Roma, sabato 10 settembre 2011
Ieri sera, 9 settembre, la comunità della Curia Generalizia dei Missionari Comboniani ha celebrato la solennità del santo patrono del nostro Istituto: san Pietro Claver. Durante la celebrazione Eucaristia – presieduta dal consigliere generale P. Antonio Villarino – è stata evocata la figura bella e generosa di questo grande santo missionario, che ha voluto essere “per sempre schiavo dei neri”. Così si capisce perché san Daniele Comboni ha voluto proporlo a tutti i suoi missionari come esempio luminoso di una vita spesa al servizio degli ultimi. Con P. Villarino ha concelebrato, tra gli altri confratelli presenti a Roma, P. Paolucci Torquato (nella foto a destra) che per l’occasione festeggiava il 50° anniversario di voti temporanei. Si è pregato anche per tutti gli altri confratelli che in questo giorno ricordano il loro anniversario di professione e consacrazione alla missione.
Pubblichiamo ampli stralci dell’omelia di P. Antonio Villarino.

Solennità di San Pietro Claver
Patrono dei Missionari Comboniani
Roma 2011


Omelia di P. Antonio Villarino
Assistente generale

L’anno scorso ho avuto la possibilità di visitare Cartagena de Indias, la città del Pacifico colombiano dove ha vissuto Pietro Claver per ben 44 anni.

Cartagena è oggi una città bellissima, brillante, molto ben curata, con un quartiere turistico di grande livello, belle spiagge e  modernissimi alberghi, dove si celebrano congressi e incontri di uomini d’affare di tutto il mondo. Ho potuto vedere a Cartagena, come pochi giorni fa a Chicago, Los Angeles o Heathrow (Londra), il mondo trionfante del nostro tempo: tanta ricchezza, tanto sviluppo tecnico, tanta eleganza e bellezza! In quest’ambiente, tutto questo viene considerato normale, desiderabile, buono. Attorno a questo grande sistema economico-sociale si muovono milioni di persone di tutti i paesi, culture e religioni, brava gente che vive più o meno bene, a secondo della loro vicinanza o meno al circolo centrale del potere economico.

Ma a Cartagena, fuori le mura del quartiere storico perfettamente curato e del quartiere turistico, espressione massima della modernità, ci sono anche popolatissimi quartieri di gente povera, migranti venuti da altre povere regioni della Colombia, in maggioranza afro-colombiani, che cercano di sopravvivere in condizioni di miseria e di malattie, con pochissimi soldi, in un ambiente di grande violenza domestica e urbana, con una dignità umana grandemente sminuita. Alcuni di loro riescono a godere un po’ delle briciole che cadono dalla tavola del sistema economico trionfante, senza peraltro poter partecipare in alcun modo ai benefici di questa cultura del profitto e del lusso; altri possono solo delle briciole delle briciole, cioè, vivono in condizioni subumane.

Anche nel tempo di Pietro Claver (anni 1600), Cartagena era un porto economicamente molto importante, con una società ricca che si sentiva padrona di una nuova società in crescita, una società che in completa buona coscienza sradicava con la forza milioni di esseri umani dall’Africa e li trasportava per nave in America in condizioni orribili. La società di Cartagena, anche la gente buona, non vedeva nulla di male in quella realtà: tutto era parte delle cose normali della vita, delle leggi dell’economia, di una società che si dava da fare. C’era tanta ricchezza da creare, c’era tutto un mondo da colonizzare e sviluppare, bisognava andare avanti, l’umanità non poteva fermarsi… Gli schiavi erano strumenti al servizio di quella visione grandiosa della vita. Qual’era il problema? – dicevano – Bisogna essere realisti.

La Chiesa era parte di quella società che andava a messa, educava i suoi figli nei valori cristiani, cercava i preti per confessarsi e superare i piccoli o grandi conflitti della vita a livello personale, familiare o sociale. Molti compagni gesuiti di Pietro erano buone persone, professori, parroci, confessori. Ma solo Pietro vedeva la sofferenza di quegli uomini e donne arrivati al porto più morti che vivi per facilitare la vita della città. Solo lui si curava di loro, solo lui dava loro frutta, medicine, una piccola coperta, il battesimo. Lo ha fatto per 44 anni con grande fede, perseveranza e capacità di sacrificio, anche se tante volte i suoi compagni non lo capivano e, meno ancora, lo appoggiavano. Ai loro occhi appariva piuttosto strano.

Riflettendo su Pietro Claver, penso a noi oggi e mi domando quale parte di Cartagena avremmo scelto noi: quella della normalità (dove stavano le scuole, le chiese, la buona gente) o quella degli schiavi, dove c’era tanto tanfo e sconforto, sofferenza inaudita e perfino tanta morte?

Anche Comboni, come Pietro Claver, ha scelto la parte di umanità che al suo tempo era considerata la più povera e abbandonata. Anche lui era un po’ strano. Perché scegliere l’Africa lontana quando c’era tanto da fare in Italia?

Ma Pietro e Comboni si comportano da discepoli del Maestro di Nazaret che presentò la sua missione con le parole profetiche di Isaia: “Lo Spirito mi ha mandato per annunziare ai poveri il lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione”.

Questo è il testo che l’ultimo Capitolo Generale ha scelto come testo base per il tema della missione. È lo stesso che troviamo nella Messa di san Daniele Comboni. È, quindi, importante per tutti noi comboniani.

Come per san Pietro Claver, per Comboni e per Gesù, lo Spirito ci spinge verso i poveri della nostra umanità. Come ai tempi di Pietro, di Comboni e di Gesù, non tutti capiscono questa scelta, neppure alcune persone di chiesa e, a volte, neanche molti dei nostri confratelli.

D’altronde, nella vita di san Pietro Claver, come in quella di Comboni, ci sono alcuni principi di metodologia comboniana, ripetuti anche nei nostri documenti. Ne vorrei rilevare tre:

  • È necessario traslocare, fare una scelta geografica e sociologica, prendere una decisione molto concreta per essere alla periferia con le vittime del sistema e non al centro. Senza perdersi in discussioni ideologiche o di altro tipo, appare chiaro che lo Spirito ci chiama, come ha fatto per san Pietro Claver e Comboni, a traslocarci verso i luoghi abitati dai più poveri. Questa è la prima decisione: essere, stare, appartenere, fare causa comune con loro.
  • È necessario andare “con le mani e i fatti” (portare frutta e medicine, inginocchiarsi accanto ai malati), secondo le parole di san Pietro Claver. La missione comboniana non è solo “evangelizzare”, nel senso di dire solo parole, anche se sagge e buone. La missione implica un coinvolgimento concreto nella vita dei poveri in tutte le sue dimensioni, cominciando dalla salute, dal lavoro, dall’educazione.
  • È necessario condividere l’esperienza di Dio, per quanto è possibile, nella loro lingua. La nostra missione ha una componente sociale imprescindibile, ma non finisce lì. Noi vogliamo cercare, assieme ai poveri, il Dio che è la sorgente della nostra vita, la fonte di ogni consolazione, l’energia che ci spinge sulla via della liberazione integrale, il Dio che è il Padre che ci sostiene e ci aspetta come meta finale della nostra vita.

Tutto questo lo stiamo celebrando in questa Eucaristia, memoriale del Signore Gesù e di tutti quelli che sono in comunione con lui, come san Pietro Claver e san Daniele Comboni.