In Pace Christi

Baj Giuseppe

Baj Giuseppe
Data urodzenia : 17/08/1903
Miejsce urodzenia : Gaggiano MI/I
Śluby tymczasowe : 09/09/1927
Śluby wieczyste : 25/09/1930
Data święceń : 29/05/1926
Data śmierci : 04/04/1993
Miejsce śmierci : Rebbio/I

P. Giuseppe Baj è uno di quei missionari che, per la sua veneranda età e soprattutto per il modo di viverla, entra nella rosa dei Comboniani che hanno lasciato il segno nella Congregazione. Per tutta la vita, infatti, ha ricoperto cariche importanti, portate avanti con umiltà, discrezione e senso di responsabilità.

E' entrato in Congregazione subito dopo l'ordinazione sacerdotale. In data 10 aprile 1926, essendo diacono del seminario maggiore di Milano, scrisse al suo vescovo, il card. Eugenio Tosi: "Eminenza, l'umile sottoscritto si permette di inoltrare all'Eminenza Vostra Rev.ma rispettosa supplica acciò gli venga concesso di entrare, dopo ricevuta la sacra ordinazione presbiterale, nella Congregazione dei Figli del Sacro Cuore in Verona. Confidando nell'esaudimento, mi chino al bacio della sacra porpora.

Dell'Eminenza vostra si professa um.mo e dev.mo in C.J

diacono Giuseppe Baj".

Poche parole che nascondono un lungo travaglio per discernere la propria vocazione e per convincere i superiori a lasciarlo partire. In questo secondo aspetto, tuttavia, trovò il pieno appoggio del rettore del seminario, anima sensibilissima al problema missionario.

Nella stessa data, e in calce alla stessa lettera, il Cardinale "concede e benedice" e, sempre il 10 aprile, parte per Verona la domanda di Giuseppe con la formale richiesta di essere accettato nella Congregazione.

Il rettore del seminario accompagnò lo scritto con queste parole: "Mi sforzo per cooperare per quel poco che posso a raccogliere mezzi per le Missioni africane; ma quanto più mi è caro appoggiare la domanda di un  ottimo diacono che aspira ad entrare in codesta fervente Congregazione. Lo accetti pure ad occhi chiusi! Sarà un buon evangelizzatore".

All'ombra della croce

Il papà di p. Baj si chiamava Giuseppe come il figlio e abitava a San Vito di Gaggiano, Milano. Gestiva una modesta impresa edile che gli permetteva una vita moderatamente agiata. La mamma, Rosa Rho, nata a Casorate Primo (Pavia) faceva la casalinga. Si erano sposati nel 1881 ed erano cristiani praticanti di ottima tempra.

Nel 1882 nacque il primo figlio, Carlo, che dopo le elementari entrò in seminario e divenne sacerdote (1907). Lasciò nei paesi dove esercitò il ministero sacerdotale (Boffalora ed Arosio) chiara fama di santità. Sono più di cinquanta i missionari e le suore che indirizzò nelle varie congregazioni. Morì nel 1968 ad Arosio, dove fu parroco per 60 anni.

Nel 1903, quinto nella graduatoria, arrivò il nostro p. Giuseppe "un ragazzino vispo e sempre contento" come lo descrisse la sorella Carlotta.

Anch'egli percorse l'iter di tutti i bravi ragazzi del paese, dividendo il suo tempo tra gli impegni propri della sua età e i giochi in campagna e sulla piazza della chiesa. Nelle celebrazioni liturgiche si dimostrò chierichetto fervoroso e convinto, e nella scuola scolaro diligente, capace e impegnato. Al termine delle elementari volle seguire il fratello maggiore che era già parroco di Arosio.

In quegli anni la famiglia lasciò Gaggiano per trasferirsi ad Arosio. I genitori ormai erano su con gli anni. Il papà aveva passato ai figli l'impresa, accontentandosi di vivere accanto al figlio sacerdote insieme alla moglie che accudiva la casa canonica.

Venti giorni prima dell'ordinazione sacerdotale, il Signore toccò don Giuseppe con la sua croce permettendo che il papà lasciasse questa terra. Anche se il genitore aveva la bella età di 82 anni, fu un duro colpo per il prossimo novello sacerdote. Eppure, anche in quell'occasione, come in tante altre nella vita, non protestò, né chiese al Signore perché aveva voluto privare il genitore di una gioia così intensa come quella di vedere il suo ultimo rampollo salire l'altare.

P. Baj venne ordinato nel Duomo di Milano dal card. Tosi il 29 maggio 1926. L'ombra della croce all'inizio del suo sacerdozio fu come un segno di benedizione per tutta la sua vita sacerdotale e missionaria.

Dieci anni a Loa

Qualche settimana dopo l'ordinazione p. Giuseppe era già in noviziato a Venegono. L'anno dopo, saltando quindi un anno, emise la professione temporanea. Era il 9 settembre 1927. Perché tanta fretta? Perché il Padre diede ai superiori le migliori garanzie di sé come pietà, spirito missionario e maturità umana; e poi perché a Venegono prima e a Verona poi c'era urgente bisogno di un valido propagandista.

P. Baj era di una dinamicità formidabile. Saltava da un paese all'altro, accostava i sacerdoti suoi ex compagni di seminario e li infiammava di ardore missionario. Anche l'essere fratello di don Carlo, sacerdote già stimatissimo per le sue doti di santità, gli giovò per estendere sempre di più la cerchia degli amici e dei sostenitori delle missioni.

Ma la voce dell'Africa era impellente. P. Baj scalpitava e i superiori, grazie anche alla sua robusta salute, lo inviarono a Loa, nel Sudan meridionale. Vi rimase dal 1929 al 1939, prima come coadiutore e poi come superiore.

La missione di Loa, fondata nel 1921, viveva un momento di particolare fervore, sia come costruzione di edifici, sia come animazione catechetica e spirituale. I Bollettini della Congregazione del tempo sono ricchi di annotazioni importanti e anche curiose che fotografano la vita missionaria di 70 anni fa. Si costruivano dormitori, si aprivano scuole, si predicavano gli esercizi spirituali alla gente e si tenevano ritiri periodici ai catechisti.

Tra tante rose c'erano anche le spine. Come la distruzione della bananiera da parte degli elefanti, la malattia del sonno che costrinse all'isolamento molti cristiani e alcuni missionari, ondate di influenza che colpivano interi villaggi, i bruchi che devastavano i campi di patate... E la colpa di questi guai, secondo gli stregoni, era proprio la presenza dei missionari che predicavano una religione contraria a quella tradizionale. I segatori di assi, lavoro portato avanti a mano, di tanto in tanto scioperavano per le paghe troppo basse. In realtà lo facevano perché non avevano ancora "bevuto" il denaro già guadagnato. Poi tutto si dissolveva nel nulla e le scuolette di villaggio e le cappelle sorgevano qua e là.

Ma ecco che a periodi sempre più frequenti si verificava l'invasione delle cavallette che distruggevano le piantagioni. Ad esse si aggiungevano le termiti che divoravano perfino il legno delle finestre facendo cadere i vetri, poi c'erano gli uragani che combinavano disastri, seguiti da lunghi periodi di siccità. La colpa era ancora dei missionari che con le loro novità irritavano gli spiriti.

Un triduo per ottenere la pioggia dopo un periodo di secca da incendiare anche i sassi, ottenne un acquazzone "numero uno" e ciò contribuì a mettere in minoranza i soliti stregoni. I battesimi e le prime comunioni non si contavano più e a gruppi sempre più numerosi i ragazzi partivano per la scuola artigianale di Torit.

Il leopardo, intanto, uccise otto pecore e sgozzò cinque galline. Le iene "ridevano malignamente" consumando ciò che il felino aveva avanzato. Gli elefanti costrinsero più volte la popolazione ad insorgere in massa con pentole, latte e tamburi facendo uno schiamazzo indiavolato nell'intento di far cambiare rotta ai pachidermi che sembravano divertirsi ad entrare negli orti per fare scempio di ogni ben di Dio. E intanto si impastavano mattoni a getto continuo.

"La vita missionaria è affascinante e niente affatto monotona", scrisse p. Baj al fratello don Carlo.

Questi gli mandò una bella moto rossa, una potente e rombante Guzzi, che costituì la meraviglia degli abitanti di Loa e accorciò le distanze tra un villaggio e l'altro. Si, perché p. Baj era un patito dei safari. A contatto con la gente si trovava a suo agio; quando era circondato da un nugolo di ragazzini gli sembrava di essere ancora all'oratorio del suo paese.

Fu una conquista quando, nel 1935, poté estendere le coltivazioni in una valletta mai coltivata prima per la superstizione degli africani del luogo. In quella valle, infatti, abitavano certi spiriti che non dovevano essere disturbati. L'avvenimento venne considerato importante perché stava ad indicare un cambiamento di mentalità nella gente.

L'esperienza di Loa fu un momento esaltante per p. Baj perché si sentì realizzato in pieno come missionario. Non solo ma, con le sue scarne lettere che trovavano una notevole cassa di risonanza nel fratello don Carlo e nei confratelli sacerdoti della diocesi di Milano, riuscì a coinvolgere e animare missionariamente tanti fedeli. Ciò fu un vantaggio non solo per le missioni ma anche per le nostre case d'Italia, specie per Venegono.

I fuochi di guerra

Nel giugno del 1939, quando l'Europa fremeva per la "guerra lampo" che poi si sarebbe protratta per cinque anni imponendo severe restrizioni alle missioni sia come personale che come mezzi, p. Baj fu inviato in Europa per un po' di vacanza e per imparare l'inglese. Nei dieci anni trascorsi a Loa aveva capito che, per esercitare con maggior frutto il ministero e per un più proficuo inserimento nella realtà africana, bisognava conoscere la lingua dei padroni, gli inglesi.

Gli bastarono sei mesi di intenso studio in Inghilterra per imparare bene la lingua e poi, nel dicembre di quello stesso 1939, dopo una fugace visita ad Arosio e una preghiera sulla tomba della mamma che nel frattempo aveva lasciato questa terra, tornò in fretta e furia a Loa prima che i mari si chiudessero a causa della guerra.

A Loa poté ammirare la nuova chiesa che egli aveva iniziato e, soprattutto, si rallegrò vedendo che ogni domenica si riempiva di fedeli. Anche l'attività dei catechisti era molto fiorente per cui il catecumenato non riusciva a contenere coloro che si preparavano al battesimo.

Due cuori per Palotaka

Dal settembre del 1940 al luglio del 1943 fu inviato a Palotaka con l'incarico di vicario delegato. Fondata nel 1933 e dedicata alla Sacra Famiglia, questa missione tra gli acioli si dimostrò subito piuttosto dura, causa anche la presenza massiccia dei protestanti che con i "papisti" non andavano proprio d'accordo. P. Cardani chiamava la gente di Palotaka "i filistei", tanto erano duri di testa e scadenti come costumi.

I missionari, per spuntarla, intensificarono la devozione al Sacro Cuore di Gesù specialmente attraverso la pratica dei primi venerdì del mese, e la devozione al Cuore Immacolato di Maria. I frutti non mancarono: le scuole protestanti si svuotarono e perfino i figli dei capi venivano mandati presso i missionari cattolici.

Tra i catechisti che operarono mirabilia riuscendo a concludere un buon numero di matrimoni cattolici vanno ricordati Panfilo e Massimo veri apostoli che si consumarono per il Regno di Dio in quella terra. "Se le famiglie assestate non furono molte - dice la cronaca del tempo - vi si poté però stabilire l'associazione delle Madri cristiane e delle Figlie di Maria".

P. Baj lavorò con il suo solito sistema: contatti con la gente, catechismo, predicazione e tanta carità. Scrivendo al fratello don Carlo disse: "I Cuori di Gesù e di Maria hanno sfondato tra questa gente".

A questo punto vale una testimonianza di p. Cesare Gambaretto: "Ogni primo venerdì del mese - raccontò - noi missionari potevamo assistere a una scena commovente. Fin dal giovedì sera si vedevano ragazzi e ragazze che, con il loro fagottino in testa, giungevano alla missione. Avevano camminato tutto il giorno sotto il sole cocente o sotto la pioggia torrenziale. Ma quei giovani generosi avevano capito l'importanza della devozione al Sacro Cuore, e per il Sacro Cuore non badavano a sacrifici.

Alla mattina del venerdì la missione rigurgitava di gente. Molti avevano passato la notte all'aperto, cantando preghiere accanto ai fuochi. Cominciavano subito le confessioni e le comunioni. Quasi sempre il lavoro si protraeva fin oltre mezzogiorno".

A Juba come superiore e procuratore

Dal 1943 al 1953 p. Giuseppe fu a Juba come superiore e procuratore. Già prima aveva dato prova di notevoli capacità come economo, per cui i superiori pensarono di affidargli la cura di quella porzione piuttosto difficile di Africa.

Erano i tempi duri della povertà, ma sarebbe meglio chiamare della miseria, perché dall'Italia, dilaniata dalla guerra e poi dalle conseguenze della medesima, non arrivava più nulla. Proprio in quel periodo le missioni erano in fase di sviluppo, per cui i missionari tempestavano i superiori con richieste di mezzi. P. Baj faceva i salti mortali per accontentare tutti e quando proprio non vi riusciva, restava male più degli stessi richiedenti. I soliti impazienti, naturalmente, lo tacciarono di taccagneria, ma quando non ce n'è non ce n'è.

Da una lettera scritta al fratello don Carlo in questo periodo appare come gli stessero a cuore le vocazioni: "Mi congratulo con te per la professione religiosa di una tua figliola. Spero che sia ben formata e soprattutto disposta a fare ciò che il Signore le comanderà attraverso l'obbedienza. La disponibilità è la virtù più importante per chi si mette al servizio del Signore. Quanto più vado avanti nella vita, tocco con mano che noi ci arrabattiamo, ma poi è il Signore colui che fa... Presto ti arriveranno tanti cestelli e altri lavoretti fatti dalle ragazze di Loa. Sono piccole cose, ma ti prego di darle a chi vuoi in modo che chi aiuta la missione sappia che è ricordato. Non posso fare di più, ma rappresentano un segno tangibile della mia riconoscenza sempre appoggiata dalla preghiera per chi fa tanti sacrifici per le missioni...".

Le testimonianze di p. Mazzoldi prima, e di p. Patroni poi, rispettivamente superiori di circoscrizione, mettono in risalto non solo le capacità del Padre come superiore e come procuratore, ma anche come religioso e missionario. "Ospitale con i confratelli e abile nel trattare con le autorità, lodevole capacità di dominio di sé anche se in qualche momento non riesce a nascondere qualche sentimento di stizza, contegno esterno edificante, governa con larghezza, con bontà, accetta consigli e correzioni ma non si lascia condizionare da chi sarebbe portato a farlo. Ha fiducia negli altri, è attaccato alla Congregazione ed esatto nelle pratiche di pietà. Al grande zelo per il bene delle anime si accompagna in lui una giusta oculatezza per una sana economia adoperandosi in modo particolare per venire incontro alle necessità dei confratelli più bisognosi. E' elemento che sa mantenere la carità nella comunità. I confratelli hanno molta stima di lui, anche perché sa richiamarli con dolcezza quando il caso lo richiede. Ha dimostrato fin dai suoi primi anni di missione di avere doti di governo".

In Italia

Proprio per queste doti di governo che tutti gli hanno riconosciuto, p. Baj nel 1953 si trovò superiore degli scolastici di teologia a Venegono Superiore.

Egli non era uomo particolarmente erudito nelle scienze teologiche, per questo dimostrava molta fiducia negli insegnanti. Li ascoltava, discuteva con loro e li lasciava fare, ma quando si trattava di prendere qualche decisione su una determinata persona interveniva investendo la sua qualità di superiore.

Dotato di profonda umanità e di gran buon senso, sapeva capire le persone oltre il risultato scolastico per cui, se era solo per motivi di studio, non esitava a mandare avanti qualche candidato purché non mancassero le doti di pietà, di sincerità, di senso del dovere, di lavoro e di zelo per la salvezza delle anime.

"Carità, zelo e spirito di sacrificio sono le doti del vero missionario", ripeteva ricalcando la Regola.

Come superiore a Venegono p. Baj si fece benvolere da tutti e tutti conservarono di lui un grato e riconoscente ricordo.

"Quando arrivò a Venegono - dice p. Aldo Gilli - la situazione finanziaria della casa era messa male, anche per i lavori che erano stati eseguiti e per la mancanza di mezzi in quel dopoguerra travagliato. P. Baj, che si era dimostrato un valido economo in Africa, probabilmente fu mandato a Venegono anche per risollevarne le finanze. E vi riuscì organizzando le giornate missionarie, il ministero nelle parrocchie e altre attività come l'incremento del presepio che attirò alla nostra casa tanti nuovi amici e benefattori. Pur essendo un periodo difficile, non fece mai mancare l'indispensabile alla comunità. Volle che il cibo fosse sempre buono e abbondante perché la salute di quei giovani gli stava sommamente a cuore. Aveva potuto constatare di persona quanto la buona salute fosse importante in Africa".

Un decennio difficile e impegnativo

Nel Capitolo del 1959 p. Giuseppe venne eletto consigliere ed economo generale. Lasciò Venegono per Verona accompagnato dal rimpianto dei confratelli e della gente del posto che aveva imparato a stimarlo per la sua gentilezza e rettitudine.

Lo attendevano anni difficili, accompagnati da avvenimenti tragici. Ricordiamo l'espulsione in massa di tutti i confratelli dal Sudan meridionale con il conseguente improvviso sovraccarico delle case d'Italia, e il martirio dei Comboniani nello Zaire, allora Congo Belga. Ma ci furono anche lavori importanti che impegnarono in prima persona l'economo generale come la costruzione della nuova casa generalizia in Via Lilio a Roma e il sofferto acquisto della Casa del Fondatore a Limone sul Garda. Per quest'ultimo evento, che oggi consideriamo benedizione, dobbiamo dare atto all'insistenza di p. Giovanni Battelli, allora vicario generale che, vincendo la ritrosia del p. Generale perplesso sull'opportunità dell'acquisto per motivi economici, convinse la Direzione generale al difficile passo. In questo fu validamente sostenuto dalla parola e dall'opera di p. Baj.

I dieci anni di amministrazione si conclusero con la contestazione del 1968 che tanto amaro lasciò in bocca a tutti. Sono, questi, solo alcuni momenti, e non tutti, che resero difficili quegli anni.

Sostenuto dal generale, p. Gaetano Briani, p. Baj ha consolidato le basi economiche della Congregazione imprimendo ad ogni casa, con umiltà, silenzio, tenacia e discrezione, il ritmo giusto.

Dopo 10 anni di simile attività, accolse l'esonero dall'incarico con un profondo senso di sollievo, ma le sue doti di prudente e saggio amministratore non potevano rimanere nascoste per cui fu eletto economo della provincia italiana, conservando nello stesso tempo l'onere di Rappresentante legale dell'Istituto di fronte allo Stato italiano.

La sua indiscussa capacità e prudenza lo fecero benvolere e stimare anche dalle autorità civili ed ecclesiastiche.

Ha sempre maneggiato tanti soldi, ma non ne è rimasto contaminato. Per lui erano mezzi che la Provvidenza divina gli metteva tra le mani per il Regno di Dio. Si servì di loro senza diventarne servo.

Più presso a te Signor...

Nel 1973, a 70 anni di età, l'obbedienza chiese a p. Giuseppe di trasferirsi nella chiesa di S. Tomio a Verona, tenuta dai Comboniani, per esercitare il ministero di confessore. Accolse l'invito come una benedizione. "Ho passato la vita tra i conti e il denaro, finalmente ora posso starmene più vicino a Domineddio in modo da prepararmi all'incontro con lui, che non dovrebbe essere lontano", disse scherzosamente. Mancavano ancora 20 anni a quell'incontro.

A S. Tomio fu confessore assiduo, preciso, essenziale, di poche parole e quindi ricercato. Gli restava anche molto tempo da dedicare all'adorazione e alla preghiera personale. In comunità, dicono i confratelli che sono stati con lui, era elemento di pace e di serenità. Nel giorno libero andava sovente in Casa Madre per visitare i confratelli ammalati. S'intratteneva con loro, li incoraggiava con il suo solito gesto della mano, raccomandava le anime che frequentavano S. Tomio alla loro preghiera e alla loro sofferenza e poi andava via svelto.

Quando aveva bisogno della macchina per qualche spostamento c'era sempre il buon fr. Franco, già suo aiutante in economato, che si prestava a fargli da autista. Insomma, quegli anni furono molto sereni e anche ricchi di consolazioni spirituali. I confratelli dicevano che p. Baj raccoglieva nel giubilo ciò che aveva seminato con una vita buona.

Nella quiete di Rebbio

La salute ad un certo punto cominciò a mostrare alcune falle. Le sue gambe, sempre svelte, rischiavano di incepparsi; gli occhi non facevano più tanto bene il loro servizio. Solo la memoria restava lucida.

Nel 1986 celebrò con intima gioia i 60 anni di sacerdozio. P. Pierli, superiore generale, gli mandò il seguente telegramma: "Vivissimi auguri per i suoi 60 anni di sacerdozio, che si possano prolungare per molti anni ancora. L'Istituto è molto riconoscente per il suo servizio fedele, costante e generoso".

Egli stesso, alla sera di quel giorno, suggerì che forse era giunto il momento di tirare i remi in barca e raccogliersi nella quiete di Rebbio per la preparazione prossima all'incontro con Colui che aveva servito per tanti anni.

Solo nel 1990 questo suo desiderio fu accolto. Lasciò anche l'incarico di Legale rappresentante dell'Istituto e si dedicò completamente alla preghiera e all'esercizio della carità con i confratelli di Rebbio.

In quella casa riceveva spesso le visite dei suoi nipoti e parenti che lo consideravano come la colonna portante della famiglia e nutrivano per lui una particolare venerazione.

I confratelli di Rebbio assicurano che il Padre trascorreva quasi tutto il suo tempo in chiesa in una preghiera che era serena e rilassante contemplazione. Molti confratelli andavano a trovarlo per ascoltare ancora la sua parola e qualche suo saggio ed essenziale suggerimento. La lunga vita gli aveva insegnato tante cose che, maturate nella preghiera, diventavano luce e forza anche per gli altri.

Dopo tre anni di questa vita, quasi improvvisamente subì il crollo finale. Chiese e ricevette solennemente e con edificazione di tutti gli ultimi sacramenti e si accinse a lasciare questo mondo con l'atteggiamento degli antichi patriarchi "sazi di giorni e di meriti".

P. Alberto Villotti dice che qualche giorno prima il Padre gli aveva detto: "Com'è lunga questa attesa! Quand'è che il Signore verrà a prendermi?". Poi aggiungeva: "Offro tutto per la Congregazione e per le missioni".

Fr. Costantino Giacomini, appena trasferitosi in quella casa da Gozzano, fr. Catterino Basso e p. Alberto Villotti ebbero la consolazione di assisterlo nei suoi ultimi istanti e di chiudergli gli occhi. "Una morte come quella di p. Baj - disse fr. Giacomini - è da augurare a se stessi e al proprio miglior amico". Il servo buono e fedele, l'amministratore saggio, si spense alle ore 5 e un quarto del 4 aprile. Ora il suo corpo riposa nel cimitero di Gaggiano, nella tomba di famiglia.

P. Baj lascia ai confratelli un chiaro esempio di laboriosità, di rettitudine e di profonda umanità sublimate da una fede cristallina e da un grande amore alla Congregazione e alle missioni che fanno di lui un autentico missionario, un degno figlio di mons. Comboni.                                     P. Lorenzo Gaiga

Da Mccj Bulletin n. 180, ottobre 1993, pp. 70-76