In Pace Christi

Alghisi Giuliano Ignazio

Alghisi Giuliano Ignazio
Data urodzenia : 10/07/1902
Miejsce urodzenia : Barbariga (BS)/I
Śluby tymczasowe : 01/11/1923
Śluby wieczyste : 01/11/1927
Data święceń : 15/07/1928
Data śmierci : 07/06/1999
Miejsce śmierci : Milano/I

Che padre Alghisi fosse un uomo originale, lo si è potuto costatare durante tutti i suoi quasi cento anni di vita; che fosse capace di sorprendere, lo si vide il giorno in cui, a Brescia, celebrò i suoi 70 anni di sacerdozio, il 12 luglio del 1998. “Padre, ha già scelto chi le terrà il discorso di circostanza?”, gli chiese l’incaricato della casa comboniana di Brescia, alcuni giorni prima della festa.

“Sì, io!”. Venne il giorno, e la messa fu celebrata nella chiesa del Buon Pastore (ex santuario comboniano del Sacro Cuore). Tanta era la gente e i sacerdoti concelebranti. Prima di uscire dalla sacrestia, il solito incaricato della casa, vedendo che non teneva niente in mano, gli chiese se avesse il foglio con la predica. “L’ho qui il foglio!”, rispose toccandosi con l’indice la testa. Dopo il Vangelo si sedette in mezzo al presbiterio, con il microfono davanti, e partì con voce così possente che il curato dovette allontanarglielo dalla bocca e abbassare il volume. Senza perdersi in discorsi inutili, partendo dal numero infinito di Messe che aveva celebrato “sempre, anche quando avevo la febbre e la malaria perché la messa è il sacrificio di Cristo”, tenne una magnifica catechesi sulla santa Messa domenicale, sulla necessità di ascoltarla partecipandovi attivamente, sempre, e si documentò citando a memoria gli insegnamenti del Papa sulla partecipazione alla Messa festiva. Concluse incoraggiando i presenti non solo a partecipare, ma a far celebrare tante sante messe citando l’esempio di una vecchietta povera che, però, gli mandava ogni mese centomila lire per la celebrazione di qualche santa messa. Qualcuno sorrise.

Quella celebrazione fu un successo che sbalordì tutti, specialmente i sacerdoti che, alla fine della messa, vollero congratularsi pubblicamente con un missionario, un sacerdote, che, nonostante l’età, dimostrava una freschezza e una carica di entusiasmo ammirabili.

“Sono queste le testimonianze che occorrono anche a noi preti, per darci la carica”, disse il Monsignore di Manerbio.

Il fascino dell’Africa

Ignazio Alghisi, figlio di Angelo e di Coppini Ermenegilda, era nato il 10 luglio 1902 a Barbariga, un paese della Bassa bresciana dove il lavoro della terra è un culto, e la passione per i motori si respira con l’odore dei campi. “Il piccolo Giuliano - dice la sorella Maria - quando sentiva il rumore di quei primi trattori che aravano la campagna, usciva di casa veloce come un gatto e andava a vederli”.

Papà Angelo era maresciallo dei carabinieri. Poté sposarsi solo quando andò in pensione, quindi quasi cinquantenne (questa era la legge per i carabinieri a quel tempo). Mise al mondo, uno dopo l’altro, quattro figli, due maschi e due femmine (il nostro Giuliano era il terzo). Nel 1906, all’età di 56 anni il papà fu portato via dalla polmonite. Stessa sorte era capitata l’anno prima (1905) alla mamma che lasciò questa terra a 46 anni. Una famiglia segnata dalla croce, dunque.

I quattro orfani furono cresciuti da una sorella della mamma, Rachele, sposata senza figli, il cui marito divenne loro tutore. La cura di questi genitori putativi per i quattro nipoti fu grandissima. Al termine delle elementari al paese, si preoccuparono di farli studiare tutti e quattro in collegio. La sorella più piccola di p. Alghisi, Maria, nata nel 1903, divenne maestra. Al momento in cui scriviamo gode ottima salute e possiede una memoria brillante.

“Le birichinate di Giuliano - dice - sarebbero infinite, perché era di una vivacità incredibile. Però era buono. Oh! quanto era buono e generoso! Sempre il primo a sacrificarsi per gli altri. Per forza il Signore lo ha chiamato alla vita missionaria”.

“Storia di una vocazione”

Questo è il titolo di un fascicoletto scritto a mano nel quale p. Alghisi racconta la storia della sua vocazione. Sentiamone alcune battute: “Quando ero ragazzo, terminate le scuole elementari, una mia zia di nome Rachele, un giorno mi disse: ‘Il parroco mi ha incaricata di chiederti se desideri entrare in seminario per farti prete’. ‘Io segregarmi dalla gente per vivere in una canonica da solo? Neanche per sogno!’. Allora mi mandarono a Brescia nelle scuole tecniche. Un bel giorno, mi venne tra le mani un libretto scritto da un missionario comboniano, in cui si esaltava la vita in mezzo alle tribù selvagge del Nilo. Predicare il Vangelo a quei poveri Neri, sollevare la miseria di questi infelici e morire all’ombra di una palma mi apparvero cose degne di essere vissute.

Questa idea mise radice nel mio cuore e, quando nelle passeggiate si passava davanti all’Istituto Comboni di Viale Venezia, l’idea di abbandonare tutto per farmi missionario, mi incantava...”.

Perito meccanico

Le pagelle scolastiche ci assicurano che nel 1913 Giuliano cominciò a frequentare la Scuola Tecnica Municipale Pareggiata “Benedetto Castelli” di Brescia. Aveva 11 anni. Agli esami del triennio il risultato fu di punti 74 su 110. Terminato il corso, passò nelle Reali Scuole Industriali di Bergamo e vi rimase dal 1917 al 1919 per completare il biennio e conseguire il diploma di perito meccanico. I suoi voti furono tutti “ottimo e lodevole” con appena un “sufficiente” in esercitazioni meccaniche. Il suo punteggio fu di 28 su 30 risultando il primo del suo corso e ottenendo la dispensa dall’esame finale. Giuliano aveva un buon mestiere e un posto assicurato che trovò immediatamente presso la fonderia di acciaio Danieli di Brescia. Ma qui il Signore lo aspettava per farlo suo missionario. Nel suo diario continua: “Eccomi a 18 anni a Brescia nella prima esperienza di lavoro nelle Acciaierie Danieli. Nello stabilimento, scioperi e dimostrazioni gridando Viva il Comunismo, viva Lenin... Dopo un anno di lavoro, una domenica ritornai a Barbariga per consultarmi col curato sulla via da prendere. Ma prima che io andassi da lui, egli stesso mi mandò a chiamare e mi disse che da giovane sacerdote lui voleva farsi missionario, ma non poté realizzare il suo desiderio perché aveva la mamma inferma. Per questo aveva pensato di mandare me al suo posto, assicurandomi che Dio mi chiamava a servirlo in quell’apostolato.

Il giorno dopo chiesi il licenziamento dalle Acciaierie Danieli e tornai a Barbariga. Sarò missionario, va bene, ma come sacerdote o come fratello coadiutore? Io ero disposto a fare il Fratello, ma il curato non volle e incominciò a farmi scuola di latino facendomi superare in tre mesi le prime classi.

Nell’ottobre del 1920 mi fece entrare nell’Istituto Comboni dove, con altri giovani, in un anno ci fecero fare un corso accelerato di latino e greco in modo da esaurire i programmi ginnasiali... La vocazione sacerdotale che da ragazzo non mi era piaciuta, un po’ alla volta, mi apparve bellissima. Infatti, studiando teologia ed esercitando il sacro ministero imparai a conoscerla nella sua grandezza. Essere sacerdote, celebrare la santa messa, personificare Gesù Cristo, rinnovare la sua passione e morte, assolvere dai peccati... quale impegno ad essere santo!”.

Testimonianze lusinghiere

“Del mio giovane Alghisi Giuliano - scrisse il parroco di Barbariga in data 2 luglio 1920 - posso fare il più ampio elogio. Spero che sarà un ottimo religioso come fu esemplarissimo qui e dovunque si trovò per gli studi e per ufficio. Voglia il buon Dio, in vista del contributo che Barbariga porta a codesto Istituto, benedire quei tanti giovani che hanno in questo tempo traviato. Posso anche assicurare la V. P. R. che l’Alghisi è di sana costituzione fisica, né ha da temere le sorprese dell’atavismo perché i suoi genitori e i suoi nonni furono immuni da malattie pericolose. Sac. Pietro Rossi, arciprete. Il 3 luglio 1920 anche il tutore del nostro giovane, Aliprandi Pietro, “dichiara di dare spontaneamente e volentieri il nulla osta per l’entrata del pupillo nella Congregazione dei Missionari di Mons. Comboni, con piena facoltà al medesimo Alghisi Giuliano di fermarsi stabilmente fino a quando gli piacerà in qualsivoglia casa dell’Istituto medesimo”.

Degna di nota è anche la testimonianza del Direttore dell’Istituto Tecnico di Bergamo: “Il Collegio degli insegnanti che lo ha giudicato fornito di buone attitudini professionali, crede, per l’ottima disciplina che egli ha mantenuto nella scuola, per la diligenza che ha dimostrato, per il profitto che ha tratto dai suoi studi teorici e pratici di poter dichiarare che egli darà ottima prova di sé nell’esercizio professionale”.

Verso il sacerdozio

Il 13 novembre 1921 entrò nel noviziato di Venegono Superiore. P. Bertenghi scrisse:

“E’ molto grande il suo desiderio di progredire nelle virtù. E’ puro, obbediente, pio, molto osservante. Nel trattare è un po’ impacciato ed incerto. Combatte bene il suo amor proprio. Come carattere è energico, aperto, docile, un po’ irascibile. Salute buona e forte. Rivede la quinta ginnasio che a Brescia ha frequentata in qualche modo.

Il 1° novembre 1923 emise i Voti temporanei e poi passò a Verona per il liceo e la teologia sempre interessandosi di cose riguardanti la missione con quell’entusiasmo che lo distinse per tutta la vita. In quel periodo la Chiesa istituì la prima Giornata Missionaria Mondiale (1926) e, come frutto pratico di quel grande avvenimento, nel mondo degli scolastici di Verona nacque il Piccolo Missionario, la rivista per ragazzi che amano le missioni.

Dobbiamo dire che il nostro giovane dalla mentalità portata alle cose pratiche, dovette faticare non poco a studiare latino e filosofia. Egli stesso ha ammesso candidamente che ha dovuto tribolare un po’. “Tutto quel latinorum non mi entrava in testa e anche i ragionamenti metafisici mi apparivano piuttosto astrusi. Un motore era, senza dubbio, una cosa più chiara ed evidente”. Il 1° novembre del 1927 emise la professione perpetua.

La sera dell’ordinazione sacerdotale, 15 luglio 1928, ricevette “l’obbedienza” dal p. Generale. Doveva recarsi a Londra per imparare l’inglese. Gli confezionarono anche il clergyman (allora i missionari portavano sempre la veste talare, ma in Inghilterra una legge vietava questo abito) E invece, un telegramma gli comunicò che, dopo solo un mese dall’ordinazione, sarebbe dovuto partire per il Sud Sudan. ”Se i superiori hanno detto così, va bene”, fu il suo commento.

Il Sudan era la culla dell’opera comboniana, ma il Sud era terra di paludi, di zanzare, di malaria... ma anche di tante persone da aiutare spiritualmente e materialmente. Partì da Genova con un gruppo di confratelli. P. Alghisi era così magro e pallido che i compagni di viaggio gli dissero: “Poveretto, tu non avrai neppure la soddisfazione di vederla, la tua missione, perché morirai prima di arrivarci”.

Impossibile elencare le tappe della sua missione: Kayango (‘28-32) come coadiutore, Wau per otto mesi come economo, quindi ancora Kayango fino al ’34, poi Nyamlel dal ‘34 al ‘35 e Dem Zubeir nel ’36... La salute scricchiolava paurosamente, allora venne rimpatriato per fare il confessore nel seminario missionario di Carraia, Lucca. Resistette un anno. Poi, via di nuovo: Kuajok ‘38-’42 come superiore, quindi Kayango, Nyamlel, Raga. Dem Zubeir. E si giunse al 1949, anno in cui occorreva un’altra ripassata quanto a salute, e questa volta il Padre fu inviato a Brescia come propagandista, oggi si direbbe animatore missionario.

Passò un anno quindi, confortato dall’indulgenza dell’Anno Santo, il nostro missionario riprese la via dell’Africa: Aweil ‘51-53, Den Zubeir ‘54-55’, Mboro ‘56-‘63... Espulsione: una gran brutta botta in testa dopo 35 anni di vita sud sudanese. In Italia non si diede pace e non lasciò in pace, perché il fuoco della missione gli bruciava dentro.

Ma, prima di procedere per il nuovo campo di lavoro, sarà bene dare un’occhiata , proprio a volo di razzo, alla sua attività sudanese. Ricaviamo qualcosa dalle numerose interviste che ha mandato a giornali, radio e televisioni private che lo hanno più volte intervistato.

“Il mio compito principale è stato quello di fondare delle scuole tecniche, attraverso le quali educare i giovani africani al lavoro. Così ebbi la possibilità di mettere a frutto i miei studi tecnici. Già, perché il Signore non butta via niente della nostra storia.

Accanto al lavoro scolastico, l’evangelizzazione. Soprattutto nella formazione dei catechisti che, anche oggi, sono la vera spina dorsale della Chiesa in terra africana. E poi la fatica dell’inculturazione, come si dice oggi. Ho tradotto i vangeli della domenica in varie lingue, ho scritto una grammatica nella lingua Majogò, e tanti battesimi, catechesi, predicazioni, fatiche. E l’immancabile malaria. Molti missionari hanno lasciato la vita anche in giovane età a causa delle malattie e della fatica. Una amarezza? Anche oggi il Sudan sta vivendo una cruenta guerra civile imposta dal governo centrale di Khartoum nel tentativo di islamizzare questi territori da decenni evangelizzati”.

Sei anni di esilio

Nell’attesa di poter ripartire e rientrare nel Sudan, dopo l’espulsione del 1964, p. Giuliano si dedicò con passione al compito dell’animazione missionaria. Con giusto compiacimento ricordava di aver girato in lungo e in largo la diocesi di Brescia per raccontare a tutti ciò che il Signore aveva compiuto attraverso i missionari nel cuore dell’Africa. Ci teneva a sottolineare:

“Non sono andato per fare propaganda al mio Istituto, ma per parlare della conversione degli infedeli, dei problemi della Chiesa africana, di quella povera gente spesso sfruttata dal nostro mondo”.

Non mancava di sorprendere la gente tirando fuori le sue avventure africane che raccontava con gusto e con scioltezza di lingua. Come quella in cui, trovandosi in mezzo a un fiume con l’acqua quasi alla gola, mentre reggeva in alto la bicicletta, vide avvicinarsi un coccodrillo.

“Invocai la Madonna con una devozione che ben potete immaginare, e il bestione diede un colpo di coda e cambiò rotta. Forse non trovava niente di gustoso in un missionario così piccolo e magro”.

Non solo lavorava attraverso il ministero della parola, ma anche con quello della penna. P. Alghisi, oltre che scrittore, fu anche poeta e componeva lunghe poesie, sempre sulla sua vita africana, cantando luoghi, attività e personaggi sempre sotto un velo di fine umorismo. Chi ricorda p. Filiberto Giorgetti può ancora sorridere leggendo questi versi tolti dalla poesia Sulla giostra del Bahar el Ghazal - marzo 1941.

“Qui il bakère barani Giorgione / centotrenta raggiunge di peso / e pretende smagrire il pancione /

passeggiando con grosso randel; / quando scrive spedisce improperi,/ quando parla dispensa commende, / quando suona di fuoco s’accende, quando canta, trasporta nel Ciel”.

E’ proprio l’identikit di quel nostro simpatico confratello, studioso di cose africane e artista.

Alcune di queste poesie furono pubblicate sui giornali diocesani. Una, intitolata La bicicletta del missionario fu anche premiata.

Solo Dio sa le conoscenze che il nostro Padre fece in quegli anni di forzato esilio. Sulla sua agenda registrava un indirizzo dietro l’altro e poi manteneva i contatti epistolari. In età avanzata, si serviva del telefono. Anche quando è arrivato a Brescia per il settantesimo di messa, la prima cosa che ha chiesto è stata:

“Dov’è il telefono?”. E la processione degli amici cominciava. I suoi nipoti gli dicevano di essere discreto nel chiedere aiuti agli amici.

“Cosa ne sapete voi delle necessità della missione? E poi, mica chiedo per me!”. E vedendo come era vestito, davvero si vedeva chiaramente che non chiedeva per sé.

Nel Congo

Nel 1969 era ancora impossibile rientrare nella missione di Wau, in Sudan.

“E allora si va da altri popoli, sempre nell’Africa nera”, disse. Fu destinato ad Isiro, Congo, ancora profumato dall’odore dei martiri comboniani e di tante altre vittime della violenza. Ma prima dovette recarsi in Francia per studiare il francese: undici mesi seduto sui banchi di scuola, lui, 67 anni, a fianco dei giovanotti.

Ed eccolo in Congo. Ancora l’impegno della scuola, riprendendo il lavoro interrotto nel 1964 dai Comboniani a causa della guerra dei Simba. Scrive p. Francesco Rinaldi Ceroni: “L’ho conosciuto abbastanza bene sia nel Sudan meridionale dal 1949 al 1956 dove si lavorò nello stesso vicariato di Wau, sia qui in Congo dal 1970 al 1975, nelle missioni di Ndedu e di Sant’Anna (Isiro) e poi nella stessa provincia fino a quando, per malattia, dovette lasciare l’Africa, ma chiese ai superiori di restare membro della provincia del Congo in modo da morire ‘missionario congolese’.

Sì, qualche volta mi sono un po’ arrabbiato con lui perché mi pareva che aiutasse poco a far crescere l’uomo e il cristiano come desidera oggi la Chiesa del post Concilio. Ma non è colpa sua se era nato tanto tempo prima. In lui ho ammirato lo spirito di preghiera: era veramente impegnato nelle sue orazioni di regola e non di regola, specialmente la sua messa e la sua confessione settimanale. Alle quattro del mattino era in cappella, alle cinque celebrava, alle sei partiva a visitare la gente nei villaggi, a fare amicizia, a parlare, a catechizzare.

Un’altra cosa che mi ha colpito nel p. Ignazio, sia in Sudan che in Congo, è stata la sua stima della preziosità del tempo, per cui era sempre occupato o nei suoi studi e ricerche per preparare la catechesi ai catecumeni e ai cristiani o in altre attività artigianali (la sua stanza era un arsenale di strumenti di lavoro). Fu costruttore, falegname, fabbro, inventore... fino a produrre cose bizzarre, come ad Aweil, nel Sud-Sudan e a Den Zubeir dove si era messo in testa di costruire un dirigibile per spostarsi da un villaggio all’altro senza uso di carburante. E non è detto che, se avesse avuto i mezzi, non ci sarebbe riuscito.

Rifuggiva le conversazioni lunghe e frequenti e, alle volte, protestava per i troppi raduni che si facevano, convinto com’era che le chiacchiere non avrebbero risolto i problemi della missione. Un po’ di ragione ce l’aveva di sicuro”.

Anche in Congo p. Alghisi stette allo schema che aveva collaudato in Sudan: annuncio del Vangelo, preparazione dei catechisti, viaggi, difficoltà di rapporto con i protestanti (in Sudan masticava amaro con i musulmani). Era convinto che tutti gli africani erano disposti ad accettare Gesù Cristo purché ci fosse chi lo presentasse loro.

Aveva una tenera devozione alla Madonna. Quanti rosari ha distribuito ai suoi cristiani insegnando ad amare Colei che Dio mise come modello degli uomini. In ogni cappella che lui costruiva, e ne costruì un’infinità, il primo posto dopo il tabernacolo e il crocifisso, era per il quadro della Madonna.

Alghisi, che aveva difficoltà col “latinorum” imparò un sacco di lingue, nove per l’esattezza: Bangala, Chresh, Denka, Francese, Inglese, Jur, Lingala, Mayogò, Ndogo. Scrisse grammatiche e vocabolari, tradusse catechismi e libretti di preghiera. Con la sua bicicletta percorse i sentieri della savana e, quando incontrava una palude, vi si immergeva con l’acqua fino al petto e la bici sulle spalle. Le zanzare gli imperlavano il viso di sangue che egli si asciugava come fosse semplice sudore, E avanti così disseminando il territorio di missioni, scuole, laboratori, dispensari (aveva un debole per i malati di lebbra), cappelle.

Per dare da mangiare agli affamati p. Ignazio divenne botanico. Studiò come ricavare da certe piante cibo per la gente.  “Il segreto della sua perenne giovinezza?”, gli fu chiesto. “La Messa quotidiana e lo studio. Il ‘Dio della mia giovinezza’ mi ha mantenuto giovane e attivo. E poi lo studio: mi informavo su tutto, specialmente su materie scientifiche. E infine il buon umore. Chi non ha buon umore è meglio che in Africa non ci vada”, diceva ai nuovi arrivati. Alla sera, prima di addormentarsi, annotava gli impegni per il giorno dopo in modo da cominciare subito, senza indugi. E così via per 70 anni, fino al 1993 quando giunse definitivamente in Italia, ma con tanto rimpianto e sempre con la speranza di ripartire.

Una macchietta di uomo

A questo punto è bene inserire la testimonianza che p. Neno Contran ha lasciato di questo singolare confratello che, volere o no, è entrato nella leggenda. C’è da stare allegri: “Vorrei intitolare questo mio scritto ‘ricordi sparsi’ - scrive p. Neno. - Eccoli: Visitava spesso la decina di cappelle dalla parte di Bambou (Isiro). Con il tempo, invecchiando, era passato dalla guida dell’auto alla mobylette, alla bici, all’auto con autista. Fu p. Milani a ritirargli la patente perché ‘era troppo vecchio’. Quel giorno Alghisi si presentò imbronciato dalle suore: “I superiori mi hanno fatto un complotto: padre Milani mi ha tolto la patente, e pensare che io sono il più bravo autista del mondo. Se si bucava una gomma o c’era fango, tornava a piedi, mentre qualcuno gli spingeva la bici. Un giorno arrivò impolverato e abbattuto. ‘Cos’è successo?’ ‘Sono caduto. Non sono riuscito a distinguere se quello che mi veniva contro era una bici o un camion’. (In Italia fu operato di cataratta).

Era allergico alle riunioni. Il vicario generale di Isiro, Mons. Tandele, gli chiese se sapeva dov’era il parroco. Il Padre prese il Bollettino parrocchiale e, mostrando la lista delle decine di riunioni previste per il mese, disse: ‘Cerca il parroco? Il parroco è in una di queste riunioni’. Ripeteva: ‘I missionari di oggi, specie i più giovani, non si occupano più di battesimi, ma di riunioni. Si alzano da una sedia per sedersi su un’altra’. Ce l’aveva in particolare con una suora comboniana inserita nel lavoro parrocchiale. Un giorno si recò dal provinciale: ‘Quella suora pastora deve andarsene. Sta rovinando la testa del parroco. Quando l’anno scorso la suora è andata in vacanza, non c’erano tante riunioni. Adesso che è tornata, il parroco finisce una riunione e ne comincia un’altra. Io mi domando che cosa serve una suora pastora. Una suora infermiera o incaricata delle donne, d’accordo: quello è il vero lavoro di una suora. Ma come le chiamano adesso ‘agenti pastorali’, pastoralesse, io non riesco a capirlo. Quella precedente, poi, era ancora peggio. Diceva che aveva studiato teologia, io dico che aveva studiato la teologia protestante’.

Salute. E’ difficile dire se p. Alghisi sia arrivato a 97 anni perché disponeva di una fibra d’acciaio, per le medicine, per le sue ricette o nonostante queste. Al mattino, appena alzato, un po’ di ginnastica che consisteva nel lanciare più volte un pallone contro la parete della stanza. Stesso esercizio alla sera prima di coricarsi. Quando la vista incominciò a indebolirsi, per proteggere un occhio che gli sembrava più debole dell’altro, lo coprì con una benda nera. Lo chiamarono ‘Moshé Dayan’.

‘Uso un occhio solo - spiegava - così l’altro si riposa’. Ad un certo punto gli venne il fuoco di Sant’Antonio. Siccome l’infiammazione gli prese anche metà faccia, cominciò a coprirla con un panno. Allora lo chiamarono ‘Arafat’. Quando il dolore era più acuto, gridava invocando aiuto. Afferrava la mano e il braccio della prima persona che gli capitava a tiro.

‘Grazie - diceva - il dolore è passato e io mi sento meglio’. Anche questa era una sua teoria:

‘Se tocco qualcuno il dolore passa in lui ed io mi sento meglio’.

Una sera si presentò da Paquita, la suora infermiera: ‘Mi può fare una puntura di penicillina?’.

‘Perché?’. ‘Non sa che ogni sei mesi tutti dovrebbero fare una puntura di penicillina? La penicillina purifica tutte le malattie’. Se ne andò deluso davanti al rifiuto netto dell’infermiera.

Un giorno ebbe un attacco di malaria con febbre a 40. Il solito rituale: lui che insiste nel dire che si trattava di un colpo di sole, l’infermiera che gli praticava un’antimalarica e gli raccomandava di riposare. Alcune ore dopo l’infermiera tornò e trovò p. Alghisi seduto, intento a leggere la Bibbia.

‘Sono venuta per un’altra iniezione. Bisogna completare la cura’. ‘No, no! Una basta. Non vede che sono già guarito? Le dirò che in Sudan c’era un missionario, intelligentissimo. Fece una cura completa contro la malaria e diventò scemo. Io non voglio fare la stessa fine’. Aveva una capacità di ripresa straordinaria. Un anno ebbe un attacco di malaria la sera del 1° novembre. Non ci voleva perché aveva previsto, per il giorno dopo, la celebrazione di tre sante messe. ‘Ma lei ha una febbre da cavallo - constatò l’infermiera -, torno subito con la puntura’. ‘No, non si tratta di malaria, ma di riscaldo - obiettò. - Ho preso troppo sole, ha capito?’.

Da un vecchio governatore inglese, conosciuto in Sud Sudan aveva ereditato la seguente convinzione: la cosa più pericolosa e frequente sono i colpi di sole, che si pigliano esponendo la nuca. Per questo, quando c’era sole, girava protetto da una grande cappello di paglia, sotto cui c’era una pezza di stoffa che proteggeva collo e spalle. L’infermiera gli iniettò, allora, della novalgina. Cominciò a sentirsi subito meglio. ‘Domani mi devo alzare alle quattro’, disse. ‘No, domani lei non può andare in giro - replicò l’infermiera. - le dovrò fare un’altra iniezione’. Il mattino seguente si alzò alle quattro, celebrò due messe e si preparò per andare a celebrare la terza in una cappella. Tornò verso le dieci febbricitante. ‘Ha visto?’, lo rimproverò l’infermiera. ‘Sì, ma così ho potuto acquistare le indulgenze per i defunti. Lei mi faccia ancora due punture come quella di ieri, perché domani devo andare in un’altra cappella. La gente mi aspetta’. Aveva sempre dei progetti:

‘Su quella strada ci vuole un ponte. In quel villaggio sono senza cappella. Hanno la scuola, ma bisognerà ingrandirla... ‘Quand’è che ti fermi un istante? - gli chiese un giorno p. Firmo, il superiore. - Da come parli sembra che tu debba vivere in eterno. Non sono in grado di cominciare dei nuovi lavori adesso!’. ‘Fa niente, io so aspettare anche cent’anni’. ‘Se è per questo, non ti manca molto’, rispose p. Firmo. Quando p. Firmo, quarantenne, fu nominato suo superiore, osservò con la faccia preoccupata: ‘Hanno messo un ragazzo come superiore. Adesso mi tocca obbedire a un ragazzo’ (Alghisi in quel momento aveva 80 anni).

La sua stanza era un’officina: attrezzi vari, pezzi di ricambio, lampade a petrolio, libri, manifesti murali per il catechismo, medicinali per i viaggi dove non passava nessuno, manuali scolastici, fogli sparsi di traduzione in lingua Kiogo. Conosceva molte erbe, radici e foglie medicinali da cui ricavava pozioni che facevano effetto.

In un primo tempo celebrava messa sempre in latino. Solo a malincuore accettò ad un certo punto di dirla in un’altra lingua. Partiva per la visita ai villaggi con un thermos di tè in cui di nascosto metteva un po’ di fernet o di grappa. A chi lo metteva in guardia: ‘Ti fa male’, rispondeva: ‘Cosa vuoi, a 90 sono già arrivato’. Dal Sud Sudan aveva portato alcune abitudini. Anche se ad Isiro non c’erano le paludi sudanesi, si muoveva sempre con gli stivali: ‘Mi proteggono dalle pulci penetranti’, spiegava. Fino al giorno in cui un forte dolore alle estremità gli permise di scoprire che dette pulci avevano nidificato in uno stivale. Ingegnoso: per decifrare le parole piccole della Bibbia e del Breviario aveva fabbricato un leggio in legno su cui aveva collocata una grande lente. ‘Anche lei sente le tentazioni?’, gli chiese un giorno un confratello scherzando. ‘Per queste cose non ci sono limiti di età’, rispose.

Lasciò il Congo nel 1993. Aveva seri problemi di salute e si era rassegnato a rientrare in Italia. Ma appena sull’aereo, a p. Eliseo Tacchella che l’accompagnava, disse: ‘Mi pento di aver accettato’. Ricoverato in un primo tempo a Verona, il Centro Ammalati gli andava stretto.

Vedendo tutti quegli anziani disse: ‘Chi? Me! Con chei veci che? No eh! Non ci sto’. Ed era il secondo quanto a vecchiaia dopo fratel Nane. Allora fu trasferito ad Arco, ma anche qui aveva le sue obiezioni: ‘Questi vecchi non fanno che dire il rosario seguendo una suora alla radio’, diceva riferendosi ai confratelli (tutti più giovani di lui) che passavano il tempo ascoltando Radio Maria.

‘Gli infermieri, non avendo altro da fare, ci obbligano alla doccia tutti i giorni invece di una volta alla settimana!’. Un ‘giovane’ indomito, molto attaccato ai suoi metodi e ritmi di vita, dunque”.

Gli ultimi anni

Nel 1996 p. Alghisi tentò l’apostolato diretto con la gente nella rettorìa comboniana di Trento. Si fermò per un anno, poi fu accolto a Rebbio, in cura. Scrive fr. Manzana: “Sono stato presente agli ultimi giorni in Congo di p. Alghisi. Aveva preparato i bambini alla prima comunione e alcuni adulti al matrimonio. Un confratello gli disse: ‘Lei è stanco; è meglio che vada un altro ad amministrare quei sacramenti’. ‘No, io li ho preparati, io vado a terminare il lavoro’. Verso le ore 14.00 aveva concluso i matrimoni. Si ritirò in stanza. Alle 16.00 una suora domenicana, infermiera, andò a vederlo. Era in coma diabetico... E i confratelli decisero di farlo tornare in patria.

Prima di partire per l’Italia, mi fece chiamare. ‘Fratel Virginio, fammi un piacere; ti incarico di finire la cappella nel tal villaggio. Fammi le inferriate in legno, ma come quelle che ho fatto io’. Un pregio di p. Alghisi era questo: lavorava da meccanico e da falegname per fare le porte e le finestre delle sue cappelle, però voleva che, con lui, lavorassero dei giovani africani. ‘Così imparano a fare da soli. Noi siamo qui per questo. E poi noi missionari non siamo eterni’. Fu una lezione anche per me”, concluse fr. Manzana.

Con lo sguardo al cielo

Ultimamente si era applicato a studiare astronautica. Sullo scaffale della sua povera stanza si allineavano grossi volumi che si era fatto mandare dall’Italia e dall’Inghilterra per approfondire le sue conoscenze in quel settore. Un confratello gli chiese perché si fosse applicato a quella materia così difficile e astrusa. Diede una risposta che lasciò allibiti: “Non è detto che studiando questa materia io non possa scoprire il tragitto che la Madonna ha percorso per andare in Cielo”.  Un’altra cosa va sottolineata in questo nostro confratello: la delicatezza di coscienza. E qui bisognerebbe sfogliare le sue tante lettere. Ne cito una. Nel 1992 era a Verona per curare l’herpes, ma con scarsi risultati. Allora andò a Brescia dove conosceva una dottoressa che lo aveva curato precedentemente. Infatti guarì bene. Ma gli infermieri di Verona lo rimproverarono di questa sua iniziativa e gli proibirono di restare a Brescia.

“A Brescia ho tutti i miei parenti e benefattori - scrisse a p. Filippi il 13 marzo 1992 - e da essi posso procurarmi quanto potrà essere utile in Africa. Del mio peccato di disobbedienza domando sinceramente perdono... Quanto facilmente ciò che è zelo in un confratello, può essere interpretato male, disobbedienza e ribellione! Chiedo perdono anche a lei del male che posso aver fatto”.

Si interessò fino all’ultimo ai grossi problemi del Terzo mondo (condono del debito, traffico delle armi, capitalismo e sfruttamento dei poveri, mercato globale...) suggerendo al direttore di Nigrizia ricette che a lui sembravano valide e decisive.

Dopo Arco e Trento, p. Ignazio è passato nella casa comboniana per anziani di Rebbio (Como). P. Alberto Martinuzzi divenne il suo accompagnatore, infermiere e angelo custode. Quando la malattia lo sorprese, fu ricoverato a Milano presso il Centro Assistenza Ammalati Giuseppe Ambrosoli. E da lì ha intrapreso il suo ultimo viaggio, quello che lo ha portato nella casa del Padre. Lunedì 7 giugno, infatti, alle ore 20.00 ha chiuso la sua lunga giornata terrena.

Dopo i funerali a Milano, la salma è stata traslata a Barbariga dove il parroco gli ha riservato esequie solenni. (Il Padre non aveva voluto celebrare una messa di 70° al suo paese, nonostante le insistenze del parroco, per cui i paesani si rifecero sulla messa funebre). Il vescovo ausiliare di Brescia, mons. Vigilio Mario Olmi, ha presieduto la celebrazione eucaristica alla quale hanno partecipato parecchi sacerdoti, sottolineando in una lunga omelia le caratteristiche di questo autentico missionario che, con l’evangelizzazione, ha portato la promozione umana.

Ora riposa accanto ai genitori che, nelle sue rare vacanze, andava sempre a trovare e a versarvi una lacrima. A noi lascia il ricordo di un missionario vero perché preoccupato solo di essere missionario, sempre, ovunque e con tutti. P. Lorenzo Gaiga

Da Mccj Bulletin n. 204, ottobre 1999, pp. 165-176

******

 

Fr. Alghisi was a man with a peculiar personality, often showing it out in a surprising way, throughout all the nearly 100 years of his life. One instance was when he celebrated his 70th anniversary of Priesthood on 12 July 1998, in Brescia. A few days before the feast the superior of the Comboni Institute asked him: “Father, who will deliver the sermon for the occasion?”

“Me, of course”, was the immediate answer

On the chosen day, the Mass was celebrated in the church of the Good Shepherd (formerly the Shrine of the Sacred Heart) amidst many concelebrants and people. In the sacristy, as they were preparing, someone whispered to him, “Father where is your sermon?”

“It’s here”, pointing to his head.

After the gospel, he sat in the middle of the sanctuary, right in front of the microphone and started talking with such a strong voice, that the curate had to rush and remove the microphone. Recalling the thousands Masses he celebrated in his life, he added: “I have always celebrated Mass even when I was feverish, because the Mass is the sacrifice of Christ”. Then he went on to give a magnificent catechesis on the Mass, particularly on the Sunday Mass, the necessity of taking active part in it. He even quoted passages from the Pope’s letter “The Lord’s Day” by heart. He ended by urging the people not only to attend Mass, but also to give an offering for the celebration of some Masses, recalling the example of a poor old woman, who, every month, used to send him an offering for Masses. A smile was noticed on someone’s face.

That celebration took all by surprise. Everyone, particularly the priests, wanted to shake hands with Fr. Giuliano, who, at his age, was still showing such a zeal and enthusiasm. “This is the kind of witness we need” someone commented.

The charm of Africa

Giuliano Alghisi, son of Angelo and Coppini Ermenegilda, was born on 10 July 1902, at Barbariga, (Brescia), a village of farmers who looked on work as a religious action. “Little Giuliano - his sister Maria recalls - whenever he heard the noise of a tractor was running out of the house, as quick as a cat, to have a look at it.”

Angelo, his father, was a “carabiniere”. He could marry only when he retired, at about 50 years of age, as the law of “carabinieri” would not allow them to have a wife while in service. Four children were born, two boys and two girls, and Giuliano was the third born. In 1906, his father, struck by pneumonia, died at 56; his mother had died the previous year at 46 years of age. The cross was not far from that family.

The four children grew up under the care of Rachele, a maternal aunt, who had no children of her own. She, with her husband, took care of the orphans. All the four children went on with the studies. Maria, born in 1903, became a teacher; she is still alive and in very good health.

“ Giuliano was a very lively child, a bit mischievous, but very kind-hearted, ever ready to help others. Just fit to be a missionary”.

A story of a vocation

On a few notes he left we read the story of his vocation. “As I finished the primary school, my aunt Rachele put me this question: “The Parish Priest wants to know if you would like to enter the seminary”. The thought of priests living all alone frightened me. So I was sent to the technical school in Brescia. One day, my eyes fell on a booklet, written by a Comboni missionary, describing his life among the people in Africa. What a wonderful life to go and preach the Gospel to those poor people, die and be buried in the shade of a palm tree!” Every time I passed in front of the Comboni Institute this thought of being a missionary came back to me”.

A Technician

From his school reports we learn that in 1913 Giuliano started going to the “Benedetto Castelli” technical school in Brescia. He was just 11 years old. At the end of the three-year course he passed with 74 out of 110. From there he moved to Bergamo for the final two years, leading to the Diploma of technician. He scored top marks, best of his group, thus opening the way for a good employment at the Danieli factory. Yet this is what he writes: “Here I am at 18 years of age, at my first experience in a factory, where the workers go on strike at the cry “Hail to Communism, hail to Lenin...” The following year, I returned to Barbariga to ask advice from the parish priest. He disclosed to me that he himself as a young man had in mind to be a missionary, but he had given up because of his mother’s the sickness. “Why don’t you take my place?”  The following day I resigned from my job. I’ll be a missionary, but as a priest or brother? The parish priest volunteered to teach me Latin, and in three months I learnt a lot. 

In October 1920 I entered the Comboni Institute. Here I joined other young men and in one year we completed the Junior school programme. The vocation to the priesthood which had been so repulsive to me, now appeared so beautiful. In theology and more so in the exercise of the sacred ministry I came to know it in all its greatness. To be a priest, to celebrate the Mass in Jesus’ name thus renewing his passion, to absolve sins... what a job for a saint!”

Gratifying comments

Don Pietro Rossi, his parish priest, on 2 July 1920, wrote: “I can only speak well of Giuliano. I hope he will be as good religious as he has always been very exemplary here and anywhere he was. May the good Lord bless the many youths of this parish who have gone astray, in exchange of the gift of Giuliano to the Institute.  I can assure you that Giuliano is healthy and comes from a healthy family.”

On 3 July 1920, his teacher was happy to approve Giuliano’s entrance among the Comboni Missionaries, and stay and do whatever he will like or be requested”.

Noteworthy are the words of the Director of Technical Institute of Bergamo: “The Staff has examined him, and found him endowed with good professional talents, and is confident that Giuliano will do his duty well as he has always being exemplary here and everywhere.”

Towards the priesthood

On November 1921 he entered the novitiate at Venegono. Fr. Bertenghi wrote: “He has a great desire to progress in virtue. He is pure, obedient, pious and very observant. He has some problems in dealing with people. He is struggling against self esteem. His character is energetic, open, and a bit quick-tempered. His health is good. He is catching up with his studies.”

On 1 November 1923 he made his profession, and went to Verona, always with that keen interest for the missions which he will keep throughout his life.  He took part in the First World Mission Sunday and saw the start of the “Piccolo Missionario”, the magazine for children, friends of the missions.

For a man like him, inclined to practical technical things, Latin and philosophy were not easy to study. Some years later he wrote: “It was hard to grasp all that Latin I had to learn and the philosophical reasoning. An engine is much easier to handle.” On 27 November he made his perpetual profession.

On the day of his Priestly ordination, 15 July 1928, he was given his “obedience”: to go to London to study English. He got his suit ready, but a telegram ordered him to leave for Sudan. At the news, he simply remarked: “If the superiors say so, it’s o.k.”. Sudan, land of Comboni, land of swamps and mosquitoes... but also a place where many people were in need, both spiritually and materially. He left from Genoa, by boat, with some confreres, who, seeing him so thin, said: “Poor man, you won’t have the pleasure to see your mission land...”

In his first years he toured several parishes: Kayango (1928-30), Wau as a bursar (only 8 months), then back to Kayango, and others. After 10 years he needed some rest, so he returned home, and was sent to the junior seminary at Carraia, as a “confessor”. He stayed there one year, and in 1938 he was back in Sudan, to Kuajok (1938-42) as a superior, then to other parishes. In 1949, after 11 years, he badly needed a rest. This time he remained in Brescia for mission animation.

But one year later, strengthened by the Jubilee indulgence, Fr. Alghisi set out for Africa once again. He landed at Aweil (‘51-53), then to Den Zubeir (‘54-55’), and to Mboro ‘56-’63, but in 1964: expulsion. After 35 years of work in Southern Sudan, this was a very hard blow. In Italy he could not find a place of rest, the fire for the mission was burning in his heart.

But now let’s stop and look at his activity in Sudan. We can gather some information from the many articles he sent to several papers, the TV reports and interviews he faced. This is what he himself wrote:

“My main activity was to open some technical schools, and train the young Africans to work. Through these schools I could put to good use what I learnt in my youth. God does not forget our own history.

Evangelisation was my main activity, especially the formation of catechists, who are the backbone of the Church in Africa.  Much of my time was also taken up by what we might call “inculturation”. I translated the Sunday Readings in several languages. I wrote a grammar in Majogò language. Then the pastoral work: catechesis, baptisms, preaching and the ever present malaria, which has killed so many missionaries, some in their thirties. My sorrow now is to see the raging war in Southern Sudan.”

Six years in exile

While waiting to return to Sudan after the expulsion, he toured the diocese of Brescia, telling everyone what the Lord had done through the work of missionaries in the heart of Africa.

“Going around the parishes, he used to say, “I don’t speak of myself, or of the Institute, but of the conversion of many pagans, of the problems of the Church in Africa, of the poor people often exploited by the western world”, adding some of personal adventures. He enjoyed telling the story of while he was once crossing a river, he saw a crocodile coming near. “I prayed the Bl. V. Mary with all my heart, and the crocodile, with a swift movement of the tail, just changed direction. Perhaps he saw there was no flesh on these old bones”.

He had talents to be a good writer, and he even wrote some poems, always with some humour. Some of these poems were also published, and he even got a prize for one written on “the bike of the missionary”.

God only knows how many people he met and won over to the missionary cause. He kept most of the people’s addresses in his note book and kept writing to them. In later years he used the ‘phone. When he came to Brescia for his 70th anniversary of ordination, the first thing he said entering the house was: “Is there a ‘phone here?”. He was not ashamed to ask for his mission: “I am not asking for me, but for the many needs of my poor people there”.

In Congo

In 1969, aware that it was impossible to go back to Wau, he asked to go to another mission, in Africa. He was posted to Zaire (Congo), whose soil was still wet with the blood of the Comboni missionaries and of many other people. But first he had to go to Paris to learn French. He remained in Paris for 11 months, at his age (67) sitting next to young people”! Back in Congo he got busy once again with schools, and pastoral work, carrying on the work left in 1964 because of the Simba revolution. Fr. Francesco Rinaldi Ceroni writes: “I have known Fr. Giuliano in Southern Sudan and in Congo, where we worked together in the same parish. His love and the joy of being in the mission was so great that when he had to leave Africa, he asked his superiors to remain a member of the province of Congo, to die “a Congolese missionary”. Tough his method was perhaps a little pre-Vatican II, still he worked very hard in all fields. I admired his spirit of prayer, his daily prayers, his weekly confession. At four o’clock he was already in the chapel ,  at five he used to celebrate Mass, and at six set out visiting people, establishing friendly contacts and teaching catechism.

He was careful in using his time, always busy preparing his lessons of catechism to the young Christians or short courses to catechists, or in some research. His room was more like a store, full of tools of all sorts, heaps of herbs from which he was extracting some drugs, he used as medicine, to some good effects. In fact he was a builder, a carpenter, a smith... at times even coming out with some strange things. Once in Sudan he wanted to build a big balloon in order to move around the villages, without wasting petrol...

He disliked long talks, and at times he complained for the too frequent meetings, which for him were just useless chatting, and no answer to the problems.”

He kept the same timetable and life style even in Congo. He was convinced that all Africans would accept Christ if the message was presented to them.

He had a tender devotion to Our Lady. He taught all Christians how to say the rosary, distributing hundreds of rosary beads. In all the chapels he built (and he built hundreds), he made sure there was a picture of Our Lady.

Though he struggled to learn a bit of Latin, later he learnt many other languages, nine: Bangala, Chresh, French, English, Jur, Lingala, Mayongo, Ndogo. He wrote grammars and dictionaries, translated catechism and prayer books.

With his bicycle he toured all the places in the savannah, not afraid of entering into the water up to his neck , if necessary to cross a small river, setting up wherever he went some schools, chapels and small workshops. His special care went to the lepers. He even attempted some botanic studies to look for new ways of feeding the people.

Once he was asked: “Tell us the secret of your everlasting youth”.

“My daily Mass, some study and a pinch of humour: the “God of my youth” keeps me young and active. Some study to be abreast with the times, and take things with humour, so necessary in Africa.” At night, before going to bed, he would plan for the following day, so as not to waste time the following morning. And he kept this rhythm of life for more than 70 years.

A funny character

Let’s hear what Fr. Contran says about this man, who seems to have become a legendary figure in Congo: “Fr. Giuliano was always on the move visiting the many chapels in the Bambou (Isiro) region. As he went on in the years he passed from driving a car to the mobylette and then to the bike, when Fr. Milani stopped him from driving the car because of his old age. That day he went to pay a visit to the sisters. “Today there has been a plot against me, Fr. Milani took my driving licence away, and yet I am the best driver in the world”. If his bicycle had a puncture or if the road was too muddy, he would return back home on foot, leaving someone else to push the bicycle. Now and then he was falling off, as his eyesight was getting bad.”

He disliked meetings. Once Mgr. Tandele, Vicar General, asked him where the parish priest was. The Father took the parish bulletin in his hands, and showing it to the Vicar General, commented, : “The Parish Priest is at one of these meetings... nowadays these young priests just pass from one meeting to another, from one chair to another .. no time for baptism.”

He could not put up with a Comboni sister who was working in the parish. So one day he went to the Provincial: “That sister “priestess” must go. She is breaking the parish priest’s head. What’s the use of all these meetings?  People call them “pastoral agents”... I understand the work of a nurse or of a teacher, but these.. ?  the previous one was even worse, she had studied theology... yes, I say, Protestant theology.”

About his health, it’s difficult to say whether he reached the age of 97 by means of ‘his own’ medicines, or in spite of these. Getting up in the morning, a brisk exercise , throwing a ball against the wall; which he repeated this before going to bed. When his eyesight worsened he covered one eye with a black bandage, “to let one eye rest” he said. For this his confreres named him “ Moshé Dayan’”. When his chest and part of his face became infected, he covered his face with a scarf and became “Arafat”. Whenever the pain was too great, he used to hold the arm of the person nearest to him. “Thank you - he would add - now I am relieved”. One evening he went to see Sr. Paquita. “Can you give me an injection?” “Why?” “Don’t you know that everyone should receive a penicillin injection every six months? This purifies the body of all sorts of sickness”, he explained. But he left the room disappointed at the sister’s sharp refusal. 

One day he had a strong attack of malaria, with high fever. “Don’t worry sister, it’s just a sun stroke...”. By good luck the nurse did not listen and gave him an injection.

She returned few hours later, and found Fr. Giuliano, on a chair, reading the Bible. “Father, I have come for the second injection.” “No, no. You see, Sister, in Sudan there was a very intelligent missionary. He head an attack of malaria, did the whole treatment and he was left... crazy. I don’t want to go the same way.”

Once he felt very sick on All Saints’ evening. He had planned for three masses the following day. “Father, tomorrow, do not get up, you are very sick.”  At four o’clock in the morning he was up, celebrated two masses then ran back to bed. Early morning he went to church for the third mass. After that the fever was very high. “You should not have gone, father, now you see...”. “But how could I help the souls in purgatory if I did not celebrate mass? But now, Sister, give me another injection, because tomorrow I must go out to a chapel for my safari. People will be waiting for me...”

He feared sun strokes very much, as an old English Governor in Sudan had told him that the sun rays which hit people on the nape are the most dangerous. Thus he always wore a large hat, and a scarf around the neck.

Going out visiting people, he used to carry a thermos full of tea, to which, whenever he could, he would add some drops of a strong drink. Somebody warned him: “Father, it’s bad for your health” “Don’t worry I am 90 already...”.

His mind was always full of ides, projects: we need a bridge on that road, a chapel in that village, that school needs to be enlarged...” “Father when do you sit down and rest? And let us rest too?? Wait now, we are too busy”. To this answer Fr. Giuliano replied: “I can wait one hundred years...”; and the superior added: “You are not very far from a hundred already”.

When Fr. Firmo was appointed superior, he commented: “Now I have to obey a boy!” Fr. Firmo was 40.

He had been used to celebrate mass in Latin; with difficulty he agreed to say mass in another language.

From Sudan he inherited the custom of wearing gumboots, even though there was no need around Isiro. “These boots protect me form lice.” But one day he discovered that the lice had nested in the gumboots and were now attacking him from inside.

For reading, he had made a special desk, fixed a large lens on it.

In 1993, when his health deteriorated, he accepted to leave the Congo, but as they were climbing the plane, he told Fr. Eliseo who was accompanying him: “I regret I have accepted to leave.”

Bro. Marzana writes: I was present during his last days in Congo. He had been working preparing some young people to the First Communion and some couples for Marriage. A confrere told: “Father you are tired. I’ll go to administer the sacraments”. “Oh, no, I prepared them and I will go to finish my work”. He went, but when he returned home he was so tired that he retired immediately to his room His confreres then took the decision of sending him back to Europe.  The morning before leaving, Fr. Giuliano called for me. “Bro. Virgilio, please, see that people finish the chapel in that village. You, please, prepare the window frames as I had wanted them to be done.”  Fr. Giuliano was a good mechanic, but he always wanted to work together with some young men, to learn the job. “We missionaries are not going to stay for ever..”

He was taken to Verona, to stay with the sick confreres. Looking at them, he complained: “What am I doing here with these old people?” and yet he was the second oldest! So he was transferred to Arco, but even there he found something to grumble about. “These old people spend the whole day saying the rosary, on the Radio Maria.” 

In 1996 Fr. Alghisi tried to do some apostolate in the church at Trento. He stayed there one year, then he went to Rebbio.

With his eyes raised to heaven

During his last years, he got interested in astronomy. He had some books ordered from Great Britain for the purpose. To one confrere who wondered how he could manage to read such a difficult stuff, he replied: “Perhaps one day I will discover the route Our Lady took to go to heaven!”.

At times he chose his own ways for a treatment. In 1992 he went to Verona for treatment against the herpes infection, but with no result. So he decided to go to Brescia, a decision which annoyed the doctors in Verona. He felt guilty and he apologised for his disobedience, which, he said, he did it in good faith.

He was interested in African affairs right up to the end of his life (arms traffic, capitalism, poor, ...) and he was even giving some points to the Nigrizia editor on how he should judge the question.

From Arco and Trento Fr. Giuliano passed to Rebbio, and then to the Centre for sick people in Milan. And here he started his last journey back to the Father’s house. He closed his long life on June 7, 1999, in the evening at 8 p.m.

After the funeral in the chapel of the Ambrosoli Centre, in Milan, his body was taken for burial in his home town, Barbariga. Fr. Alghisi had refused to celebrate his 70th anniversary of ordination in his parish, so now his parishioners had the chance to pay him the right tribute. Mgr. Vigilio Mario Olmi, auxiliary bishop of Brescia, presided the Eucharist, together with a large number of priests. At the homily the bishop outlined the talents of this genuine missionary, that managed to jo