Vangelo”.
Papa Francesco
Esortazione apostolica Evangelii Gaudium (2013), n. 114

P. Romeo Ballan, MCCJ