Venerdì 8 agosto 2025
Alla guida della diocesi di Bentiu, il vescovo Christian Carlassare è chiamato a ricominciare tutto dal nulla, in un contesto devastato da conflitti e alluvioni. Dove da ricostruire e riappacificare ci sono innanzitutto gli animi delle persone. [Anna Pozzi – Mondo e Missione]

Sembra quasi impossibile che cent’anni fa ci fosse una missione in un posto così remoto. Perché sembra quasi impossibile che oggi, da quella primissima presenza comboniana, sia nata addirittura una diocesi. Bentiu è ancora un luogo al confine del nulla, nella parte settentrionale del Sud Sudan, alla frontiera con il Sudan. Un luogo dove la terra arida del Sahel è stata quasi completamente allagata dal fiume Bahr el Ghazal e gran parte della popolazione è sfollata a causa della guerra e delle inondazioni.

«Siamo una Chiesa povera tra i più poveri del Sud Sudan», dice il vescovo Christian Carlassare, missionario comboniano di 47 anni, che dal luglio del 2024 guida questa nuova diocesi, nata dalla divisione di quella di Malakal. Territori sconfinati e inaccessibili. Non ci sono praticamente strade. Ci si muove soprattutto a piedi, in moto o in canoa. O non ci si muove proprio.

Bentiu è un agglomerato di baracche di fango, lamiera, bambù e teli di plastica. Tutti gli edifici in muratura sono stati distrutti dai bombardamenti, così come la centrale elettrica. File di piloni della corrente sfilano mesti lungo quel che resta della strada principale per poi perdersi nell’acqua degli allagamenti che circondano e minacciano tutto il territorio. Poco distante, un immenso campo sfollati ospita ufficialmente più di centomila persone, 130/140 mila secondo stime ufficiose. Sono fuggite dagli scontri e dai bombardamenti che hanno funestato il Sud Sudan all’indomani della conquista dell’indipendenza dal Sudan nel luglio del 2011. Solo il tempo di provare a rialzare la testa e a immaginare un futuro di pace e sviluppo e il Paese è sprofondato in una nuova guerra, questa volta fratricida, dal 2013 al 2018. «Sono stati anni difficili anche in regioni remote come questa – commenta il vescovo -. Bentiu era una delle più grandi e fiorenti cittadine del Sud Sudan. Adesso non rimane quasi nulla. Gli allagamenti, poi, hanno reso la situazione ancora più difficile. Chi vorrebbe tornare a casa non può farlo perché terreni e villaggi sono sommersi, non ci sono più campi per coltivare e pascoli per gli animali». E non c’è ancora una vera pace. Oltre ai continui scontri fra comunità, soprattutto a causa dei furti di bestiame e per antiche rivalità etniche, il governo centrale di Juba sta bombardando indiscriminatamente qua e là nel Paese per colpire e indebolire la fazione che fa riferimento al primo vice presidente Riek Macher, agli arresti domiciliari dallo scorso marzo. Di fatto, però, chi ne subisce le conseguenze più gravi sono soprattutto i civili.

«Tutto ciò rende complicato portare avanti qualsiasi processo di riconciliazione», fa notare il vescovo, che nel 2021 è stato lui stesso vittima di un attentato alla vigilia del suo insediamento a Rumbek, una diocesi un po’ più a sud, di cui è tuttora amministratore. «La popolazione è stanca di conflitti. Ha visto e vissuto il dramma della guerra civile che ha ucciso anche quella speranza grande che aveva contagiato tutti alla nascita di un Sud Sudan finalmente libero. Dopo quasi cinquant’anni di lotta di liberazione, si credeva davvero che si potesse vivere in pace e ci potessero essere migliori condizioni per tutti e non solo per alcuni».

Lui però, anche in questa nuova diocesi dove tutto è da fare, non rinuncia a promuovere la riconciliazione e a tenere viva la speranza, cominciando dal perdono: «Nel corso della nostra storia, ogni volta che ci siamo trovati in conflitto, abbiamo perso la strada. Questa è una condizione comune a tutte le nostre comunità del Sud Sudan. Nessuno può negare di aver commesso il male. Allo stesso tempo, tutte le comunità hanno la percezione di essere state, in un momento della storia, vittime di ingiustizia e violenza».

E allora, oltre alle strutture che mancano totalmente, si tratta di costruire anche un senso di vera appartenenza e di unità. I cantieri aperti sono molti e in tutti i sensi. Con il vescovo Carlassare, c’è un missionario comboniano, padre Giovanni Girardi, 84 anni portati con disinvoltura, che sta seguendo la costruzione della casa del vescovo, che attualmente è ospite della parrocchia. La chiesa è una struttura di lamiera, così come tutte le nove cappelle presenti nel campo sfollati, seguite da tre missionari cappuccini polacchi, che vivono a loro volta in una casa di lamiera.

Le classi della scuola, che accoglie circa 1.600 bambini, si trovano in buona parte sotto gli alberi del cortile. La diocesi conta sette parrocchie, nove preti diocesani (uno dei quali insegna a Juba) e tre missionari comboniani a Leer, tutti affiancati e supportati da catechisti e animatori pastorali. Per il momento non ci sono religiose, ma il vescovo spera che una o due congregazioni possano tornare presto. Magari le comboniane stesse, la cui abitazione ormai diroccata e circondata dall’acqua delle alluvioni è l’unica testimonianza rimasta della prima missione di cent’anni fa.

La ricorrenza è stata celebrata con una grande festa e alcuni momenti di incontro, preghiera e riflessione lo scorso 11 maggio. Migliaia di persone hanno percorso molti chilometri a piedi per raggiungere la località di Rubkona, dove si trova l’attuale parrocchia di Nostra Signora del Rosario, guidata dai cappuccini. «Insieme possiamo resistere – ha detto il vescovo durante la celebrazione -. E invece di procurarci ulteriori ferite, dobbiamo curarle. Possiamo davvero prenderci cura l’uno dell’altro. La speranza deve continuare a essere sempre presente nelle nostre azioni».

Una Chiesa unita e unificante, riconciliata e riconciliante. È l’obiettivo su cui il vescovo Carlassare ha iniziato un percorso che, cominciando dalle comunità cattoliche, vuole infondere fiducia a una popolazione ancora profondamente ferita e divisa. «Partendo dall’insegnamento del secondo Sinodo africano, crediamo che evangelizzare significhi riconciliare e portare le persone e i popoli a essere uno, riconoscendo la comune identità e fratellanza», riflette il vescovo, mentre intorno i giovani delle parrocchie si esibiscono in canti e danze, in cui si mescolano elementi della tradizione locale e di quella cattolica. C’è grande entusiasmo e c’è molta partecipazione, nonostante la gente non abbia veramente nulla.

La maggior parte delle persone vive solo grazie alle distribuzioni fatte dalla missione Onu presente a Rubkona e si può curare quasi esclusivamente per la presenza di Medici senza Frontiere. Al di là degli aiuti umanitari, l’accesso al cibo e alle medicine resta molto difficoltoso. Manca materialmente lo spazio per coltivare, a causa delle alluvioni, e la poca terra disponibile è arida e argillosa. Per la stessa ragione non è possibile tenere il bestiame, al massimo qualche capra, mentre le grandi mandrie di mucche – che in Sud Sudan rappresentano l’unica vera ricchezza delle famiglie – vengono tenute in zone molto distanti, dove ci sono i pascoli, spesso contesi tra le diverse etnie e i vari clan. Lo scorso anno, l’80% dello Stato di Unity, di cui Bentiu è il capoluogo, è stato ricoperto dall’acqua del fiume. Questo rende difficile anche qualsiasi comunicazione e lo spostamento di persone e merci. Frutta e verdura praticamente non esistono. E comunque la gente non avrebbe i soldi per comprarle. Le famiglie non hanno risorse neppure per mandare i figli a scuola. Molti resistono nel campo sfollati, dove la gente è ammassata in minuscole baracche appiccicate le une alle altre, proprio per avere non solo gli aiuti alimentari, ma anche per la presenza delle scuole, anche se non sono del tutto gratuite.

«In questo territorio mancano drammaticamente le scuole e gli insegnanti – conferma il vescovo -. Forse è stato parte di un progetto volto a marginalizzare queste popolazioni e a mantenerle nell’ignoranza e nella divisione. Per questo penso che sarà la scuola, come diceva don Lorenzo Milani che, come un ottavo sacramento, contribuirà alla liberazione e alla salvezza di questa gente. Noi, come diocesi, abbiamo diverse scuolette primarie nelle nostre parrocchie, che vorremmo far crescere all’interno di un più ampio progetto educativo, finalizzato alla formazione umana integrale. Da lì potremo pensare anche a scuole di secondo livello, alla formazione professionale e magari a programmi di distant learning in collaborazione con l’Università Cattolica del Sud Sudan».

Il tema della formazione è centrale anche per presbiteri e agenti pastorali. «Il mio sogno – conclude Carlassare – è che si possano abbattere tante barriere e confini che esistono anche all’interno delle comunità cattoliche per diventare davvero una Chiesa profetica, che parla di Vangelo e ne testimonia la gioia e la speranza».

Anna Pozzi – Mondo e Missione