Giornata di riflessione e preghiera per fare memoria di padre Giuseppe Ambrosoli

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Mercoledì 16 novembre 2022
La comunità della Curia Generalizia dei Missionari Comboniani a Roma ha dedicato la giornata del 9 novembre alla preghiera e alla riflessione per fare memoria del confratello padre Giuseppe Ambrosoli, che verrà beatificato il prossimo 20 novembre a Kalongo, nel Nord Uganda. Paradossalmente, la parola chiave della meditazione, guidata da P. Giulio Albanese, è stata la ‘debolezza’. “La potenza di Dio non può manifestarsi se non nella debolezza dell’uomo, del missionario, appunto. La condizione essenziale per essere missionari consiste proprio nella presa di coscienza del proprio limite; proprio questa, onestamente accettata, permette di essere strumenti nelle mani di Dio”. Di seguito, pubblichiamo il testo della meditazione.

VIRTUS IN INFIRMITATE PERFICITUR

Padre Giuseppe Ambrosoli, medico e missionario comboniano a Kalongo.

È nostro desiderio fare memoria di padre Giuseppe Ambrosoli. Su questo confratello, che per grazia di Dio ho avuto modo di conoscere personalmente, si è scritto molto, in vista soprattutto della sua beatificazione. L’intento dichiarato, conseguito peraltro con successo, è stato quello di mettere in evidenza le sue straordinarie virtù.

Essendo qui oggi, innanzitutto e soprattutto, per pregare, vorrei soffermarmi su un aspetto della sua spiritualità che ho appreso direttamente da padre Giuseppe: la debolezza. Questo è sempre stato lo stato d’animo che lo ha accompagnato fin da quando mise piede per la prima volta a Kalongo, nel Nord Uganda. Occorre precisare che oltre ad essere egli un “contempla-attivo” (per dirla con le parole di don Tonino Bello) fu anche un mite, docile all’ascolto, garbato nei modi, indefesso lavoratore, sensibilissimo e al contempo audace, con una straordinaria energia trasformante. Ma tutto questo trovò la sua ricapitolazione nella debolezza. Provo a portare qualche esempio esplicativo.

Trovandosi a che fare, proprio a Kalongo, appena arrivato, con due personalità forti come padre Alfredo Malandra e suor Eletta Mantiero, egli non volle imporsi nei loro confronti con il rischio d’innescare chissà quale tensione o conflittualità. Ma accettando la debolezza determinata da quella condizione, egli trovò lo stimolo per passare dalla comprensione all’accettazione, al cambiamento. “Ambrosoli – ha scritto pertinentemente padre Baritussio – era uno che pur accettando l’esistente, non si accontentò dell’esistente. Trovandosi con due personalità forti come padre Malandra e suor Mantiero, lui con una preparazione medica ben superiore, avrebbe potuto essere la causa di tensioni inconciliabili, e invece si inserì portando a piena fioritura ciò che inconsciamente era il desiderio profondo dei due anziani missionari”.

Ecco che allora accettando la debolezza determinata da quella situazione, i sogni divennero realtà: la modesta maternità della savana della Mantiero si sviluppò in un ospedale di 350 letti e il desiderio di riscattare la condizione femminile da parte di padre Malandra si concretizzò in una Scuola per Ostetriche conosciuta a livello nazionale. Tutta la sua vita missionaria è stata accompagnata dalla precarietà e dunque dalla debolezza, soprattutto quando alla fine fu costretto ad abbandonare l’ospedale di Kalongo a causa della guerra. Ma l’accettazione di quella condizione gli consentì miracolosamente di raggiungere Lira. Detto per assurdo, Ambrosoli è stato – anche questa è una citazione di padre Baritussio – un elefante che seppe destreggiarsi tra la cristalleria. La missione lo obbligò a far convivere grandi progetti e fragilità, debolezze appunto.

La grande lezione impartita da padre Giuseppe sta proprio nel fatto che la debolezza costituisce, paradossalmente, la condizione per non fuggire. Dobbiamo trovare il coraggio di ammettere i nostri limiti, chiamandoli anche per nome, senza spaventarci. Se uno è convinto che i risultati dipendano dal proprio efficientismo o dalla massiccia presenza di risorse umane e finanziarie, si sbaglia. L’esperienza di San Paolo, così come la descrive nella seconda lettera ai Corinti, ci può aiutare.  Tengo a precisare che fu proprio padre Ambrosoli a suggerirmi questa lettura regalandomi una copia di un libro scritto da Stanislao Lyonnet, Dieci meditazioni su San Paolo, (Paideia, Brescia 1965, cap 1.). In questo testo c’è una meditazione sulla debolezza che prende lo spunto da un brano di Paolo che vi offro per la preghiera personale: seconda ai Corinti capitolo 12, versetti 1 -10. Padre Ambrosoli mi disse queste testuali parole. “Mi ritrovo pienamente in queste parole di Paolo che costituiscono la Magna Carta dell’evangelizzazione”. Leggiamo il testo:

Fratelli, se bisogna vantarsi – ma non conviene – verrò tuttavia alle visioni e alle rivelazioni del Signore. So che un uomo, in Cristo, quattordici anni fa – se con il corpo o fuori del corpo non lo so, lo sa Dio – fu rapito fino al terzo cielo. E so che quest’uomo – se con il corpo o senza corpo non lo so, lo sa Dio – fu rapito in paradiso e udì parole indicibili che non è lecito ad alcuno pronunziare. Di lui io mi vanterò! Di me stesso invece non mi vanterò, fuorché delle mie debolezze. Certo, se volessi vantarmi, non sarei insensato: direi solo la verità. Ma evito di farlo, perché nessuno mi giudichi più di quello che vede o sente da me e per la straordinaria grandezza delle rivelazioni. Per questo, affinché io non monti in superbia, mi è stata messa nella carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia. A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza». Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte”. (2Cor 12,1-10)

L’Apostolo scrive la sua missiva, la seconda lettera ai Corinti, tra il 56 e il 57 d.C. e nel capitolo 12 evoca delle grazie particolari, che lui chiama “rivelazioni”[1] ricevute all’inizio del suo ministero, dunque verso gli anni 42-43. Cosa fossero esattamente queste grazie, il testo non lo spiega con esattezza. Probabilmente si trattò di esperienze mistiche che Dio gli aveva concesso per prepararlo alla missione ormai prossima.

Ora, in connessione con questi doni, Paolo confida di averne ricevuto uno molto particolare: “Perciò, affinché la grandezza delle rivelazioni non mi facesse insuperbire, mi è stata messa nella carne una spina, un inviato (angelo, messaggero) di Satana, incaricato di schiaffeggiarmi perché non mi insuperbisca”[2].

Una spina (scolops, stimulus). Sul significato da dare a questa “spina” la fantasia dei biblisti ha superato ogni limite. Sono stati scritti veri e propri trattati per cercare una risposta. A che cosa allude, in effetti, San Paolo? Partendo dalla versione della Vulgata (“datus est mihi stimulus carnis meae”, col genitivo[3]), alcuni esegeti hanno pensato che l’Apostolo intendesse parlare di tentazioni contro la castità. Ma questa interpretazione non ha alcuna possibilità di essere vera perché non ha un riscontro nel testo originale in greco. Altri studiosi vedono nella spina, una malattia, probabilmente cronica, forse la malaria.

La tesi più convincente è quella di Stanislao Lyonnet il quale rileva che nel testo greco non c’è il genitivo, ma il dativo. Secondo Lyonnet, il metodo migliore è quello di consultare prima il contesto immediato del passo. Esso infatti ci fornisce qualche preziosa indicazione[4]. Nello stesso versetto 7, Paolo spiega che questa spina è un “messaggero di Satana”, cioè qualcosa che egli considera come un ostacolo al suo apostolato. Satana è difatti colui che “toglie la parola dal cuore degli uomini per impedire che, credendo, si salvino”[5] . E ancora, nella prima lettera ai Tessalonicesi, leggiamo: “Infatti per una o due volte abbiamo determinato di venire da voi, ma Satana ce l’ha impedito”[6]. Nel versetto 10 poi, secondo Lyonnet, Paolo sembra dare ogni chiarimento necessario, parlando, in termini generali, di “debolezze, oltraggi, necessità, persecuzioni, angustie” (non di malattia!). Sono tutte le sofferenze, le tribolazioni inerenti alla vita apostolica: “Di più poi nei travagli, di più nelle prigioni; oltremodo di più sotto le battiture... in pericoli tra i falsi fratelli...”[7]. D’altro canto è facile immaginare quanti bocconi amari Paolo abbia dovuto mandare giù nel suo apostolato.

Ora, “per ben tre volte, riguardo a questo pregai il Signore, perché lo allontanasse da me”[8], riferendosi all’inviato di Satana. Una preghiera insistente, la sua, ripetuta per ben “tre volte” (quindi, considerando il significato biblico del numero, una petizione avanzata un’infinità di volte). Eppure, stando al testo, la risposta del Signore è sempre stata la stessa: “ti basta la mia grazia”[9]. Finalmente, un bel giorno, Paolo capisce come stanno davvero le cose. Si accorge, cioè, che sebbene Dio gli dia l’impressione di respingere il suo appello, di fatto lo esaudisce. Egli, a pensarci bene, ragionava con una mentalità molto vicina alla nostra, fondata sull’efficienza e sulla convenienza, mentre la logica di Dio è quella delle Beatitudini. Ciò che Paolo credeva un ostacolo è invece una condizione favorevole per vivere la missione ed il perché è presto detto: “Poiché – spiega il Signore – la mia potenza si mostra appieno nella debolezza”[10]. Sembra un paradosso, eppure nella fede è così. La potenza di Dio non può manifestarsi se non nella debolezza dell’uomo, del missionario, appunto. La condizione essenziale per essere missionari consiste proprio nella presa di coscienza del proprio limite; proprio questa, onestamente accettata, permette di essere strumenti nelle mani di Dio. Paolo conclude allora affermando: “Ben volentieri, dunque, io mi glorierò nella mia debolezza, affinché abiti in me la potenza di Cristo”[11]. Il verbo usato da Paolo (episkenoo) è lo stesso che indica la presenza della “gloria di Jahvé” sull’arca e, nel Nuovo Testamento, la presenza del Verbo di Dio sulla nostra terra: “E il Verbo si è fatto carne ed ha abitato fra noi”[12].

L’Apostolo, conscio della sua debolezza, sperimenta la forza del Signore. Si comprende allora perché Paolo arrivi a dire senza esitazione nella stessa epistola: “Per questo io mi compiaccio delle mie debolezze, degli oltraggi, delle necessità, delle persecuzioni e delle angustie per la causa di Cristo, perché quando son debole è ben allora che sono forte”[13]. Questo è il significato generale delle parole di Paolo. Ma per poter penetrarne tutta la profondità della sua esperienza, il nostro sforzo oggi dovrebbe essere quello d’incarnare uno stile, quello paolino (e per la proprietà transitiva di padre Ambrosoli) che non pare sempre così evidente nella prassi contemporanea. Non siamo così ingenui da pensare che le cose si rigenerino così facilmente. E neppure pensiamo che la fede si imponga da sola semplicemente per il fatto che qualcuno la dica agli altri o raccomandi di possederla.

Vi è piuttosto un bisogno di riscoprire la debolezza paolina nell’essenzialità della propria vita personale e comunitaria. Preghiamo affinché padre Ambrosoli ci aiuti a cogliere questa dimensione nel discernimento personale.

Domande per la riflessione personal:
1). Prova a chiamare per nome la tua “spina nella carne”
2). L’apostolo Paolo scrive che è “nella debolezza che si manifesta la potenza di Dio”. Ne hai coscienza?
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[01]  2Cor 12,7.
[02]  2Cor 12,7.
[03]  Il testo greco ha invece il dativo te “sarki” senza l’aggettivo possessivo.
[04]  Cfr. Stanislao Lyonnet, Dieci meditazioni su San Paolo, Paideia, Brescia 1965, cap 1.
[05]  Lc 8,12.
[06]  1Tess 2,18.
[07]  2Cor 11, 23-27.
[08]  2Cor 12,8.
[09]  2Cor 12,9.
[10]  Ibid.
[11]   2Cor 12,9.
[12]  Gv 1,14.
[13]  2Cor 12,10.