Data de nascimento :
08/07/1917
Local de nascimento :
Lavis
Votos temporários :
07/10/1937
Votos perpétuos :
07/10/1942
Data de ordenação :
24/06/1943
Data da morte :
24/04/2004
Local da morte :
Verona
Alle prime ore del 24 aprile 2004 P. Germano Pilati ha concluso la sua esistenza terrena nel Centro Comboniano Ammalati di Verona. Gli ultimi mesi sono stati veramente dolorosi: si nutriva col sondino, respirava con l’ossigeno e si muoveva sulla sedia a rotelle, finché non è rimasto immobile nel letto. Eppure, fino ad una settimana prima della morte, ha voluto essere presente alla Messa e alle pratiche di pietà.
Pur essendo in una situazione così penosa, dalla sua bocca non è mai uscito il più piccolo lamento. Solo due giorni prima di spirare ha detto ad un’infermiera: “Basta, basta!”, ma ha pronunciato queste parole con il tono con cui Gesù ha detto: “Padre, se è possibile, passi da me questo calice”.
P. Germano ha lasciato molti scritti e un diario. In esso racconta la sua vocazione e la sua vita di missione “come un dono di Dio”. Tutto è stato dono nella sua vita: dalla famiglia molto religiosa al paese animato da un prete santo, dalla vocazione all’andare in missione. “In queste pagine voglio ricordare a volo di uccello le grazie che il Signore mi ha fatto nella mia lunga esistenza…”.
Nato a Pressano di Lavis l’8 luglio 1917 da Luigi e Fanny Dellagiacoma, agricoltori in proprio e benestanti, “mentre il rombo del cannone della prima guerra mondiale mi cantava la ninna nanna”, trascorse la sua infanzia tra casa, chiesa e scuola.
Da ragazzino ha incontrato P. Stefano Patroni che era andato al paese per predicare una Giornata Missionaria. Questi, vedendo il piccolo Germano che puliva lo scalone di casa, gli chiese se volesse farsi missionario. “Sì”, fu la risposta. Non c’è da meravigliarsi di un “sì” così pronto e spontaneo perché nella famiglia Pilati la fede era di casa. Dopo Germano, infatti, anche le sorelle Eleonora e Liliana e il fratello Tarcisio entrarono tra i Comboniani.
Anche la Madonna aveva messo gli occhi sulla famiglia Pilati, infatti, mentre sul terrazzo di casa i ragazzi imitavano la processione del Corpus Domini, Tarcisio, accecato dallo stendardo (un asciugamano), perse l’equilibrio e cadde di peso sui pietroni del selciato sottostante: 4 metri. Corse la mamma con le mani nei capelli. Germano, l’organizzatore della “liturgia”, fece appena in tempo a svignarsela, mentre colui che era caduto (oggi Comboniano), oltre alla botta, ebbe una bella tirata di orecchie. In quel periodo il paese, di soli 700 abitanti, grazie all’opera di Don Aurelio Zomer, diede alla Chiesa ben 17 tra sacerdoti e religiosi.
Non sei fatto per noi
Nel settembre del 1928 Germano era nella scuola apostolica di Trento, sotto la direzione di P. Angelo Negri. Fu subito ingaggiato nella filodrammatica, nel coro e nel “gruppo artisti” per la preparazione degli scenari per il teatro e per le operette che si eseguivano in seminario. In queste faccende, infatti, Germano mostrava del talento. Imparò anche a suonare l’harmonium. Durante una Giornata Missionaria, il superiore lo portò in paese perché lo aiutasse nella vendita dei libri. “Quel dì abboccò all’amo il giovinetto Giuseppe Dalvit, poi vescovo di San Mateus in Brasile”.
Mentre frequentava la terza media, a causa del paratifo, Germano fu mandato definitivamente a casa. Con una salute così cagionevole non poteva diventare missionario. La mamma fece il miracolo e in pochi mesi lo rimise in piedi. Ora si trattava di riprendere gli studi, ma come fare se a Trento non lo volevano? Una mattina, mentre Germano stava zappando in una valletta, dalla strada di sopra passò Sr. Maria Wender con i bambini dell’asilo. “Ehi, Germano, vuoi proprio abbandonare gli studi?”. “Non so proprio come fare, madre”. “Vai dal parroco. Lui ti aiuterà”. Questi gli disse che era troppo vecchio per dare lezioni. Forse poteva farlo il curato di Nave San Rocco, Don Maurina, che era un filosofo e un poeta. Germano vi andò accompagnato dal papà. Don Maurina accolse i due tenendo un paio di mutandoni di lana a tracolla per ripararsi dal freddo. “Nella sua proverbiale povertà – scrisse P. Germano – credo che non sia mai riuscito a comperarsi una sciarpa”. “Vieni domani mattina con il De Bello Gallico, leggerai e tradurrai”. “Non ho il dizionario!”. “Quale dizionario! In terza media il dizionario deve essere tutto qui - e si toccò la testa. Poi, bada che io non mi impiccio con zucconi e somari!”. Ogni mattina Germano faceva la sua ora di strada attraversando l’Adige e, a giugno, poté affrontare gli esami con ottimi risultati, così poté rientrare in seminario, non a Trento, ma nell’Istituto Comboni di Brescia, per la quarta e quinta ginnasio, accolto dal superiore, P. Luigi Cordone.
Tra bombe, feriti e macerie
Fece il noviziato a Venegono sotto la direzione di P. Giocondo Bombieri, padre maestro dei novizi, il quale trovò il giovane Pilati così maturo e preparato da mandarlo come insegnante di catechismo in parrocchia. Il 17 ottobre 1937, festa del Santo Rosario, il nostro giovane emise i voti. Il giorno dopo era a Verona per il liceo che aveva luogo nel seminario diocesano.
A Pilati venne affidato l’incarico di fotografo della comunità. Nel 1939 scrisse al Superiore Generale: “Non ho entusiasmo sensibile per la mia vocazione, ma sento con sicurezza d’esser chiamato dal Signore, perciò andrò avanti sicuro”.
Per la teologia passò a Padova come assistente e formatore dei seminaristi comboniani. Non gradì quell’incarico sembrandogli di non essere all’altezza di un compito così delicato: “Quell’antipatia che mi ispirava l’ufficio di formatore comincia a passarmi. Ho sempre un bel po’ di paura per il mio carattere, ma spero nell’aiuto del Signore” (1939).
“Sono tornato con nuovo ardore tra i miei ragazzi e mi pare d’essere risoluto a continuare, con maggiore buona volontà, per perfezionare la mia formazione col procurare quella dei giovinetti affidatimi” (1940). A Padova, Germano fu incaricato anche della musica e della filodrammatica, riuscendo ad entusiasmare i ragazzi.
Il 24 giugno 1943 fu ordinato sacerdote dal vescovo di Padova Mons. Agostini. Per la circostanza erano presenti i suoi genitori. Da anni infuriava la guerra e, il 16 dicembre di quel 1943, cominciarono i bombardamenti su Padova. Nella zona della stazione ci furono più di 2.000 morti. P. Germano, con i confratelli, si buttò tra le macerie cercando di aiutare i feriti confortandoli con i sacramenti e seppellendo i morti. Due bombe caddero anche sull’abside della chiesa dei Comboniani, ma non esplosero. Un secondo bombardamento colpì la casa, così i missionari decisero di trovare riparo a Luvigliano, sui Colli Euganei, dove già erano stati mandati i ragazzi.
Essendo chiuse le vie della missione, nel 1945 troviamo P. Germano come incaricato della gioventù nella parrocchia dell’Abbazia di San Zeno Maggiore a Verona. Alla fine dell’anno era a Bologna per lo studio dell’inglese e, nel giugno del 1946, i superiori lo mandarono in Inghilterra a perfezionarsi nella lingua in vista della prossima partenza per l’Uganda.
L’obbedienza fa miracoli
P. Guido De Negri, superiore in Inghilterra, quando lo ebbe davanti gli disse: “Invece di andare in Africa, è meglio che tu vada a Glasgow, in Scozia, a cercare vocazioni, dato che abbiamo intenzione di costruire un seminario nel Regno Unito”. “A Glasgow a cercare vocazioni, con quell’inglese che so?… Mi dia almeno un indirizzo, un punto d’appoggio”. “Arrivi lassù dopodomani alle 7,15 col treno. Celebri in cattedrale, fai colazione alla stazione e poi entri nella prima cabina telefonica che ti capita a tiro, cerchi sulla guida un nome italiano… quello sarà il tuo punto di appoggio”. “Ma padre!”. “Fai come ti ho detto”.
P. Germano andò a casa di un italiano il quale, appena vide il sacerdote, s’irrigidì e protestò dicendo che in casa sua non aveva mai messo piede un prete e mai lo avrebbe messo. Poi aggiunse: “Ormai è sera; per questa notte può dormire qui, ma domani, prima che ritorni mia moglie che è andata a trovare una figlia a Edimbugo, deve sparire”. “Va bene, grazie”. Intanto l’altra figlia telefonò alla mamma comunicandole la presenza del sacerdote. Questa ‘ordinò’ al marito di non lasciarlo partire finché non fosse rientrata. Quando la signora ritornò, abbracciò il missionario e gli disse: “Come sono contenta! È la prima volta che un sacerdote entra in casa mia. Resti, padre, resti con noi”. P. Germano scrive: “Rimasi in quella casa benedetta per due settimane. Potei visitare tutte le scuole che accettarono la mia presenza, e le vocazioni cominciarono a fioccare, mentre a Sunningdale si stavano trasformando le vecchie stalle in un decente seminario. Ancora una volta ho toccato con mano che l’obbedienza fa miracoli”.
Primo periodo ugandese
Nel maggio del 1949, ritornando da un lungo giro “vocazionale” P. Germano incontrò Fr. Giovanni Battista Volpato che stava pitturando il soffitto e che gli disse: “Ehi, padre, non sa che la mandano in Uganda?”. Un po’ perplesso P. Germano si recò dal superiore per sentire come stessero le cose, e questi gli rispose: “Sì, è proprio così”. Annotò sul suo diario: “Il dialogo, allora, si faceva così, ed era meglio perché lo faceva il Signore… da solo”.
Il primo giugno era a Parigi insieme a Fr. Angelo Avi, per consegnare una lettera al nunzio Mons. Roncalli, poi andarono a trovare le famiglie e il 15 erano già a Roma.
“Siamo trentini, dobbiamo salutare il Presidente De Gasperi”. Detto fatto: lo aspettarono sulla porta della chiesa dove si era recato per la Messa. Egli accolse i due missionari con un sorriso, fece loro qualche domanda e li salutò con grande cordialità. Il 21, festa di San Luigi, partirono in aereo. A Juba, un camioncino attendeva P. Germano per portarlo a Gulu. Qui lo accolse Mons. Angelo Negri, il superiore di Trento che gli aveva detto di non aver salute per fare il missionario. Fu il primo ed ultimo incontro, infatti, l’11 novembre di quel 1949, Mons. Negri morì.
Il primo periodo di vita ugandese per P. Germano si protrasse dal 1949 al 1960. I primi tempi furono dedicati allo studio della lingua acholi. Dopo tre mesi, il superiore, P. Giambattista Cesana, gli disse che poteva recarsi ad Anaka per il suo primo safari. Doveva portarsi dietro l’occorrente per 15 giorni, “ma vai tranquillo perché la gente non ti lascerà morire di fame”.
Anaka, a 70 chilometri da Gulu, era proprio all’inizio del parco, quindi piena di bestie che gironzolavano liberamente persino nel cortile della cappella. “Ne ho viste tante, ma mi hanno sempre guardato con occhi buoni e mi hanno rispettato. Solo una vipera del deserto ficcò i suoi denti nel polpaccio di una ragazzina che raccoglieva patate nel suo campo. Mi chiamarono, ma ormai era buio e il posto era lontano. Guidato da un giovane che reggeva la lanterna, raggiunsi la ragazzina… Non ho potuto salvarle la vita, ma l’anima sì. Brutto demonio, questa volta l’hai persa!”.
In aiuto ai confratelli stanchi e ammalati
Per rendere più spedito il suo ministero missionario P. Germano imparò a guidare la motocicletta e poi anche il camioncino. Ciò nonostante, parecchie volte doveva servirsi delle spalle di qualche giovanotto per attraversare i torrenti “fortunatamente ero piccolo e magro per cui non dovevano neanche faticare eccessivamente”.
Nel suo diario, si dilunga su una serie di avventure, in genere concernenti l’evangelizzazione, che sono molto interessanti e rispecchiano la vita missionaria di quei tempi. Dal 1951 al 1953 fu parroco a Pabò e dal 1953 al 1959 a Padibe. Una cosa dobbiamo registrare in questo primo periodo: P. Germano si rese conto che molte cappelle di missione con la relativa casa per il missionario erano ormai fatiscenti e cadevano a pezzi. Molti confratelli, costretti in Africa dalla guerra, erano ammalati e stanchi.
Egli si sentiva animato da un sano spirito di modernità, e cominciò ad aiutare i confratelli. Inoltre invitava i giovani ad impastare mattoni per restaurare le cappelle e le case di missione, quasi che volesse riprodurre un pezzo del suo Trentino in quelle lontane contrade. Poi c’era l’angustia di trovare l’acqua, scavare i pozzi, cuocere mattoni, costruire chiese, cappelle, scuole, ospedali e dispensari, case per catecumeni e catechisti, officine di arti e mestieri. Zitto, zitto, senza mai apparire, incoraggiava gli uomini a rimboccarsi le maniche e a darsi da fare anche per le loro abitazioni.
Tuttavia nel suo diario chiama “il mal del mattone il cancro del missionario” perché lo distoglie dall’evangelizzazione diretta “anche se oggidì sono molti i nativi che battono e cuociono mattoni per allungare l’esistenza delle loro capanne e delle loro vite”.
I numerosi viaggi esigevano visite periodiche che duravano da pochi giorni a varie settimane. Egli andava a piedi, in bici, in moto o col camioncino, a seconda della distanza. Non mancarono incontri che gli fecero sussultare il cuore. Più volte si trovò faccia a faccia con il leopardo, il leone, i bufali, i serpenti, gli elefanti… “ma da tutti questi ‘giganti Golia’, Dio sempre ha salvato il suo piccolo Davide”.
In Olanda con gli immigrati italiani
Dopo 10 anni di missione, era giunta l’ora delle vacanze. P. Germano chiese al superiore il permesso di andare in Inghilterra a terminare un corso di arte che aveva iniziato per corrispondenza in Africa. Nel frattempo il Signore aveva chiamato a sé i genitori; il fratello Tarcisio era diventato sacerdote e la sorella Eleonora aveva seguito Sr. Liliana tra le Comboniane.
In Inghilterra incontrò nuovamente P. De Negri che, questa volta, lo mandò in Olanda a cercare vocazioni: “E la lingua?”. “Le procuro subito un corso di olandese su dischi”. Sei mesi dopo gli arrivò l’invito a recarsi a Nimega, in Olanda, per parlare ad una settimana missionaria poi, invece di cercare vocazioni, gli fu proposto di fare il cappellano degli immigrati italiani: forse, tra i loro figli, c’erano anche delle vocazioni. I superiori si dimostrarono contenti, anzi mandarono ad aiutarlo P. Tarcisio Corbetta e i due si stabilirono ad Enschede, vicino al confine tedesco.
Durante la settimana P. Germano andava nelle fabbriche, nelle famiglie, nelle scuole cattoliche, ed anche nelle prigioni, ad incontrare le persone. Portava con sé una piccola mostra missionaria che aveva disegnato con le sue mani e la esibiva agli ascoltatori. Il 6 gennaio 1962 tenne la sua prima Giornata Missionaria. In genere i parroci, di domenica, gli davano la Giornata Missionaria. Ma ce n’era uno, chiamato dai confratelli “l’Unno” per la sua selvatichezza, che pareva irremovibile nel negargliela. P. Germano gli disse che avrebbe dato metà delle offerte che avrebbe raccolto, se avesse accettato. “Metà è troppo poco, mi deve dare almeno quanto ricavo ogni domenica dall’elemosina”. “D’accordo”. Alla fine della giornata P. Germano entrò in canonica con un sacchettino di soldi. Il parroco strabuzzò gli occhi e disse: “È meglio che facciamo a metà, come aveva detto lei”. “Benissimo, facciamo a metà”. Quando P. Germano uscì dalla canonica, vide dietro un angolo i due curati che avevano ascoltato i discorsi del loro parroco. Ognuno teneva in mano un sacchettino di soldi: “Questi sono suoi e se li porti via. Il nostro avaro parroco ne ha ricevuti anche troppi”. Inutile dire che la storia è finita nelle orecchie degli altri sacerdoti (non certo per opera di P. Germano) i quali si sono fatti delle belle risate alle spalle del povero “Unno”.
Stando sul confine tedesco P. Germano doveva ogni tanto assistere qualche cattolico della Germania. Perciò non trovò di meglio che imparare il tedesco. Un giorno il cappellano degli spagnoli ebbe un infarto. Lo fece chiamare e gli disse: “P. Germano, ti raccomando i miei spagnoli”. “Non so la lingua”. “Imparala”. E così imparò anche lo spagnolo.
“Al mio primo arrivo in Olanda, la mia prima impressione è stata quella di una comunità cristiana compatta e fervorosa. I seminari erano pieni, la vita religiosa nei conventi fervorosa, le chiese zeppe di fedeli. Ma notai subito che si trattava di una Chiesa troppo chiusa in se stessa. Dopo 10 anni qualche sacerdote presentava ai fedeli la moglie, chiedendo comprensione e tolleranza; i seminari erano vuoti, le chiese deserte e su un convento, ormai senza frati, apparve una cartello con questa scritta: “L’ultimo che esce spenga la luce”. E di vocazioni comboniane? Neanche l’ombra, per cui i superiori rimandarono P. Germano in Uganda.
Secondo soggiorno ugandese
Per giungere a destinazione, fece il periplo dell’Africa sulla nave Asia insieme a P. Danilo Castello. A bordo della nave, gli capitò tra le mani una grammatica swahili: “Può venire buona”, disse. E cominciò a studiare quella lingua. Giunto a Mombasa, fu avvicinato da un giovane che gli chiese di confessarsi. Parlava swahili.
La sera del 23 dicembre era a Moroto, accolto dal vescovo Mons. Sisto Mazzoldi, il primo vescovo del Karamoja, e per Natale era nella sua missione di Morulem. Siccome nella zona c’erano tanti acholi, P. Germano imparò l’acholi. Neanche un anno dopo la sua presenza a Morulem, gli giunse l’invito-obbedienza di recarsi a Kigumba “dove occorreva un missionario che conoscesse più lingue”. Si trattava di mettersi in testa il banyoro, il logbara e l’alur.
Un confratello gli fece notare che, a 55 anni di età, non poteva imparare tutte quelle lingue, ma Mons. Cesana gli disse: “Vai nel nome del Signore”. P. Germano partì, imparò le lingue e si buttò nel ministero anima e corpo. Nel suo diario scrisse: “Fin dal tempo del noviziato ho recitato tutti i giorni questa preghiera: Signore Iddio, che vuoi che tutti si salvino, manda operai e dà loro di annunciare il tuo messaggio, perciò concedi loro un po’ del carisma delle lingue, per Gesù Cristo il quale lo ha loro promesso”. La missione di Kigumba contava 51 cappelle: 27 di lingua alur, 15 di swahili, 4 di logbara e due di karimojong. Vi resterà per 12 anni, dal 1972 al 1984.
Meriterebbe un capitolo a parte l’azione di P. Germano in difesa degli ex simba del Congo. Dopo la loro disfatta, molti erano tornati a casa, in Uganda, e si erano avvicinati alla missione per salvarsi dalle vendette che potevano verificarsi. P. Germano li accolse come “cari figlioli” e cercò di proteggerli.
Nel 1977 tornò in Italia per le vacanze, ma fece anche una scappata in Olanda e in Germania per salutare i tanti amici che aveva lasciato e che lo ricordavano con affetto. P. Germano sapeva coltivare le amicizie. Al ritorno in missione fu mandato nuovamente a Kigumba.
In quel periodo l’Uganda era all’apogeo della sua potenza: aveva l’esercito più forte dell’Africa, almeno al di sotto del Tropico del Cancro, il benessere trasudava da tutti i pori, i campi offrivano due raccolti all’anno, i mercati erano pieni di merce... Il Presidente Amin, per far vedere che meglio di così non poteva andare, organizzò la “festa dell’abbondanza”. Ogni donna doveva presentarsi alla cerimonia portando due bambini in braccio, in più doveva mettere un cuscino nel grembo per indicarne un altro in arrivo…
L’era dei martiri
Il 14 settembre 1979, l’esercito di Amin oltrepassò il confine della Tanzania, deciso ad aprirsi una strada verso il mare: una passeggiata di 1500 chilometri. Ma i suoi carri armati furono affondati nelle paludi e Nyerere, presidente della Tanzania, invase a sua volta l’Uganda. Le truppe di Amin, passavano in rotta da Kigumba, rubando e uccidendo. I missionari si trovarono nella mischia. Giorni terribili, di spavento e di sgomento, e anche di sangue. Le missioni vennero sistematicamente svaligiate, le auto rubate e alcuni missionari furono barbaramente uccisi. In quella circostanza ci fu il martirio di 4 comboniani: P. Giuseppe Santi, P. Silvio Dal Maso, P. Antonio Fiorante e P. Silvio Serri.
Una domenica P. Germano, mentre si trovava in una cappella, vide arrivare una soldato armato e si nascose in sagrestia. Il militare entrò in chiesa, vide un ragazzino e gli consegnò un biglietto da dare al missionario, poi sparì. Nel biglietto c’era un’offerta e queste parole: “Padre, devo andare. Non so dove arriverò. Prega per la pace nel mio paese”.
Una sera arrivò alla missione un gruppo di soldati. Il capitano puntò il fucile al petto di P. Germano e lo costrinse ad aprire tutte le porte per vedere cosa restava da rubare. “Ma tu vorresti uccidere un sacerdote, un missionario?”, chiese ad un certo punto P. Germano. “Non voglio ucciderti, perché sono un cattolico. Voglio, però la tua roba”. “Prendi tutto ciò che vuoi a va in pace”. Durante la notte P. Germano, che dormiva in sagrestia, fu svegliato dal rumore di un camion che si era fermato davanti alla missione. Pensando che fosse arrivata la sua ora, si alzò, indossò la veste bianca e si prostrò davanti al tabernacolo “come nel giorno della mia ordinazione sacerdotale e offrii la mia vita a Dio”. Dopo un po’ tornò il silenzio: era stato un camion di tanzaniani che avanzava verso il nord Uganda.
Domenica 6 aprile, giorno di Pasqua, un altro camion di soldati si fermò davanti alla missione. Il capitano gli chiese se potevano ascoltare la Messa. “È Pasqua oggi, padre, e noi siamo cattolici”. P. Germano li accontentò e, all’omelia, fece il suo augurio: “Oggi, figli miei, non ammazzate nessuno”.
La dodicesima stella
Il 25 novembre 1984, P. Germano tornò dalla Messa in una cappella e trovò il provinciale d’Uganda, P. David Glenday. “Qual buon vento, padre!”. “Vento di cambiamento: ci sarebbe bisogno di te a Morulem come cappellano dei malati di lebbra”. La domenica seguente, P. Germano fece il suo ingresso a Morulem in bicicletta, giusto in tempo per la Messa delle 7.00. Tra i malati vide alcuni ragazzi che se ne stavano in disparte silenziosi. “Chi sono?” “Sono ragazzi karimojong. Sono sempre soli perché qui nessuno conosce la loro lingua”. “Lì per lì – scrisse P. Germano – mi venne un’ispirazione o una tentazione d’orgoglio? La corona della Donna dell’Apocalisse è formata da 12 stelle. Io conoscevo undici lingue: sei europee e cinque africane. Perché non tentare di mettere in testa anche la dodicesima in modo da poter comunicare con quei ragazzi così soli? Fu così che imparai anche il karimojong”. Indubbiamente P. Germano possedeva il dono delle lingue. Ma non è che questo dono non gli sia costato niente, anzi lo ha pagato a caro prezzo, come testimonia la cassa di quaderni scritti con una grafia sottilissima e ordinata in quelle lingue impossibili.
Dopo 10 anni a Morulem, il nuovo provinciale gli fece la proposta di recarsi a Kaabong tra i dodoth, imparentati con i karimojong. “Avevo faticato a imparare il karimojong. Ne avevo già colto dei buoni frutti ed ora mi si chiedeva di andare a vivere tra loro. A metà giugno del 1986 ero a Kaabong. Purtroppo anche questo popolo aveva trovato le armi lasciate dai soldati di Amin in fuga ed ora se ne serviva per fare razzie nelle tribù vicine”.
P. Germano ebbe il suo nuovo nome karimojong, il nome di un bue come è comune in questa tribù: fu chiamato Apaaloris, il bue leopardo. Come mai questo nome? “Perché passando in bicicletta apparivo e scomparivo, appunto come fa il leopardo”. Il primo sacerdote del Karamoja è un dodoth, P. Thomas. Altri seminaristi si preparavano a diventare sacerdoti e, alla domenica, lo accompagnavano per le messe e le catechesi nei villaggi.
Le gioie di P. Germano
Passarono altri anni. Gli acciacchi cominciarono a farsi sentire. Nel 1996, quando P. Germano lasciò la missione, aveva circa 80 anni e ne aveva vissuti 58 di sacerdozio missionario. Meritava davvero un po’ di riposo. Ma il suo riposo fu il tempo vissuto nella fede e nella sofferenza consapevolmente accettate e pregate.
Andò a Gordola, in Svizzera, prima come cappellano di una clinica e poi come “padre in riposo”. Nel 1999 giunse a Verona, al centro assistenza malati. Si riprese bene, tanto da poter andare ad Arco dove c’è una casa comboniana per l’accoglienza degli anziani. Lì celebrò il suo 60° di Messa.
Nel 2002 dovette ritornare definitivamente a Verona. Ormai il Signore batteva alla sua porta. P. Germano, allora, scrisse: “Il tuo splendore, Signore, canta la montagna e la valle adora il tuo nome. Nel tuo tempio tutto canta di gioia: alleluja, alleluja, alleluja. Tutto viene da te, Signore, e noi ti offriamo quello che ci dà la tua mano. Quanto sono belli, sui monti, i piedi del messaggero di pace, del missionario che fa conoscere il tuo nome alle genti”.
Le gioie più grandi per P. Germano sono derivate dalla possibilità di insegnare a molti la Parola di Dio e di distribuire a piene mani la sua grazia e il suo perdono nei moltissimi battesimi, nelle confessioni, nelle eucaristie e negli altri sacramenti. P. Germano ricordava commosso una bambina di 9 anni che, per non interrompere i primi venerdì del mese, fece a piedi Dio sa quanti chilometri, camminando tutto il giorno senza bere neanche un po’ d’acqua.
Il 24 aprile 2004 sorella morte è venuta a liberarlo dalle angustie della vita per spalancargli la porta del Cielo. Dopo i funerali in Casa Madre, che hanno visto una numerosa presenza di parenti e di amici, P. Germano è stato sepolto nel cimitero di Verona, accanto ai confratelli con i quali ha condiviso l’esistenza terrena. Di lui resta il ricordo di un missionario autentico, di un santo, proprio come Comboni voleva i suoi missionari.