In Pace Christi

De Giorgi Luigi

De Giorgi Luigi
Data urodzenia : 21/06/1914
Miejsce urodzenia : Cavallino di Lecce/I
Śluby tymczasowe : 07/10/1934
Śluby wieczyste : 07/10/1938
Data święceń : 16/04/1939
Data śmierci : 19/04/1986
Miejsce śmierci : Wau/SSD

Scrivendo da Wau a p. Santandrea il 19 ottobre 1985, p. De Giorgi si esprimeva come un esule che ha rivisto la patria o del naufrago che ha finalmente raggiunto la sponda. “Mi sento legato indissolubilmente al beneamato Bahr el Ghazal, sempre a me presente, nella mente e nel cuore, dal giorno del decreto di espulsione... Sono stati per me oltre 20 anni di desideri e di domande insistenti e respinte, di dispiaceri intimi e profondi, noti solo al buon Dio e all’interessato... Sembrava davvero che, non il Sudan solamente, ma tutta l’Africa comboniana fosse per me irrimediabilmente perduta... Invece, arrivato a Wau, ho solo da rispondere ai complimenti dei confratelli: ‘Prego, il piacere è tutto mio!’. Ma ecco che solo dopo una decina di giorni di permanenza, la malaria, che avevo quasi dimenticata, balza fuori improvvisa e prepotente. Misuro la febbre con il mio termometro di precisione. P. Penzo non crede ai suoi occhi e va a prendere il suo di fiducia... 42 gradi centigradi e per due giorni di seguito. Mi sento trasformato in un blocco di fuoco. Fortuna che ero alquanto avvezzo. Durante la seconda febbre nera a Raga ci ero arrivato quasi vicino: 41 e 6... Caro padre, può bene immaginare la triste impressione e disillusione in tutti. Il provinciale mi spedisce immediatamente a Nairobi, via Juba, per ulteriori accertamenti medici e relativa convalescenza. Un medico italiano, specializzato a Roma in malattie tropicali, mi fa ricoverare in ospedale per un giorno sotto stretta e vigile attenzione personale. Poi mi dimette dicendomi che mi aveva fatto ricoverare per misure precauzionali avendo egli paura di un collasso cardiaco per mancanza di globuli rossi. Il primo a riderne fui proprio io. E lui: ‘Le consiglio di cambiare aria e di non tornare più a Wau. Lei ha perduto l’immunizzazione’. Gli risposi: ‘Sarebbe, questa, una sentenza di morte?’. E ci lasciammo. Il peggio venne dopo quando i confratelli di Wau volevano rimandarmi al mittente, per via del verdetto medico. Vissi giorni e ore di autentica agonia al limite del collasso e della disperazione. Benché da 80 chili fossi passato a 65, lottai contro tutto e contro tutti con la forza della disperazione, e sono ancora vivo tra i vivi per dare grazia al solo buon Dio che aiuta i meschini. Se dovessi esprimere a parole quello che ho sofferto in quei giorni a Nairobi, dovrei dire che provavo come se una ruvida e callosa mano di facchino mi premesse il cuore. Arrivato a Wau non mi aspettavo tanto lusso di vivere in città, mai pensata e mai desiderata, tanto più che ero assegnato a Raga con p. Polacchini e p. Tosello. Malesh! Allah è ugualmente misericordioso”. Questa lettera, se ci mostra un missionario veramente innamorato della sua missione usque ad mortem, serve anche a “discolpare” i superiori dall’accusa di aver permesso ad un confratello di andare nel posto dove già negli anni giovanili aveva rasentato più volte la morte per i forti attacchi di malaria e di febbre nera. Ai parenti che gli avevano scritto di tornare, rispose: “Questa è la vita del missionario... Quanto alla mia età, io non conto mai i miei anni. In cielo c’è un Ragioniere che sa fare bene i conti. Non diamogli fastidio!”.

Lottatore... per vocazione

Studiando i carteggi di p. De Giorgi, dobbiamo ammettere che la lotta fece parte integrante della sua vita. Nato a Cavallino di Lecce il 21 giugno 1914 da una famiglia benestante, dimostrò fin da piccolo, propensione alla vita sacerdotale. Dopo le prime tre elementari al paese, dovette andare a Brindisi per la quarta e la quinta. Non volendo essere di peso alla famiglia che lo ospitava, si prestava per i servizi più umili. Frequentò le medie e il ginnasio nel seminario di Lecce; passò quindi nel seminario regionale di Molfetta, ben noto ai comboniani, per il liceo. Ragazzo entusiasta e ardente, capì subito che la sua strada non era quella del prete diocesano, bensì quella di “cittadino del mondo”, come lo hanno definito i suoi compaesani. Terminata la prima liceo, Luigi fece domanda di entrare tra i comboniani. Le referenze dei superiori e del parroco furono ottime, per cui il giovane venne subito accettato. A questo punto, però, in famiglia si scatenò il putiferio. Luigi non si sgomentò e, mettendo in atto uno stratagemma, riuscì a lasciare la casa e a giungere fino a Venegono dove c’era il noviziato. Papà Federico scrisse ai superiori una lettera in questi termini: “Cavallino, 26 settembre 1930. Molto R. Padre, con somma sorpresa e, nello stesso tempo, con sommo rammarico debbo farle sapere che la partenza di mio figlio De Giorgi Luigi ha introdotto nella mia famiglia il massimo dei dispiaceri. Mia intenzione era quella non di farlo preparare per le missioni estere, ma invece, come egli ha sempre detto, per le missioni che si tengono all’interno della nostra Italia. La preparazione per le missioni estere mi è stata comunicata dopo la sua partenza. Se l’avessi saputo anche un minuto prima della partenza, l’avrei fatto tornare al suo paesello a confortare la mamma sua la quale non avrà pace finché non lo vedrà vicino a lei. Per i miei, non vi è più concordia; chi piange da una parte, chi si dispera dall’altra, ed io, povero padre di 70 anni, sono costretto ad assistere a scene che solo il Signore sa. Perché debbo passare gli ultimi anni della mia vita in mezzo a tanti dispiaceri? Quindi lei, Reverendo Padre, avrà la cortesia di far ritornare mio figlio al più presto possibile al luogo da cui è partito. E se per ipotesi il ragazzo dovesse mettere delle opposizioni, lei farà di tutto per convincerlo in modo che al più presto possa ritornare a casa per portarvi la pace, quella pace che non esiste più da qualche tempo in qua. Mia grande consolazione è quella di vederlo sacerdote di Dio, ma se il ragazzo si sente poi effettivamente portato per uno stato così alto e sublime qual è lo stato missionario, potrà benissimo soddisfare questa sua vocazione non appena potrà disporre della sua volontà, cioè appena raggiunti i 21 o 22 anni. Ritorno nuovamente a pregarla che, con urgenza faccia ritornare mio figlio e mi faccia sapere a quanto ammonta la spesa che il ragazzo ha sopportato durante il soggiorno a Venegono e, nello stesso tempo, anche la spesa del viaggio. La soddisferò con la massima urgenza. Il mio scritto, sono sicuro, suonerà male al suo orecchio gentile, ma creda che non voglio a nessun costo che per causa di mio figlio sia strappata la pace della mia famiglia, quella pace che io, in qualità di padre, sono nel dovere di tutelare...”. Per capire questa lettera, occorre tener presente che il papà e la mamma riponevano nel figlio Luigi “rosee speranze di carriera locale”. Per di più, proprio in quel tempo, anche la sorella Cesira aveva abbandonato la famiglia per entrare nel monastero delle suore benedettine cassinesi di clausura di Lecce. Dice il parroco di Cavallino: “Con la partenza di Luigi crollavano per la famiglia i progetti umani, che non coincidevano con quelli divini accettati dal figlio. Mamma Rosa soleva ripetere: ‘Io dono a Dio il mio figlio perché sia un sacerdote per la nostra gente, non per i Neri dell’Africa’. Questo determinò la risoluzione di mandare papà Federico e la sorella Maria a prelevare anche con la forza il figlio da Venegono”.

Due anni di attesa

Il padre maestro rispose alla lettera del papà dicendo che Luigi stava finendo gli esercizi spirituali per cui bisognava attendere prima di parlare. In data 1 ottobre 1930 il vecchio padre riprese la penna in mano: “Mi dispiace immensamente che non abbia parlato con mio figlio. Speravo che lei si fosse commosso alle mie parole riferentesi alla delicata salute di mia moglie ed al grande dispiacere che domina i miei per i quali non vi è né pace, né gioia. Cosa farebbe lei al mio posto? Io vecchio di 70 anni scrivo con le lacrime agli occhi pensando che un figlio abbia potuto agire in quella maniera! Finiti o non finiti gli esercizi spirituali, parli a mio figlio e lo faccia entrare in seminario diocesano per continuare i suoi studi. Il seminario riapre il 12 corrente mese. Domenica stessa, infallibilmente, attendo il telegramma che mi annunzi l’ora in cui Luigi arriva alla stazione di Lecce. Da mio figlio non aspetto nessuna decisione. Non mi costringa a venire personalmente, perché mi dispiacerebbe. E non mi costringa ad agire in altri modi a cui non sono solito. Le ripeto che non aspetto più lettere, aspetto il telegramma in cui mi viene detta l’ora del suo arrivo. Per l’affare della vocazione, Luigi è ancora un ragazzo in cui la fantasia non pondera le cose come necessariamente dovrebbero essere ponderate”. La situazione era alle strette, tanto che finì di fronte al vescovo di Lecce. Scrivendo ai missionari in data 8 ottobre 1930, il Cancelliere diceva: “Stamane ho fatto venire in episcopio, alla presenza di S.E. Monsignor Vescovo il padre di De Giorgi insieme al parroco di Cavallino. Monsignore, con parola persuasiva e insinuante è riuscito a calmarlo. Egli, quindi, è contento che il figlio resti in religione; solo desidera, siccome la madre è in grande preoccupazione, che il ragazzo scriva di proprio pugno in famiglia e dica di essere contentissimo e che a nessun costo si deciderà a tornare, e che egli ha abbracciato questo stato di vita esclusivamente per sua decisa volontà, e che la madre si metta l’animo in pace e non attiri sulla famiglia le maledizioni di Dio ostacolando una vocazione. Mi saluti il Rev.mo p. Vianello, De Giorgi, Errico e De Tommasi ai quali Monsignore manda ancora la sua pastorale benedizione. Con i più distinti ossequi, mi creda Sac. Oronzo Bello”. A quanto pare le “maledizioni di Dio” non impressionarono la madre. Padre Sosio, compagno di noviziato di De Giorgi, dice: “Avevamo cominciato insieme, ma poi Luigi dovette uscire per motivi familiari”. Infatti, solo il 14 agosto 1932, due anni dopo le battaglie sopra menzionate, “I genitori De Giorgi Federico e Niccoli Rosa del giovane seminarista aspirante alla vita missionaria nella congregazione dei Figli del Sacro Cuore, per le missioni dell’Africa centrale, danno il loro libero consenso al figlio di seguire la propria vocazione”. La firma è autenticata dal podestà del comune di Cavallino.

Destinazione Sudan

Rientrato in noviziato a Venegono il 18 dello stesso mese di agosto, Luigi vestì l’abito dei comboniani il 7 ottobre ed emise i Voti due anni dopo: 7 ottobre 1932. Negli anni 1933-1937 frequentò la seconda e terza liceo, più la prima e seconda teologia presso il seminario diocesano di Venegono Inferiore. Per il terzo e quarto anno del corso teologico fu nel seminario di Verona. Qui, il 16 aprile 1939 venne ordinato sacerdote. Partì subito per l’Africa. Mboro, Raga, Kayango lo videro attivissimo, dal settembre del 1939 all’agosto del 1946. Erano gli anni della guerra con le restrizioni che essa imponeva ai missionari e alle missioni. P. De Giorgi, inoltre, fu subito aggredito da forme violente di malaria che lo portarono più volte sull’orlo della tomba. Mai che abbia detto qualcosa contro il clima che non si confaceva alla sua salute. Era un duro: voleva resistere ad ogni costo. “Non era solo un confratello - scrive p. Polacchini - ma un grande amico, un autentico missionario comboniano che ha tanto amato la missione e per essa ha dato tutto. Missionario molto zelante. Quanti safari, quanti chilometri in bicicletta per visitare i fedeli. Il Signore gli ha dato la possibilità e la gioia di amministrare migliaia di battesimi. Sua unica occupazione e preoccupazione: annunciare il Vangelo ad ogni creatura. Il testamento di Cristo era il suo programma di vita, per il quale valeva la pena resistere fino alla morte... Il fatto che il Signore gli abbia concesso di chiudere la sua giornata sul suo primo campo di lavoro e di fatiche apostoliche è, per me, un segno, un premio”. “Sabato 5 maggio - scriveva da Mbili nel 1951 p. De Giorgi -, verso sera un terribile uragano ci portava via tutte le lamiere del tetto del granaio, metà tetto della casa e due lamine della chiesa, sconquassando un dormitorio appena costruito e rovinandone altri. Ora ci siamo sistemati alla meglio, ma siamo sempre con il cuore sospeso allo spirare di qualsiasi vento. Quello che mi dispiace è che i catecumeni sono rimasti senza tetto. Poveri ragazzi! Sono in un dormitorio piccolo e fanno scuola seduti per terra. Sono più di cento. Speriamo che il Signore ci venga in aiuto, perché siamo mal piantati”. Questa era la vita del Padre e dei suoi confratelli in quel periodo: scuola, catechismo, lotta quotidiana per tirare avanti una missione difficile. Ma il tutto affrontato con grande generosità.

Il richiamo

Dopo 7 mesi come propagandista a Troia (novembre 1946-1uglio 1947), p. De Giorgi fu inviato a Londra per lo studio dell’inglese. A Dawson Place coprì anche la carica di vice-superiore ed economo. Vi rimase fino all’ottobre del 1948. Nel dicembre del 1948 lo troviamo a Bussere, poi a Kayango, a Mbili, a Gordhim e Dem Zubeir. P. De Giorgi doveva sempre lottare contro i soliti malanni, e ora anche contro un disturbo al cuore. “Siamo sempre nelle mani di Dio, sia di giorno che di notte”, scriveva ai parenti in questo periodo. Ciò nonostante poté apprendere alcune lingue africane in modo approfondito tanto da essere in grado di penetrare a fondo la mentalità degli africani e capirne gli usi e i costumi. Raccolse parecchio materiale etnografico, pubblicò anche vari scritti di indubbio valore scientifico. Ricordiamo, per esempio “Culto dei gemelli nel Sudan meridionale”. Si adoperò con impegno nell’attività scolastica, nell’alfabetizzazione e nella promozione umana. Quando dovette rientrare in Italia per salute, nel novembre del 1963, in Sudan si respirava già aria di tempesta. “Ero uno dei pochissimi fortunati – scrisse - che avevano ottenuto il permesso di rientrare. Lasciai Dem Zubeir alla fine del 1963 con l’accordo di ritornarvi per l’aprile del 1964. Ma il Governo di Khartoum sapeva bene quello che intendeva fare”. Infatti, invece di ritornare in Sudan come pensava, dovette assistere all’esodo in massa di tutti i confratelli. Ogni speranza di rientro sembrava svanita per sempre.

In Ecuador

Dopo un paio d’anni di ministero a Verona, in casa madre e San Tomio, p. De Giorgi, cominciò a scalpitare per tornare in missione, in qualsiasi missione, anche fuori dall’Africa, visto che là era impossibile andarvi. Il cuore nel frattempo si era messo a posto. P. Cervetto gli aveva fatto una profezia. La riporta lo stesso p. De Giorgi: “Mi disse: ‘Vai in Ecuador; là farai del gran bene. Non ci sono andato io quando, dopo la laurea in matematica pura, vinsi il concorso di direttore di banca a Quito, e già studiavo un po’ di spagnolo, ma subito dissi addio a quella cuccagna e alla fidanzata ed entrai nel noviziato di Savona. E l’Africa fu la mia patria”. P. De Giorgi partì per l’Ecuador nel novembre del 1965. Lavorò in nove missioni: Las Palmas, Santa Maria de Los Cayapas, San Lorenzo, Muisne, Esmeraldas, Quinindé. Adottò il sistema africano: visite ai villaggi, saper “perder tempo” con la gente, distribuire medicine e buone parole, predicare il Vangelo e amministrare i sacramenti. Finché gli toccò questa vita “di selva” tutto filò benissimo. I guai cominciarono quando i superiori, dopo una breve vacanza in Italia nel 1972, gli affidarono l’ufficio di superiore ed economo del Collegio Sagrado Corazón di Esmeraldas... “fino al ritorno di p. Marro. Che ritorni presto, al più presto!” scrisse. Il lavoro sedentario proprio non gli si confaceva: “Non mi sento l’uomo giusto e adatto per l’ufficio che mi hanno affidato attualmente i superiori. Lo sanno e l’ho detto. Ci sono altri più adatti di me e di più valore. Il mio solo desiderio: mi lascino lavorare in una missioncina, anche come coadiutore, secondo le mie forze e possibilità. Mi sento negato per qualsiasi ufficio. Se torno in Italia è pure peggio: l’ambiente dei contestatori e dei missili mi soffocherebbe”. Tuttavia, a detta dei missionari di Esmeraldas, p. De Giorgi svolse bene e con competenza il suo compito. Egli però si sentiva sempre un esule in terra straniera e molte lettere scritte al Superiore Generale lo dimostrano. L’8 giugno 1984 p. Calvia gli diede una notizia che lo fece sobbalzare: “Avrà saputo che i suoi compagni di ventura, i pp. Tosello e Tanel con Fr. Marangio hanno finalmente ottenuto il permesso di entrare nel Sudan meridionale... Conoscendo il suo desiderio di tornare in Africa, può venire in Italia per un po’ di vacanza e poi andrà in Kenya e di là tenterà di ottenere il permesso per il Sudan”. Pur di andare in Africa, p. De Giorgi si era dichiarato disposto ad imparare una nuova lingua, anche se non era più un ragazzino.

Morire tra i suoi

“In agosto del 1984 - scrive p. De Giorgi - lasciai El Carmen (Ecuador) senza davvero ‘torcer los ojos’. Da un punto di vista umano avevo tutto da perdere perché in Ecuador mi sono trovato veramente bene sotto tutti i punti di vista, eccetto quello del... cuore che continuava a battere per l’Africa”. Giunto in Italia, p. De Giorgi si preoccupò di preparare molto materiale da portare in Sudan. Scrive un suo compaesano: “Imbarcò dal porto di Genova numerosissime casse colme di attrezzi chirurgici e di medicinali, donatigli da medici che, pur non avendo troppa dimestichezza con la religione, apprezzavano l’uomo e il sacerdote che si donava totalmente. Personalmente, p. De Giorgi partì poverissimo: un unico paio di scarpe di gomma, un vestito vecchiotto e altra poca roba. Aveva con sé, e se li teneva cari, i suoi scritti di letteratura antropologica e di studio sulle lingue africane. Forse intuiva che non avrebbe fatto più ritorno. Nel periodo che fu a Cavallino amava cantare spesso la canzone che dice: “Prendimi per mano Dio mio, guidami nel mondo a modo tuo; la strada è tanto lunga e tanto dura, però con te nel cor non ho paura”. Il parroco fa eco: “Anch’io mi permisi di consigliarli, senz’altro in nome dello spirito del Male, di non andare in missione data l’età avanzata. Egli ammutolì e quasi corrucciato mi ripeté le parole di Gesù a Pietro: ‘Va’ lontano da me, Satana, perché mi sei d’inciampo’. Poi mi fece capire quanto fosse importante per lui realizzare fino in fondo la sua vocazione... Sì, ogni volta che p. Gino veniva a Cavallino, quattro volte in 18 anni, per il paese era come un corso di esercizi spirituali”. Dopo la morte del padre, il parroco scriverà: “Caro padre Gino, con la tua vita e con la tua morte non hai evangelizzato soltanto i Neri dell’Africa, ma anche noi”. Passando dalla Somalia e dall’Etiopia, p. De Giorgi scriveva: la siccità è grande e dura da più di due anni. La terra si è spaccata e per chilometri non si vede un filo d’erba. La gente è in cerca di zone più sicure, ma la sete è grande”. E in un’altra lettera: “Sono partito da Roma per il Kenya ai primi di ottobre del 1984 e sono andato a finire a Kapenguria. P. Cefalo, di ritorno dall’Italia, consegna la mia documentazione all’ambasciata sudanese a Nairobi. L’ufficiale mi scruta; io ricambio lo sguardo finché abbassa gli occhi. Tutte le ambasciate hanno la lista delle malefatte degli espulsi, onde per cui... fitte tenebre e nient’altro. Faccio pregare i miei amici del santuario di Savona. A un mese preciso dal mio SOS arriva l’annuncio che ho via libera per il Sudan insieme a p. Felix e fr. Zonta. A fr. Vincent rubano il mio passaporto, rinnovato a Quito. I telex si incrociano... Sembra proprio che in quel benedetto Sudan io non debba andarci. Contemplo fr. Zonta, p. Felix e p. Tessitore che partono. Io resto. Se non sono morto di infarto in quell’occasione è stato un vero miracolo... Qualche ora dopo, mi si riconsegna il passaporto nuovo. Finalmente lascio Nairobi per Juba con la Sudan Air Way. Dopo qualche giorno di attesa a Juba, p. Mazzolari noleggia un piccolo aereo per me e per p. Tessitore... Troppa grazia sant’Antonio mio! E sono a Wau”. Era il 5 maggio 1985. Il resto ci è noto: dopo 10 giorni comincia la lotta contro la malaria con ricovero a Nairobi e ritorno in Sudan “in barba al parere contrario del medico”. Nel luglio del 1985 p. De Giorgi scrive ai suoi: “Il Sudan è ancora in fiamme. Il Governo di Khartoum spende un milione di dollari al giorno per le sole truppe dislocate nel Sudan meridionale. Noi viviamo di terrore, ma restiamo al nostro posto per una causa grande, quella stessa di Dio e delle anime”. E nel febbraio-marzo 1986: “Wau è al centro della guerriglia. Al primo colpo di fucile scappano tutti. La città diventa un cimitero. Povera gente! Siamo nelle mani di Dio... Se non hai mie notizie non stare in pensiero. Io resto al mio posto, fra la mia gente, dove la mia presenza è necessaria. Capiti quel che capiti. Che il Signore salvi il Sudan, popolo e Paese. Forse è questa la via che porta alla salvezza eterna. Chi conosce i piani di Dio?”. È questo il testamento di p. De Giorgi. In un’altra lettera esprimeva tutta la sua amarezza perché una comunità di missionari canadesi aveva abbandonato Wau. “Io rimango qua, nella mia famiglia dei Neri, accanto al mio vescovo, in prima linea per soccorrere i feriti, confortare i moribondi e seppellire i morti... Sono comboniano”. Il 12 febbraio 1986, scrivendo a p. Pistolozzi, diceva: “Sia per l’Uganda che per il Sudan c’è davvero da ripetere con Papini: ‘Il cristianesimo è uno strano frutto che cresce bene solo sull’albero della croce’. Fidiamoci di Dio: non ha mai deluso”.

Il carisma del Comboni

Scrive p. Mazzolari: “P. Luigi De Giorgi è morto a Wau il 19 aprile 1986. Dopo essersi lamentato per diversi giorni causa stanchezza e inappetenza (questa è la stagione più calda dell’anno) fu visitato dal dottor Francesco Torta, italiano, che poi lo volle assistere fino alla morte con amore di figlio. Il 13 aprile il dottore, avendo riscontrato i segni della malaria, iniziò la cura adatta. Era assistito da p. Penzo, superiore della missione di Wau e da p. Pacifico. Purtroppo la febbre continuò a salire. Le medicine non giovavano affatto al malato. A mezzogiorno del 14, lunedì, il padre entrò in coma e vi rimase fino alla morte che giunse alle prime ore del 19”. Fr. Marangio, già traballante per le pessime condizioni di salute, volle preparargli la bara. Sarebbe stato il suo ultimo lavoro. La malattia di p. De Giorgi aveva radunato tutto il personale della Chiesa di Wau. Le suore, a turno, avevano vegliato giorno e notte il malato. La sua sofferenza aveva fatto di tutti una sola famiglia. I funerali ebbero luogo il giorno stesso. Davanti alla folla dei fedeli, anziani e giovani, Mons. Nyekindi, vescovo di Wau, ha detto di non pensare che p. De Giorgi sia morto lontano dalla sua casa e dai suoi cari, ma di credere che egli è morto tra i suoi e in Sudan, perché questa era la sua vera casa e i Sudanesi erano i suoi familiari. Fu sepolto nel cimitero di Wau, dietro la tomba di p. Tessitore e tanti altri grandi comboniani come Giosuè Dei Cas. P. De Giorgi è amato e stimato dalla gente del Bahr El Ghazal come un vero “padre”. Da vero padre egli si dimostrò disposto a dare la vita per il suo popolo. “Tutto il Sudan - aveva scritto poco prima della morte - e il Bahr El Ghazal in particolare meritano tutto il nostro incondizionato amore e la nostra vita”. P. De Giorgi era noto per il suo atteggiamento di semplicità evangelica. Era uno che guardava perennemente in avanti e non perdeva tempo sul passato. “Uomo proteso in avanti” (p. Penzo); “Uomo che amava essere tra i cristiani per catechizzarli e dare loro i sacramenti. Uomo veramente povero e distaccato dalle cose di questo mondo” (fr. Marangio). Un uomo che viveva da solo la maggior parte delle sue sofferenze, sia fisiche che spirituali e non permetteva a nessuna pena di ostacolare il quotidiano dovere di sacerdote e di missionario. Un uomo che dimostrò sulla sua pelle come il carisma comboniano non è una prerogativa esclusiva del fondatore, ma un dono alla Chiesa condiviso da un’intera famiglia di cui p. De Giorgi era membro genuino e generoso. Nessuna difficoltà poté diminuire il suo totale zelo. Egli visse la realtà della croce con fede e generosità fino alla fine. Da p. De Giorgi ogni comboniano ha da imparare l’amore e l’attaccamento alla vocazione e alla missione fino all’ultima scintilla di vita. In questi momenti tragici per il Sudan meridionale, possiamo invocarlo come un potente intercessore. Solo dall’alto, infatti, possiamo sperare che arrivi la salvezza per quella terra che gli fu tomba e altare. P. Lorenzo Gaiga

Da Mccj Bulletin n. 151, ottobre 1986, pp.47-54