I missionari sono come le “sentinelle del mattino”, perché vivono ai confini geografici, sociali, culturali, ambientali, politici…

 

roprio perché, per vocazione, vivono situazioni di limiti, i missionari riescono a cogliere i segni premonitori dei tempi e sono sempre pronti a cercare delle risposte alle sfide epocali, come anche oggi in questa crisi che tocca tutti gli aspetti della convivenza umana, sociale, ambientale, religiosa e finanziaria…

I missionari, però, non sono tutti uguali; difatti ci sono quelli che creano eventi, a volte carismatici, sorprendenti e originali allo scopo di scuotere l’immaginario degli altri, provocarli e stimolarli per uscire dagli schemi stereotipi; altri invece vivono la loro fedeltà alla missione nella quotidianità, nella semplicità della testimonianza e nel nascondimento.

Questi due modi di affrontare le sfide sono ambedue necessari e non devono essere contrapposti, anzi devono articolarsi sempre più – meglio se si realizzano nella vita di ogni missionario – mettendo bene a fuoco prima di tutto l’obiettivo della missione, che è quello di promuovere la vita in abbondanza per tutti, soprattutto per i poveri; in secondo luogo creare fraternità universale, tessendo quella rete di rapporti umani, sociali, interculturali per superare ogni frammentarietà e autoreferenzialità e tendere al progetto del Dio di Gesù Cristo che vuole formare una unica e grande famiglia universale.

Il più grande equivoco per un missionario – laico o consacrato, uomo o donna, giovane o anziano – è quello di pensare che sia il luogo geografico a determinare il suo impegno, l’intensità e la qualità della sua azione; oppure pensare che per raggiunti limiti di età, per circostanze varie possa ritirarsi a vita privata e in un certo senso pensare che la “sua” missione sia compiuta.

Il missionario sa che la vocazione è un dono e per questo rimane tale sempre e dovunque: in Africa, in Asia, in America, in Europa;  solo che a differenza del passato deve tenersi allenato a vivere e a pensare sempre più in un contesto di missione globale.

 Un osservatorio per la Missione

C’è un unico modo per poter cogliere la sfida della missione globale: fermarsi e riflettere, cercando di articolare sempre più dialetticamente la “missione vissuta” e la “missione pensata”, per non lasciarsi sorprendere.

Nell’ultima Lettera Enciclica, Caritas in Veritate, Benedetto XVI afferma: “Il fare è cieco senza il sapere e il sapere è sterile senza l’amore” (n. 30).

Per questa ragione tra le tante iniziative promosse dalla Famiglia Comboniana, i missionari europei organizzano dei simposi di riflessione teologica, biblica e pastorale alla ricerca di nuove strade per un rinnovato impegno nella missione globale rivisitando il carisma comboniano. L’iniziativa è già alla sua 4a edizione e sempre più si avverte l’urgenza e la necessità di allargare la cerchia dei partecipanti, soprattutto giovani, laici e laiche, membri della famiglia comboniana e di altre forze missionarie.

Seguendo la genuina tradizione comboniana, in un luogo carico di senso e ricco di simbolismo carismatico come è la casa natale di San Daniele Comboni a Limone sul Garda, i simposi vogliono promuovere un movimento missionario secondo un nuovo paradigma per la missione globale.

Molti aspetti e temi sono stati affrontati, come per esempio l’ermeneutica nell’approccio della vita e degli Scritti di Comboni; la necessità di riformulare il nostro impegno in Europa, promuovendo una presenza e azione missionaria piuttosto che animazione missionaria, in altre parole mostrare e non solo raccontare la missione. La questione del linguaggio non più adeguato a parlare e farsi comprendere dai giovani e dal mondo laico di oggi, per esempio il termine “ad gentes” cercando di superare la questione etnica e geografica del termine, definendolo piuttosto come il nuovo spazio sociale e culturale nel quale i missionari devono inserirsi. Il termine “ad vitam”, come l’impegno a saper promuovere i valori della vita, soprattutto dove questa è disprezzata e vilipendiata. Il termine “ad pauperes” come urgenza e necessità di scegliere uno stile di vita sobrio e solidale con  e tra i poveri. Il termine “ad extra” soprattutto come impegno di promuovere e educarsi a rapporti interculturali e interreligiosi fecondi e segno di fraternità già in atto nell’oggi della storia.

Il cammino percorso fino ad oggi ha anche sottolineato l’importanza di approfondire la spiritualità cristiana e missionaria che deve sostenere e alimentare la prassi dei missionari e delle missionarie nella missione globale, tema che sarà preso in considerazione nel prossimo simposio del 2010.

Nell’occhio del ciclone

Alcuni lo avevano previsto ed avevano dato l’allarme: le scelte  nel campo della finanza e dell’economia che da decenni venivano fatte a livello mondiale ci avrebbero travolto. Come un gigante dai piedi d’argilla l’impero economico costruito su marchingegni e macchinazioni virtuali e speculative, come una bolla di sapone, si sarebbe evaporato; facendo finta spudoratamente di non sapere che la ricchezza è frutto di lavoro e del sudore della fronte, quello reale,  di milioni di operai, agricoltori, tecnici, professionisti e lavoratori di ogni continente.

La ricchezza inoltre accumulata ingiustamente nelle mani di poche élites con la pretesa di trarre il massimo profitto e escludere intere popolazioni, negando loro i fondamentali diritti e l’accesso ai beni di prima necessità avrebbe provocato rivolte, rabbia, guerre e tensioni, minando così la speranza del futuro.

Tra i tanti lavori che sono stati pubblicati in questi ultimi tempi a proposito della crisi, ne sono apparsi  due nella editoria alternativa e quella missionaria: il sussidio di Francuccio Gesualdi (L’altra via, dalla crescita al benvivere, per un’economia della sazietà. Terredimezzo, Collana altra economia, 2009); l’altro di Giulio Albanese : (Ma io che c’entro? Il bene comune in tempo di crisi. Edizioni Messaggero Padova, 2009). Il primo traccia in una maniera didattica la genesi della crisi, come affrontarla e i mezzi possibili da adottare. Il secondo sottolinea le conseguenze nefaste sulla vita dei popoli del Sud del mondo e invita ad un rinnovato impegno al dialogo, all’educazione alla mondialità, alla promozione della pace e alla decrescita come mezzi per uscirne.

Tutte proposte e iniziative semplici e alla portata di tutti, certo non nella direzione dei potenti, dei G8 e dei G20 che continuano a fare calcoli, emanare decreti, promuovere leggi e iniettare fondi per cercare di mantenere in piedi quel sistema economico e finanziario che ormai fa acqua da tutte le parti e  purtroppo continua a generare sofferenza, disoccupazione  e precarietà per milioni di lavoratori, la chiusura di tante piccole imprese e soprattutto non risolve il problema della fame di un miliardo di persone nel mondo, così come ci ha ricordato recentemente la FAO.

In realtà però la crisi economica  è solo la punta dell’iceberg perché è più giusto parlare di crisi sistemica, nel senso che attinge tutto il sistema vitale e ambientale, il rapporto interculturale e interreligioso tra i popoli e le nazioni, tutto il modo di concepire la convivenza umana e tutta la gamma di valori etici, morali, sociali, religiosi e culturali, che di per sé costituiscono la vera ricchezza dei popoli e ai quali bisogna far ritorno per costruire insieme un futuro sostenibile.

Nell’ultimo simposio di Limone (29 giugno – 2 luglio 2009) è stato chiesto ai partecipanti di presentare un’immagine della crisi, così come ognuno la percepiva. Tra l’altro la crisi è stata descritta come “uno tsunami”, “una purificazione”, “una sanguisuga”, “l’io al posto di Dio”, “il crollo di un’illusione”, “lo smascheramento degli idoli”… tutte immagini che aiutano a identificare il fenomeno e sottolineano che i missionari, senza paura devono prenderla sul serio.

Tra tutti i segni dei tempi questo è il segno per eccellenza dell’inizio del terzo millennio, segno che scuote le fondamenta di argilla di questo sistema globale e che svela le sue contraddizioni soprattutto nella sua caparbietà ed egoismo a mantenere intere popolazioni in condizioni di non-vita. Allo stesso tempo diventa un’opportunità perché provoca la necessità di riformulare un nuovo paradigma mondiale per la convivenza pacifica e fraterna tra i popoli. Un’opportunità per la missione che deve partire proprio dall’occhio del ciclone per rinnovarsi e far crescere la speranza tra i poveri nell’ottica del progetto di Dio che vuole costituire un unico popolo di “ogni lingua, razza, etnia e nazione”.

Una bussola per orientarsi

Sono fondamentalmente tre i parametri per vivere la missione in tempo di crisi, che compongono la bussola per orientarsi nella rotta da seguire: la prassi missionaria di Gesù storico, la re-interpretazione dei carismi fondazionali e la lettura attenta dei segni dei tempi.

Ritornare alla prassi missionaria di Gesù storico diventa un imperativo per il rinnovamento della missione, soprattutto tenendo presente due condizioni: leggere e interpretare la Parola nelle varie versioni evangeliche a partire dal luogo e dalle situazioni contestuali nelle quali sono state descritte e situate. In secondo luogo cogliere la novità della prassi di Gesù a partire dal suo dislocamento da Nazareth a Cafarnao, dalla terra dei suoi fratelli, piuttosto farisei osservanti, verso la città cosmopolita, dove la legge mosaica non ha tutto il peso che gli si dava a Gerusalemme, dove viene superata la distinzione tra puro ed impuro e la precettistica farisaica. Scegliere di vivere tra coloro che son considerati peccatori, esclusi, impuri e emarginati e rivolgere loro la grande novità del Vangelo chiamandoli  “Beati”.

Rileggere inoltre il carisma in un contesto sociale, ecclesiale, antropologico profondamente mutato; prima di tutto come forza che dà capacità di operare nell’oggi con la forza dello Spirito e in secondo luogo come una storia che va continuamente riletta e re-interpretata nella stessa prassi missionaria a seconda del tempo e dei vari contesti sociali e culturali dove i missionari vivono ed agiscono. La continuità tra l’evento carismatico del fondatore – come è stato spesso ribadito nel simposio – e l’evento del carisma della famiglia che ne è nata è di ordine storico-salvifico. In altre parole l’identità di un carisma di fondazione non è determinabile semplicemente in base alla ricostruzione storica del suo momento originario ma piuttosto come una re-invenzione da parte dello Spirito. Si può difatti sapere come quella storia è cominciata, ma non come si svilupperà. “Anzi la riappropriazione del carisma resiste ad ogni tentativo di esumare un  “corpo morto” che lo farebbe ineluttabilmente un oggetto del passato  - scrive B. De Marchi – e cesserebbe di essere un ‘vivente’ nello Spirito del Signore”. Del resto lo stesso Gesù, dal quale ogni carisma trae forza e origine ha detto ai suoi discepoli: “ È meglio per voi che io parta perché, se non parto, il Paraclito non verrà a voi” (Gv 16, 7).

Infine la lettura sapienziale dei segni premonitori dei tempi, soprattutto attraverso un atteggiamento di apertura e con occhi contemplativi, lasciandosi sorprendere dalla presenza dello Spirito che soffia dove e come vuole. La complessità della realtà stimola i missionari a non aggrapparsi spasmodicamente a quanto è stato codificato nel passato, né a riproporre approcci di lettura e di interpretazione stereotipati, ma senza remore, favorire la pluralità di vedute, di interpretazioni, creando spazi soprattutto a nuovi approcci per esempio quello interculturale, laicale e al femminile.

Creare discontinuità

I discepoli di Gesù come gli eredi di un fondatore carismatico particolare non sono chiamati a ripetere né a clonare le loro  parole, le loro gesta e le loro scelte. Gesù ed ogni persona carismatica difatti ci hanno lasciato un metodo di approccio alla realtà e alle sfide che si sono presentate nel loro tempo. Il metodo che ci hanno evidenziato si riassume in una sola parola: creare discontinuità, specialmente in un momento di crisi e di capovolgimento epocale.

L’espressione potrebbe generare subito rigetto e sospetto, se insieme alle modalità si vorrebbe disfarsi di tutto un messaggio contenutistico. Niente di tutto questo!

A titolo di esempio, Comboni non pretendeva rinnegare tutto l’amore di Don Mazza e di altri missionari del suo tempo per la causa dell’Africa e della missione, anzi proprio per l’amore all’Africa scrisse all’inizio del suo Piano: “…è d’uopo abbandonare il sentiero fino ad ora seguito, mutare l’antico sistema, e creare un disegno che guidi efficacemente al desiato fine” (S 809).

Con la stessa capacità di abbandonare il sentiero fino ad ora seguito, la Famiglia Comboniana è chiamata insieme a tutte le altre forze ecclesiali e missionarie a tracciare nuove piste e nuove linee operative.

Prima di tutto lasciar cadere la pretesa di scrivere un Piano, oggi non più richiesto dalla Congregazione per l’Evangelizzazione dei popoli, perché non c’è più delega e il soggetto della missione - ci ha ricordato il Concilio Vaticano II - è la stessa chiesa locale.

Inoltre non è concepibile scrivere un piano senza coinvolgere gli altri membri della Famiglia comboniana.

Infine non si può più pensare di scrivere un piano a senso unico, continuando a pensare al continente africano o ad altri continenti come oggetto delle nostre scelte missionarie, come se la famiglia comboniana fosse un corpo a parte o un drappello di esperti che devono dettare le condizioni per un lavoro missionario efficace.

La discontinuità deve manifestarsi soprattutto in questi due aspetti.

In primo luogo  rivedere l’idea della missione quella cioè che vuole concentrarsi solo in alcuni ambiti geografici o puramente etnici. Sarebbe veramente sterile ripetere la discussione della scelta dei popoli non evangelizzati o non sufficientemente evangelizzati, come già decreta la Regola di Vita dell’Istituto maschile (RdV 13), discussione immancabilmente rinnovata in ogni Capitolo generale. Se difatti si osserva la mappa degli impegni missionari della famiglia comboniana si constata che la maggior parte dei questi sono in realtà concentrati in contesti di chiese autoctone, già fondate, molte di esse ben costituite e coordinate da gerarchie locali.

Lì dove però i missionari e le missionarie hanno fatto la scelta di operare in situazioni nuove, come per esempio nei campi dei rifugiati, tra gli immigrati specialmente in Europa, tra i giovani che vivono di precariato e spesso disoccupati, nelle baraccopoli, nella lotta alla tratta delle donne in Europa come in altri continenti, tra i bambini e le bambine  di strada, nel recupero dei bambini soldato, nel mondo della comunicazione digitale,  nella formazione di comunità ecclesiali di incontro e di ascolto, di celebrazione e di lettura popolare della Bibbia, -   gli esempi potrebbero continuare -  ma questi sono sufficienti per comprendere che la discontinuità è già in atto. É necessario tuttavia che siano tolti gli ostacoli giuridici e istituzionali, anzi che vengano promossi a livello locale e proposti nel iter formativo dei candidati, senza dover giustificare scelte e prassi che non sono stati contemplati dai regolamenti ufficiali e pensati in altri tempi.

Una seconda discontinuità riguarda proprio la scelta preferenziale e non esclusiva per l’Africa.

Per la famiglia comboniana, l’Africa rimane un punto fondamentale per la vitalità del carisma. Qualcuno dinanzi alla missione globale, alle sue sfide e alle proposte operative si rinchiude e pensa che si voglia sottrarre forze e personale ed impoverire soprattutto la missione in Africa, tradendo la “primigenia ispiratio”.

Il problema però è tutt’altro!

È tempo non solo di accettare teoricamente che l’Africa con le sue chiese locali e con una risposta giovanile così evidente al ministero ecclesiale e consacrato anche per la Famiglia Comboniana, sia il soggetto della propria rigenerazione, soggetto di evangelizzazione per la stessa Africa e per altri continenti.

La discontinuità sarebbe reale se all’accentazione teorica seguisse anche quella affettiva ed effettiva.

La discontinuità per la scelta preferenziale dell’Africa nella famiglia comboniana sarebbe più evidente se da una parte si abolisse il regime di tutela  o di protettorato del continente, liberandolo dalla morsa dei cosiddetti aiuti e sussidi, spesso “avvelenati”; dall’altra credere e promuovere la leadership africana, mantenendo un ruolo sussidiario allo stesso tempo vigilante, interattivo e rispettoso; sostenendo una formazione di base e permanente adeguata e fornendo i mezzi e gli strumenti per una azione efficace a livello ecclesiale, ma anche a livello sociale e politico, sapendo che l’Africa con le sue ricchezze umane, di rapporti interpersonali , di fecondità,  di forza vitale, della gestione del tempo libero, del bello e della corporeità… ha molto da dire e da dare per uno sviluppo mondiale possibile e  sostenibile.

Il capitolo generale che l’Istituto maschile realizza proprio in questi mesi, per esempio,  sarebbe stato veramente “speciale” se si fosse realizzato a Addis Abeba o a  Kinshasa o a Kampala, non solo per marcare una discontinuità e scuotere l’immaginario, ma soprattutto perché è considerando la base dove sono piantati i piedi che si comprende la visione e le proposte per il futuro della missione comboniana.

Il coraggio di abbattere i muri

 Non solo quelli visibili che custodiscono le nostre abitazioni, spesso voluminose e per la maggior parte del tempo vuote, ma tirate a nuovo per garantire il confort, la quiete e il silenzio e che impediscono di immergersi nella realtà della vita quotidiana della gente; ma soprattutto i muri che abbiamo innalzato nei cervelli, quelli che impediscono di sognare e osare il futuro.

La riflessione che si sta sviluppando all’interno della Famiglia Comboniana tende ad ipotizzare un nuovo paradigma missionario, indispensabile per dare senso e fondamento alla prassi missionaria in un contesto globale. Il paradigma come ha ben sintetizzato Carmelo Dotolo, membro del Gruppo europeo di riflessione teologica e professore all’Urbaniana, alla fine del 4° simposio deve potere contare su alcune coordinate.

La prima riguarda il criterio ispiratore che è la storia messianica di Gesù e una conseguente visione di Dio. In questo quadro vanno ripresi e approfonditi alcuni simboli significativi della Famiglia Comboniana, per esempio il Buon Pastore, il Sacro Cuore, il cenacolo di Apostoli, le “pietre nascoste”, la Perla Bruna, le donne del Vangelo… proprio per il fatto che il carisma necessita di una re-interpretazione in rapporto alla realtà dell’oggi.

La seconda riguarda il metodo che deve partire dall’analisi sempre più pluralista non solo per i vari contesti nei quali i missionari e le missionarie sono inseriti, ma perché deve coinvolgere gli stessi destinatari e altri partners dell’evangelizzazione. Sempre più emerge difatti l’esigenza  di corresponsabilità e di reciprocità missionaria, a partire da due condizioni imprescindibili: l’inserimento nelle chiese locali e la scelta dei poveri.

La terza riguarda lo stile di vita. L’identità carismatica spinge sempre di più a formare cenacoli aperti e inclusivi, formati da uomini e donne, sposati e celibi, consacrati e laici, educandosi a rapporti interculturali in ogni continente come vere comunità apostoliche.

 In questo modo la Famiglia Comboniana contribuisce e costituirsi come uno dei segni dei valori del Regno in un tempo di crisi, attraverso la vicinanza alle domande della vita (ad vitam) e nella condivisione con coloro che vivono ai margini costretti alla emarginazione e all’esclusione (ad pauperes), con uno stile di vita fraterna e aperta alla diversità culturale.

Fernando Zolli, mccj

Fernando Zolli, mccj