Ricordando Sr Maria De Coppi sul posto dell’uccisione a Chipene, nel Mozambico

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Sabato 25 marzo 2023
Sr Laura Malnati, provinciale delle suore missionarie comboniane del Mozambico, torna a Chipene per la prima volta dopo l’attacco terroristico del 6 settembre 2022, nel quale è stata uccisa sr Maria De Coppi [nella foto], missionaria comboniana da 60 anni in Mozambico. Dalle rovine della stanza e della casa ricorda la figura di suor Maria e riflette sul senso della missione oggi. [Mozambico]

Il sacrificio della suora comboniana Maria De Coppi
Tra gli ultimi del Mozambico

All’Angelus dell’11 settembre 2022, Papa Francesco dice: «In questo momento di preghiera mi è caro ricordare suor Maria De Coppi, missionaria comboniana, uccisa a Chipene, dove ha servito con amore per quasi sessant’anni. La sua testimonianza dia forza e coraggio ai cristiani e a tutto il popolo mozambicano».

«Quelle persone stavano facendo la loro opera di distruzione nella vicina casa dei Padri. Avevano trascinato il cadavere della nostra sorella fuori dalla stanza. L’ immagine che mi è rimasta impressa negli occhi è proprio quella di un Crocifisso: l’avevano abbandonata in terra, con le braccia aperte. C’era il segno dello sparo, era al volto. Fumo dappertutto, la nostra casa stava bruciando. Suor Angeles ed io abbiamo cercato di coprire il corpo. Poi ci è venuto spontaneo andare dalle nostre studentesse, per metterle in salvo con una fuga nella foresta».

Così suor Eleonora Reboldi, missionaria comboniana, durante un intervento in pubblico, ha rievocato la fine di suor Maria De Coppi, freddata da un colpo di arma da fuoco la sera dello scorso 6 settembre, durante un attacco jihadista alla missione di Chipene, nel nord della provincia di Nampula, in Mozambico. In un comunicato, l’Isis ha affermato di aver ucciso la suora perché si era «impegnata eccessivamente nella diffusione del cristianesimo».

All’Angelus dell’11 settembre 2022, Papa Francesco dice: «In questo momento di preghiera mi è caro ricordare suor Maria De Coppi, missionaria comboniana, uccisa a Chipene, dove ha servito con amore per quasi sessant’anni. La sua testimonianza dia forza e coraggio ai cristiani e a tutto il popolo mozambicano».

Suor Maria De Coppi nacque a Santa Lucia Di Piave, in provincia di Treviso, il 23 novembre 1939, da Abramo e Ginevra Casagrande. I genitori lavoravano la terra. Avevano una grande fede che seppero trasmettere ai loro sette figli. Se a volte c’era qualche scaramuccia fra i piccoli, la madre li riprendeva con bontà, ricordando loro che «la cosa più bella è volersi bene e aiutarsi». Maria si preparò con entusiasmo alla prima Comunione; poi, con lo stesso slancio, si iscrisse all’Azione Cattolica.

A soli diciannove anni, il 25 marzo 1958, entrò nell’Istituto delle suore missionarie comboniane. Fece la sua prima professione religiosa il 29 settembre 1960. Dopo una breve esperienza a Bergamo come insegnante nell’asilo delle suore e una permanenza in Portogallo per imparare la lingua del Paese, il 7 agosto 1963 partì finalmente per il Mozambico. Giunse alla sua missione dopo un viaggio lunghissimo: trentun giorni sul mare, circumnavigando l’Africa. Alla famiglia scrisse: «Sono arrivata! Sono felice!».

Alla popolazione di questa terra suor Maria diede tutto il suo cuore, intrecciando innumerevoli rapporti di amicizia, annunciando e testimoniando il Vangelo, donando aiuto e speranza, condividendo le difficoltà, senza fuggire davanti ai conflitti che via via si succedettero, dalla guerra per l’indipendenza alla guerra civile fino agli attacchi dei terroristi. Profondamente sensibile e buona, soffriva nel vedere gli altri soffrire. «Io li conosco, li conosco uno ad uno. Sono così magri! Soffrono la fame» ripeteva col cuore angustiato.

Da giovane suora, nel vedere le umiliazioni inflitte agli autoctoni dai colonizzatori, pregava in cuor suo: «Signore, fammi nera!». Anche con le consorelle fu sempre premurosa, gentile, piena di carità. Le suore raccontano che era «accogliente, sempre pronta a gioire e a fare festa anche per le piccole cose». Dal 1984 al 1990, le fu chiesto di svolgere nella Congregazione il servizio di Superiora provinciale.

Le missionarie comboniane testimoniano che suor Maria, nonostante le difficoltà di quel periodo segnato tragicamente dalla guerra civile, «continuò i suoi viaggi e la sua preghiera accompagnando le sorelle nella loro realtà di ogni giorno, raggiungendole nelle loro comunità e incoraggiandole. Non le lasciò sole, forte della Parola del Signore che portava nel cuore». San Daniele Comboni diceva: «Voglio donne coraggiose e determinate che rischiano la loro vita per Cristo e la missione». Suor Maria è stata fedele agli insegnamenti del fondatore, sempre dalla parte degli ultimi, nel dono totale di sé stessa, fino all’ultimo respiro.
[Donatella Coalova - L'Osservatore Romano]

Giornata dei missionari martiri

Il 24 marzo la Chiesa italiana celebra la Trentunesima Giornata in memoria dei Missionari Martiri che quest’anno ha per titolo “Di me sarete testimoni”. La scelta della data ricade non a caso nel giorno del martirio di San Oscar Romero, arcivescovo di San Salvador, noto alla storia per la sua vicinanza al popolo salvadoregno oppresso da un sistema politico a protezione delle élite e assassinato da un cecchino dell’esercito nazionale il 24 marzo 1980.

Lo slogan “Di me sarete testimoni”, invito di Gesù rivolto ai suoi apostoli (At 1,8) risuona forte ancora oggi in chiunque scelga di raccoglierlo: è l’invito a farsi prossimi, a imitare il Maestro nella vicinanza a chi sta al nostro fianco, a raggiungere coloro che sono tanto distanti da sentirsi smarriti, ad abbattere i muri del pregiudizio, a soccorrere chi è nel bisogno.

Nel 2022 sono stati uccisi 18 missionari e missionarie: 12 sacerdoti, 1 religioso, 3 religiose, 1 seminarista, 1 laico. Dal 2001 ad oggi i missionari/e cattolici uccisi sono 634. Ma oltre ai missionari/e, ci sono vittime fra i comuni cristiani, centinaia, migliaia di cattolici uccisi in molti paesi del globo il cui resoconto è fornito dall’“Aiuto alla Chiesa che soffre”. La maggior parte di loro è morta proprio a causa del fondamentalismo religioso o etnico. Ma anche quando il motivo può essere la semplice rapina, è un fatto che segue una tendenza: si uccide il cristiano perché è indifeso, non porta armi, non si vendica, perché si impegna per i diritti umani, per il recupero psicologico delle vittime di guerre civili, perché parla di uguaglianza sociale, promuove la cultura per tutti.

Oggi si parla di oltre 300 milioni di cristiani che vivono negli oltre 50 paesi nei quali è più facile essere perseguitati, ostacolati nell’esercizio della fede, emarginati, discriminati e imprigionati. Sono quasi tremila quelli uccisi ogni anno (più di otto al giorno). È alto il numero delle donne, dei giovani e giovanissimi cristiani che subiscono violenza.

Le storie che arrivano da Nigeria, Siria, Pakistan, Libia, India, dal Mozambico, e da molti altri paesi, lasciano l’amaro in bocca. E non è solo l’integralismo islamico, segno della crisi interna allo stesso Islam, che preoccupa. L’intolleranza religiosa e il suo uso politico si manifestano anche, ad esempio, in un paese induista come l’India, o in uno buddhista come il Myanmar, dove vengono perseguitati sia cristiani che musulmani, come pure in quei paesi nei quali gruppi settari e ultra tradizionalisti di cristiani si legano a leader più o meno populisti e antiliberali (come sta accadendo nelle Americhe e anche in alcuni paesi europei).

Pure la cosiddetta cultura laica della nostra Europa, ufficialmente paladina della libertà, non è immune da tale virus, quando promuove idee verso le quali non è ammessa nessuna critica, mettendo a rischio la libertà di pensiero e quindi anche la libertà religiosa.

Un’altra forma di esclusione e ostracismo nei confronti dei cristiani è praticata attraverso i social e i media, con la promozione di modelli di vita centrati sull’io, sull’autorealizzazione della persona tramite denaro, divertimento, consumi, gioco, rischio, sesso. L’attacco a valori cristiani come la sobrietà, la castità, l’altruismo, il perdono, la famiglia, la vita, anche quando non è esplicito, è pervasivo e potente, soprattutto su chi lo subisce, più in modo emotivo che razionale, durante il delicato processo di formazione della sua personalità.

I cristiani, oggi, sono perseguitati come e più di quanto non lo fossero nei primi secoli dopo Cristo. Non è un dato felice. Eppure, paradossalmente, è un bel segno, un segno di grande vitalità. Nonostante la crisi di fede, molto forte soprattutto in Europa e nelle Americhe, il Vangelo non ha perso sapore. I cristiani continuano a imitare il loro Maestro, abitando le periferie del mondo, in mezzo ai poveri, agli esclusi, ai marginali. Il Vangelo continua a dar fastidio agli Erodi e ai grandi sacerdoti del nostro tempo. Continua a contestare una logica politica ed economica che dimentica la dignità della persona, indipendentemente dalla sua cultura o stato sociale, una politica che preferisce investire in armi invece che su pace, salute ed educazione, un’economia che depreda il pianeta a vantaggio di pochi. «Fratelli tutti», ha scritto papa Francesco. Parole semplicissime, ovvie forse, ma non per tutti. Parole che portano al martirio.

Se da una parte la conta delle vittime, le terribili violenze, le umiliazioni sistematiche, gli imprigionamenti ingiustificati, la distruzione di chiese, il bavaglio all’informazione, spezzano il cuore, dall’altra lo rinvigoriscono, perché sono segni di quanto sia ancora viva e forte la buona notizia di Gesù. Se milioni di cristiani, ancora oggi, sono disponibili a pagare di persona per la fede, una fede che non chiama alla vendetta, che promuove il perdono, che ama i nemici, che fa crescere la vita, possiamo avere speranza.
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