Card. Tolentino presiede alla Messa della Festa di San Daniele Comboni alla Curia comboniana a Roma

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Lunedì 12 ottobre 2020
Il 10 ottobre 2020 Sua Eminenza il Cardinale José Tolentino de Mendonça, portoghese, chiamato da Papa Francesco a custodire la Biblioteca apostolica e l’Archivio vaticani, ha presieduto la celebrazione eucaristica della Festa di San Daniele Comboni presso la Curia Generalizia dei Missionari Comboniani a Roma. Il Card. Tolentino ci ha invitati a “tenere vivo il fuoco” e ha concluso con la preghiera “che san Daniele Comboni, pastore a immagine del Cuore di Gesù, ci ispiri oggi a vivere con autenticità e profezia la nostra vocazione e missione, tenendo vivo il fuoco dello Spirito che rinnova tutte le cose”.

«Tenere vivo il fuoco»

Omelia del Cardinale José Tolentino de Mendonça in occasione della Messa per la Festa di san Daniele Comboni alla Curia Generalizia dei Missionari Comboniani a Roma.

Una volta fu chiesto a un famoso scrittore che cosa avrebbe salvato se la sua casa o la sua biblioteca fossero bruciate e lui avesse potuto salvare solo una cosa. Tutti si aspettavano che scegliesse un oggetto a lui particolarmente caro o un libro prezioso ma lui rispose: “se potessi salvare solo una cosa, salverei il fuoco”. Papa Francesco ha già ripreso questa storia più di una volta per ricordarci che la cosa necessaria nella vita della Chiesa è “tenere vivo il fuoco, non adorare le ceneri”.

Oggi si celebra la festa di san Daniele Comboni. È bello fare una festa. È bello incontrarsi, sentire che abbiamo radici e sogni che ci accumunano. È bello sentire la fraternità come una verità che possiamo toccare, non solo teorica, artigianale e mai prefabbricata. È bello sentire la paternità di un cristiano come Comboni, che aveva il cuore ardente e non era, in nessun modo, prigioniero della cenere, che ha saputo accendere profeticamente il fuoco del vangelo attraversando confini, zone di conforto, incomprensioni, visioni limitanti, concretizzando una visione missionaria innovativa. Cosa significa oggi celebrare la sua memoria? Come ci collochiamo oggi nella strada da lui inaugurata? La tentazione di adorare le ceneri, di percorrere solo le strade già segnate o di aprire solo le porte già aperte è una tentazione di tutti i tempi, più insidiosa di quanto pensiamo. Lo stesso Papa Francesco ha dichiarato sin dall’Evangelii gaudium che questa è la grande patologia della Chiesa del nostro tempo: l’autoreferenzialità, la cosiddetta malattia dello specchio, la preoccupazione di garantire l’autoconservazione e l’autosufficienza. Ciò significa, senza dubbio, adorare ceneri. «Tenere vivo il fuoco» è un’altra cosa.

Coraggiosi frequentatori del futuro

Nel brano di Isaia (61,1-3) che abbiamo letto, questo è abbastanza chiaro. Lo Spirito del Signore Dio ci consacra a impegnarci in una svolta messianica nella storia. Niente di meno che “a portare il lieto annunzio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, a promulgare l’anno di misericordia del Signore”. La persona consacrata è ipotecata a un messaggio di effettivo cambiamento delle situazioni umane. Non è semplicemente un amministratore del presente così come si presenta. Gli è stato affidato un annuncio rischioso che riconfigura il mondo, che introduce nei processi storici una nuova logica. Si aprono così varchi di speranza e la storia non è più come prima.

Nella recente enciclica Fratelli tutti, si fa una diagnosi del nostro tempo e quello che in modo realista vediamo non sono solo cose belle, ma tante ombre e bisogni, tanti dilemmi e gridi da ascoltare. Il papa ci dice, per esempio, che “la storia sta dando segni di un ritorno all’indietro... La società sempre più globalizzata ci rende vicini, ma non ci rende fratelli. Siamo più soli che mai in questo mondo massificato che privilegia gli interessi individuali e indebolisce la dimensione comunitaria dell’esistenza... Si favorisce una perdita del senso della storia... Restano in piedi unicamente il bisogno di consumare senza limiti e l’accentuarsi di molte forme di individualismo senza contenuti”. Per questo motivo la sua raccomandazione: “Non è possibile accontentarsi di quello che si è già ottenuto nel passato e fermarsi, e goderlo come se tale situazione ci facesse ignorare che molti nostri fratelli soffrono ancora situazioni di ingiustizia che ci interpellano tutti”. Voi missionari lo sapete bene. Quante volte capite di dover ricominciare tutto da capo? In prima linea nella missione, quante volte vi rendete conto che la cosa più importante non è ciò che già diamo per scontato, poiché questo viene superato da congiunture che cambiano rapidamente! Allora ci domandiamo: cos’è rimanere nella fedeltà? Sicuramente è la capacità di credere nella forza del fuoco, soprattutto quando questa sembra impotente e fragile per vincere il male. Le ceneri tendono solo a immobilizzarci in un’immagine rassegnata e conformista. Al contrario, lo Spirito, lo Spirito che discende su di noi, è dinamismo, è una chiamata ad andare oltre, è una manifestazione concreta dell’amore che Dio riserva ai dimenticati, a coloro che così spesso vengono scartati. Lo Spirito scende su di noi per farci diventare coraggiosi frequentatori del futuro.

Ripartire per sentieri e strade inediti

San Paolo, nella sofferta lettera scritta ai Galati (6,14-18), sta attraversando ore difficili. Sperimenta sulla sua pelle una situazione in cui la Chiesa, invece di spendere tutto il fiato nella missione, si chiude in sé stessa, in conflitti e fratture interne che paralizzano soltanto. La Chiesa della Galazia, invece di spendere il suo fuoco nell’evangelizzazione e nel servizio missionario, sta discutendo il valore della circoncisione o non circoncisione e cose del genere. Questo è un pericolo per la Chiesa di tutti i tempi. La risposta di Paolo ha una chiarezza che ci aiuta. Egli dice: quello che conta davvero è “l’essere nuova creatura”. Ciò che conta davvero è il radicale incontro con il Vangelo di Gesù che, prima di tutti, trasforma noi stessi, imprimendo in noi, nel nostro corpo, la libertà e la passione che Gesù ha portato. Che bello sarebbe se la Chiesa del nostro tempo potesse dire con una sola voce: “D’ora innanzi nessuno mi procuri fastidi: difatti io porto le stigmate di Gesù nel mio corpo”. Questa è una grande responsabilità che dobbiamo assumere senza ambiguità. Ed è opportuno che ci chiediamo come stiamo effettivamente vivendo questa sfida ad essere nuovi, per poter presentare Cristo in modo più credibile.

Ho letto con grande interesse che state vivendo questo 2020 come l’anno della “ministerialità sociale” intesa giustamente con un’ampia semantica, che comprende tutti i carismi. E ho apprezzato il modo chiaro e oggettivo in cui la descrivete: “Il cuore della ministerialità sociale è mettersi in ascolto del grido dei poveri, allearsi con loro, perché le loro attese si realizzino e li rendano capaci di trasformazione, nella logica evangelica del Signore”. Occorre infatti avere il coraggio di essere obiettivi, di incarnare il discorso cristiano invece che rimanere nelle confortevoli astrazioni, sfuggire al labirinto delle mezze parole. Abbiate la forza di restare fedeli a questa oggettività, che di per sé è espressione della novità del Vangelo. E che l’elenco di quei verbi che avete scelto per narrare e sintetizzare la quotidianità della missione comboniana diventi davvero non solo il vostro programma pastorale, ma il vostro modo di essere pastori. Ricordo i verbi: “Vedere: con occhi penetranti e cuore aperto per cogliere le sfide e le opportunità per l’annuncio del Vangelo; farsi prossimo: nella dinamica di una Chiesa missionaria e “in uscita”, che vive ai margini e tocca le ferite, prendendo su di sé l’odore delle pecore e lo stile di vita dei poveri; incontrare: vivendo e promuovendo la mistica dell’incontro; rigenerare, lasciandosi sfidare dalla realtà; trasformare, perché non c’è più tempo per modifiche: è tempo di cambiamento! È tempo di affrontare le cause che generano le disuguaglianze tra le persone e tra i popoli e la cultura dello scarto; celebrare: tutto ciò che dà consistenza al ministero sociale e configura i discepoli e le discepole al mistero Pasquale del Cristo; ripartire: perché tutto viene provato alla fiamma del fuoco che purifica e spinge ad osare e ripartire per sentieri e strade inediti, perché siano sempre più le vie di Dio”.

Penso che ci sia una forte continuità tra questi otto verbi e le parole di Gesù nel Vangelo odierno (Gv 10, 11-16): “Io sono il buon pastore”. Gesù sottolinea due criteri oggettivi per configurarsi a Lui come pastori credibili del Suo gregge. Il primo è che conosciamo intensamente le pecore e che loro ci conoscano. Abbiamo bisogno d’incontro, di identificazione, di condivisione di destino. Il secondo criterio è dare la vita per le pecore, non abbandonarle mai, opponendosi completamente alla logica dominante del mercato, che usa e dopo scarta.

Che san Daniele Comboni, pastore ad immagine del Cuore di Gesù, ci ispiri oggi a vivere con autenticità e profezia la nostra vocazione e missione, tenendo vivo il fuoco dello Spirito che rinnova tutte le cose.

"Ecco finalmente, cari fratelli e sorelle, il momento tanto sospirato della missione. Vi ringrazio della pazienza e abnegazione colla quale tolleraste tante privazioni, disagi e povertà. Tutto mi è garanzia di quanto io possa contare sulla cooperazione vostra nella grande e ardua impresa che la Chiesa si è degnata affidarmi". Parole di san Daniele Comboni nel giorno della sua partenza per Khartoum come pro-Vicario, che segnano l'inizio della missione comboniana. (Cairo Vecchio, 26 gennaio 1873; SS 3125).