In Pace Christi

Dellagiacoma Carlo

Dellagiacoma Carlo
Data urodzenia : 28/12/1929
Miejsce urodzenia : Predazzo (TN)/I
Śluby tymczasowe : 07/10/1948
Śluby wieczyste : 09/09/1953
Data święceń : 12/06/1954
Data śmierci : 22/08/2001
Miejsce śmierci : Kalongo (UG)

Per l’infanzia e gli anni giovanili di P. Carlo Dellagiacoma rimandiamo al necrologio di suo fratello P. Vittorino, apparso sul Mccj Bullettin n. 206 dell’aprile 2000. Per chi non lo avesse sotto mano, riassumiamo con poche battute la vicenda.

L’ideale missionario era vivo in casa Dellagiacoma. Il fratello della mamma, Maddalena Morandini, era il comboniano Fr. Francesco Morandini morto a Mupoi, Sud Sudan, nel 1960. Un altro fratello ha passato tutta la vita come veterinario in Congo, un altro ancora divenne parroco e una sorella entrò tra le Dame di Sion a Gerusalemme. La costante preghiera di quella santa mamma era di avere un figlio sacerdote. Il Signore gliene concesse quattro, più una figlia suora: Vittorino, Carlo e Raffaele, tutti e tre Comboniani, don Alberto e suor Gisella ambedue salesiani e missionari in Ecuador. Cinque dei nove figli che il Signore le concesse si consacrarono al Signore.

A dir il vero, tutto il paese di Predazzo, dove P. Carlo era nato nel 1929, vibrava di fervore missionario. Ricordiamo don Casimiro Giacomelli che, nel 1880, lasciò il seminario diocesano di Trento per seguire Comboni nel cuore dell’Africa. Al Cairo fondò  il Collegio della Sacra Famiglia e là morì nel 1924, dopo aver consegnato un prezioso diario a P. Agostino Capovilla, allora sacerdote da tre anni.

Il papà di P. Carlo si chiamava Giuseppe, di professione casaro. Era un uomo tutto d’un pezzo che ai figli instillava il senso di responsabilità nelle scelte che stavano per fare: “Se diventate preti, siatelo sul serio e come si deve, altrimenti state a casa”. Tante vocazioni in quella fortunata famiglia sono da attribuirsi anche all’intercessione di una sorella, Teresina, una piccola santa, morta dodicenne nel 1932. Prima di spirare, disse alla mamma: “Mamma, se non posso aiutarvi a sbrigare le faccende domestiche, vi aiuterò ad allevare bene i miei fratelli”. A cinque anni Carlo era già chierichetto e conosceva tutte le risposte della messa in latino.

Non abbiamo particolari notizie sulla sua vocazione missionaria, ma certamente è stata influenzata dall’esempio del fratello maggiore Vittorino e dalla maestra elementare, la signorina Paolina, che parlava spesso ai suoi alunni di missioni e “del grido degli infedeli che invocavano Cristo salvatore”.

Un cammino non privo di difficoltà

Nel 1941 Carlo lasciò il paese ed entrò nella scuola apostolica di Trento per le medie. Si mostrò subito un ragazzino entusiasta della vocazione missionaria, ma con un sacco di difetti contro i quali doveva combattere, in particolare una mancanza di impegno nei doveri scolastici, favorita da un’intelligenza molto vivace che gli consentiva di essere uno dei primi della classe senza studiare, anzi perdendo tempo in chiacchiere inutili.

Nel 1944 andò a Brescia per il ginnasio. E qui si ripeté la stessa storia: virtù e difetti in una strana mistura.

Il 17 giugno 1946 stilò la domanda di ammissione al noviziato: “Dopo cinque anni di scuola apostolica, col consenso dei superiori e di mia spontanea volontà, oso deporre nelle sue mani questa mia domanda per entrare in noviziato, qualora mi trovasse degno e preparato. Sono spinto a questa decisione unicamente dal desiderio di seguire più da vicino il Signore e per essere più tardi e con l’aiuto di Dio degno membro dell'Istituto…”.

E qui, ecco la sorpresina da parte del superiore: “Carlo Dellagiacoma è un ragazzino di poco criterio e chiacchierino. Pur essendo aperto di intelligenza, mantiene una nota piuttosto marcata di infantilismo. Di conseguenza, per il noviziato non ci pare maturo. La riuscita negli studi è buona, l’applicazione discreta. È sano e sta bene. Speriamo maturi”. Fu un gran colpo per il nostro aspirante, anche perché teneva molto alla vocazione. Erano tutte quelle “regolette” che intessevano la vita del seminario che non gli andavano troppo a genio.

Fortunatamente gli altri responsabili furono di parere diverso rispetto a quello del superiore e anche Carlo poté partire per il noviziato di Venegono. Era il 12 settembre 1946. Fece la vestizione il 7 ottobre, festa della Madonna del Rosario e i primi voti due anni dopo.

Il giudizio del padre maestro, P. Antonio Todesco, è diametralmente opposto a quello riportato sopra: “Giovane di buon criterio, intelligente e generoso. Di buona comprensione e di santo attaccamento alla sua vocazione. Dimostra una certa virilità nel modo di agire, di pietà buona. Promette bene. Venegono gennaio 1947”. C’è da concludere che o il superiore di Brescia si era sbagliato o Carlo aveva operato una conversione totale nel giro di qualche mese. Sta di fatto che, quando si trattò di scegliere qualche novizio italiano da mandare in Inghilterra per iniziare il noviziato di Sunningdale che apriva i battenti proprio quell’anno e per “dare buon esempio ai novizi inglesi”, Carlo fu uno dei prescelti.

Giunse a destinazione il 19 dicembre 1947 e fu accolto da P. Vittorio Albertini, padre maestro dei novizi. Qui cominciò ancora la lotta con i suoi difetti: “È un tipetto che manca di ardore e spesso si tira indietro nel compimento dei suoi doveri, ma ha delle indiscutibili belle qualità che potrebbero renderlo un ottimo religioso. Nel lavoro manuale si applica molto, non così nel resto. Nella sua condotta c’è ancora qualcosa di leggero e fanciullesco. Insomma, non lascia pienamente tranquilli…”.

Chi si aspettava che Carlo fosse il novizio “tutto fervore e santa emulazione” si sbagliava. Però l’impegno concreto e sostanziale non mancava di sicuro e anche il riconoscimento dei suoi limiti era sincero: “Ho trovato i miei momenti più belli quando più ardente era la mia osservanza”, scrisse nel 1950.

La forza della missione

Proteso alla missione, approfittò di quel periodo per imparare bene l’inglese (e non fece certo tanta fatica). Poi, sempre restando in Inghilterra, proseguì lo scolasticato diplomandosi in “Letteratura inglese”.

Nel 1950 tornò a Venegono per la teologia. La lotta tra i suoi difetti, legati al carattere, e l’ideale indicato dalla Regola, continuò anche negli anni immediatamente precedenti l’ordinazione, ma ciò che lo sosteneva nella sua lotta quotidiana era proprio la forza che gli derivava dalla missione che vedeva in prospettiva. I superiori lo compresero e lo fecero sempre proseguire, sicuri che sarebbe diventato un valido missionario.

“Nei tre anni di permanenza a Venegono si sono notati in lui evidenti sforzi di miglioramento. È sempre e costantemente esatto nella vita comune. Obbedisce sempre e in tutto, però l’ultima parola è sempre sua, perché è tenace nelle sue idee che ha ben chiare in testa; inoltre si lascia andare a qualche battibecco con i professori. Tuttavia in lui c’è un forte spirito religioso, un grande attaccamento alla vocazione e una fedeltà sostanziale alle cose che racchiudono valori veri per cui siamo tutti d’accordo che possa emettere i voti perpetui e accedere all’ordinazione sacerdotale”.

Venne ordinato a Milano dal cardinale Ildefonso Schuster il 12 giugno 1954 e già nel corso dell’anno si trovò proiettato in missione, esattamente a Kitgum, con l’incarico di insegnante.

47 anni di missione

L’insegnamento non fu mai la “passione” di P. Carlo, tuttavia vi si dedicò riuscendo anche bene, perché la preparazione non gli mancava e il senso di responsabilità era forte in lui. In un questionario che tutti dovevano compilare, P. Carlo disse che si sentiva portato al ministero diretto tra la gente, però accettava anche la scuola per obbedienza.

Nel 1957, passò a Lira-Ngeta, sempre come insegnante. Il giudizio dei superiori fu unanime e positivo: “È molto intelligente e riesce bene in tutto”. Ciò conferma una volta di più che occorreva proprio la missione per infondere in P. Carlo quello slancio che i superiori avevano sempre auspicato in lui negli anni di formazione.

Due anni dopo, nel 1959 fu mandato a Londra per un corso di specializzazione che lo abilitasse ad un insegnamento superiore. Acquisì il baccalaureato in Lettere e poi tornò immediatamente in missione.

“Quando andò in Inghilterra per laurearsi – scrive suo fratello P. Raffaele - non si fermò a casa per salutare, ma andò dritto a Londra e dopo 6 mesi fece gli esami e fu promosso. Ogni giorno, mi diceva qualcuno, prendeva dall’università un pacco di libri e se li metteva alla sinistra, passandoli alla destra quando li aveva letti e poi il giorno dopo prendeva un altro pacco. Si era preparato con un corso per corrispondenza prima. Qualche anno dopo mia mamma mi disse: ‘Io non ho studiato come voi, e non pretendo di insegnarvi qualcosa, ma quella volta che Carlo è andato a Londra, doveva fare una scappata a casa per salutarci, invece non venne (vi andò quando ebbe finito gli esami, prima di tornare in Uganda). Se il Signore non volesse queste cose, non avrebbe messo nel cuore di noi mamme tanto amore per voi figlioli!’”.

La testa come un computer

Le tappe della sua attività missionaria furono numerose e sottolineate da esperienze diverse. Le accenniamo appena.

Tornato da Londra nel 1960 con la sua brava laurea in tasca, andò a Kangole e vi rimase fino al 1963. Dal 1964 al 1967 fu a Kotido come parroco. Fu questo uno dei momenti più gratificanti della sua vita per l’esercizio del ministero al quale si sentiva portato. Dal 1969 al 1970 venne inviato a Nadiket come insegnante nel seminario minore. Per chi aveva assaporato le soddisfazioni del ministero, l’aula scolastica appariva stretta.

Ed ecco che dal 1971 al 1973 fu a Loyoro come parroco e dal 1974 al 1976 a Morulem come vice parroco, per passare, dal 1976 al 1978, sempre come parroco a Kanawat. Dal 1980 al 1981 fu vice parroco ad Amudat; dall’81 all’83 parroco a Naoi; dall’85 all’87 a Namalu addetto al ministero; e dall’87 all’88 a Matany con lo stesso incarico. Dall’88 al 91 fu vice parroco a Karenga; dal 1991 al 1996 ad Alenga, prima come vice parroco e poi come economo locale. Nel 1997 si trovava ad Aliwang, addetto al ministero.

“Ad Aliwang – scrive P. Raffaele – la suora africana mi disse che Carlo parlava il Lango molto bene. Lo aveva studiato con cura, intonazione e tutto il resto, come aveva fatto per il Karimojong prima. Quando ormai non poteva più fare safari lunghi a causa della salute che perdeva colpi, stava nell’ufficio parrocchiale e riceveva i ragazzi delle scuole vicine che venivano a frotte per una matita o un vecchio giornale per coprire i loro libri. Ma egli ne approfittava per dire una parola opportuna a ciascuno. Inoltre studiava i nomi racchiusi nei registri dell’ufficio parrocchiale: ho trovato nella sua stanza decine di foglietti di carta in cui rifaceva la genealogia delle famiglie cristiane. Aveva fatto lo stesso, mi dicevano, quando era in Karamoja: ma non per il gusto di avere un ufficio in ordine (benché questo ne fosse la conseguenza), ma per sapere chi erano le persone che incontrava. Aveva una testa come un computer in questo senso”.

P. Carlo era un uomo di poche parole “quasi fanatico del voto di povertà” che lo portava a condividere ciò che aveva con la povera gente spesso attanagliata dalla fame e tormentata dalle guerre che insanguinarono l’Uganda durante gli anni del suo ministero. Si distinse per un grande amore alle persone che conosceva così bene, anche nella fisionomia fisica, da indicare chi fossero i genitori dei bambini che incontrava. Attraversò molti momenti di pericolo a causa dei ladri e dei soldati, tuttavia non ha mai chiesto di essere rimpatriato. “Siamo nelle mani di Dio – soleva dire – Lui sa come andrà a finire, anche per ciascuno di noi; e non c’è da prendersela tanto”.

La testimonianza di P. Climent Vilaplana Juan

“Ho passato quasi due anni con lui a Karenga. Quando vi arrivai la prima volta lo salutai e gli chiesi come andavano le cose a Karenga. ‘Adesso che sei arrivato potrai rendertene conto da te stesso’ mi rispose. Era un uomo di poche parole e piccolo di statura, ma con un gran cuore e una gran mente. M’introdusse nel mondo speciale che sono i Karimojong e mi spiegò come noi vi siamo arrivati storicamente. Mostrava il meglio di sé quando parlava informalmente. Quando viaggiavo con lui ero sempre meravigliato che non vi fosse strada o posto o montagna di cui non sapesse qualcosa di nuovo da dirmi.

Ecco due episodi che ci mostrano il suo carattere. A Karenga non avevamo nessuno che ci lavava gli indumenti. Spesso andavo fuori in safari e dimenticavo le cose lasciate in ammollo nella bacinella. Quando tornavo le trovavo lavate e stirate. La prima volta che tornai lo ringraziai e mi rispose, ‘mah, qualcuno deve averlo fatto, chissà chi...’ Lo fece varie volte.

Nell’orto avevamo un albero (l’albero messicano, mi disse) che non aveva mai fatto un frutto. Un anno mise fuori due o tre fiori, ma ne rimase uno solo. Passando davanti alla pianta diceva, ‘se tiene duro riusciremo a provarne il gusto’. Un giorno mi portò il frutto, piccolo come una prugna, dicendomi, ‘L’ho tenuto perché potessimo gustarlo insieme’. Lo tagliò in due e me ne passò metà. Era delizioso benché fosse così piccolo, e anche il suo gesto lo fu. Quel frutto è stato per me come una parabola su P. Carlo. Io ero alla mia prima esperienza missionaria, e benché avessimo opinioni differenti su come avvicinare la gente, condivideva con me quanto faceva, l’esperienza della sua vocazione e vita missionaria. Prima che lasciasse Karenga gli chiesi di prestarmi il suo registro (conosceva ogni individuo, i suoi parenti, il villaggio ecc.). P. Vittorino Cona mi aveva assicurato che P. Carlo non mi avrebbe mai dato il suo registro. Invece me lo diede, con la sola raccomandazione di restituirglielo dopo averlo copiato.

Potrei dire molte altre cose sulla sua conoscenza della lingua e sulla sua austerità. Ho solo accennato ad alcune delle mie care memorie di P. Carlo. Sono grato di aver avuto il privilegio di iniziare la mia esperienza missionaria in Uganda con lui. Possa intercedere per tutti noi”.

Doppia sofferenza

P. Carlo, forse per il carattere piuttosto taciturno e portato “al fare più che al dire”, ma certamente anche per il suo modo, non condiviso da tutti, di interpretare il voto di povertà vissuto nella radicalità più completa e per il suo spirito critico dovuto all’intelligenza che gli faceva intuire le cose prima degli altri, ebbe molto da soffrire. I cambiamenti di missione così frequenti ne sono un indice. Non sempre fu capito. E lui subiva e taceva senza fare commenti, senza dare spiegazioni. A questo proposito suo fratello P. Raffaele ha rilasciato una testimonianza molto amara. La pubblichiamo perché è scritta dal fratello: “La sera in cui arrivai all’ospedale di Kalongo durante la sua ultima malattia, gli parlai e gli chiesi, tra le altre cose, quale fosse stata la più grave difficoltà che aveva incontrato nella sua vita. Alzò la mano e mi fece segno con due dita. La prima volta fu quando, trovandosi a Roma in procinto di partire per Fiumicino per tornare in missione, arrivò un fax dal provinciale di allora (ora già morto) con l’ordine di fermarsi in Italia.

Nel gruppo dei partenti c’era anche P. Tarcisio Agostoni il quale, giunto a Kampala, disse che non era lecito trattare in quel modo un confratello… cioè fermarlo mezz’ora prima della partenza. Dopo tre mesi Carlo tornò in Uganda, ma non più in Karamoja dove era stato uno dei pionieri ma a Lira, accolto con gioia da P. Luigi Polini. Il provinciale gli aveva detto che in Karamoja nessuno lo voleva.

P. Giuseppe Garavello che si trovava in Karamoja mi disse: ‘A me nessuno ha chiesto niente. Posso dire che mi sono sempre trovato bene con lui’.

La volta successiva in cui P. Carlo andò in Italia, essendo il provinciale assente, prima di partire chiese al vice provinciale se c’era qualcosa sul suo conto e gli fu detto che poteva partire tranquillo. A Verona trovò il suo provinciale che gli disse nuovamente di non tornare più in Uganda. Non so come sia riuscito a partire poi, nonostante tutto. Carlo concluse: questi due sono stati i momenti più difficili nella mia vita, perché minacciavano l’essenza della mia vocazione missionaria”. Alla sofferenza morale si era aggiunta quella fisica. Nel 1997 P. Carlo fu operato allo stomaco nel tentativo di estirpare il tumore che lo affliggeva. Secondo i medici, i dolori dovevano essere lancinanti e di lunga data, eppure aveva sopportato sempre e tutto in silenzio, continuando il suo lavoro finché non ne poté proprio più.

“La vera sofferenza per mio fratello – scrive ancora P. Raffaele – è stata morale, cioè quella di veder messa in pericolo la sua presenza in missione, non il morire tra grandi sofferenze, come mi fece presente il dottore, anche se lui non ne dava segno.

Anche il funerale fu in tono minore; mentre andavamo dalla chiesa al cimitero, la bara fu posta su un camioncino sul quale c’era ancora una carriola di sabbia (ma qui la gente non ci fa caso...); vicino a me c’erano due confratelli che evidentemente non si vedevano da parecchio tempo e se la contavano e ridevano a tutto andare… ‘Vai pure in pace, Carlo, pensavo, che il Signore sa quello che hai fatto per lui, e tutto il resto è vanità della vanità e non c’è da aspettarsi solidarietà o riconoscenza da nessuno!’ Sarà contento, ora, di poter riposare in Africa con altri confratelli che sono sepolti a Kalongo vicino alla tomba di Ambrosoli”.

Umile ed umano

Prosegue P. Raffaele: “Quando Carlo era a casa durante le vacanze, scopava le scale, portava la legna in cucina ecc. con la massima semplicità e disponibilità. Benché fosse di poche parole, era molto umano. Scherzando, ricordavano il suo modo di fare: partiva a piedi per un paese a 7-8 km di distanza senza aspettare la corriera, ‘perché aveva fretta!’, diceva.

Quando, durante le vacanze, arrivò in una parrocchia per predicare la giornata missionaria, il parroco lo invitò a prendere un caffè e poi gli disse che sarebbe andato in macchina a prendere la valigia alla stazione della corriera: ‘Io ho tutto quello che mi occorre in tasca’, rispose il Padre. Aveva il breviario, la macchinetta da barba, il pettine e un paio di calze di ricambio. Il sacerdote rimase interdetto: gli pareva impossibile che si potesse vivere con così poco.

Quando i ribelli attaccarono la missione di Aliwang, tre giorni dopo che vi era arrivato fresco fresco dall’Italia, sfondarono le porte e portarono via tutto. Al loro arrivo inaspettato P. Carlo era all'aperto, seduto sugli scalini della chiesa. P. Francesco Rizza, che si trovava già all'interno della chiesa, si trincerò dentro, senza pensare che c’era anche P. Carlo in giro. Ha dovuto battere sul portone perché P. Francesco gli aprisse e lo lasciasse entrare. Quando i ribelli se ne furono andati e P. Carlo rientrò nella sua stanza, si rammaricò soprattutto che gli avessero portato via la valigetta di cartone che si era comprata da sacerdote novello e che gli era servita per più di 40 anni”.

Insomma, P. Carlo fu un uomo “essenziale” in tutto. Con la sua vita ha messo in pratica tanti bei discorsi che altri fanno sull’autolimitazione e sulla condivisione, senza mai nominarle. Scarso di esigenze, scarso di parole e scarsissimo anche di scritti. L’ultimo documento scritto di suo pugno contenuto nella sua cartella personale, è la richiesta per l’ordinazione sacerdotale. Poi, dal 1954 al 2001 – un periodo di 47 anni – silenzio totale: non solo neanche una lettera, ma neppure una cartolina. Davvero è stato uno che non ha disturbato i superiori, né per accusare, né per difendersi anche quando è stato messo da parte. E gli è capitato più di una volta. Era filosofico, ma è meglio dire di fede, di fronte agli alti e bassi della vita per cui non riteneva che simili faccende fossero degne di troppa attenzione.

Molti lo ricordano nell’infermeria di Verona quando era in Italia per cure. Passeggiava nel corridoio, scambiava qualche parola con chi si fermava a parlare con lui, sostava lungamente in cappella e si teneva il suo male quasi con gelosia. Solo il suo volto ridotto ormai pelle e ossa e il pallore del viso manifestavano la sofferenza che aveva addosso.

Appena gli fu possibile, chiese ed ottenne di tornare in missione. Nel suo cuore c’era un segreto desiderio, quel desiderio che lo aveva sostenuto per tutta la vita e che gli aveva consentito di superare tante difficoltà: lavorare fino all’ultimo in missione e poi riposare in terra africana in attesa del giorno della risurrezione.            P. Lorenzo Gaiga, mccj

Fr. Carlo Dellagiacoma died at the hospital in Kalongo, Uganda, on 22 August 2001. Four years earlier he had undergone a serious operation for cancer and never recovered fully from it. His brother, Fr. Raffaele, from Ombaci went to visit him in Kalongo and remained with him until the end. Their last conversation, before Fr. Carlo could no longer talk, took place about a week before he died in his brother’s arms.

Fr. Carlo was among the first group of novices in Sunningdale, England, with Fr. Antonio Todesco as novice master. After ordination in 1954 he left for Uganda where he remained for 47 years until his death. He began by working in the schools of Kitgum, Lira, Zangole, and Moroto. During this period he went to London to get his B.A. After ten years teaching, he worked in the parishes of Karamoja (Kangole, Kotido, minor seminary of Nadiket, Loyoro, Morulem, Kanawat, Amudat, Naoi, Namalu, Matany and Karenga) and later in Lira (Alenga). He was a man of few words, almost fanatical about the vow of poverty. His mind was like a computer. They say that he could tell the young people he just happened to bump into who their father was just by looking at their features.

He spoke both Karimojong and Lango well. He was not one to complain about pain, though, according to the doctors, his suffering must have been very intense towards the end of his life. He never complained either if he was asked to step aside to make room for another confrere. He was philosophical about the ups and downs of life and didn’t think they were worth wasting one’s breath.

Da Mccj Bulletin n. 214 suppl. In Memoriam, aprile 2002, pp. 43-50