Mercoledì 10 agosto 2022
«L’esperienza cristiana di Dio nella vita e nell’azione del discepolo comboniano costituisce la sorgente e la meta della sua donazione totale alla causa missionaria: la sua vita è vita nella e con la Trinità, è testimonianza e proclamazione dell’esperienza del Mistero di Dio-Trinità, cioè dell’“amore del Padre, esperimentato nella comunione personale con Cristo, sotto la guida dello Spirito Santo” (RV 46)» (P. Carmelo Casile, nella foto). [Vedi allegati
1 e 2]

L’ESPERIENZA CRISTIANA DI DIO 
NELLA VITA E NELL’AZIONE DEL DISCEPOLO MISSIONARIO COMBONIANO

Prima parte

1. Chiamati a testimoniare e proclamare l’Amore di Dio

Nella vita del missionario comboniano, l’esperienza cristiana di Dio costituisce la sorgente e la meta della sua donazione totale alla causa missionaria: la sua vita è vita nella e con la Trinità, è testimonianza e proclamazione dell’esperienza del Mistero di Dio-Trinità, cioè dell’“amore del Padre, esperimentato nella comunione personale con Cristo, sotto la guida dello Spirito Santo” (RV 46).

Nello stesso tempo, quest’esperienza del Mistero di Dio-Trinità è il principio e il modello della vita comunitaria, a cui lo Spirito Santo chiama i Missionari Comboniani attraverso l’ispirazione originaria del Fondatore (RV 36), che ha concepito l’Istituto come “un cenacolo di apostoli”.

Così l’esperienza del Mistero di Dio Trinità culmina nella vita del “cenacolo”, intesa e vissuta come famiglia trinitaria, cioè in atteggiamento di paternità, di filiazione, di fraternità aperta all’universalità. 

In effetti, San D. Comboni ci introduce in questo ideale di vita coinvolgendoci nella sua esperienza del Mistero dell’Amore di Dio-Trinità, che “vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità” (1Tim 2,4). 

Comboni, come ogni cristiano, entrò nel dinamismo del Mistero di questo Amore nel giorno del Battesimo e andò immergendosi sempre più in esso man mano che avanzava in questo cammino di fede, tenendo gli occhi fissi su Gesù Crocifisso, comprendendo così sempre meglio cosa vuol dire un Dio morto in Croce per la salvezza del mondo (cfr. S 2720). 

Comboni viveva questa esperienza nella sua interiorità come lievito nel quotidiano della vita, finché nell’evento carismatico del 15 settembre del 1864 la manifestò davanti alla Chiesa e al mondo con accenti chiari e intensi (S 2742-2743; 4799).

Ciò che configura definitivamente la sua vita missionaria, è precisamente il suo coinvolgimento nel Mistero di Dio-Trinità; è la “confessione della Trinità” da lui vissuta, che dà ragione del suo “impeto” missionario. 

L’Amore Trinitario e crocifisso, vissuto da Comboni, segue il seguente itinerario: nello Spirito dal Padre per mezzo del Figlio verso il Padre. La “virtù divina”, lo Spirito Santo uscito dal Cuore del Trafitto sul Golgota, fluisce vitalmente nell’attività quotidiana del missionario facendolo una cosa sola con l’amore di Gesù per gli Africani, e così lavora unicamente per riportare la Nigrizia alla comunione con il “comun Padre su in cielo”, Amore “fontale” e finale di ogni vita umana, cioè lavora “per l’Eternità” (cf Regole 1871, Cap. X). 

L’esperienza dell’amore di Dio-Trinità che spinse Comboni a consacrare la sua vita alla causa della rigenerazione della Nigrizia, è la stessa esperienza che spinge il discepolo missionario comboniano a consacrare la sua vita per la rigenerazione delle “situazioni Nigrizia” (AC ’97, nn. 4-8) dell’attuale mondo globalizzato e perciò senza confini…

Tale servizio, seguendo le tracce del Comboni, si sviluppa in tre direzioni interconnesse: a) l’evangelizzazione (56-71), b) l’animazione missionaria (RV 71-79), di cui è parte integrante la promozione vocazionale (RV 77), c) e la formazione di base (80-98) e permanente (98-101).

Pertanto, nel missionario, l’esperienza di Dio vissuta seguendo le orme di san D. Comboni, diviene la sorgente e la meta della sua attività di evangelizzazione, che è una attività di liberazione integrale dell’uomo, che trova il suo compimento e consolidamento nella piena comunione con Dio Padre e con gli uomini (RV 61). In quest’ottica, come discepolo del Comboni, il missionario, nel suo cammino di fede nel mondo e per il mondo, è chiamato a vivere intimamente legato all’umanità e alla sua storia (RV 16), e a vivere una tale esperienza di Dio in Cristo che lo renda capace di proclamare il messaggio evangelico con la testimonianza della vita evangelica, e di accompagnare coloro che accolgono l’annuncio del Vangelo nel loro cammino di adesione e conversione a Gesù Cristo e nella loro integrazione nella comunità cristiana (RV 58-64).

In quest’ottica l’evangelizzazione, come rimarca Papa Francesco, “non è mai proselitismo, ma attrazione a Cristo”. “Tutti gli uomini e le donne hanno il diritto di ricevere il Vangelo e i cristiani hanno il dovere di annunciarlo senza escludere nessuno”. E tutto il Popolo di Dio “annuncia il Vangelo perché, anzitutto, è un popolo in cammino verso Dio”. In questo cammino è fondamentale il dialogo con il mondo, le culture e le religioni (cfr. RV 57).  

L’esperienza fondante, per tanto, della vita del missionario in ogni dimensione del suo sevizio missionario è l’esperienza dell’amore di Dio in Cristo (RV 46; 81; 82), che è chiamato a testimoniare e proclamare alle nazioni (RV 20).

Coerente con questo principio, la RV propone come scopo prioritario della formazione di base e permanente del missionario l’iniziazione a “una tale esperienza di Dio che gli permetta testimoniarlo con la vita e lo renda capace di conoscere gli uomini del suo tempo, per annunciare loro la Buona Novella con il loro stesso linguaggio” (RV 81). Specifica inoltre che tale formazione deve essere un’iniziazione permanente (RV 99), “qualificata dagli ideali e dall’esperienza del Comboni come sono vissuti nell’Istituto” (RV 81). 

1.1 Testimoni e portatori della Parola liberatrice e rinnovatrice nella realtà attuale del mondo 

Proveniamo da un secolo, in cui abbiamo assistito all’orrore di due Guerre Mondiali, all’abominio dei forni crematori, alla pazzia della bomba atomica, ai campi della morte in Cambogia, alla crudeltà dell’apartheid, alla tragedia delle carestie in Africa e dei massacri in Rwanda, in Bosnia e Kossovo, alla violenza politica che ha martoriato l’Irlanda, agli spargimenti settari di sangue nella Terra Santa, in Algeria…  Né si possono dimenticare le vicende burrascose che hanno travagliato il Continente Americano da Sud a Nord… La lista è lunghissima e raccapricciante anche qui… 

Il Capitolo del ‘97 si allaccia a questo contesto quando descrive le SITUAZIONI “NIGRIZIA” (nn. 4-8) e costata che a volte si insinua tra noi un certo senso di pessimismo, di rassegnazione e quasi di impotenza di fronte alle attuali urgenze dell’evangelizzazione.

Di fronte al pericolo dell’affievolimento dello slancio missionario, il Capitolo ci invita a “rivivere la freschezza della nostra vocazione e ritrovare la forza dello Spirito nella riscoperta del Dio della vita” (n 9), ci invita cioè a crescere nella nostra esperienza cristiana di Dio. E ciò si ottiene quando il missionario “focalizza la sua intera esistenza nell’incontro con Dio e forma con i suoi fratelli una comunità orante” (RV 46).

In questa direzione va la riflessione del Presidente dell’Irlanda, la signora Mary McAleese, riportata dal Card. Silvano Piovanelli: “L’Irlanda è un luogo -ha detto- dove la storia condivisa tra diverse fedi cristiane è stata spesso una storia di acrimonia, reciproco sospetto e odio assassino”.

Riusciremo -si domandava la Presidente- finalmente a superare la necessità di prendere lo slancio dall’ultima atrocità per mantenere sui binari giusti lo sforzo della pace?”.

E rispondeva: “Io spero e prego che sia possibile raggiungere questo obiettivo. Lo spero, perché dietro il lavoro dei politici c’è sempre stato il potere della preghiera, del lavoro silenzioso, sottile, discreto ma efficace, in grado di penetrare nei fori dei cuori di pietra, di trovare spazio laddove prima non esisteva.

È un potere e una risorsa che abbiamo a disposizione e di cui avremo bisogno negli anni a venire, se vogliamo rompere le barriere dell’odio, del conflitto e della povertà di cui il mondo è ancora prigioniero.

É un potere che dovremmo mai sottovalutare. Perché se il mondo che speriamo di costruire deve essere fondato sul dialogo, sulla giustizia sociale, sulla pace e sull’altruismo, dovrà essere nutrito del senso della presenza di Dio nel mondo, dell’arricchimento spirituale che la preghiera e la meditazione possono dare”.

Già Dietrich Bonhoeffer si domandava e rispondeva: 

Come si crea la pace? Con un sistema di trattati politici, investendo capitali internazionali nei vari paesi, vale a dire attraverso le grandi banche, mediante il denaro? O addirittura attraverso un riarmo pacifico generale con lo scopo di assicurare la pace? No, attraverso nessuna di queste cose. E questo per un unico motivo: perché qui si confondono sempre pace e sicurezza. Non c’è via per la pace sulla via della sicurezza. La pace infatti va “osata”, è l’unico grande rischio e mai e poi mai può essere assicurata. Pace è il contrario di sicurezza, esigere sicurezze significa essere diffidenti e a sua volta tale diffidenza genera la guerra. Cercare delle sicurezze significa volersi proteggere, pace significa abbandonarsi completamente al comandamento di Dio. Non volere sicurezza ma nella fede e nell’obbedienza mettere nelle mani di Dio la storia dei popoli e non volerne disporre egoisticamente. Le battaglie non vengono vinte con le armi ma con Dio, vengono vinte anche laddove la strada porta alla croce” (da: http://www.preg.audio).

Sono parole che illuminano il panorama della società contemporanea all’inizio del XXI Secolo e del Terzo Millennio, che è una società segnata dal passaggio da una “terza guerra mondiale a pezzi”, che va dal Congo al Myanmar, rischia di diventare mondiale, come ci dimostra l’invasione dell’Ucraina il 24 febbraio 2022…

Siamo di fronte alla creatura umana in preda al delirio di onnipotenza, che rinnega il suo Creatore e si pone come dio di sé stessa; dove la trascendenza e ogni ordine provvidenziale vengono spazzati via e si tenta di estirpare le radici da cui sono nate la cultura europea e occidentale. Nasce così una società dove l’uomo assume atteggiamenti da superuomo, che lo portano a detronizzare Dio e salire sul trono al suo posto, e comincia a compiere azioni incontrollate in tutti i settori della vita individuale e sociale….

Cosi siamo immersi in una situazione drammaticain cui infuria una tempesta culturale, sociale e politica, che ci richiede di ritornare con chiarezza all’origine del nostro essere nel mondo, che è la creaturalità, il nostro essere creature, punto di partenza per una migliore e più sincera conoscenza di sé, per una reale e solidale apertura all’altro-da-sé, fino all’apertura di sé all’Atro Assoluto, Creatore e Padre, Fine ultimo e Porto sicuro del pellegrinaggio dell’essere umano in questo mondo, la cui vocazione ultima è effettivamente una sola, quella divina” (cfr. GS 22).  

Nella situazione in cui è immerso, l’essere umano ha bisogno, anzitutto, di un senso per vivere, di un Incontro che corrisponda alle esigenze vere del suo cuore, che arriva in questo mondo segnato da un “germe di eternità”, irriducibile quindi alla sola materia (cfr. GS 18).

Si può trovare qui la ragione per cui oggi, in mezzo a tanta tempesta, si è in presenza di un rigoglioso ritorno della religione al palcoscenico della società mondiale, nonostante che qualche decennio fa i sociologi della religione pronosticavano una sua inarrestabile scomparsa, affermando che la crescente secolarizzazione in un mondo globalizzato l’avrebbe spazzata dalla faccia della terra.

L’attuale risveglio religioso si manifesta spesso come una fame di contatto immediato con Dio, come un’ansia d’esperienza diretta del divino. La ragione profonda di quest’atteggiamento la si trova, secondo alcuni pensatori, nello sbocco a cui è approdata la modernità illuministica.

Proprio perché l’illuminismo ha privilegiato in maniera esasperata la ragione, e più precisamente la ragione strumentale nella scienza e nella tecnica, trascurando le altre componenti dell’esistenza umana. E la reazione davanti a questo fatto si sta facendo sentire intensamente e in maniera molto diffusa nell’intera umanità. L’approccio puramente razionale alla realtà, quello che si potrebbe chiamare “l’imperialismo della ragione”, non soddisfa le attese più profonde dell’uomo, né la sua fame di senso e di esperienza. Il ricorso così frequente a forme di religiosità orientale, nelle quali la dimensione del sacro e del mito è fortemente presente, ne è un vigoroso segno. Ci si trova, quindi, specialmente in Occidente, ma anche nelle zone del mondo da esso influenzate, davanti a un vasto fenomeno di nuova religiosità. Non si tratta, in realtà, di una religione con un messaggio ben definito, ma piuttosto di una religiosità generica, accentuatamente sincretista, dove trovano spazio le più svariate componenti delle religioni, antiche e moderne. La parola chiave che ne sta al centro è “esperienza”. Essa esprime allo stesso tempo una reazione e un bisogno: reazione di rifiuto nei confronti delle religioni ufficiali, sentite come tendenzialmente intellettualistiche e istituzionali; bisogno di “sentire” il divino. In questa nuova religiosità, infatti, si cerca non tanto la ragione, quanto il sentimento; non tanto l’intelletto, quanto l’istinto; non tanto la riflessione, quanto l’intuizione; non tanto la razionalità, quanto l’emotività. Si spiega così il pullulare di gruppi e gruppuscoli, di ogni specie, che si raccolgono attorno a dei progetti religiosi altamente emotivi.  

Il fenomeno delle sette è un segno chiaro: pullulano dappertutto, si calcola che si contano tremila negli Stati Uniti e duemila cinquencento in Europa… 

Tuttavia sono maggioranza quelli che cercano certezze nel nome degli antichi dèi del denaro, del potere, del piacere e del successo, che promettono di concedere sicurezza e il massino del benessere, ma che effettivamente non sanno infondere il bene più prezioso che è la pace interiore. 

In effetti, “i nostri anni potrebbero forse venir definiti, per un atteggiamento che li caratterizza nelle sfere più diverse della vita e del pensiero, l’era dell’optional. Religioni, filosofie, sistemi di valori, concezioni politiche si allineano in bell’ordine su banchi di un supermarket e ciascuno -a seconda del bisogno e della voglia del momento- prende da un ripiano o dall’altro gli articoli che gli pare, due confezioni di cristianesimo, tre di buddismo zen, un paio di etti di liberalismo ultrà, una zolletta di socialismo, e li mescola a piacere in un suo cocktail privato.

In questo clima culturale è sempre più difficile definirsi in un modo preciso ossia limitato, scegliere una cosa ed escluderne altre. Se si è cristiani, non si è buddisti, e viceversa, anche se doverosamente si venerano, in entrambi i casi, l’altissimo insegnamento di Cristo e di Buddha e si impara tanto dal loro esempio. Si rispetta una concezione del mondo solo se la si prende sul serio sino in fondo, se ci si confronta rigorosamente con la verità che essa annuncia e con la propria capacità o meno di aderirvi realmente. Dichiararsi spensieratamente mussulmani o cristiani -o magari ambedue le cose- sull’onda di un superficiale slancio sentimentale, e pretendere di stemperare e fondere le differenze di quelle religioni in una salsa privata, significa arrecare offesa alla loro serietà e dignità. Ciò che una filosofia o una fede propugna è un’unità organica, non un’insalata i cui singoli ingredienti siano ognuno un optional, qualcosa che si può prendere o no a capriccio. Ora invece tutto sembra ridursi a “optional”, a elemento accettabile o rifiutabile a piacere senza che ciò comporti l’alternativa fra un’adesione o un rifiuto complessivo. Il New Age, tanto per fare un esempio, è una tipica espressione di tale atteggiamento vagamente spiritualeggiante che pilucca di qua e di là dai piatti dell’Assoluto, frullando tutto in una benintenzionata pappa del cuore”. (…)

Così va crescendo un mondo in cui sono sempre di più coloro che risultano completamente analfabeti in materia religiosa e privi di un senso per vivere. In un mondo così confuso ogni essere umano ha bisogno di andare alla radice del male: ha anzitutto bisogno di un senso per vivere, di un Incontro che corrisponda alle esigenze vere del suo cuore; un Incontro che sia Via che lo conduce alla Verità della Vita, così che impari a vivere in comunione con il suo Creatore e Padre e quindi in armonia con se stesso, con gli altri e con il creato. 

In questo contesto risulta indispensabile per ogni cristiano e anche per noi, consacrati a Dio per la missione, tornare a darsi ragione della propria fede, cercando di rivisitare le proprie convinzioni e di cogliere l’occasione delle difficoltà insorte per riattivare e purificare le proprie ragioni di fede e la propria esperienza di Dio, prendendola sul serio fino in fondo.

In questo mondo così agitato e senza bussola per l’orientamento nel cammino della vita, diventa centrale l’annuncio del Vangelo, che Gesù ha affidato ad ogni battezzato, che in virtù del battesimo è costituito discepolo missionario al servizio del Vangelo, e in particolare a quei battezzati che, per iniziativa divina, sono chiamati a consacrare in modo totale la loro vita a Dio per portare il suo Nome alle nazioni e fare dell’evangelizzazione la ragione della propria vita (RV 2; 20; 56). 

Qui sta il primato dell’annuncio del Vangelo e l’urgenza della testimonianza del cristiano, perché il mondo trovi il Dio della vita, “Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti” (Ef 4,6), conducendoli alla pienezza di vita, a cui tutti sono chiamati e aspirano. La ministerialità missionaria nei suoi diversi servizi, strutture e linguaggi è a servizio dell’annuncio del Vangelo, perché l’umanità non soccomba con il ripiegamento su se stessa, dominata dal delirio dell’onnipotenza e dell’auto divinizzazione, chiudendosi così al cammino verso quella liberazione integrale che trova il suo compimento e consolidamento nella piena comunione con Dio-Padre e tra gli omini, a cui è chiamata dal suo Creatore Padre.

Se noi battezzati e consacrati a Dio per la missione (RV 20;20.1), abbiamo gli occhi e il cuore aperti sulla situazione concreta del mondo di oggi con le sue domande di senso, speranze, ferite e bisogni, e nello stesso tempo siamo aperti all’ascolto autentico e umile di Dio,  vinceremo le molteplici tentazioni connesse alla vita spirituale e all’agire missionario: la tentazione di fare della vita individuale un culto intimista (autoreferenziale) e della vita ecclesiale e comunitaria un apparato sacrale separato dalla vita o un’agenzia ispirata ai criteri della pura efficienza, un luogo che incentiva un culto intimista senza ricadute sulla vita reale. 

L’ascolto profondo di Dio e del mondo, invece, apre un varco dentro di noi e, iniziandoci ad una forte esperienza di Dio in Cristo Gesù, ci fa “uscire” per le strade del mondo a comunicare la gioia del Vangelo e a testimoniarlo nella compassione e nella solidarietà in tutti i luoghi e le situazioni del vivere umano e sociale e del creato…

Per tanto, il primo destinatario dell’attività evangelizzatrice è lo stesso missionario. La continua conversione di sé alla Buona Notizia, che è chiamato ad annunciare, fonda e dà credibilità alla sua attività. (cfr. RV 46; 20; 99; RMi 87-90). 

2. Anelli concentrici di un sano sviluppo dell’esperienza di Dio 

Essendo centrale l’esperienza cristiana di Dio nella via e nell’opera del discepolo missionario, nel cammino specifico della formazione alla consacrazione missionaria, il formatore ha come compito basilare stimolare e consolidare l’itinerario di fede e la qualità della vita spirituale prima di tutto di se stesso e quindi dei giovani affidati alle sue cure, per crescere assieme ad una sempre maggiore consapevolezza di ciò che costituisce la solidità e la stabilità della spiritualità del missionario comboniano. 

Minacciati dal soggettivismo, i giovani si trovano oggi in una “situazione a metà del guado”, cioè in un mondo che ha perso i riferimenti antichi e trova precari i nuovi. La risposta cristiana a questa sfida consisterà nell’intelligente ricerca dei semina Verbi, ricordando che la fede è un percorso le cui radici affondano nel solido terreno della tradizione dei Padri (cf. Eb 11).

I giovani hanno bisogno di risposte esistenziali, per questo cercano leader carismatici e proposte non vaghe ma adeguate e concrete, formulate in “comunità accoglienti”, che li aiutino a comprendere la precaria loro identità e a trovare quelle ragioni della speranza che portano nel cuore e che possono far diventare realtà nella fatica della vita quotidiana. 

L’esperienza di Dio mai può essere considerata già fatta, ma deve continuare ad essere fatta ogni giorno e durante i giorni e gli anni che Dio ci concede di vivere. Non ci si può fermare durante il cammino, perché Dio è inesauribile; per quanto sia profonda la nostra esperienza di Lui, Dio è una fonte che sgorga sempre nelle profondità del nostro cuore e che tende a inondare tutto il nostro essere. Questa ricchezza divina ci spinge ad esercitarci continuamente nell’incontro profondo con Dio, a mantenere desta in noi la nostalgia del suo volto, ed evitare così di atrofizzarci nei nostri dinamismi interiori e smorzarci o spegnerci come testimoni e proclamatori dell’amore di Dio.

Testimonia e proclama l’amore di Dio il missionario che si conserva appassionato, che non ha perduto l’incanto del primo momento del suo incontro con Dio; il missionario che si è lasciato “sedurre” e continua a rimare “sedotto” da Dio. Allora ciò che egli dice di Dio o fa in suo nome, viene percepito da chi lo circonda come frutto di un’esperienza personale, nata da un contatto intimo, profondo e prolungato con Dio. In realtà, l’esperienza di Dio non può essere trasmessa senza averla vissuto prima nel profondo del nostro essere. Vedendoci agire ed ascoltandoci, gli altri si aspettano di poter presentire quest’esperienza nella nostra vita. 

Per questo c’è bisogno di offrire ai giovani in formazione la possibilità di vedere e sperimentare nei formatori un impegno serio a percorrere per primi il cammino di una formazione integrale continua centrata su una profonda esperienza di Dio sulle orme del Comboni in compagnia dei membri dell’Istituto. (Cf. RV 86).

Per raggiungere questo scopo, nella proposta formativa va coniugata correttamente la relazione carisma e persona, carisma e temperamento, carisma e istituzione.

I giovani si ripiegano facilmente sul presente, trascurando non solo il passato, ma a volte anche il futuro. A questo “presentismo” fortemente esperienziale va collegata una certa indifferenza verso ciò che appartiene specificamente al patrimonio della spiritualità cattolica, e quindi anche comboniana e che può essere considerata come un prodotto del “mercato religioso” attuale.

In questa prospettiva, l’esperienza e il concetto di carisma non hanno niente da vedere con l’esperienza cristiana dell’avvenimento e quindi con l’esperienza di “fare memoria”, cioè con l’esperienza di un fatto del passato che esiste e agisce nel presente e quindi è contemporaneo. 

Possiamo, per tanto svuotare il carisma del suo contenuto, se la nostra relazione con Cristo e con il Fondatore si riduce alla semplice eredità di un fatto del passato, certamente importante, ma che in seguito ognuno filtra e interpreta secondo la sua intelligenza e modalità. 

In realtà, “un dono dello Spirito di Cristo è concesso a un cristiano una volta per sempre in beneficio della comunità ecclesiale e del mondo. Chi riceve questa grazia la comunica durante la sua vita mortale, storica e, una volta che entra nella comunione gloriosa dei santi, continua ad agire per mezzo del suo potere di intercessione. È ciò che confessiamo nel Credo quando affermiamo: –Credo la comunione dei santi”. 

È ciò che nell’iconografia significa l’aureola che circonda la testa dei santi: la comunicazione dello Spirito Santo che passa attraverso la parola e la testimonianza della vita di quella persona totalmente donata a Dio e al suo piano di salvezza dell’umanità. Noi possiamo fare tante cose: iniziative, programmi, campagne… tante cose; ma se non siamo in Lui, e se il suo Spirito non passa attraverso di noi, tutto quello che facciamo è nulla ai suoi occhi, cioè non vale nulla per il Regno di Dio. Invece, se siamo come tralci ben attaccati alla vite, la linfa dello Spirito passa da Cristo in noi e qualsiasi cosa facciamo porta frutto, perché non è opera nostra, ma è l’amore di Cristo che agisce attraverso di noi. Questo è il segreto della vita cristiana, e in particolare della missione, dovunque, in Europa come in Africa e negli altri continenti. 

Perciò, i membri di un movimento ecclesiale o di una famiglia religiosa non portano avanti il carisma del Fondatore in modo indipendente, ma in un continuo atteggiamento di comunione e obbedienza ecclesiale. Il dogma della comunione dei santi diviene astratto, se non si traduce in un’esperienza di vita integrato nella grazia dell’inizio dentro cui ognuno cresce e si sviluppa come persona consacrata.

Svilupparsi come persona consacrata comporta fare attenzione anche al rapporto tra carisma e temperamento personale, cioè al “come” Cristo entra nella vita di ognuno.

Fin dall’epoca della Chiesa primitiva possiamo vedere le innumerevoli forme con cui lo Spirito Santo ha riunito i cristiani, affinché vivano e annuncino la memoria di Cristo, senza che questa varietà abbia costituito un ostacolo all’unità della chiesa. Questo fatto è sottolineato da Paolo nella prima lettera ai Corinti (1Cor 3, 5-14), quando afferma che il Vangelo fu annunciato da vari missionari, ciascuno secondo il suo stile e secondo la misura “del dono di Cristo” (cf. Ef 4, 7). Ciò che l’apostolo chiede a tutti è che riconoscano che si appartengono gli uni agli altri, o meglio, ciascuno all’unità di Cristo. 

Oltre al temperamento personale, le circostanze della vita di ogni Fondatore, il luogo di nascita, i maestri, l’educazione ricevuta, gli amici, ecc… influiscono sul suo modo di ricevere il carisma di Dio che, in parte, si trasmette ai loro seguaci.

Si può, per tanto, affermare che il mistero di Cristo raggiunge le persone nello spazio e nel tempo della Chiesa per mezzo di temperamenti concreti, per mezzo della “esperienza del fratello”.

D’altra parte, c’è da tener presente che la persona, influenzata dal Fondatore, entra nella dinamica dell’esperienza del fratello attraverso il suo proprio temperamento e circostanze socioculturali che accompagnano la sua vita. Da qui nascono le istanze dell’attenzione alla persona e dell’inculturazione del carisma. 

Un’esperienza autentica di vita cristiana comporta anche il superamento della contrapposizione tra carisma e istituzione: gerarchia ecclesiastica e autorità nell’Istituto.

In effetti, nella vita della Chiesa, il carisma e l’istituzione sono coessenziali, sono due aspetti profondamente uniti in comunione armonica e mai paralleli in contrapposizione dialettica. Un segno indispensabile della maturità dell’esperienza cristiana di Dio è certamente il senso ecclesiale e l’obbedienza all’autorità costituita: aspetti molto intensi nella vita di Daniele Comboni.

Nello stesso tempo, un autentico carisma si apre profondamente a tutte le altre esperienze, che in modo diverso conducono all’unica verità rivelata in Cristo su Dio e sull’uomo.

3. ”Fare l’esperienza del fratello”

Per un Missionario Comboniano, “fare l’esperienza del fratello” è accettare la persona di Daniele Comboni come mediazione specifica per una continua crescita in Cristo e nell’identità carismatica; è lasciarsi attrarre dallo Spirito del Signore Gesù mediante l’influsso di un fratello nella fede, reso capace dallo stesso Spirito di trasmettere e sostenere altri nell’entusiasmo per la persona e l’opera di Gesù, vivendo in modo originale e intenso dei tratti dell’infinita ricchezza del mistero di Cristo come un dono a beneficio dell’umanità bisognosa di salvezza.

Per tanto, fare l’esperienza del fratello significa:

– ascoltare il Dio della vita che ci chiama e ci invia al mondo di oggi per mezzo di una persona concreta, che ci coinvolge nel suo cammino di fede, speranza e carità da essa vissuto nella missione che è stata chiamata a svolgere nella chiesa;

– accettare la mediazione di questa persona come dono provvidenziale di Dio che ci guida e ci stimola nella continua crescita in Cristo e nell’identificazione vocazionale;

– riconoscere in questa persona il “padre” secondo lo spirito, che ci genera ad un particolare stato di vita nella Chiesa e diviene il “capostipite” di un gruppo di con-vocati per la realizzazione di un progetto vocazionale comunitario.

Può darsi che ci sia chi faccia fatica ad accettare che un fratello divenga suo padre nello spirito. Un tale atteggiamento può dipendere dal “complesso paterno” presente nella società attuale, che porta all’incapacità di accettarsi come “figlio” ad un livello più radicale ed universale di quello biologico, cioè generato da qualcuno che sia fonte della propria vocazione e missione nel mondo.

La ragione di quest’atteggiamento sta nel fatto che l’uomo attuale vuole essere la causa di se stesso e costruirsi con le proprie mani, con la conseguente tentazione del protagonismo.

Ma la Parola di Dio ci parla del cammino di fede nel Dio della vita come un intreccio di solidarietà tra i membri del popolo in cammino e tra le generazioni:

La fede è il fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono. Per mezzo di questa fede gli antichi ricevettero buona testimonianza.

Eppure, tutti costoro, pur avendo ricevuto per la loro fede una buona testimonianza, non conseguirono la promessa:  Dio aveva qualcosa di meglio per noi, perché essi non ottenessero la perfezione senza di noi.

Anche noi dunque, circondati da così gran nugolo di testimoni, deposto tutto ciò che ci è di peso ed il peccato che ci assedia, corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo sempre lo sguardo fisso su Gesù, autore e perfezionatore della nostra fede” 

(Eb 11, 1-2. 39-40; 12, 1-2. Cf. anche Es 3, 15; 20, 5-6; Rom 10, 14-17).

Il Dio che ci invia è il Dio degli altri, il Dio di Abramo, Isacco, Giacobbe, Mosè…; è, per tanto, il Dio dei nostri padri, che narrandoci il loro Dio, ci hanno generato alla vita dello spirito, introducendoci nel loro cammino di fede. 

Questa visione storica della fede ci suggerisce che:

– la fede stabilisce un vincolo di ordine spirituale tra persone diverse, fa di esse una nuova famiglia nata dalla fede in Dio e riunisce generazioni e razze diverse;

– Dio rimanda il compimento di tante promesse che nascono con la fede vissuta, perché si realizzino includendo i credenti dei tempi futuri in una grande unità, che costituisce la “Famiglia di Dio”;

– Dio incontra l’uomo nella storia, lo salva e lo fa strumento di questa stessa salvezza attraverso una serie di mediazioni umane;

– nel nostro cammino di fede nel mondo e per il mondo (RV 16) siamo accompagnati da una folla di testimoni composta da quelli che ci hanno narrato il Signore e vivono con Lui, che è il Dio dei vivi e non dei morti (Mc 12, 26-27), per cui

– non possiamo conoscere Dio senza ascoltare le parole da Lui dette agli eletti, senza ascoltare quello che queste persone hanno detto di Lui, dopo averlo ascoltato e averne fatto l’esperienza. 

Concretamente per noi Missionari Comboniani, questa corrente spirituale si approfondisce e si specifica grazie all’incontro con san Daniele Comboni (= esperienza originaria del fratello) e con i Missionari Comboniani (= esperienza prossima del fratello).

3.1 L’esperienza originaria del fratello

Nel contesto della Vita Consacrata, “fare l’esperienza del fratello” significa lasciarsi attrarre dallo Spirito del Signore Gesù mediante l’influsso della personalità di un fratello nella fede che, capace di trasmettere e sostenere nell’entusiasmo per la persona e l’opera di Gesù, vive in modo originale e intenso dei tratti dell’infinita ricchezza del Mistero di Cristo come dono a beneficio dell’umanità bisognosa di salvezza; è la predicazione viva da cui nasce la nostra fede missionaria.

Per noi fare l’esperienza del fratello significa vivere il fatto che:

– San Daniele Comboni, in virtù della comunione dei santi, con la sua vita, la sua parola e la sua opera, ci narra il suo Dio.

– Il Dio che ci narra Comboni è il Dio Padre e Provvidenza, per tanto il Dio della vita.

Quest’immagine di Dio vissuta dal Comboni, fa di lui una persona dotata di un profondo “senso di Dio”, che si sviluppa nella sua personalità secondo due dimensioni: a) l’abitudine di giudicare le cose “al puro raggio della fede”; b) la radicale disponibilità al piano di Dio su di lui.

Da questo profondo senso di Dio emerge in Comboni la certezza della sua vocazione, che si manifesta in lui come dedizione totale alla causa missionaria. (Cf. RV 2).

– Il Dio Padre-Provvidenza vissuto da Comboni, è il Dio che incarna il suo amore salvifico nel Cuore Trafitto di Gesù, Buon Pastore, che offre la sua vita per il genere umano a partire dagli ultimi della terra.

– Narrandoci il suo Dio, Daniele Comboni ci trasmette i palpiti del Cuore di Cristo per le “situazioni Nigrizia”; suscita il nascere della nostra fede missionaria, rendendoci capaci di ascoltare quella particolare chiamata divina a consacrare l’esistenza al servizio missionario e a fare dell’evangelizzazione la ragione della nostra vita (RV 2; 20; 56); fa di noi nella Chiesa una nuova Famiglia, che desume la sua identità e il suo modo specifico di seguire Cristo dal carisma di Daniele Comboni (RV 1). 

– L’opera affidata da Dio a Daniele Comboni e rimasta incompiuta alla sua morte, Dio la porta a compimento attraverso di noi, chiamandoci a vivere la vita missionaria con l’audacia del nostro Fondatore e Padre nel duplice versante della santità e della dedizione alla causa missionaria.

– Daniele Comboni è, per tanto, il fratello nella fede a cui Dio concesse un dono carismatico, destinato ad essere fermento e guida nel cammino missionario di molti altri. Con il suo dono carismatico, Daniele Comboni è il timoniere della Congregazione, che la guida attraverso i tempi a coinvolgersi con fedeltà creativa nelle “situazioni Nigrizia”, che la storia costantemente le propone (AC ‘97, 4-9).

– Daniele Comboni, in quanto Fondatore e Padre, missionario e profeta fino al dono totale di se, è una mediazione sempre eloquente e determinante, che imprime un tono caratteristico nella realizzazione della vocazione missionaria di un gruppo di persone che formano l’Istituto dei Missionari Comboniani del Cuore di Gesù. Allora essere missionario comboniano significa un continuo “ripartire dalla missione con l’audacia del beato Daniele Comboni”, vivendo la consacrazione missionaria “ad Gentes” come frutto dell’incontro con Dio qualificato dagli ideali e dall’esempio di Daniele Comboni come sono vissuti nell’Istituto: RV 46; 81-82; RF 54-62; AC ‘ 97, 10-14.

Allora ci accorgiamo e ringraziamo il Signore perché:

– Daniele Comboni si trova in cammino con noi ed in mezzo a noi e quindi in situazione di continua crescita. La sua vita è come un chicco di frumento seminato nel solco della Storia della Salvezza, destinato a fruttificare nel corso dei tempi soprattutto attraverso i suoi Istituti…

– Non cresce più cronologicamente perché sta nell’eternità, ma è la comprensione del suo spirito e della sua opera che crescono in noi e attraverso di noi nella Chiesa per la rigenerazione dell’umanità bisognosa di salvezza.

Per crescere in noi e camminare con noi, Daniele Comboni ci traccia un itinerario spirituale, che si presenta a noi come un passaggio da una visione di fede sui fatti della storia all’impegno missionario.

Questo itinerario può essere specificato in tre momenti:

1º. Abituarsi a giudicare gli avvenimenti della storia con la luce che viene dalla fede nel Dio della vita.

. Unirsi a Dio, Padre-Provvidenza, che nel suo Figlio incarnato morto e risorto, ascolta il grido del povero ed entra con tutto il suo essere nella storia umana inaridita e nel dolore degli ultimi. 

. Disponibilità ad assumere questa storia e questo dolore, diventandone parte e facendo causa comune anche con rischio della vita (disponibilità martiriale) per rigenerarla con l’annuncio esplicito del Vangelo di Gesù Cristo. 

Questo itinerario spirituale, delineato nella RV (cf. nn. 2-5), è ribadito dai Capitoli del ‘91 e del ‘97: – AC ‘91, 6; 6, 1-6;   – AC ‘97, 10-23.

Gli AC ‘97 sottolineano dei mezzi che sostengono quest’itinerario: cf. nn. 22-30.

3.2 L’esperienza prossima del fratello

L’esperienza prossima del fratello, cioè la predicazione da cui nasce e si alimenta la nostra fede missionaria, sono i Missionari Comboniani del Cuore di Gesù con le loro attuali Costituzioni: RV 1; 1.1-4.

Questi Missionari Comboniani sono quelli che ci hanno preceduto e dai quali abbiamo ricevuto in eredità il carisma di Comboni, soprattutto quelli la cui vita ci offre la migliore esemplificazione della “esperienza originaria del fratello”: RV 1.4;  AC ‘91, 13.

Siamo anche tutti noi, che abbiamo motivi di gratitudine a Dio per la crescita nella fedeltà al dono carismatico ricevuto attraverso il Fondatore (AC ‘91, 10; 12-14;   AC ‘97, 2), ma che dobbiamo riconoscere anche i limiti del cammino percorso (AC ‘91, 11;   AC ‘97, 9). 

Esperienza prossima del fratello sono anche i Capitoli Generali, perché in essi i capitolari cercano di confrontare le situazioni missionarie e la situazione attuale dell’Istituto con il carisma originario, come sorgente per un continuo rinnovamento dello stile di vita, degli orientamenti e della presenza missionaria: Ac ‘91, 5.1; AC 97, 1; cf. RV, Preambolo; RV 16.

Infatti, il carisma del Fondatore si rivela come un’esperienza nello Spirito trasmessa ai discepoli per essere vissuta, custodita e costantemente sviluppata da essi (cf. MR 11). Questo sviluppo deve essere realizzato in un contesto di apertura universale e costruttiva di fronte alle sfide della realtà mondiale, ecclesiale, missionaria e interna comboniana: AC ‘91, 3-4; AC ‘97, 4-9.

Con la canonizzazione di Daniele Comboni, il suo carisma si fa proposta alla Chiesa e al mondo di oggi. È la nuova sfida di Comboni ai suoi missionari in vista di essere fermento missionario “ad Gentes” nella Chiesa di Cristo alle soglie del Terzo Millennio con la santità e l’audacia del loro Fondatore e Padre: AC ‘97, 1;   cf.  VC 36: Fedeltà al carisma; VC 37: Fedeltà creativa.
[Comboni2000]

L’ESPERIENZA CRISTIANA DI DIO 
NELLA VITA E NELL’AZIONE DEL DISCEPOLO MISSIONARIO COMBONIANO

Seconda parte

Il comboniano P. Contran Gaetano Nazzareno (al centro) con laici missionari comboniani a Kinshasa, nella RD. del Congo.

4. Componenti costanti dell’esperienza di Dio

4.1. La percezione sacramentale e l’esperienza storica

L’esperienza di Dio richiede, anzitutto, una percezione sacramentale, cioè un’assunzione di dati della realtà esterna mediante i sensi, che rimanda ad un’altra realtà, che si trova al di là del mondo visibile (cf. 1Gv 1, 3).

Infatti l’esperienza di Dio non può essere intesa alla maniera delle esperienze del mondo, perché Dio non é una cosa tra le altre cose così che la sua esperienza sia uguale alla esperienza delle realtà terrene. D’altra parte, fare l’esperienza di Dio è possibile soltanto nel cuore della esperienza della storia, intesa come la dimensione presente dell’uomo nella quale vive, lotta, si mette in discussione, prende decisioni e intraprende un cammino. Nella radicalità di questa dimensione, appare la realtà di Dio come vita della vita e forza del cammino.

Questa realtà di Dio è trascendente, immanente e anche trasparente.

La trasparenza di Dio, in questo caso, consiste nella manifestazione della stessa presenza divina attraverso il mondo.

Il mondo, a sua volta, è anch’esso trasparente nel senso che attraverso di esso si scopre la presenza di Dio e si fa l’esperienza di Lui.

Ma il mondo è trasparente soltanto per chi ha una percezione sacramentale.

La percezione sacramentale, o “visione in profondità”, è la capacità di trovare un significato spirituale nei segni materiali, come la gioia in un sorriso, una dimostrazione di amicizia nei fiori; di cogliere nella realtà che si percepisce, nello stesso tempo, il divino e l’umano; il trascendente che si fa trasparente nell’immanente; di intravedere “un al di là” delle cose.

Alla percezione sacramentale si oppone la percezione funzionale, che considera le cose soltanto come cose e il mondo soltanto come mondo, così che difficilmente può intravedere l’altra faccia della realtà, quella invisibile.

La mancanza della percezione sacramentale è paralisi del nostro sguardo e schiavitù che le cose esercitano su di noi, rendendoci ciechi all’azione di Dio nella storia e sordi alla sua voce, che dalla storia, luogo teologico, ci interpella. 

Ma, grazie alla percezione sacramentale, la persona si può mettere in movimento dalla realtà come simbolo alla realtà simbolizzata, lasciandosi guidare dal simbolo verso il simbolizzato.

Il simbolo, infatti, è espressivo, rende visibile ciò che altrimenti rimarrebbe invisibile e ci invita a dirigere lo sguardo al di là di ciò che percepiamo.

Perché il missionario possa testimoniare e proclamare agli uomini l’amore del Padre, esperimentato nella comunione personale con Cristo, ha bisogno di far maturare in se stesso questa percezione sacramentale, che gli permette un’esperienza di Dio che abbracci tutte le dimensioni della sua esistenza.

A questa percezione sacramentale invitava continuamente Gesù con le sue parabole e le sue opere, che erano, come testimonia Giovanni, autentici segni offerti agli uomini, affinché riconoscessero in Lui l’inviato del Padre: “Tu non sai chi è che ti ha chiesto da bere e non sai che cosa Dio può darti per mezzo di lui. Se tu lo sapessi, saresti tu a chiederglielo, ed egli ti darebbe acqua viva” (Gv 4, 10).

4.2 Purificazione dell’immagine di Dio

A quest’esperienza di Dio trasparente attraverso il mondo che lo riflette senza esaurirlo, si arriva per mezzo di un processo spirituale, che comporta tre tappe, che ci portano all’incontro con il Dio vivo e vero, il Dio della vita, il Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo.

1ª Tappa: Immanenza-identificazione

In questa prima tappa ci aggrappiamo molto all’immagine come rappresentazione di Dio. Quest’immagine ha per noi una forza determinante; acquista, infatti, una tale densità fino a dar forma a ciò che esperimentiamo di Dio. Ancora non ci rendiamo conto che un’immagine di Dio è un’immagine umana di uno che non può essere rappresentato. Dio si identifica con l’immagine, la sua realtà diviene immanente alle realtà umane che la esprimono. Tuttavia grazie a questa identificazione-immanenza noi parliamo di Dio, preghiamo, cadiamo in ginocchio, ecc…

2ª Tappa: Trascendenza-disidentificazione

La seconda tappa ha luogo quando ci rendiamo conto dell’insufficienza delle immagini che ci facciamo di Dio. Ci accorgiamo che la realtà di Dio trascende le immagini e, per tento, lasciamo di identificarla con esse. A causa di una maggiore comprensione della sua trascendenza, si verifica una disidentificazione.

Il passaggio dalla prima alla seconda tappa porta ad una crescita religiosa non esente di una crisi, in cui i punti di riferimento religiosi possono vacillare.

Come accogliere nella nostra vita Dio come Padre al fianco di tanti uomini e donne che sono vittime innocenti dell’ingiustizia istituzionalizzata, degli orrori della guerra, degli abusi, della fame…? Allora, anche se con sofferenza, comincia ad aprirsi strada nel nostro cuore la convinzione che Dio è Padre, sì, ma un altro Padre, non è un Padre indifferente ma un Padre differente, la cui bontà paterna si realizza al di là di tutti i modi che noi possiamo immaginare e desiderare… Cominciamo, così, a mettere in questione le nostre immagini di Dio.

3ª Tappa: Trasparenza-identità

La nostra realtà corporale ci impedisce di prescindere completamente dalle immagini. Abbiamo bisogno di esse per accedere a Dio. Ma, allora, grazie alla tappa anteriore, posiamo incominciare a dare alle immagini un valore differente. Le assumiamo come immagini e non come la stessa realtà di Dio. Cominciamo ad assaporarle con la serenità di chi sa che non sono Dio ma che ci avvicinano a Dio. Allora, nel nostro rapporto con Dio, tutto diventa più semplice; non ci importa tanto riflettere; basta vedere, ma vedere in profondità. Dio, infatti, senza confondersi con le cose, è presente in esse perché le cose sono (per chi vede in profondità) trasparenti.

Allora la nostra esperienza di Dio può aver luogo per mezzo di tutte le cose, di tutte le situazioni della vita quotidiana, giacché per mezzo di esse Egli si rivela. Così entriamo e progrediamo nell’esperienza di Dio imparando a leggere la segnaletica che Dio mette nella vita quotidiana.

4.3. La partecipazione integrale della persona 

L’uomo è stato creato da Dio come un “essere-in-relazione” con se stesso, con gli altri, con il creato e con Dio stesso. Dio fa parte dell’esistenza umana, costituisce per ogni persona l’istanza suprema ed ultima, la soluzione della sua naturale tensione alla trascendenza, che le permette dare un volto nuovo ed un significato nuovo al suo sviluppo personale e alla sua tensione sociale. Ogni uomo manifesta una tendenza a rapportarsi con Dio. Dio gli è tanto necessario come se stesso e i suoi simili. La perdita di uno dei tre punti di riferimento -io, tu, Dio- distrugge l’uomo come essere normale. Il pazzo o ignora se steso, o ignora gli altri, o ignora Dio.

Per tanto, la realizzazione personale di ogni uomo è il risultato dello sviluppo e dell’integrazione armoniosa di queste tre dimensioni: costruirsi come persona, vivere in solidarietà, aprirsi alla trascendenza. La meta ultima dell’esistenza umana è la trascendenza, alla quale si arriva costruendosi come persona in solidarietà con gli altri.

In questa tensione verso la trascendenza, Dio si apre il cammino nel cuore dell’uomo attraverso la strutturazione dello stesso essere umano: attraverso la sua coscienza (= la sua propria interiorità), gli avvenimenti storici (= la solidarietà), la fede (= l’Alto, l’Oltre misterioso di Dio). Per tanto, l’itinerario spirituale dell’uomo, il senso della sua vita, si configura come un’interiorità aperta al superamento di se stessa nella trascendenza, nell’Altro Assoluto attraverso la solidarietà.

Allora, per fare una autentica esperienza di Dio, l’uomo deve partecipare con tutte e tre le dimensioni della sua esistenza:

– La dimensione trascendente o dell’altezza, per mezzo della quale l’uomo esplora i suoi confini e si mantiene unito in relazione di dipendenza e filiazione con tutto ciò che lo precede e avviene in lui e attorno a lui: padri, storia, tradizioni ambiente… fino ad arrivare all’Altro Assoluto e riconoscerlo come suo principio e fine; nella dimensione trascendente l’uomo riconosce stesso come “essere che si riceve”, come essere finito aperto all’Infinito. É la base umana che spinge la persona verso la fede religiosa propriamente detta, in quanto riconoscimento dell’Altro, che supera trascendentalmente ogni creatura.

– La dimensione sociale o dell’ampiezza e della solidarietà, che incorpora l’uomo per mezzo di vincoli e relazioni al mondo che lo circonda e agli altri uomini, e che lo va conformando e maturando nella sua personalità di figlio e fratello. Senza l’accettazione di essere figlio, la fraternità è ideologia vuota; senza giustizia e fraternità, la fede nel Padre è mistificazione. È la base umana che spinge la persona a quella particolare “fede negli altri”, su cui è ultimamente fondata la dialogicità relazionale umana, cha a sua volta diviene una mediazione attraverso la quale ci si apre e si riceve sostegno nel cammino di fede in Dio. 

– La dimensione interiore o della profondità, che mantiene l’uomo in intima comunione con le radici più profonde del suo essere, con la sua interiorità, con ciò che in lui è fonte ed origine di tutti i suoi impulsi ed atti. È la mia parte più intima, il cuore. Tutta la vicenda umana si gioca qui, nell’intimo dell’uomo, nel cuore. Il cuore, infatti, è il luogo delle decisioni libere, degli affetti profondi che cambiano la vita e dei grandi orientamenti che danno senso alla storia (Card. Martini).  È il luogo dove io sono davanti a Dio e Dio è davanti a me. Lì Dio mi è Padre ed io gli sono figlio. Lì il suo vedermi e amarmi è il mio essere me stesso; e il mio vedermi lì mi fa essere ciò che sono (S. Fausti).

L’esperienza di Dio è autentica quando si realizza in queste tre dimensioni dell’uomo integrale. Dio è per e sopra di noi, con noi e in noi

5. Il concorso di tutte le capacità della persona

Il vissuto concreto dell’esperienza di Dio non si estende soltanto alle tre dimensioni dell’esistenza umana (trascendente, sociale e interiore), ma esige l’impegno della persona con tutte le sue facoltà affettive e spirituali, secondo le parole di Gesù: “Amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente, con tutte le tue forze”(Mc 12, 30).

Per fare l’esperienza di Dio, si richiede tutta la persona, con il suo cuore, la sua mente la sua volontà. Ciò suppone equilibrio personale, una corretta visione teologica e l’aiuto ad evitare distorsioni e riduzionismi che impoveriscono la stessa esperienza.

Infatti, alle volte si privilegia troppo il cuore, inteso come emotività, trascurando il resto e riducendo l’esperienza di Dio ad una fonte di piacevoli e gratificanti emozioni: si cade così nell’illusione sentimentale. È il caso di coloro che, per incontrare Dio, hanno bisogno di “esperimentarlo”, nel senso di farlo oggetto delle proprie emozioni e sentimenti. Questa sottolineatura nell’esperienza di Dio può produrre l’incostanza, l’alternanza tra momenti di grande entusiasmo e momenti di aridità e mancanza di impegno, e può portare al “turismo spirituale” o al sincretismo, cioè alla ricerca di gruppi o movimenti religiosi che favoriscano “esperienze” nuove e gratificanti e l’inconsistenza nel cambiamento concreto di vita (volontà), che ha bisogno di essere basato in convinzioni solide e teologicamente chiare (mente).

Può esistere il rischio di un’allergia ad assumere nella pratica il progetto di Dio quando manca la sua consolazione.

Si può arrivare anche a fare ripetute dichiarazioni di amore a Dio e obbligarlo poi a condividere, in noi, lo spazio con molti altri amori. Come se Egli non fosse il Dio della vita, l’Assoluto, ma piuttosto un oggetto in più di consumo, occasione della nostra ricerca di esperienze spirituali gratificanti (cf. Mt 7,21).

In altre occasioni si assolutizza la volontà, arrivando a pensare che, per fare l’esperienza di Dio, basta comportarsi in un certo modo, imporsi una certa vita ascetica, recitare una certa quantità di preghiere o fare determinati esercizi di pietà, portare avanti un insieme di opere apostoliche, che divengono “mie”. In questo modo, si inverte la relazione Dio-uomo e si crea l’illusione di arrivare a Dio grazie alle nostre forze.

L’esperienza di Dio è un dono, che Dio concede all’uomo andando al suo incontro; l’uomo ha soltanto la capacità di accoglierlo con gioia, umiltà e gratitudine… Pensare il contrario è cadere nell’atteggiamento volontaristico.

Ciò succede a coloro che si chiudono nell’autosufficienza, nel perfezionismo narcisista e non sono capaci di accettare né il limite né la povertà come momenti di grazia in cui sentirsi amati, accolti e perdonati dalla tenerezza di Dio. A volte ci trasformiamo in legalisti rigidi con noi stessi e con gli altri, poveri di passione e di entusiasmo per l’avventura dell’esperienza di Dio, più stoici che innamorati, più burocrati dell’apostolato che testimoni e proclamatori dell’amore di Dio. 

Finalmente, si può verificare l’illusione razionalista che trasforma Dio in un oggetto di speculazione per mezzo della ragione e conservato in “naftalina”: è il Dio dell’ortodossia. Si tenta di ridurre Dio ad una equazione e di creare una religione a misura delle proprie idee; diviene allora difficile accogliere in profondità il senso del mistero; si pretende spiegare tutto e si considera umiliante sentirsi perdonati e debitori degli altri nel cammino verso Dio. Si sente difficoltà ad abbandonarsi a Dio, che è colui che dirige la nostra vita secondo la sua volontà; si preferisce conservarla sicura nelle proprie mani e proteggerla per mezzo di una solida barriera di sicurezze basiche. Non si comprende, soprattutto, la croce nella vita di Cristo e nella propria.

La nostra esperienza di Dio può trovarsi, al meno parzialmente, contaminata da qualcuna di queste illusioni. È una misura di saggezza prenderne atto. (cf. P. F. Masserdoti, Missionari per il Regno, pp. 20-21).

6. Esperienza trinitaria o cristiana di Dio

6.1. Gesù di Nazaret assoluta comunicazione di Dio

Dio stesso ha voluto manifestarsi per insegnarci come fare l’esperienza di Lui. Gesù di Nazaret è l’assoluta comunicazione di Dio. In Lui troviamo l’esperienza perfetta di Dio. Seguire Gesù vuol dire fare l’esperienza che Egli ha fatto, l’esperienza cristiana di Dio. La sequela di Cristo ci porta a fare l’esperienza di Dio come Padre, cioè, di Dio sopra di noi e per noi, origine e principio di tutto ciò che siamo. Ci porta a fare l’esperienza di Dio come Figlio, cioè, che è con noi, al nostro fianco, con la passione per il Regno di Dio, con l’ansia di fraternità e la sete di giustizia, che richiede il servizio del prossimo. 

È il Dio autocomunicato in Gesù, il Figlio, che ci riconosce davanti al Padre se noi l’avremo riconosciuto nei fratelli più piccoli, e che si mantiene in continua comunicazione nella storia degli uomini attraverso ogni persona.

Ci porta, in fine, a fare l’esperienza di Dio dentro di noi, in noi, “emergendo nella radice della nostra stessa vita e costituendosi come fonte dei nostri migliori impulsi e più nobili pensieri. È l’esperienza dello Spirito di Dio in noi” (Guerrero). Dio sopra di noi e per noi (Padre), con noi (Figlio), in noi (Spirito) si fa presente nella totalità dell’esistenza umana.

Per tanto, l’esperienza trinitaria o cristiana di Dio si realizza nelle tre dimensioni dell’esistenza della persona umana: Dio è sopra di noi, con noi e in noi: è nostro Padre, nostro Fratello e nostro Spirito. Nel Padre ci crea, ci elegge e ci ama; in Cristo, “Dio con noi”, realizza nella storia il suo progetto su di noi; nello Spirito, “Dio in noi”, si costituisce come vicinanza personale nella nostra vita.

La vita del missionario esige nella formazione di base e permanente l’apertura totale della sua esistenza, nella sua dimensione trascendente, sociale e interiore, all’esperienza del Padre in Gesù Cristo nello Spirito Santo, cioè alla esperienza trinitaria di Dio. 

6. 2. Esperienza trinitaria di Dio e formazione della personalità apostolica.

L’esperienza trinitaria di Dio richiede all’apostolo che si apra ad essa nella triplice dimensione della sua esistenza e ai doni che in essa il Signore gli concede. Così va assumendo e conformandosi ad un modo apostolico di essere nel mondo.

1ª. Dimensione interiore ed esperienza di Dio in noi.

L’interiorità, attraverso la sua stessa maturazione, va prendendo coscienza della sua identità, cioè, il senso dell’io come individuo e come apostolo.

Contemporaneamente, la persona si va aprendo ad una esperienza di Dio sempre più profonda e al dono della speranza creativa, che lo Spirito infonde in chi va assumendo la forma di apostolo. 

Così si stabilisce nell’apostolo un circuito di crescita continua. Infatti la maturazione della sua interiorità che lo porta a prendere coscienza della propria identità, gli permette di aprirsi all’esperienza di Dio in noi. Come un dono del suo amore, Egli infonde nella persona la virtù teologale della speranza creativa, la quale influisce nella sua dimensione interiore dandole profondità, cioè, una base solida per la sua vita apostolica. A sua volta questa maggiore profondità influisce nella coscienza di sé e le permette di aprirsi ad una esperienza ancora più profonda del Dio in noi. Così la continua crescita dell’apostolo nella sua vita intimità con Dio lo fa crescere nello slancio apostolico , e lo slancio apostolico lo spinge verso una sempre più profonda esperienza di dio in noi (Cf. RV 82; 82.1).

2ª. Dimensione sociale ed esperienza di Dio con noi

La dimensione sociale dell’esistenza va maturando come apertura all’altro in quanto persona diversa, come spinta verso la solidarietà e così va suscitando il senso del noi. Per questo motivo, la dimensione sociale comporta un impegno sempre più saldo con la realtà presente ed una sintonia con la storia come cammino verso un futuro migliore dove ci sia giustizia e fraternità.

Lo sviluppo della dimensione sociale è un cammino privilegiato per arrivare e crescere nell’esperienza di Dio. Ma non si tratta soltanto di un’opzione spirituale o morale. La nostra stessa struttura antropologica ci mette su questa strada. Possiamo arrivare al cuore della nostra identità, soltanto aprendoci alle altre persone e in modo preferenziale ai poveri. “L’io esperimenta se stesso soltanto e sempre nell’incontro con le altre persone, distinguendosi e identificandosi con esse” (K. Rahner). Chi non incontra il prossimo, neppure incontra se stesso e tanto meno incontra Dio. C’è una stretta relazione tra l’esperienza di se stesso, l’esperienza dell’altro e l’esperienza di Dio. In termini biblici ciò significa che non si può amare Dio se non si ama il prossimo come se stessi. Queste tre realtà sono unite come gli angoli di un triangolo, che sono indissolubili (cf. Mt 22, 39-40).

Per tanto, la maturazione nella dimensione sociale comporta l’apertura all’altro, così che la persona vada elaborando in sé il senso del noi, cioè, la sua dimensione comunitaria nella solidarietà. Nell’esperienza comunitaria, la persona si apre all’esperienza di Dio con noi e al dono della carità pastorale, virtù teologale che influisce nella sua dimensione sociale, permettendole di darsi totalmente al servizio dell’altro e, per tanto, rendendole possibile una più forte esperienza di Dio (cf. RV 84; 36; 46; 20).

3ª. Dimensione trascendente ed esperienza di Dio sopra di noi

La nostra esistenza non si realizza soltanto raggiungendo una chiara coscienza dell’io e degli altri. Ogni conquista porta con sé un’insoddisfazione. Ogni successo insinua una meta ancora superiore. C’è in ognuno di noi una tensione ad andare sempre più “al di là”, verso la bontà, la verità, la bellezza che non hanno limiti. Questa dimensione che chiamiamo trascendente, nello stesso tempo che ci apre al patrimonio di cultura, di valori profondi, di conquiste dei nostri antecessori e che andiamo ricevendo come un dono che deve essere interiorizzato, ci spinge sempre più al di là, sempre più in alto, verso il Totalmente Altro, che supera e sconcerta le nostre attese e previsioni.

La nostra condizione corporale ci obbliga ad avvicinarci alla verità, alla bontà e alla bellezza somma, in forma graduale e per mezzo di immagini. Non può essere in altro modo, perché l’ ”infinitamente incondizionato” si può fare presente a noi soltanto per mezzo di rappresentazioni, parole, frasi, cose ed avvenimenti concreti. Ciò vuol dire che ci facciamo un’immagine di Dio.

L’immagine di Dio viene elaborata per mezzo di tutte le cose, le persone e gli avvenimenti nei quali l’uomo arriva a intravedere, a sentire o percepire il Mistero dell’Assoluto. 

Per tanto, non c’è bisogno di rompere le immagini che ci facciamo di Dio; l’unica cosa che ci resta da fare, è purificarle per mezzo della meditazione della Parola di Dio e soprattutto contemplando la Persona di Gesù nella sua relazione con Dio (cf. Gv 14, 8-9). Attraverso questo esercizio costante, andiamo imparando a convivere serenamente con esse, sapendo che Dio è al di là di tutte esse, ma che, a causa della nostra condizione temporale, non possiamo fare a meno di esse per dirigerci a Lui.

La maturazione nella nostra dimensione trascendente comporta lo sforzo per superare o purificare le immagini che ci facciamo di Dio. Molte volte ciò avviene nel mezzo di una crisi religiosa -piccola o grande- , che è stata risolta positivamente. La crisi è il crogiolo che purifica il nostro senso di trascendenza e la nostra fede. Lo sforzo per superare le immagini ci apre all’esperienza di Dio sopra e per noi che ci crea, ci elegge, ci chiama. Nell’apertura al Dio che si trova sempre più in là, riceviamo il dono della Fede che è per noi fortezza e slancio verso il futuro nella prospettiva di un Regno già inaugurato in Cristo, ma ancora da realizzare in pienezza.

Allora fare l’esperienza di Dio per e sopra di noi è “confrontare con le esigenze del Suo primato tutto ciò che si è e che si fa: Egli è la misura del vero, del giusto, del bene. Vuol dire tornare alla verità di noi stessi, rinunciando a farci misura di tutto, per riconoscere che Lui soltanto è la misura che non passa, l’áncora che dà fondamento, la ragione ultima per vivere, amare, morire. Vuol dire guardare le cose dall’Alto, vedere il Tutto prima della parte, partire dalla Sorgente per comprendere il flusso delle acque”. 

7. La Vergine Maria, sintesi esistenziale e apertura totale

Nel cammino della crescita continua dell’apostolo nelle tre dimensioni della sua esistenza -interiore, sociale e trascendente- è particolarmente significativa la presenza della Vergine Maria. In Lei l’apostolo trova un esempio, un modello, una maestra per il suo incontro con Dio, giacché la Vergine Maria è la persona aperta esistenzialmente e totalmente all’esperienza di Dio (cf. RV 24; 47. 3; 51. 3; 46). 

In fatti, la dimensione interiore della sua esistenza è stata arricchita con la presenza dello Spirito-Dio in noi-, che ha fatto meraviglie in suo favore come ella stessa riconosceva (Lc 1, 35.49).

La dimensione sociale si incarnò in Maria in una vita di servizio in compagnia dei poveri (Lc 1, 39) e di collaborazione a Cristo nella sua opera redentrice (Gv 2, 5; 19, 25-27).

La crescita di Maria nella sua dimensione trascendente appare nella disponibilità assoluta a Dio. Dalla sua filiazione e dipendenza, in forma libera e decisa, ella si apre con il suo Sì a Dio e al progetto del suo Regno. 

Maria è madre e modello di ogni apostolo, precisamente perché sempre ed in ogni circostanza è stata dalla parte di Dio e al servizio della salvezza del mondo. Seguendo Maria, imitando i suoi atteggiamenti di fondo, l’apostolo trova il lei l’esempio perfetto dal quale imparare a crescere nell’incontro con Dio e a realizzarlo nella vita (cf. RV 46).

8. Attività o Mezzi di crescita e perseveranza

Tutto questo processo verso l’esperienza cristiana di Dio ha continuo bisogno di attività come mezzi di crescita e di perseveranza in essa. 

In particolare, ogni comunità formativa ha le sue attività specifiche, pensate in sintonia con l’ideale vocazionale, con la realtà nella quale è inserita e con la tappa concreta di formazione. Tuttavia si può affermare che, se certe attività non sono inserite e praticate sistematicamente nel cammino formativo, è difficile presumere che la persona si stia aprendo ad una profonda esperienza di Dio nelle tre dimensioni dell’esistenza umana così da mettere le basi di una solida e chiara personalità apostolica.

8.1. Attività per la crescita nella dimensione interiore dell’esperienza di Dio 

Per la crescita nella dimensione interiore verso l’apertura all’esperienza di Dio in noi, sono indispensabili le seguenti attività:

1ª. Riflessione personale sulla propria identità:

  • Ciò che sono: la mia realtà e la mia vocazione.

  • Ciò che non sono: le mie limitazioni.

  • Atteggiamenti che prendo davanti a ciò che sono e a ciò che non sono: accettazione.

  • Coscienza implicita di essere sempre di più: desiderio di crescita.

  • Coscienza di stare determinando ciò che la mia vita deve essere: donazione di sé libera e serena secondo un progetto di vita.

2ª. Sforzo di conversione e di revisione personale continua

Questa attività è necessaria per rimuovere il peccato in tutti i suoi aspetti e dedicarsi all’apostolato con libertà e gioia interiore, in una continua tensione verso la santità.

Si ottiene ciò con la costante pratica dell’esame di coscienza, del sacramento della riconciliazione e la direzione spirituale.

3ª. Iniziazione alla preghiera personale. 

Il Papa, scrivendo ai sacerdoti e ai vescovi ricorda: – La vita di preghiera deve essere continuamente “riformata”. L’esperienza, infatti, insegna che nell’orazione non si vive di rendita: ogni giorno occorre, non solo riconquistare la fedeltà esteriore ai momenti di preghiera, (…), ma anche e specialmente rieducare la continua ricerca di un vero incontro personale con Gesù, di un fiducioso colloquio con il Padre, di una profonda esperienza dello Spirito.

La santità consiste nello stare con il Signore e, a forza di starci, la sua immagine s’imprime nell’anima; e poi nel camminare alla luce di quest’immagine. In questo consiste la santità.

La preghiera è la ricerca del contatto personale con il Signore in vista della santità che si vuol raggiungere.

Per pregare c’è bisogno di metodo, di ordine e di disciplina, ma anche di flessibilità, perché lo Spirito Santo può alitare nel momento che meno si pensa. La gente si arena nella preghiera perché difetta di metodo. Chi prega in un modo qualsiasi, sarà un tipo qualsiasi. L’iniziazione alla preghiera deve essere un fatto costante nella vita del cristiano; in particolare l’esercizio della contemplazione aiuta a sviluppare la percezione sacramentale della vita: pregare la vita, preghiera con oggetti, ecc…

Il contatto con il Signore è soggetto ad alcune costanti:

1ª. Più si prega, più si desidera pregare.

2ª. Meno si prega, meno si desidera pregare.

3ª. Più si prega, “più” Dio è in noi.

4ª. Meno si prega, “meno” Dio è in noi.

5ª. Quando si trascura di pregare, Dio finisce per diventare “Nessuno” in noi.

Un apostolo nella cui anima Dio è venuto meno, sicuramente seguiterà a parlare “di” Dio, però sarà incapace di parlare “con Dio”; saprà parlare di Dio, ma non saprà trattare personalmente con Dio o che cosa fare con Dio. E chi non prende sul serio Dio nella sua vita, non prenderà niente sul serio; solamente lui resterà importante per se stesso. Gli sarà più comodo e meno impegnativo conformare gli altri a se stesso e non a quel Qualcuno che ci costringe all’incontro e pone allo scoperto tutto ciò che abbiamo, facciamo e siamo (cf. I. Larrañaga, Mostrami il tuo volto, Ed. Paoline, Roma 1982, pp.17-30)

4ª. Lettura spirituale, per inculturarsi nella Parola di Dio, per entrare nella ricchezza infinita di questa Parola, della vita dei Santi e degli autori spirituali che ci stimolano e la cui comprensione e possibile nella misura in cui ci apriamo all’influsso dello Spirito, “Dio in noi”.

8. 2. Attività per la crescita nella dimensione sociale dell’esperienza di Dio 

Per aprirsi all’esperienza di Dio con noi, alcune attività sono indispensabili:

1ª. Vita, azione e preghiera comunitarie 

Nella vita comunitaria l’apostolo vive uno dei viaggi più costosi ma più necessari, perché gli offre un’opportunità preziosa:  l’uscita continua da se stesso, dalle sue abitudini gratificanti, dai modi di vita e dai punti di vista esclusivamente personali. Tale uscita lo porta verso gli altri membri per conoscerli meglio, per accettarli come fratelli con cui condivide la stessa vocazione-missione in un atteggiamento di reciproco arricchimento. Tale atteggiamento lo rende nello stesso tempo capace di contribuire in modo particolarmente efficace nell’edificare la Chiesa come “Famiglia di Dio” (AC ‘97, 28).

La comunità “orante” è il luogo per la formazione e per il discernimento dell’esperienza di Dio di chi è stato chiamato a testimoniare e ad annunciare l’amore del Padre, esperimentato nella comunione personale con Cristo (cf. RV 46).

“Il dovere dell’apostolo è anche quello di offrire con la preghiera, i sacramenti, lo scambio e i sostegni fraterni, la possibilità di liberare la propria coscienza da ogni ambiguità e dalla tentazione dell’uso strumentale del potere, purificando e rafforzando l’impegno di servire con umile tenacia, al di là di ogni orgoglio e di ogni egoismo”.

2ª. Il lavoro apostolico in sintonia con i poveri.

L’esperienza profonda di Dio si sviluppa attraverso due coordinate inscindibili: la conversione al Dio e Padre del nostro Signore Gesù Cristo e la conversione al povero.

Conversione al povero significa vivere un’esistenza condotta in sintonia con l’azione dello Spirito che spinge a vivere oggi la prassi di Gesù: l’annunzio del Regno come stare a mensa con gli esclusi.

Il Regno di Dio che viene nella storia, si manifesta in Gesù e, per Lui, si prolunga in noi, attraverso di noi, ed opera, soprattutto, dove c’è “la fede operante nella carità” (Gal 5,6). Convertirsi al Dio di Gesù vuol dire, dunque, fare spazio al primato di Dio nella nostra vita. Un primato non in astratto, ma nel mettere in cima ad ogni desiderio, progetto e opera, la ricerca della Sua giustizia: “Cercate il Regno di Dio e la sua giustizia e tutto il resto vi sarà dato in sovrappiù” (Mt 6, 33), cioè, l’amore verso il Padre e verso i fratelli, imparando continuamente da Gesù, che è il Figlio che tutto riceve dal Padre e spezza coi fratelli: la sua esistenza è amore ricevuto e dato.

Proprio per questo, la conversione al Dio che viene nella storia in Gesù, è conversione al prossimo, al “malcapitato” imprevisto che incrocia la nostra strada di singoli e di comunità nella Chiesa.

Allora ci rendiamo conto che l’ “opzione per i poveri” non è una scelta vera e propria, cioè una possibilità tra le altre, perché la conversione al povero è intrinseca all’esperienza profonda di Dio. Esperimentare l’amore di Dio Padre nella comunione personale con Cristo (cf. RV 46), è sempre condividere la propria mensa con gli esclusi. Il Dio vero, il Dio e Padre di Gesù, è là dove c’è amore vero, cioè quando la nostra vita diviene una mensa imbandita per portare gli esclusi ad una vita piena e noi ci sentiamo felici di pagarne il prezzo, anche se a volte ci risulta caro. Qui c’è il sigillo del Dio vero, del Dio-Amore rivelato nel Cuore di Gesù. Dio traspare nella mia vita, quando io sparisco donandomi.

Ma chi sono gli esclusi, con i quali condividere la mensa?

Certamente sono tutte quelle persone che costituiscono le Situazioni “Nigrizia”: RV 5; AC ‘97, 4-8.

Tuttavia, la mappa degli esclusi non ha confini: gli esclusi sono tutti quelli che secondo il mondo non sono persone gradite.

Non è mai necessario sforzarsi per trattare con persone gradite anche se povere e diminuite. Il problema sorge quando ci troviamo davanti a persone non gradite, con le quali è difficile convivere: sono coloro che non sono capaci di dominarsi, i malcontenti di tutto, gli ironici, gli importuni, i complessati, i risentiti, i depressi, gli indifferenti e privi di entusiasmo, i cercatori di protagonismo ecc.. 

Questi esclusi, questi poveri li troviamo anche nella nostra stessa comunità: abbiamo contribuito più o meno a crearli e certamente siamo coscienti che in qualche misura ci siamo anche noi, perché ognuno di noi è portatore di qualche tratto di queste povertà.

Gli AC ‘97 alzano il velo su questo aspetto delle persone nelle nostre comunità: cf. nn. 9; 20; 123.

Questi esclusi aspettano di essere invitati alla mensa del nostro amore; ognuno di noi può aver bisogno di questo invito e di disponibilità ad essere accolto con la sua povertà alla mensa dell’amore del fratello, con cui condivide la vocazione e la missione.

Gli AC 97, nei nn. 29- 30 ci invitano a preparare questa mensa e ci danno indicazioni concrete sul come prepararla.

3ª. La riflessione critica sulla realtà

L’apertura sulla realtà in cui la comunità è inserita, per mezzo di una prassi cristiana, cosciente ed efficace, introduce l’apostolo ad una esperienza di “Dio con noi” come forza liberatrice di promozione e di comunione, come il senso di tutto il sacrificio ed il polo di riferimento dei desideri della comunità.

“Missione è ricerca di Dio e della sua “sapienza infinita dai mille volti” presso tutti i popoli, i ceti sociali, gli individui. È ricerca di nuovi terreni, sui quali il seme della parola di Dio possa essere gettato con generosità, sapendo che molto andrà perduto, e che con il grano buono crescerà la gramigna; pronti a lodare il Padre quando ci accorgeremo che il raccolto è maturato mentre noi dormivamo e anche là dove altri hanno seminato”

4ª. Sforzo per crescere nella comunione ecclesiale.

“Per fare missione, è necessario amare molto il Vangelo, l’uomo e la Chiesa. Chi parte sbattendo la porta, disgustato da ciò che lascia, parte in nome di se stesso.

Bisogna partire invece perché c’è dentro di noi speranza, gioia, fiducia. Bisogna partire proprio perché ci si trova bene.

Questo non significa essere ciechi, non soffrire per le contraddizioni, le lacerazioni della propria comunità. 

Missione è andare, in una pace sempre ricostruita con se stessi e la propria Chiesa, a scoprire e ricostruire pace presso gli altri”

5ª. Ottenere una crescita morale

Questa crescita deve avvenire in sintonia con il Vangelo per mezzo della pratica della carità secondo lo spirito delle beatitudini e con i valori del bene comune: tolleranza, solidarietà, impegno per la giustizia e la pace, corresponsabilità, ecc…

Questa vita morale porta ad una apertura evangelica agli altri, che l’apostolo esprime in modo particolare per mezzo della testimonianza personale e comunitaria dei consigli evangelici di castità, povertà ed obbedienza (cf. RV 58). 

In fatti, la pratica dei consigli evangelici è un modo di vivere la dimensione sociale dell’esperienza di Dio, cioè, di Dio con noi, che è rivestita di una forte carica di denuncia e di annuncio di una Buona Novella nel mondo di oggi.

Analizzando la situazione sociale del nostro tempo, emergono fatti e situazioni che interpellano la coscienza di ogni cristiano:

– Cresce ancora la folla dei “nuovi poveri”, di gente priva dell’essenziale: la salute, la casa, il lavoro, il salario familiare, l’accesso alla cultura, la partecipazione. Tra questa gente vivono una particolare situazione di emarginazione: anziani, handicappati, tossicodipendenti, dimessi dalle carceri o dagli ospedali psichiatrici, ragazzi della strada, ecc…

– Imperversa il dominio degli idoli: denaro, potere, consumo, spreco, tendenza a vivere al di sopra delle proprie possibilità…

– Sono dissipati i valori essenziali dell’esistenza umana: il diritto a nascere e a vivere, la libertà, la famiglia, il lavoro, il senso del dovere e del sacrificio, la tensione morale e religiosa. 

Questa situazione costituisce una sfida per la responsabilità dei cristiani, che vengono a trovarsi di fronte al compito di mettersi a servizio per l’edificazione di un ordine sociale e civile rispettoso e promotore dell’uomo, dei suoi bisogni, del valore delle relazioni familiari e sociali, secondo il messaggio evangelico.

La pratica dei consigli evangelici è una risposta a questa responsabilità e a questo compito dei cristiani di oggi.

In una società che organizza il Pianeta Terra come patria definitiva, che ha deciso che non esiste niente al di sopra dell’uomo e che schiaccia i piccoli e gli sfortunati, la pratica dei consigli evangelici può esercitare un forte impatto. 

La castità può essere un correttivo e una forza di segno contrario all’esercizio di una sessualità impazzita. Agisce come forza alternativa di orientamento di tutte le energie umane al servizio dell’amore di Dio e del prossimo.

La povertà può essere un correttivo e una forza di segno contrario alla ricerca del benessere materiale al di sopra di tutto. La testimonianza di una vita austera, lontana dalla superficialità borghese, ci abilita ad annunciare la beatitudine della povertà anche ai ricchi e a sensibilizzarli alla miseria in cui vive la maggior parte dell’umanità; nello stesso tempo ci conferisce l’autorità morale per denunciare le ingiustizie e lavorare per formare una coscienza morale e politica in favore degli esclusi nella società attuale.

L’obbedienza può funzionare come un correttivo o una forza di segno contrario alla libertà senza responsabilità, alla rivendicazione di diritti senza contropartita di doveri. L’obbedienza fonda un genere di convivenza dove la produzione e l’efficienza non costituiscono il fine ultimo, dove la solidarietà permette la realizzazione di grandi cose e di piani comuni, dove l’autorità si trova a servizio dell’unità. 

D’altra parte stiamo uscendo da un’epoca, in cui il futuro sembrava che stesse per essere plasmato da una serie di movimenti di liberazione, che potevano essere raggruppati nei seguenti: liberazione dall’onnipotenza del potere: erano movimenti in favore della libertà politica, contro ogni genere di totalitarismo, contro il razzismo; liberazione dall’onnipotenza della ricchezza: movimento operaio, sindacati, giustizia sociale; liberazione dall’onnipotenza del sesso: liberazione della donna; liberazione contro la strumentalizzazione di essa.

In questi movimenti scorgevamo espressioni della volontà di Dio, segni dei tempi, avvenimenti indicatori per l’impegno cristiano. 

Oggi di questi movimenti ci restano delle tracce, mentre si impone il sistema economico liberare nella sua forma più radicale con tutti gli idoli che lo accompagnano.

In questa situazione sociale, la pratica dei consigli evangelici può significare un “” a quanto di umano proponevano i movimenti di liberazione ed un “no” alle nuove idolatrie del sesso, del denaro, della pretesa che ognuno basta a se stesso.

La castità, mentre ci rende solidali con chi rifiuta di divenire semplice oggetto di piacere, mette in guardia contro le infiltrazioni radicali che esaltano la più indiscriminata e illusoria liberalizzazione nel campo sessuale.

La povertà, mentre ci spinge ad abbracciare la causa dei poveri, mette in guardia davanti agli inganni della società opulenta, retta dalla ossessione del possesso e del benessere, che finisce per creare ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più poveri.

L’obbedienza, mentre ci mette a fianco di coloro per i quali obbedire non è una virtù ma una dura necessità ed una forma di schiavitù, mette in guardia contro le soluzioni private di solidarietà o incapaci di autodisciplina.

I voti danno così un apporto ora di annuncio, ora di denuncia, ora di solidarietà, ora di critica, ora di stimolo, ora di avviso; e dicono agli uomini e alle donne di oggi che lo sforzo per la trasformazione della società comincia dalla lotta contro il peccato personale, contro l’io aggressivo, intollerante, prevaricatore e adoratore di se stesso.

La pratica dei consigli evangelici vuole e deve dimostrare che il mondo non può essere trasfigurato né offerto a Dio senza lo spirito delle beatitudini (cf. LG 31).

8. 3. Attività per la crescita nella dimensione trascendente dell’esperienza di Dio 

Un’attività privilegiata per crescere e per formare nell’esperienza di Dio Padre, attraverso i segni, è la celebrazione liturgica.

Ogni celebrazione, effettuata con spirito di fede, con raccoglimento, con un atteggiamento anche esteriore che indica un incontro con il Trascendente, è un potente invito a fare l’esperienza di Dio sopra e per noi, cioè di Dio Padre. 

La celebrazione eucaristica in cui si ricorda la Storia della Salvezza e si vive questa Storia nell’oggi della nostra vita con spirito di festa, è fondamentale per la formazione della persona e della comunità all’esperienza di Dio.

La celebrazione penitenziale, da parte sua, ci apre non solo alla coscienza del peccato ma anche alla coscienza della liberazione dallo tesso come opera esclusiva di Dio. Ci apriamo al Dio del perdono come il figlio prodigo che ritorna ed è accolto dal padre in un atmosfera di riconciliazione e di festa.

Gli atti, piccoli o grandi di rinuncia, di distacco, che ogni giorno possiamo realizzare, ci vanno aiutando a coltivare il senso della trascendenza. È una autoaffermazione al senso del relativo, necessario in ogni momento in cui ci sentiamo inclinati – con illecite trasferente – di rivestire di assoluto qualunque realtà creata che ci entusiasma.

Lo studio della teologia è anche fondamentale per l’apostolo. Essa lo aiuta nella comprensione della funzione del simbolo; lo introduce nella realtà sacramentale di Cristo e della Chiesa come anche della sua stessa situazione storica che sono cammini per arrivare a Dio e alla realizzazione piena del suo Regno.

9. Visione d’insieme

Nel cammino spirituale, tenendo presenti le varie dimensioni del processo di maturazione verso l’esperienza cristiana di Dio, si devono evitare possibili assolutizzazioni, che enfatizzano decisamente una dimensione e dimenticano le altre. La esclusione di queste porta a formare personalità apostoliche deficienti.

Enfatizzare soltanto la dimensione della trascendenza, di Dio sopra di noi, può portare al disprezzo della società, dei suoi valori e problemi.

Dimenticare la dimensione della trascendenza è cadere in una vita molto attiva ma senza Padre. Ciò fa sì che l’apostolo non può essere luce in una società nella quale la dimenticanza del Padre ha portato a sterili lotte fratricide e a traumatizzanti rappresentazioni di Dio stesso.

Assolutizzare la dimensione sociale, di Dio con noi, è perdere l’Assoluto di Dio e far sì che l’uomo si trasformi in un assoluto per l’uomo.

Rigettare la dimensione sociale è marginarsi dalla storia e, per tanto, essere incapace di un apostolato che offra una “Buona Novella” di liberazione integrale e non soltanto dottrine senza aggancio con la realtà.

Assolutizzare la dimensione interiore, di Dio in noi, può portare al soggettivismo, che impedisce valorizzare la realtà nella sua giusta dimensione e rigetta la comunità come luogo privilegiato del discernimento.

Dimenticare la dimensione interiore porta ad un vuoto esistenziale, ad essere più funzionario che apostolo e cadere, in moltissimi casi, nel consumismo deludente e superficiale.

C’è da notare, in fine, che al di là dell’assolutizzare o rigettare, c’è la scelta di un cammino che più corrisponde alla propria personalità. Un apostolo imparerà ad aprirsi con più facilità all’esperienza trinitaria di Dio partendo dalla sua dimensione sociale, un altro lo farà dalla sua dimensione della trascendenza o della profondità. L’importante è l’impegno dell’apostolo per arrivare, docile all’azione dello Spirito Santo, all’esperienza più piena di Dio e all’accoglienza e allo sviluppo dei doni di fede, speranza e carità nella sua vita, così che l’uomo interiore si vada rinnovando giorno per giorno. 

P. Carmelo Casile
Casavatore
, 8 Marzo 2021 – 29 Giugno 2022
[Comboni2000]