In Pace Christi

Bertuzzi Vittorio

Bertuzzi Vittorio
Data urodzenia : 15/03/1908
Miejsce urodzenia : Albiano (TN)/I
Śluby tymczasowe : 11/02/1929
Śluby wieczyste : 11/02/1935
Data śmierci : 12/03/1999
Miejsce śmierci : Verona/I

E’ nato ad Albiano, Trento, il 15 marzo 1908, nello stesso giorno in cui, 77 anni prima, era nato il beato Daniele Comboni. La sua genealogia è piuttosto complicata, comunque ricca di missionari comboniani, senza parlare di religiosi entrati in altri Ordini e Congregazioni. Limitiamoci alla parte comboniana e sentiamo come la descrive il cugino, Guido Bertuzzi, religioso pavoniano e direttore della tipografia Artigianelli di Trento.

“I genitori di fratel Vittorio si chiamavano Luigi Bertuzzi e Assunta Filippi. Il papà di fr. Vittorio (Luigi) e il papà di p. Guido (Antonio) erano fratellastri: figli della stessa madre (Caterina Negri) ma di Lorenzo Bertuzzi il primo e di Giovanni Bertuzzi il secondo.

Lorenzo e Giovanni erano fratelli e, come ai tempi biblici, Giovanni sposò la cognata rimasta vedova di Lorenzo. Il papà di fr. Vittorio (Luigi) ed il papà di p. Guido (Antonio) erano anche primi cugini del papà (Giuseppe) di fr. Gustavo Bertuzzi e del papà (Emanuele) di fr. Secondo Bertuzzi.

Luigi Bertuzzi (figlio di Lorenzo e di Caterina Negri) sposò Assunta Filippi nel 1904. Dalla loro unione nacquero sei figli di cui Vittorio è il terzo. Veramente ne nacque anche un settimo, ma fu partorito morto e causò la morte della mamma (1915). Per tale triste evento papà Luigi ebbe 36 ore di licenza militare dall’Imperial Esercito Austro-Ungarico per sistemare i piccoli figli presso le famiglie dei parenti. Fr. Vittorio volle stare con la zia Maria (mamma di p. Guido) e da lei fu allevato.

Papà Luigi doveva essere una specie di perito agrario: si occupava di spartizioni di terreni e di pratiche simili. Fu sindaco per più legislature, direttore della famiglia cooperativa, ove lavorò anche fr. Gustavo prima di farsi comboniano, e presidente prima e direttore poi della Cassa Rurale di Albiano. Una figura importante per il paese, soprattutto per la sua rettitudine e onestà. Morì nel 1944.

Vittorio era molto vivace fino ad apparire poco docile e poco rispettoso nei confronti del padre. In famiglia mancava la figura materna ed il padre, a detta del fratello Antonio (papà di p. Guido) era sempre talmente occupato per la cosa pubblica e per gli altri, che trascurava i propri interessi. Probabilmente dedicava poco tempo ai figli e questo può, in parte, giustificare il comportamento piuttosto ribelle di Vittorio.

La vocazione missionaria di Vittorio - prosegue il cugino pavoniano - dev’essersi manifestata improvvisamente. Pare che nell’apprendere la decisione di fr. Secondo di farsi missionario, anche Vittorio decise di battere la stessa strada. Comunicò al padre di aver già la valigia pronta. Papà Luigi non fu contrario alla scelta di quel figlio un po’ ribelle, ma lo invitò ad una maggiore riflessione. Probabilmente temeva che si trattasse di un colpo di testa.

Io ho conosciuto fr. Vittorio fin da bambino, quando veniva a far visita a mio papà (Serafino) che considerava il suo cugino prediletto: era figlio di Giacomo (vero fratello di suo papà). Penso che l’ultima visita ad Albiano di fr. Vittorio risalga al 1993 in occasione del funerale del cugino Lino, figlio di Giacomo. In fratel Vittorio fu sempre forte il senso della famiglia e della parentela, forse per espiare un senso di colpa che si portava dentro dagli anni giovanili, e dai parenti e compaesani è sempre stato apprezzato per la sua grande umanità, semplicità e disponibilità”.

Aggiungiamo che una zia si chiamava Maria Gilli. In questo modo era imparentato anche con i quattro Gilli (di cui uno è morto) che fanno parte dell’Istituto comboniano.

Non dobbiamo impressionarci dalla descrizione del carattere di Vittorio rilasciata dal cugino se il parroco di Albiano del tempo, in data 1 novembre 1925 scrisse: “Il sottoscritto parroco d’Albiano attesta che il giovane Vittorio Bertuzzi di Luigi e di fu Assunta Filippi, tenne sempre un’ottima condotta morale e edificò col suo contegno i giovani della parrocchia”.

Novizio a Venegono

Lasciato il paesello il 2 novembre 1925, andò a Thiene nella scuola apostolica per Fratelli dove si specializzò in falegnameria sotto la guida di p. Domenico Francesconi. “Dal giorno in cui sono entrato - scrisse nella domanda di ammissione al noviziato - fino ad oggi ho fatto il possibile per migliorare la mia condotta perché voglio diventare un santo missionario”.

La lettera di accettazione andò smarrita per cui i due postulanti che dovevano andare in noviziato erano in agitazione pensando di non essere stati accettati. Ed ecco che p. Francesconi scrisse una lettera al p. maestro chiarendo la cosa. Questa lettera, però, serve per capire qualcosa di più di Vittorio Bertuzzi e anche di Antonio Biasin, suo compagno di noviziato e di scuola apostolica a Thiene.

“Thiene 19 marzo 1927. P. Vianello mi ha scritto a proposito dello smarrimento della sua prima lettera riguardante l’accettazione e l’invito a venire al più presto in noviziato dei nostri due postulanti. Essi erano un po’ sulle spine, ma io li confortavo a sperare bene ed ora sono tranquilli e contenti. Essi partiranno da qui mercoledì mattina. Io li accompagnerò fino a Verona ove uno dei due, Biasin Antonio, desidera fermarsi per salutare una sua sorellina che è in educazione presso le Madri canossiane. Poi andremo alla casa madre ove vedremo i superiori e mangeremo qualche cosa, quindi partiremo per Milano.

Alla stazione di Milano il Biasin s’incontrerà con un suo fratello soldato, il quale verrà poi qualche volta anche a trovarlo. E’ un ottimo giovane e, trovando buona accoglienza, non è impossibile che venga a sua volta anche lui ad accrescere il numero dei fratelli.

I due postulanti sono di ottima volontà. Il Biasin ha un carattere ardente, entusiasta, l’altro invece, Bertuzzi, è più calmo e posato. Ambedue sono forniti di buona intelligenza, anzi il Biasin di distinta intelligenza. Nella loro arte di falegname, il Biasin è, si può dire, maestro; l’altro ha fatto buoni progressi. Ambedue hanno soda e sentita pietà, amore al lavoro, purezza di costumi e una grande sincerità. In complesso fanno nutrire buone speranze di un’ottima riuscita...”.

Il 23 marzo 1927, a 18 anni di età, il nostro giovane giunse in noviziato a Venegono Superiore dove tirò fuori tutta la sua buona volontà per “diventare un santo missionario”, come aveva scritto nella domanda. Fece la vestizione il 25 giugno e cominciò i suoi due anni di formazione. Lavorò bene il suo carattere se il padre maestro, p. Carlo Pizzioli, alla fine del noviziato, scrisse: “E’ fratello di ottimo spirito, umile e docile. Ebbe sempre vivo desiderio di progredire nelle virtù, nelle quali fece ottimi progressi e anche al presente continua a progredire. E’ molto obbediente, schietto e semplice. A mio parere diventerà un ottimo religioso. Lo ritengo atto alla professione. E’ di criterio equilibrato in tutto. E’ di ottima volontà ed è fornito di discreto ingegno atto ad apprendere. Sa industriarsi in tutto.

Come carattere è quieto e pacifico, ma operoso e svelto. Non trovo osservazioni da fare a riguardo di questo buon fratello. A mio parere è il migliore di questi cinque fratelli circa la formazione religiosa”.

In Sudan meridionale

L’11 febbraio del 1929 fr. Vittorio emise la professione temporanea a Venegono Superiore. Egli ricorderà quella data anche per un motivo storico: proprio in quel giorno Benito Mussolini e il cardinale Gasparri firmarono i Patti Lateranensi che ponevano fine al conflitto tra l’Italia e la Chiesa. Nasceva lo Stato della Città del Vaticano e in tutte le scuole veniva reso obbligatorio lo studio della religione cattolica. Tutti motivi per ringraziare il Signore.

Fr. Vittorio trascorse 6 mesi a Brescia come ortolano e, il 20 settembre, all’età di 21 anni, partì per il Sudan meridionale. La missione di Raffili, fondata nel 1914, costituì la sua unica tappa missionaria per 9 anni. Fu subito impiegato nelle costruzioni, anche se la sua specializzazione appresa a Thiene era quella del falegname. Trovò il tempo per dedicarsi all’orto, onde fornire la tavola dei confratelli di verdure fresche e abbondanti, e al frutteto perché non mancasse mai la frutta che suppliva alla mancanza di tante altre cose.

La missione di Raffili fu una delle più tribolate tra le missioni del Sudan meridionale. Il suo nome derivava dalle cateratte, in inglese Rapids, del fiume Sueh, presso le quali era costruita. Situata sulla via che da Wau conduce a Mupoi, a 100 chilometri dalla prima e a 200 dalla seconda, fin dagli inizi dovette abbandonare il posto dove era stata eretta per uno più salubre. Più tardi un incendio la distrusse per cui dovette essere ricostruita da zero. Nel 1926, infine, avendo il Governo trasportata tutta la popolazione del territorio sull’altra sponda del fiume, essa si vide obbligata non solo a levar le tende ma a ricominciare daccapo. Vittorio vi giunse quando questo travaglio era concluso, ma con ancora tante cose da fare per avere una missione capace di ospitare i ragazzi della scuola, i catecumeni e il personale missionario.

La missione di Raffili estendeva la sua influenza sul territorio dei Belanda. Dopo 12 anni di lavoro i cristiani raggiunsero la cifra di 500, senza contare i numerosi battesimi in articulo mortis, malgrado che in buona parte della tribù fosse impedito il lavoro di evangelizzazione essendo il territorio chiuso dal cordone sanitario a causa della malattia del sonno. Fr. Bertuzzi contribuì a costruire la chiesa, molto bella, la casa dei missionari e le scuole elementari.

Al lavoro alternava la preghiera che è sempre stata abbondante nella sua vita. Anche in missione, pur essendo un fratello giovanissimo, quindi bisognoso di riposo, si alzava prestissimo per cominciare la sua giornata “agli ordini del Paròn”, come diceva lui. Ha conservato questa abitudine per tutta la vita. Ad Arco, dove trascorse molti anni, si alzava alle ore 3.00 per starsene alcune ore in cappella prima dell’arrivo della comunità. Lo stesso fece a Verona durante gli anni della sua malattia. Non è detto che in quelle ore non ci cascasse anche qualche sonnellino, ma era sempre un sonnellino fatto davanti al Signore.

In missione fr. Bertuzzi amò molto la gente. Era consapevole di aver lasciato la famiglia e la patria per il bene di quella gente. Non dimenticherà mai la missione e neanche i nomi di alcune persone che ricordò con affetto e nella preghiera fin negli ultimi giorni della sua vita.

Dopo una tirata di 9 anni, alla fine del 1938, il suo fisico, provato da sempre più frequenti attacchi di malaria, divorato dalle zanzare, in un clima umido e caldo lo costrinse a rientrare in Italia. Le arie del Trentino lo fecero rifiorire per cui, un anno dopo (5 febbraio 1940), era nuovamente a Raffili. Vi rimase fino al 1944 sempre come addetto alla casa e alle costruzioni.

Dal 1944 al 1945 fu al Bussere che era un cantiere di lavoro per le opere che erano avviate. E’ interessante la nota che p. Simoni scrisse: “Qui al Bussere, dove c’era un po’ di confusione con fr. Guido Giudici, l’arrivo di fr. Vittorio fu una benedizione”. E poi spiega il motivo di questo suo essere benedizione. “Tutti gli vogliono un gran bene e hanno una grande confidenza con lui. E’ molto prudente e buono. E’ sempre contento e paziente, anche quando lo prendono in giro per il suo fare calmo. Perfetto negli atti comuni e nelle pratiche di pietà, esimio nella carità fraterna e nello spirito di servizio. Posato, riflessivo, un po’ lento, ma è meglio che sia così ché di svelti ce ne sono anche troppi. Compie con esattezza il suo ufficio di magazziniere, cura la casa e l’orto. Non è di nessuna esigenza”.

Aggiungiamo che fr. Vittorio ad un certo punto divenne il jolly disponibile ad andare in tutte le missioni dove c’era bisogno, sempre pronto, sempre contento e dovunque riscosse le referenze che abbiamo appena riportate.

Dal 1945 al 1946 fu a Kayango, nuovamente a Raffili dal 1946 al 1949... e qui i superiori si accorsero che il Fratello non si reggeva più in piedi per i reumatismi, tuttavia continuava il suo lavoro quotidiano e la sua vita comune con la regolarità di sempre. Il superiore scrisse: “Non sapevamo che soffrisse di reumatismi perché non ne ha mai parlato con nessuno”.

Fu mandato in Italia e andò a Crema come addetto a quel seminario minore comboniano. Si riprese tanto che nel 1951 tornò nuovamente in Sudan, al Bussere e vi rimase fino al 1954. La salute, però, era ormai compromessa per cui dovette rimpatriare.

Cercatore a Trento

Nel 1955 lo troviamo nel seminario comboniano di Trento come cercatore di mele e di patate per i seminaristi. A bordo del camioncino della casa guidato dal Gigiot (laico alle dipendenze dell’istituto) percorreva le valli del Trentino chiedendo la carità ai possidenti. E tornava sempre con un buon carico perché il suo modo di accostare le persone era condito di tanta bontà.

E’ merito anche di fr. Vittorio Bertuzzi se il numero degli amici e dei benefattori della nostra casa di Trento crebbe notevolmente. Con la sua calma, la serenità che ispirava dal suo volto, dal suo modo di fare, dalle sue parole seppe farsi benvolere e, indirettamente, fece benvolere e stimare i Comboniani. La gente, inoltre, fiutò in lui l’uomo di Dio, l’uomo della preghiera e si raccomandava alle sue preghiere. Fr. Bertuzzi diceva di sì, che li avrebbe ricordati, e poi li ricordava davvero e allora ecco prolungare le sue soste davanti al tabernacolo rubando ore al sonno.

Ma non disdegnava di condividere ore di lavoro con il Menego (altro laico) nella stalla dove c’erano le mucche e i maiali. Poi c’era l’orto che produceva tanta verdura per il centinaio di seminaristi che popolavano la casa. Furono anni laboriosi e belli per il nostro Fratello.

Le arie della sua terra gli fecero bene anche fisicamente, tuttavia non era più un uomo da andare in missione. Egli non protestò, non cadde in depressione, ma cercò di rendersi utile come meglio poteva, con allegrezza, nel posto che i superiori gli assegnarono.

La lunga giornata di Arco

Nel 1960 fu deviato ad Arco dove c’era la casa dei malati di TBC. Fr. Vittorio Bertuzzi venne incaricato dell’orto e delle galline. In quella casa, infatti, per ottenere un aiuto economico frutto del proprio lavoro, i missionari allestirono un pollaio razionale con le galline ovaiole. Le uova e poi anche le galline, venivano vendute alle case di cura della zona.

Sistemate le galline, un lavoro piuttosto impegnativo e che non consentiva né riposo, né vacanze, il nostro fratello si dedicava all’orto. Lavorò bene, con dedizione, senza tante chiacchiere ma con molti fatti. Qualche volta, quando vedeva che le cose non andavano come intendeva lui, brontolava un po’, ma era il classico “burbero benefico” col quale era impossibile non andare d’accordo. Ci è rimasta un’agenda del 1974 sulla quale registrava ciò che aveva seminato nelle varie parti dell’orto e le spese sostenute per la compera delle piantine: scriveva il giorno della semina o del trapianto e il nome delle verdure, segno che voleva fare le cose con criteri se non scientifici, almeno di impegno.

Lavorò fino allo stremo delle forze. Più di un volta, non vedendolo rientrare all’ora dei pasti o della preghiera, fu trovato addormentato (o svenuto) tra i filari di fagioli. Per lui il lavoro era un dovere sacrosanto per un Fratello missionario per cui era disposto a morire sul solco, e non solo in senso metaforico.

Alla domenica partecipava alle funzioni in parrocchia. Gli piaceva la vita parrocchiale, incontrare il sacerdote, la gente, scambiare una parola. Ormai tutti lo conoscevano e lo stimavano per cui si fermavano volentieri con lui a fare due chiacchiere. In comunità era elemento di coesione e di allegria. Però quando cessava la ricreazione diventava immediatamente serio, metteva l’indice davanti alla bocca facendo il verso psss come per dire che iniziava il silenzio e l’ora degli scherzi era terminata.

Ogni settimana andava in casa ad Arco un Padre francescano per le confessioni alla comunità. Fr. Bertuzzi non mancava mai a quel suo diritto-dovere. Anzi, lasciandosi trasportare da qualche eccesso di zelo, controllava se tutti facessero quel loro dovere. Ciò fu causa di non poche discussioni da parte di qualcuno che, su quel punto, esigeva la massima libertà. Ammiriamo lo zelo del nostro Fratello, senza imitarlo.

Tra le devozioni di fr. Bertuzzi, occupava un posto particolare quella alle anime del purgatorio. Quante preghiere, quanti sacrifici ha fatto per la loro liberazione da quel luogo di pena! Si era messo in mente di liberarne il numero più alto possibile. Per le “sante anime purganti” recitava dieci rosari al giorno. Mentre le mani si muovevano per i lavori, le labbra e il cuore pregavano.

Nel 1977 fu inviato come sacrestano nella chiesa della Santissima Trinità di Trento, officiata dai Comboniani. Se la cosa gli era di soddisfazione perché gli consentiva di trascorrere tante ore in compagnia del Signore, trovò qualche disagio nel trattare con la gente un po’ raffinata di città per cui, dopo tre anni, tornò volentieri al suo orto di Arco (nel frattempo le galline erano state eliminate). La casa, intanto, si era riempita di anziani autosufficienti che vivevano ricordando i bei tempi giovanili trascorsi in Africa. Era un piacere condividere le ore in compagnia di quei veterani, uomini santi, eroi nascosti, che avevano portato a Dio tante anime spesso a prezzo di enormi sacrifici e privazioni.

Ad un certo punto la salute di fr. Vittorio cominciò a peggiorare a tal punto che la struttura di Arco non era in grado di dargli adeguata assistenza per cui fu trasportato al Centro Ammalati di Verona.

Tre anni a Verona

Vi giunse all’inizio del 1996. Essendo ormai nella piena inattività fisica, intensificò la preghiera. Molto spesso era in chiesa alle 1.00 di mattina. Pregava un po’, poi, se non arrivava l’infermiere che lo accompagnava a letto, si appisolava un po’ per riprendere la preghiera ad ogni risveglio. La chiesa era il posto dove si trovava meglio e dove avrebbe volentieri stabilito di sostare in continuazione.

“Vado a trovare il Paròn, gli ho da dire tante cose”, diceva. Nella sua preghiera c’erano le anime del purgatorio, i confratelli, la Congregazione, le missioni, l’Africa, specie il Sudan che portava sempre nel cuore. Una caratteristica: nessuno mai lo ha sentito dire alcunché di negativo nei confronti degli Africani. Egli li amava, perciò li stimava e li difendeva.

Ogni tre giorni, immancabilmente, si confessava. A chi gli diceva che non aveva peccati, egli rispondeva che la confessione dà sempre una lucidata anche se non ci sono cose grosse da togliere. Nei suoi discorsi esprimeva il desiderio di incontrarsi con il Signore.

“Cosa faccio qua! Solo a dar disturbo. Vorrei proprio incontrarmi con il Signore, vedere il volto della Madonna, del mio angelo custode, della mia mamma che non ho quasi neppure conosciuta, incontrare tanti confratelli con i quali ho condiviso la missione e la vita ad Arco”. Questi erano i suoi discorsi tra una preghiera e l’altra.

Morì alle ore 8.30 del 12 marzo 1999. Era stato colpito da una brutta forma influenzale, ma soffriva da anni anche di un tumore. Nelle ultime settimane si aggiunse il blocco renale e uno scompenso cardiocircolatorio per cui anche le medicine che lo avevano tenuto in vita per tanto tempo, non erano più efficaci.

Nei quindici giorni che precedettero la morte, dovette soffrire molto. Egli accettava e diceva che quella sofferenza gli serviva per abbreviare il tempo del purgatorio. In un quadernetto, fermo peraltro al 1955, annotava l’argomento della meditazione. L’ultima frase è la seguente: “Dio Padre crea l’uomo a immagine sua perché vuole che un giorno, come figlio suo, vada vicino a Lui in Paradiso”.

Dopo il funerale in Casa madre, proprio nel giorno del suo 91° compleanno, che era anche quello di Comboni, la salma è stata traslata ad Albiano dove riposa accanto ai suoi parenti. Preghiera e lavoro sono stati il suo ideale.

Fr. Vittorio Bertuzzi ci lascia il ricordo di un Fratello pienamente soddisfatto della sua vocazione di fratello, contento delle piccole e umili cose che riusciva a fare. Ora, dalla Casa del Paròn dove si trova insieme a Comboni, del quale si vantava di essere “coscritto” continua ad intercedere per la Congregazione e per le missioni che ha tanto amate e per le quali ha pregato e sofferto.      P. Lorenzo Gaiga

Da Mccj Bulletin n. 204, ottobre 1999, pp. 121-128