Mercoledì 22 novembre 2023
“Qualche giorno fa ebbi un sogno; vidi un vecchio missionario e poi mi accorsi che era proprio lui, Mons. Mason; mi sembrò perfino di udire la sua voce che si rivolgeva a me chiamandomi ancora “Don Luigi”. Volevo chiedergli se approvava le cose che stavo scrivendo su di lui, dietro richiesta di un certo Severino; ma non potei avere conferma, perché mentre mi sorrideva contento, io mi svegliai!”, scriveva P. Luigi Penzo, comboniano, nel 2003, centenario della morte di mons. Edoardo Mason. Oggi, a 120 anni dalla nascita, lo vogliamo di nuovo ricordare.

Ricordo del Vescovo Edoardo Mason, Missionario in Sudan,
nel centenario della nascita (1903-2003)

Testimonianza di P. Luigi Penzo

Data di nascita: 08/11/1903
Luogo di nascita: Limena PD/I
Voti temporanei: 01/11/1920
Voti perpetui: 01/11/1925
Data ordinazione: 11/07/1926
Data consacrazione: 29/06/1947
Data decesso: 15/03/1989
Luogo decesso: Verona/I

Di Mons. Mason conservo un caro ricordo. Ho avuto pochi contatti con lui, ma sono stati sufficienti a mantenere viva in me una ammirazione continua per la sua persona. Tra i frutti che mi piacciono di più, c’è la noce e la mangio con gusto. Ma la noce ha un guscio duro; e per gustarla bisogna rompere il guscio. È un paragone! a me piace paragonare Mons. Mason ad una noce; un uomo che all’apparenza mostrava una scorza piuttosto dura, ma che nascondeva una personalità ed un cuore ricco di grande umanità.

Per una fortunata coincidenza ho potuto trascorrere nel Bahr el Ghazal i primi mesi della mia esperienza missionaria. Arrivai a Wau il 19 Nov. 1955 proprio alla vigilia della Consacrazione Episcopale di Mons. Ireneo Dud. Mons. Mason mi accolse piuttosto freddamente e il motivo era ovvio: mi aveva dato l’ordine di partire da Khartoum per Wau senza aver ottenuto prima il permesso del Governo; a Malakal fui arrestato e rimandato a Khartoum, e per di più con una multa molto salata. Al vedermi esclamò: “Dio mio, quanto mi sei costato!”. Io aggiunsi candidamente: “Caro Monsignore, ammetta che la colpa è tutta sua!”. Non mi rispose e tenne il broncio per un po’ di tempo. Ma poi tutto si risolse per il meglio. Mi chiese se sapevo suonare l’organo, e io risposi che ero contento di prestare il mio servizio per la consacrazione di Mons. Ireneo. Accompagnai all’organo il coro dei seminaristi venuti dal Bussere; il canto fu splendido, e Monsignore salì alla cantoria con un volto gioioso e sorridente. Era proprio contento. Ma la sua gioia andava al di là del canto e aveva una radice più profonda; si sentiva orgoglioso di aver dato alla Chiesa Sudanese il primo Vescovo e quindi di aver contribuito in modo unico alla realizzazione del piano del Comboni: l’Africa deve essere salvata dagli Africani. In quel giorno compresi anche quanto gli premesse portare a termine la costruzione della “sua” Cattedrale; essa risplendeva già in tutta la sua bellezza, ma non era completa perché le mancava ancora la cupola. Nella costruzione materiale di quell’edificio, a cui stava dedicando tutte le sue energie, egli vedeva simbolizzata la costruzione di quella vera Chiesa che non è fatta di mattoni, ma da persone che si convertono alla fede in Gesù Cristo.

Proprio in quel giorno avvenne un episodio che ancora ricordo. A conclusione della celebrazione Eucaristica eseguii all’organo una fuga di Back. Vicino a me c’era un giovane seminarista che mi chiese: “Potrei suonare l’organo come te?”. Gli risposi: “Non soltanto come me ma meglio di me!” Ritrovai quel ragazzo al Seminario Maggiore; si chiamava Gabriele Zubeir. Imparò a suonare l’organo meglio di me; divenne prete, e poi vescovo di Wau, successore di Mons Ireneo Dud; poi Arcivescovo di Khartoum, settimo successore di Daniele Comboni, e ora Cardinale di Santa Romana Chiesa!

Mi ero accorto che Monsignore si era affezionato alla mia persona; non mi chiamava più “Padre Penzo” ma “Don Luigi”. Potevo entrare liberamente nel suo Ufficio e mettere in ordine la sua biblioteca personale, ricca ed aggiornata. Nella sua abitazione non c’era nulla di superfluo ma tutto era semplice e povero, eccetto la cappellina personale. L’aveva fatta addobbare con gusto e finezza; si era fatto mandare dall’Italia una bellissima statua della Madonna, che poi faceva portare in processione in occasione di alcune feste mariane particolari. Per la Madonna aveva una devozione molto sentita, e a lei volle dedicare la Cattedrale, col titolo di “Maria, aiuto dei Cristiani”. Forse aveva già intuito che la bufera islamica avrebbe colpito presto la Chiesa. Trascorreva molto tempo in preghiera nella sua Cappella personale, e quando ne usciva sembrava trasformato. Un giorno trovai una Suora che lo aspettava nel corridoio prospiciente la Cappella. Le chiesi come mai si trovasse lì a quell’ora insolita. Mi rispose candidamente: “Quando Monsignore esce di Chiesa è più` buono e sorridente, e più disposto ad ascoltarci”. Io pensai tra me; “Gesù è mite ed umile di cuore e possiede anche la potenza di cambiare il cuore piuttosto duro e acerbo di Monsignore”.

Un giorno Monsignore mi chiese di accompagnarlo a visitare la missione di Kwajok tra i Denka. C’era a Kwajok un confratello ammalato, e in missione mi avevano informato che Monsignore aveva una attenzione e tenerezza particolare per i suoi missionari ammalati; lasciava da parte ogni altro impegno e si sobbarcava a viaggi faticosi, anche a piedi, pur di andare a visitarli e a confortarli. Visitai la missione di Kwajok. Rimasi impresso dalla bellezza della Chiesa; le colonne che sostenevano il tetto erano costruite a forma di palme; la gente che gironzolava attorno alla Chiesa, alla scuola e alla casa dei Padri e delle Suore, dava un’atmosfera di gioia e di vita alla Missione. C’erano poi le officine, che producevano ottimi lavori di falegnameria e di meccanica sotto la responsabilita` di fratelli competenti. Ritornando a Wau espressi a Monsignore la mia ammirazione per i missionari di Kwajok; ma Monsignore interruppe seccamente le mie lodi dicendomi: “Io non lustro le scarpe a nessuno!” Era la scorza dura che in quel momento aveva in lui il sopravvento. Io tacqui, ma presi la mia vendetta il giorno seguente. Mentre mettevo in ordine la sua libreria, dissi: “Monsignore, la prego di leggere il Capitolo 16 della lettera ai Romani” Mi chiese il perché e gli risposi: “Quel capitolo contiene i saluti che San Paolo rivolge ai suoi collaboratori presenti in Roma; una ventina di persone, tra cui 4 donne; e per tutti ha una parola di lode. Veramente Paolo non si è vergognato di “lustrare le scarpe ai collaboratori”. Non mi rispose ma mi guardò compiaciuto.

Nella Missione di Mbili un giovane confratello, P. Mario Riva, era seriamente ammalato. Bisognava portarlo a Wau e Monsignore mi chiese se ero disposto a sostituirlo per qualche tempo, e per dare anche un compagno a P. Giuseppe Cavallera. Io gli dichiarai la mia piena disponibilità. Ricordo un episodio avvenuto sulla strada che portava a Mbili da Wau e che diede a Monsignore l’occasione per darmi un insegnamento importante. Una ragazza tornava da Wau per raggiungere il suo villaggio. Probabilmente aveva comperato in città un vestito nuovo; era un bel vestito, ma le stringeva troppo il petto, ed essa aveva rimediato all’incomodo facendo sul vestito due buchi in modo che i seni non ne restassero imprigionati ma ne uscissero fuori. Io espressi la mia sorpresa: “da noi le donne cercano di coprire i seni; qui avviene l’opposto”. Monsignore mi disse: “Don Luigi, abituati a guardare sempre con rispetto la nostra gente sudanese, non fare confronti e non condannarli mai, ma cerca di imparare. Essi possiedono dei valori che noi abbiamo perduto e che dobbiamo riscoprire vivendo in mezzo a loro. Qui le donne non sono mai derise, ma sono rispettate proprio per il grande dono della loro maternità”. Poi aggiunse: “Vede il mio autista Serafino? È ben vestito quando mi fà il servizio da autista. Ma è Denka; e quando ritorna al villaggio, prima di entrarvi deve togliersi i vestiti se vuole essere accolto amichevolmente dalla sua gente”.

Dopo una ventina di giorni, riportò P. Mario a Mbili, e mi disse: “Ho un’altra destinazione per te; ti porto a Tonj a sostituire P. Giovan Battista Cervetto che viene a Wau con me”. A Tonj potei ammirare la sua pazienza. Disse a Cervetto: “Lei ha due ore a disposizione. Comunichi a Padre Penzo tutte le istruzioni necessarie per l’andamento della Parrocchia, e alle 12 partiamo”. Il Padre stava gustando il suo pasto mattutino: un piatto di polenta con companatico. Passò un’ora, un’ora e mezza, e il Vescovo stava diventando impaziente; Cervetto, invece non si scomponeva. Quando infine mancavano 5 minuti alle 12, Cervetto mi chiamò nel suo ufficio; mi indicò il frigorifero che non aveva mai aperto e mai usato; mi mostrò i registri dei Battesimi e dei Matrimoni. Dietro la porta, in un angolo, c’era un secchio pieno di “merissa” (una bevanda alcoolica non forte ma nutriente); ne riempì una scodella, me la porse e disse perentoriamente: “Bevi!”. Io non l’avevo mai assaggiata ma obbedii, e la bevvi senza fermarmi, fino all’ultima goccia. Cervetto mi guardò compiaciuto, mi sorrise e mi disse: “Tu sarai un bravo missionario”. Erano esattamente le 12: Cervetto si rivolse a Monsignore e gli disse: “Sono pronto”.

Non dò importanza all’episodio della merissa, ma al fatto che Monsignore volle P. Ceretto con sé per quasi due mesi e cerco di spiegarlo in un contesto missionario. Mons. Mason è stato grande come vescovo perché ha dato una enorme importanza alle scuole. Era convinto che l’unica via per portare i Denka alla fede era la catechesi ai ragazzi. Aveva ben poca fiducia nel lavoro fatto tra gli anziani. Fondando una nuova missione egli incominciava dalla costruzione delle scuole, e riusciva ad ottenere un buon aiuto anche dal Governo. P. Cervetto era per Monsignore l’uomo della Provvidenza. Era stato Professore di matematica in Italia; aveva una competenza eccezionale nell’amministrare il denaro della Diocesi; a lui affidava l’incarico di illuminare i costruttori delle scuole per trarre fuori dal denaro del Governo anche le spese necessarie per costruire la casa dei Padri e delle Suore e possibilmente anche la Chiesa.

Trascorsi sei mesi circa a Wau, e poi mi venne il permesso di partire per il Bahr el Jebel, per collaborare con P. Bresciani e Fr. Ciccarese all’apertura del Seminario Nazionale di San Paolo Apostolo. Il Seminario fu aperto ufficialmente in gennaio del 1956; esattamente 50 anni fa. Ho avuto l’opportunità di rivedere ogni anno Mons. Mason quando trascorreva qualche giorno in Seminario per stare con i “suoi” seminaristi provenienti dal Bar el Ghazal. Rendevamo solenne la sua venuta con un giorno di vacanza. La sua visita era per me una occasione di scoprire gli aspetti alquanto contradditori della sua persona. Da una parte “compativo” la scorza dura dell’uomo che voleva tutti i ragazzi al suo servizio: dovevano pulire la sua auto; provvedere l’acqua, lustrargli le scarpe e gli scarponi da caccia, mettere in ordine la stanza. Dall’altra parte, ammiravo la sapienza di un uomo pieno dello Spirito di Dio. Parlava ai Seminaristi in Chiesa in modo ispirato; faceva loro conferenze forti e chiare sulla vocazione sacerdotale; li chiamava ad uno ad uno in stanza; li faceva inginocchiare; chiedeva da ciascuno un rendiconto dettagliato della vocazione e vita spirituale e poi li benediceva.

Notai una volta che era particolarmente interessato ad un seminarista “ancora molto giovane”: era entrato in Seminario all’età di 15 anni. Io preferii rispondergli con alcune parole dette da P. Vittorino Dellagiacoma, e che io ritenni ispirate: “Monsignore, Dio ha un progetto particolare su quel ragazzo. Aspetti che si compiano i disegni del Signore”. Vittorino è stato l’amico più caro della mia vita missionaria; pregava molto ed era sempre ottimista. Quel giovane seminarista si chiamava Gabriele Zubeir.

Nel 1960 Mons. Mason ricevette dal Governo l’ordine di espulsione dalla sua Diocesi. Fu nominato primo Vescovo di El Obeid, e vi rimase per soli sei anni. Poté però costruire una seconda Cattedrale che gareggia in bellezza estetica con quella di Wau. Egli volle che anche questa Cattedrale fosse dedicata a Maria, Regina della Nigrizia. Nell’abside centrale c’è una pittura eseguita da una Suora comboniana, brava pittrice. La pittura, oltre ad essere veramente artistica, ha anche un contenuto profetico. La Madonna siede sul trono come Regina: alla sua sinistra, c’è il Comboni e alla sua destra c’è Giuseppina Bakhita. Essi sono in atteggiamento di umile supplica e di preghiera; cosa chiedono alla Madonna? Essi sono i due patroni speciali della Nigrizia! I nostri fedeli sono convinti che la pace nel Sudan è un dono che ci è venuto dalla Madonna, e ci è stato ottenuto dalle suppliche ferventi rivolte a lei da San Daniele Comboni e da Santa Giuseppina Bakhita.

Ho rivisto Mons Mason quando, ormai, consumato dalla vecchiaia, si trovava a Verona in attesa di essere chiamato dal Padre, vicino al Comboni, per godere con lui le gioie del Paradiso. La gioia di rivederci era spontanea e reciproca. Mi chiamava sempre “Don Luigi”; mi voleva vicino a sé in refettorio e mi offriva il vino speciale che gli era riservato. Io ne approfittavo, guardato con una certa invidia dai confratelli che mi sedevano accanto.

Mi chiamava poi in stanza per lunghe ore di conversazione; mi chiedeva mille cose, a riguardo della nostra vita di missione, dei padri, dei Vescovi, dei Padri e delle difficoltà del nostro apostolato. Era particolarmente interessato alle notizie sul Seminario Maggiore e sulla crescita delle Congregazioni locali. Io capivo bene che il suo corpo, demolito ormai dalla malattia, era a Verona, ma la sua mente ed il suo spirito erano ancora in Africa. La scorza dura del suo carattere era del tutto scomparsa; restava un uomo autentico, un missionario meraviglioso, amante dell’amicizia, attento ai bisogni dei confratelli, pronto ad aiutare, particolarmente delicato con i confratelli ammalati.

Qualche giorno fa ebbi un sogno; vidi un vecchio missionario e poi mi accorsi che era proprio lui, Mons. Mason; mi sembrò perfino di udire la sua voce che si rivolgeva a me chiamandomi ancora “Don Luigi”. Volevo chiedergli se approvava le cose che stavo scrivendo su di lui, dietro richiesta di un certo Severino; ma non potei avere conferma, perché mentre mi sorrideva contento, io mi svegliai!

P. Luigi Penzo, mccj

Comboni2000 e comboninsieme
(Archivio comboni.info 2003)