In Pace Christi

Bizzarro Mattia

Bizzarro Mattia
Data de nascimento : 06/02/1927
Local de nascimento : Deliceto (FG)/I
Votos temporários : 15/08/1945
Votos perpétuos : 22/09/1950
Data de ordenação : 19/05/1951
Data da morte : 02/08/2001
Local da morte : Moyo (UG)

P. Mattia è conosciuto come il missionario dal cuore grande per la sua disponibilità a dare via tutto, ma potrebbe anche essere definito il missionario dei poveri per la sua predilezione per gli ultimi o “quello del crocifisso” perché il Padre si spostava nei suoi continui safari portandosi dietro un crocifisso di notevoli dimensioni che issava subito su una pianta o su un rialzo e cominciava la sua catechesi predicando Gesù Cristo e Cristo crocifisso, figlio di Dio, redentore, quindi fonte di salvezza e modello da imitare. “Sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza. Vorrei che le comunità alle quali sono inviato vivessero in grazia di Dio”, soleva dire.

Secondo di sette fratelli, p. Mattia è nato a Deliceto, Foggia, da papà Giovanni, agricoltore e da Doto Imperatrice, casalinga. La famiglia era assai religiosa. Un cugino del babbo, p. Michelangelo sacerdote del Sacro Cuore, frequentava molto la casa Bizzarrro quando rientrava dalla missione. Certamente la sua presenza ha influito sulla scelta vocazionale di Mattia. A farlo decidere per i comboniani, fu l’incontro con un missionario che batteva i paesi della zona nell’intento di riempire il seminario di Troia.

Mattia era un ragazzo vivace, pieno di iniziative e membro attivo dell’Azione cattolica. Ciò gli procurò una specie di aureola di martire, come amava raccontare scherzosamente lui stesso. Quando i genitori erano in campagna, i nonni Mattia e Antonietta lo mandavano dal maestro sellaio perché cominciasse ad imparare il mestiere. Questo sellaio non era troppo “di chiesa” per cui un giorno in cui il ragazzino arrivò in ritardo “per colpa dell’adunanza” gli tirò dietro un forbicione procurandogli una ferita sulla mano della quale portava la cicatrice anche in vecchiaia. Mostrandola agli amici diceva: “Ecco il segno del mio martirio”. Dopo le elementari a Deliceto, entrò nel seminario missionario di Troia per le scuole medie. Era il 1939. Da quando al piccolo Mattia balenò l’idea della vocazione missionaria vi si attaccò, vi si consacrò e pensò e visse per la missione fino all’ultimo respiro. Missionario a tempo pieno e per tutta la vita.

Novizio… esagerato

Per il ginnasio andò a Sulmona, L’Aquila, ma qui il nostro giovinetto cominciò ad accusare disturbi di salute per cui i superiori decisero di rimandarlo a Troia. Non essendoci il ginnasio nel seminario comboniano, andò in seminario diocesano dove poté concludere i due anni che lo separavano dall’entrata in noviziato. Gli anni della guerra 1939-43 coincidono con gli anni delle medie e del ginnasio per il nostro Mattia.

Nel 1943 partì per il noviziato di Firenze dove fu accolto dal maestro p. Stefano Patroni. Questi scrisse di lui: “ In questi due anni di noviziato ha manifestato molta buona volontà. E’ diligente nelle pratiche di pietà ed esatto nell’osservanza delle regole. Esterna un po’ troppo la sua pietà e appare un po’ esagerato in certe minuzie. Accetta le umiliazioni e i rimproveri sempre volentieri ringraziando chi glieli fa notare. Nello studio si applica con impegno. E’ assai devoto alla Madonna e schietto con i superiori. Credo che diventerà un buon missionario”.

Per il liceo e la teologia Mattia andò a Rebbio di Como e a Venegono Superiore. Venne ordinato il 19 maggio 1951 nel duomo di Milano dal card. Idelfonso Schuster, oggi beato.

Missionario in Uganda

Appena sacerdote, fu destinato all’Uganda. Per un’adeguata preparazione, venne inviato in Inghilterra per lo studio della lingua inglese. Rimase a Sunningdale un paio di anni. Finalmente nel luglio del 1953 poté salpare per la terra dei suoi sogni. Aveva 26 anni e scoppiava di salute e di entusiasmo. Fece un paio d’anni di rodaggio di vita africana nella missione di Aduku (1953-55) e poi passò a Kalongo e vi rimase per tre anni (1955-58).

Il programma della sua attività apostolica era semplice e sostanziale: far vivere i cristiani nella grazia di Dio attraverso la pratica dei sacramenti. Molti di questi cristiani, giunti all’età di contrarre matrimonio, preferivano esperimentare se la loro donna fosse in grado di assicurare una discendenza. Qualora non ne fossero arrivati, la donna sarebbe stata rimandata alla sua famiglia. P. Mattia cominciò la caccia a queste famiglie irregolari con visite, istruzione, dialogo, amicizia, sempre col sorriso e la comprensione cercando di rimuovere gli ostacoli e le “pecorelle smarrite” cominciavano a tornare all’ovile.

Si racconta che un giorno p. Mattia, non essendo riuscito a convincere l’uomo a sposarsi “come Dio voleva” prese la moglie, la caricò sulla sua moto e la portò alla missione lasciando l’uomo provvisoriamente vedovo. Questi, pur di riaverla, si decise a celebrare il matrimonio in chiesa… Qualcuno avrà da ridire, ma p. Mattia poteva fare anche questo. Risultato? I quaranta matrimoni che venivano celebrati ogni anno nella missione, cominciarono ad aumentare diventando cento, duecento, trecento, quattrocento.

Il segreto di una caccia così abbondante consisteva nei safari ai quali il Padre si sottoponeva. Partiva in bicicletta o con la moto e stava lontano dalla missione per settimane e settimane visitando i villaggi, entrando nelle capanne, confortando i malati e gli anziani, catechizzando grandi e piccini, parlando con la gente ed esibendo il Crocifisso che portava sempre con sé. Tornava in missione con ciò che aveva indosso perché aveva dato via tutto. I battesimi si moltiplicavano, le prime comunioni pure, la confessione non era più uno spauracchio e le nuove famiglie unite davanti a Dio lo ringraziavano. Le qualità dimostrate durante gli anni di formazione: spirito di preghiera, sacrificio, generosità, allegria, ottimismo, bontà di cuore… a contatto con i poveri divennero compassione e condivisione. Ciò gli attirava le persone. P. Mattia ne approfittava per fare l’evangelizzatore, senza dimenticare, però, i problemi concreti della popolazione: povertà, mancanza di cibo, di medicine e di istruzione.

Dal 1958 al 1967 p. Mattia ebbe l’incarico di parroco della missione di Patongo dove usò lo stesso metodo pastorale ormai collaudato. Anni dopo, la missione passò al clero diocesano ugandese. Ebbene il parroco, un africano, disse a p. Bosco che era di passaggio: “Nessuna delle coppie di sposi regolarizzate da p. Mattia si è divisa”. Segno che il Padre aveva lavorato a fondo. Scrive p. Cefalo che lo aveva conosciuto da quando era in scuola apostolica a Troia negli anni 40. Mattia è sempre stato per me, come per altri, un modello di missionario, pieno di zelo, sempre ottimista, votato a una dedizione totale, con una carità senza limiti. La sua esperienza a Patongo è restata proverbiale per l’enorme lavoro svolto con i catecumenati e specie nel preparare matrimoni. Anche se mons. Cesana si lamentava e cercava di frenarlo, aveva p. Tupone e p. Malandra che lo appoggiavano e lo incoraggiavano in pieno”.

L’uomo dell’amicizia

Negli ultimi anni della sua presenza a Patongo p. Mattia si dedicò ai profughi sudanesi che abbandonavano il Sudan per sfuggire alle vessazioni dei musulmani. Ce n’erano 18.000 nell’ambito della missione. Dalle numerose lettere scritte in questo periodo si vede quanto il nostro Padre si sia dato d’attorno per trovare aiuti e mezzi per questi poveri.

I superiori riconobbero in lui “tante belle doti e una generosità e spirito di sacrificio indiscutibili” (p. Codognola); “un buon padre generoso, attivo e zelante” (p. L. Urbani); “mi sembra perfino esagerato nel suo modo di fare ministero, senza mai un attimo di riposo. La durerà a lungo fisicamente?” (p. Santi).

Scrive la dottoressa Myriam Brunelli, che prestò il suo servizio come medico volontario in varie parti dell’Africa: “Ho conosciuto p. Mattia nel 1965, quando andai per la prima volta in Uganda a Kalongo col dottor Ambrosoli. In quel periodo il Padre era nella missione di Patongo. Lo incontrai per la prima volta in occasione dell’inaugurazione della cappella di Paimol. Da quel giorno mi sono resa conto di quanto fosse fondamentale la sua presenza. Per tutto il giorno, infatti, si è sentita la sua voce che invitava la gente raccolta nei dintorni a pregare. E quando non lo si sentiva, era perché stava confessando. Per me è stata una sorpresa vedere questo missionario seduto su una seggiolina sotto una pianta a confessare per ore ed ore, mentre gli altri mangiavano e cantavano. Ad un certo punto mons. Cesana, che avevo conosciuto quando era superiore a Brescia, mi invitò a portarlo con me a Kalongo in modo che potesse riposarsi e nutrirsi un po’.

Da allora, tutte le volte che capitava a Kalongo portando i rifugiati sudanesi ammalati (e la sua auto era come un grappolo umano perché non riusciva a dire di no a nessuno), mi intrattenevo con lui un po’. Il superiore, p. Malandra, quando lo vedeva arrivare diceva: ‘Presto, preparate un’abbondante pastasciutta per p. Mattia’. Sapeva che era ancora digiuno e le sue scorte di viveri erano certamente esaurite. Anche in seguito ho notato che la pastasciutta suppliva il pasto completo.

Quando fu espulso e rientrò in Italia, mantenni sempre con lui rapporti epistolari tanto cordiali, direi affettuosi. Un giorno, mentre ero rientrata a Brescia, egli capitò a casa mia con un pulmino carico all’inverosimile. Aveva con sé la mamma, le sorelle, i nipoti. Ormai era diventato l’amico anche dei miei familiari e i miei dei suoi. Celebrò la messa in casa e fu un giorno di grande festa. Noi, in seguito, ci sentimmo obbligati a restituire la visita. E fu un’altra festa”.

Amore alla giustizia

Un altro campo di azione della vita missionaria di p. Mattia fu il suo impegno per la giustizia e la pace, cose che gli sono costate più volte l’espulsione dalla missione, con seguito di umiliazioni e di sofferenze. La guerra tra Sudan del Nord, arabo e musulmano, e Sudan del Sud, nero e animista e cattolico, iniziata nel 1956, oltre alla fame, alle malattie, alle distruzioni, ha provocato una valanga di profughi che hanno trovato rifugio in Uganda, in Congo, nella Repubblica Centrafricana, in Egitto… P. Mattia si era messo completamente dalla loro parte.

Nella missione di p. Mattia c’era una suora che era cugina del presidente d’Uganda Milton Obote. Il missionario, prendendo la palla al balzo, la invitò a parlare al potente cugino in favore dei profughi sudanesi. La suora si sentì dire un bel no e p. Mattia, che le aveva suggerito l’idea, venne espulso dall’Uganda insieme a dieci confratelli. Era il 1967. Prima di allontanarsi dalla sua missione, p. Mattia disse al Presidente: “Io sarò sempre prete, ma tu non sarai sempre presidente”. Parole profetiche: dopo vari attentati in qualcuno dei quali rimase anche ferito, il 19 gennaio 1971, mentre si trovava a Singapore con i capi di stato, Obote venne spodestato da Idi Amin Dada.

Dodici anni in Italia

Dal 1967 al 1979 p. Mattia prestò il suo servizio nelle case comboniane del Sud d’Italia: a Troia dal 1967 al 1976, prima come direttore spirituale dei seminaristi e poi come superiore della casa.

A Troia, mentre era parroco della chiesa della Mediatrice, iniziò quella che oggi è la parrocchia di San Secondino, catechizzando e celebrando le prime messe nei locali del sottoscala accanto alle caldaie del riscaldamento.

Dal 1976 al 1977 fu superiore a Messina e dal 1977 al 1979 economo e formatore dei postulanti comboniani a Capodimonte (Napoli). Il vecchio convento francescano, preso in affitto, aveva bisogno di grossi restauri. P. Mattia sembrò ai superiori l’uomo adatto a quell’operazione, e non si sbagliarono, anche se il terremoto dell’80 venne a rimescolare le carte in tavola. Il vecchio convento ospitò molti terremotati con le loro famiglie. Chi scrive, in quel periodo si trovava a Napoli in Corso Vittorio Emmanuele. Una sera capitò p. Mattia a bordo della sua R 4 sgangherata e piena di botte. Era contento ed esuberante come sempre: “Mi hanno regalato alcune casse di polli e di uova. Ho pensato di portarne un po’ anche a voi”. Così dicendo aprì il portellone posteriore, ma non c’erano più né polli ne uova. Allargò le braccia e commentò: “Qualcuno ne aveva più bisogno di noi. La Provvidenza provvederà anche a noi”.

Formatore degli Apostoli di Gesù

La seconda partenza per la missione ebbe luogo nel 1980. Fu destinato a Rejaf, una missione del Sudan meridionale a 15 chilometri da Juba. Si trovò con quei sudanesi per i quali era stato espulso dall’Uganda. Qui gli fu affidato un compito delicato: formatore dei giovani della giovane congregazione africana chiamata “Gli Apostoli di Gesù”. Nel 1981, anno centenario della morte del fondatore Daniele Comboni, eresse il seminario di questa congregazione. Le cose andavano troppo bene per continuare. Ed ecco che, nel 1986, arrivò l’esercito dei guerriglieri che si opponevano all’esercito regolare sudanese, e tutti furono costretti a scappare.

I fuggiaschi trovarono riparo a Terakeka, tra la tribù dei Mundari, popolo di pastori. E p. Mattia cominciò un’altra volta daccapo. Ma intanto scoccò per il nostro Padre il momento di tornare in Italia per le vacanze e per rimettere a punto la salute. La lettera che p. Cesare Mazzolari, superiore della delegazione e oggi Vescovo, gli scrisse il 9 luglio 1986 da Juba, Sudan, è un documento importante perché sottolinea i punti principali della personalità e della spiritualità di p. Mattia:

“Carissimo Padre Mattia, a compimento della tua missione come ‘fondatore’ del Seminario degli Apostoli di Gesù a Rejaf e alla partenza per le tue meritate vacanze in Italia voglio esprimere il grazie mio e della provincia del  Sud Sudan per tutte le opere da te compiute e per l’esempio di generosità e dedizione comboniana da te mostrato in questi cinque anni.

Ricompensi il Signore tutta la tua fiducia in Lui che ti ha reso capace di lavorare sempre anche quando mancavano i mezzi e le cose erano più difficili da ottenere. Dia un aumento alle vocazioni degli Apostoli di Gesù nel Sudan per il lavoro indefesso che tu hai fatto per suscitare e mantenere il germe della vocazione in tutti i tuoi viaggi di reclutamento.

Possa tu sentire la gioia che dai quotidianamente a tutti con la tua generosità, cuore grande e immancabile sorriso pieno di vero interesse umano e cristiano.

Ti ringraziamo per l’amore genuino che mostri a noi tuoi confratelli e specialmente a quelli che soffrono. Grazie per le parole, i gesti e le preghiere con cui non manchi di incoraggiare i confratelli all’unità tra di noi e con la Chiesa. Ti ringraziamo d’esserti innamorato dei più poveri ed abbandonati nella terra del Sudan, i bisognosi di Terakeka. Possa il tuo esempio di generosità nel voler imparare una lingua nuova e nel volere sacrificare il tuo istintivo affetto per l’Uganda, incoraggiare altri comboniani ad affezionarsi e darsi per la missione così sofferente e bisognosa come è quella del Sud Sudan. Buon riposo e arrivederci all’inizio dell’87.

Con affetto in Cristo. P. Cesare Mazzolari , mccj”.

Nella missione più povera del mondo

Dopo le vacanze, p. Mattia tornò immediatamente nella sua missione ma, due anni dopo, i guerriglieri irruppero anche a Terakeka. Il parroco, in testa alla sua gente, si mise ancora una volta in cammino verso Juba, la capitale del Sudan meridionale. La città scoppiava di persone. “Ottima occasione per fare tanto apostolato”, commentò p. Mattia. Rimase a Juba dal 1988 al 1992.

Scrive la dottoressa Brunelli: “Lo rividi a Kalongo nel 1989 quando, senza permesso, attraversò il confine del Sudan per venire in Uganda. Era sempre felice e dava la sensazione di non avere problemi, mentre ne aveva tanti. Mi chiese se potevo andare in Sudan a prestare il mio servizio perché il bisogno era grande. Ma ormai anche per lui il tempo in Sudan era terminato”.

A Juba il potere era in mano all’esercito regolare formato da arabi musulmani i quali facevano pesare la loro mano specialmente sugli studenti cattolici e protestanti. Questi, esasperati, fuggirono in Kenya o in Uganda soprattutto per non essere arruolati forzatamente nell’esercito. Molti, purtroppo, furono uccisi durante la fuga. In segno di protesta venne organizzata dal vescovo una processione-dimostrazione contro il governo.

Il vescovo, in prima fila, volle al suo fianco anche p. Mattia e altri missionari. I partecipanti recitavano il rosario e la gente rispondeva. I missionari vennero fotografati e poi portati a Khartoum. Ancora una volta, la lotta per la giustizia era costata a p. Mattia l’abbandono della missione. Due anni dopo fu espulso anche da Khartoum “perché era uno degli espulsi da Juba per la dimostrazione”.

P. Mattia, cacciato dalla porta, trovò il modo di entrare dalla finestra e andò nel “New Sudan” quella zona, cioè, in mano ai guerriglieri che ora accoglievano volentieri i missionari. P. Mattia doveva cominciare ancora tutto daccapo nella missione di Marial Lou, che vuol dire vacca bianca, tra i denka, con puntate a Pakele Kocoa.

Scrivendo ai suoi per il Natale del 1994, p. Mattia descrisse la missione che aveva trovato al suo arrivo: “Sono felice di essere in questa terra a far conoscere Gesù Cristo che, al 95 per cento della popolazione, è sconosciuto. In più sono martoriati dalla guerra, dalle malattie, perché medicine non se ne trovano, e dalla fame. Già ne sono morti un milione e mezzo, e ora ce ne sono altri quattro milioni in pericolo. Io sono arrivato con un piccolo aereo che portava una tonnellata di cibo e medicine. Siamo atterrati in una pista in mezzo alla foresta. La missione è composta da una decina di capanne di paglia che servono per abitazione e deposito. Il mobilio della mia capanna consiste in un letto di canne sostenuto da quattro pali, un tavolino, una sedia ed una bacinella per lavarmi. Chiudo gli occhi quando mi lavo perché l’acqua è molto sporca. La gente la beve perché non c’è altro. Nelle capanne piove dappertutto essendo la paglia già mangiata dalle termiti. La zona è piena di zanzare e di topi e non ho visto ancora un gatto, così i roditori la fanno da padroni assoluti. Una notte entrarono nella borsa della roba per la messa e mi hanno mangiato le particole. Ma hanno fatto cena anche con la mia biancheria. E se i topi si saziano, intervengono le termiti a dar loro una mano. Una mattina vidi la camicia che avevo appesa al piolo mangiata per metà. Erano state loro. Non so se san Francesco avrebbe chiamato zanzare, termiti e topi fratelli e sorelle.

Abbiamo 600 ragazzi delle elementari, c’è un ambulatorio diretto da due infermieri africani che ogni giorno curano circa 200 pazienti. La gente è molto buona e affabile anche se soffre molto. Il nostro raggio di azione è di 100 chilometri. Ho studiato il denka per 8 ore al giorno. Questa nuova lingua mi piace e io sono felice perché mi sento nelle mani del Signore”.

Alla ricerca di collaboratori

Scrisse alla dottoressa Brunelli pregandola di andare in quella povera missione dove, fra innumerevoli problemi legati alla guerriglia e alla fame, c’era quello della tubercolosi che si diffondeva con facilità mietendo vittime a tutto spiano.

“Io accettai subito – dice la Dottoressa - perché a p. Mattia non potevo dire di no, se pensavo a quello che poteva essere il mio piccolo sacrificio di fronte a tutta la sua vita di sacrifici e dedizione. In mancanza di energia elettrica e di possibilità di portare attrezzature per una diagnosi radiologica, insegnai a cinque giovani a ricercare il bacillo di Koch nell’espettorato. Essi appresero anche ad individuare il parassita malarico e alcuni parassiti intestinali.

In Sudan la situazione era nettamente peggiorata rispetto a quello che avevo visto in Uganda 30 anni prima, ma p. Mattia, pur con 30 anni in più sulle spalle, era sempre quello che avevo conosciuto. Lo vedo ancora con le braccia aperte mentre scendevo sulla pista di Marial Lou, attorniato da ragazzini, maestri, gente del posto, sempre col suo sorriso, sempre dando l’impressione di essere solo per te, a tua disposizione, mentre era aperto sempre a tutti, e con tutti era disponibile per una parola, per un aiuto.

La missione di Marial Lou era costituita da semplici capanne e la chiesa era una grande pianta di tamarindo. Eppure ho avuto un senso incredibile di accoglienza che non avrei immaginato. Tutto era legato alla presenza di p. Mattia. Quando lui si allontanava per i safari, pareva che i problemi si aggravassero, soprattutto da parte dei guerriglieri che chiedevano con arroganza abiti, scarpe, vestiti, medicinali… Solo quando tornava p. Mattia le cose si appianavano. Vicino alla missione c’erano i Veterinaries sans frontieres (VSF). Anch’essi erano ammirati e meravigliati di come p. Mattia affrontasse ogni problema. Mi raccontarono che un giorno lo trovarono lontano dalla missione mentre armeggiava per far partire l’auto che si era fermata. Il giovane che doveva aiutarlo era seduto sul ciglio della strada e guardava il Padre che lavorava. I Veterinari misero a posto la macchina e il Padre poté ripartire.

‘Se non fossimo passati noi come avrebbe fatto, Padre, a tornare a casa?’, gli chiesero più tardi.

‘Un rosario, un altro rosario… e voi siete arrivati a guarire la macchina’.

So che qualcuno diceva che p. Mattia era un missionario parecchio ‘alla vecchia’ perché raccontava di serpenti, di topo, di leopardi, ecc. cose che per molti giovani non sono più degne di essere ricordate perché storie di altri tempi. Per p. Mattia non erano storie dei tempi passati. Quando ho visto dove e come viveva a Marial Lou ho constatato che erano cose molto attuali e quotidiane. Io stessa gli dicevo che, pur essendo stata più volte in Africa, e in varie nazioni, situazioni come quella non le avevo mai viste. Credo che neanche i missionari dei tempi di Comboni fossero in quelle condizioni. P. Mattia era proprio un comboniano che sembrava rimasto lì dal gruppo dei primi missionari.

Ritornai l’anno dopo. Purtroppo non è facile avere una continuità nella presenza di personale addestrato, specialmente perché difficilmente i giovani rimangono a lungo nello stesso posto per mancanza di sicurezza o perché reclutati dai guerriglieri. Sicché dei miei cinque infermieri ne era rimasto appena uno”.

Il suo rapporto con le persone e col Crocifisso

“Era meraviglioso il suo rapporto con la gente – prosegue la Dottoressa. - Dai villaggi dove andava per celebrare la messa o dove rimaneva per i safari, mandavano a dire che volevano proprio lui, nessun altro. E per quanto non sapesse bene la lingua, se la cavava egregiamente con tutti. Si assentava magari per otto o dieci giorni per incontrare molte persone (mi parlò un giorno di 200) che volevano ricevere il battesimo. Egli le esaminava e ne battezzava solo una piccola parte, perché erano pochi quelli che riteneva sufficientemente preparati. Ho capito che il Padre, pur essendo la bontà in persona, voleva che le cose fossero fatte bene. Tornava stanco, ma felice.

La sera, dopo il rosario e prima di cena, trovava sempre il tempo di venire dove eravamo io e le suore per ascoltare tutti i problemi della giornata, mentre le zanzare a nugoli ci assalivano, ma lui sembrava non accorgersene. Trovava sempre il modo di tranquilizzare tutti, anche dopo giornate di ansie e pericoli.

Quello che mi rimarrà sempre impresso è il gesto che faceva sempre durante le omelie. Stendeva il braccio verso il crocifisso issato di fianco all’altare e calamitava tutti con la sua parola. Io, che non capivo che cosa dicesse, chiesi alle suore la traduzione di quelle parole così affascinanti. Mi risposero che non erano grandi discorsi, ma il concetto che stava alla base delle sue omelie era che Gesù è morto sulla croce per salvare noi. Lo diceva con tanta convinzione e con tanto calore che commuoveva anche me che non capivo le parole”.

L’ora del Getsemani

Questo genere di vita, fatto di continui cambiamenti, di dover cominciare sempre daccapo, in posti disagiati al massimo e nella solitudine più assoluta condita, magari, con le critiche di chi voleva che pensasse un po’ più a se stesso quanto ad abitazione sua e delle suore, critiche anche per il suo metodo pastorale… ebbe i suoi effetti deleteri. P. Cefalo, che è sempre stato tanto vicino a p. Mattia, scrive che nel periodo trascorso a Marial Lou il Padre cadde in una specie di depressione che gli spense il sorriso dalle labbra. P. Mattia aveva ormai una certa età e parecchi acciacchi e dover imparare continuamente nuove lingue e nuovi costumi lo logorarono un po’. Gli sembrava, inoltre, di essere strumentalizzato e abbandonato dai suoi…

In seguito ad un lungo dialogo con p. Cefalo, i superiori decisero di mandarlo momentaneamente in Uganda, ad Ajumani, vicino al confine col Sudan, dove c’era un grande campo profughi. Lì avrebbe incontrato ancora i sudanesi, i più poveri e bisognosi che ormai erano diventati i padroni del suo cuore. E lì si riprese uscendo dal suo Getsemani, grazie alla gran dose di fede che lo animava. E il sorriso ritornò nuovamente sul suo volto di missionario completamente dedicato alla causa dell’evangelizzazione e della promozione umana.

Il 50° di messa a Deliceto

Nel marzo del 2001 p. Mattia fece una scappata al suo paese per il 50° di Messa che sarebbe stato celebrato il 20 maggio. Festeggiava con lui la stessa ricorrenza p. Antonio La Salandra. P. Mattia approfittò della venuta in Italia per l’operazione alla cataratta e per altri aggiustamenti alla salute. Nell’immaginetta del 50° c’era una bella foto che lo ritraeva sorridente, e la scritta:

“P. Mattia ringrazia Dio del servizio missionario a lui affidato dalla Chiesa” e poi una citazione di Madre Teresa di Calcutta: “Noi possiamo dare ai poveri tutto quello che abbiamo, anche la nostra vita, ma se non diamo loro il nostro sorriso, non diamo niente”. Questa citazione ha colpito molti. Poteva scegliere tante altre citazioni dalla Bibbia, invece ha voluto scegliere proprio questa perché corrispondeva in pieno al programma della sua vita missionaria. In quasi 50 anni di missione in Uganda, in Kenya, in Sudan, ha dovuto affrontare situazioni veramente drammatiche, spesso non era possibile donare altro che “il sorriso”. E Mattia ne ha sempre donato in abbondanza. Per questo gli africani lo hanno sempre apprezzato, gli hanno sempre voluto tanto bene.

Nel giorno del suo cinquantesimo chiese che nessuno predicasse, temendo che la predica potesse finire in un elogio per lui e per quanto aveva fatto. Volle parlare lui con il cuore in mano per ringraziare il Signore di avergli dato la vocazione sacerdotale missionaria e di essersi servito di lui per fare del bene a tanti poveri fratelli bisognosi nell’anima e nel corpo. Ad un certo momento si commosse: ricordò il suo grande amico p. Raffaele di Bari, trucidato barbaramente qualche mese prima in Uganda dove lui, padre Mattia, si trovava per cure. Volle ricordare pure il suo compagno di classe p. Antonio Masullo di San Marco in Lamis che morì dopo appena un anno di ordinazione sacerdotale. Cinquanta giorni dopo anche lui si sarebbe congiunto con loro in cielo.

Al termine della festa, intensamente partecipata dai familiari, dai confratelli e dai concittadini, ricevette la lettera dal superiore che sarebbe ritornato nella missione di Lomin, sempre in Sudan meridionale, per aiutare il nuovo parroco nel suo lavoro pastorale a pochi chilometri dal confine con l’Uganda. A Lomin avrebbe dato una mano a un confratello operato di cuore e, oltre il resto, avrebbe dovuto mettere in piedi una scuola secondaria, ma già il Signore stava chiamandolo. “L’ultima volta che l’ho visto – scrive la dottoressa Brunelli – è stato il 20 maggio scorso, in occasione del 50° della sua ordinazione sacerdotale. Mi aveva telefonato con tanto calore e tanta gioia invitandomi a questa sua festa. Non potei rifiutarmi. A Deliceto l’accoglienza è stata affettuosa anche da parte dei suoi familiari che con entusiasmo condividevano la sua gioia. Mi è rimasto impresso come ha iniziato l’omelia quel giorno: ‘Molti mi chiedono se in questi 50 anni ho avuto momenti di sconforto, di stanchezza. Li ho avuti, ma sono sempre stato felice lo stesso…’. Conoscendolo, lo credo.

Prima di partire da Deliceto, mi informò del suo trasferimento in un’altra missione, pure in Sudan (mentre ultimamente era in Uganda). Mi fece anzi vedere la lettera del suo superiore che gli chiedeva ancora una volta la sua disponibilità ad andare dove c’era più bisogno. Mi diceva che la sua sola preoccupazione era quella di doversi cementare ancora una volta con una lingua che non conosceva, e aveva 74 anni, ma partiva felice. E già faceva progetti perché anch’io andassi in questa nuova missione. Gli promisi che lo avrei sempre aiutato volentieri. Purtroppo, però, io non ho imparato da lui il suo spirito di sacrificio e quando dall’Uganda mi scrisse che stava partendo per il Sudan e che andava volentieri ‘anche se là c’è la guerra’, io gli scrissi che non avevo il suo coraggio e che ci avrei pensato un po’ prima di partire.

Non so se abbia ricevuto prima di morire questa mia lettera. Se, da un lato, gli avrebbe fatto piacere apprendere ancora una volta quanto sperassi di poterlo aiutare, forse gli sarebbe dispiaciuta la mia titubanza nell’aderire al suo invito. Ma lui avrà senz’altro capito e avrà detto: ‘Forse, fra un po’… qualche rosario…”.

Scrive p. D’Apice: “Il 6 giugno p. Mattia riparte da Roma per Kampala raggiungendo con mezzi di fortuna e a tappe la sua nuova missione, Lomin, nel Sud Sudan. Nella sua lettera del 28 giugno ai familiari parla del suo nuovo lavoro. Essendosi ammalato uno dei suoi confratelli giovani si è messo a disposizione del Vescovo che è andato in tre villaggi a dare le cresime e ha anche ordinato due nuovi sacerdoti. Hanno dovuto percorrere lunghe distanze con strade orribili soprattutto in questo periodo delle piogge”.

Vedendo i grandi bisogni da un punto di vista sanitario, per prima cosa si preoccupò di costruire il dispensario dove lavorava un infermiere africano. Scrivendo alla dottoressa Brunelli nella speranza di convincerla ad andare, tracciò l’identikit della missione: “La zona è tutta foresta e paludi con leoni, leopardi, iene. Qualche settimana fa due leoni hanno sbranato due vacche a 50 metri dalla mia capanna, ed ogni notte il leopardo veniva a rubare le galline a 3 metri da dove dormo. Allora abbiamo attaccato una gallina alla canna del fucile carico e lo abbiamo appoggiato alla siepe. Come il felino ha abboccato, è partito il colpo che ha fatto secca la povera bestia e ferito l’altra. Così le galline le mangiamo noi.

La parrocchia è vastissima e conta 650 mila anime in un raggio di 200 chilometri, e sono da solo perché il Padre che c’era si è ammalato ed è andato via. I cristiani sono il 2–3 per cento. Ho già battezzato 1.132 scolari e 600 neonati. Se vengono le suore insegneranno cucito e arti domestiche alle donne. Ogni due mesi arriva l’aereo che porta 1.000 chili di rifornimenti perché qui non si trova neanche un ago. Però il viaggio dell’aereo ci costa 6.500 dollari…”.

In un’altra lettera in data 11 giugno 2001: “Oggi è arrivata la Toyota per la parrocchia di Lomin, Kajo-Kaji. Il posto è molto più caldo rispetto a quello dove ho passato gli ultimi due anni e molto più pericoloso perché c’è la guerra. Ma io sono felice e non ho paura perché Dio è con me e le preghiere di tante buone persone mi accompagnano”.

Il 28 giugno 2001 scrisse anche ai suoi esprimendo la sua felicità di essere tornato in missione: “Anche la gente è contentissima che sia venuto da loro per rimanere in mezzo a loro… Abbiamo una scuola elementare che va dalla prima alla settima ed abbiamo incominciato le scuole superiori. Ci sono 40 cappelle nei diversi villaggi e queste bisogna visitarle spesso per istruire le persone su Gesù Cristo. In ogni cappella c’è un catechista che aiuta. Qui in parrocchia abbiamo anche la scuola materna con tanti bimbetti. Stiamo costruendo la casa delle Suore. Per la fine di agosto si spera sia finita e verranno quattro Suore. Una era nella mia parrocchia di Marial Lou dove sono stato da gennaio 1995 a settembre 1999. Ora è la stagione delle piogge ed il seminato sta dando frutti belli, granoturco, arachidi e grano. Speriamo che le piogge proseguano fino a piena maturazione. Grazie per tutto l’affetto che mi avete mostrato e per l’aiuto che avete messo perché la festa riuscisse bene. Bacioni. P. Mattia”. Questa è la lettera con la quale il Padre si congeda dai suoi.

Venti giorni dopo in data 18 luglio 2001, quindici giorni prima di chiudere gli occhi a questa terra, padre Mattia scrisse ai bambini della sezione Farfalle di Deliceto ringraziandoli della loro offerta per i loro coetanei africani. Termina dicendo: “Vi porto nel mio cuore e mi ricordo di voi nelle mie preghiere perché possiate crescere con questo spirito missionario, consapevoli che tutto il mondo è una famiglia”.

Partenza inaspettata

Il Padre soffriva di diabete, ma non ci faceva tanto caso perché era troppo preso dall’apostolato. E poi non voleva disturbare nessuno. Il 2 agosto ebbe un forte attacco lungo la strada, mentre tornava verso Moyo dalla piccola pista aerea. Pensava che fosse una cosa passeggera, ma nel pomeriggio i confratelli lo portarono all’ospedale della città (Moyo) dove gli trovarono un alto livello di zucchero nel sangue.

Dopo le prime cure, il Padre insistette per essere riportato nella sua missione di Lomin dove passò la notte tra tremiti e brividi. “Sono sicuro che avvertiva la morte vicina – ha scritto p. Agostino Bortolotti - e voleva che ciò accadesse non in un ospedale, ma in quei luoghi che sono stati la sua casa e il suo territorio di evangelizzazione”.

Al mattino venne riportato all’ospedale di Moyo, sempre assistito dai confratelli e dalle suore. I sanitari riuscirono a normalizzare la glicemia ma, per l’insorgere improvviso di altre complicazioni, si spense durante la notte. P. Mattia è ora sepolto nel cimitero di Lomin, in territorio sudanese, a pochi chilometri dall’Uganda, i due paesi che ha profondamente amato e fedelmente servito. Di lui ci resta il ricordo di un missionario di prim’ordine, entusiasta della sua vocazione, e dedicato fino in fondo a far conoscere ed amare Gesù Cristo specialmente dai più poveri della terra.    P. Lorenzo Gaiga

Fr. Mattia Bizzarro was born at Deliceto (Foggia) on 6 February 1927. After primary school, he entered the Comboni seminary at Troia. For his secondary school he moved to Sulmona (Aquila) from where, on account of his poor health, he had to return to Troia to continue his studies in the diocesan seminary.

From 1943 to 1945 he made his novitiate in Florence where on 15 August he made his promise of missionary consecration to the Lord. After his senior school he pursued his theological studies and was ordained priest in the cathedral of Milan by Blessed Cardinal Alfred Ildefonso Schuster on l0 May 1951.

The twenty-four years old missionary was then destined to Kalongo mission to work among the Acholi tribe, Gulu diocese, Northern Uganda. The mission was started seventeen years earlier.

After a five-year period in Kalongo mission, Fr. Mattia was sent by his superiors to start the new mission of Patongo, where he carried on with the well tested pastoral methodology: safari and visits to the villages, catechumens' instruction, catechesis based on Christ: the teacher to listen to and the model to imitate.

Another field of action in Fr. Mattia's missionary life was his commitment to justice and peace, an interest that cost him the expulsion from Uganda with its consequent sadness and suffering. The story goes like this. In his mission there was a religious sister, cousin of the then president Milton Obote. Through her Fr. Mattia made a plea for the cause of the forsaken Sudanese refugees in Uganda. The president got crossed and the answer was a sharp refusal. Even worse, the president ordered his expulsion from the country. The unshaken Fr. Mattia replied to him: “I am a priest forever, but you will not be a president forever.

The years from 1967 to 1979 saw Fr. Mattia in Italy, always in full swing in many Comboni houses of Southern Italy: Troia, Naples, Messina... and in various assignments: spiritual director, bursar, parish priest, superior, formator and mission animator. Eight are the Comboni Missionaries who passed through him and were ordained. It was Fr. Mattia who started in Troia what is today the parish of St. Secondino. At that time he was giving catechism instructions and celebrating the Eucharist in the underground rooms, next to the boiler.

The period spent in Italy was followed by another in Southern Sudan, working with the same people for whose cause he had been expelled from Uganda. He worked in Rejaf, 10 km. from Juba, the capital of Southern Sudan, as formator of young people belonging to the African Institute called "the Apostles of Jesus". In 1981, centenary anniversary of the death of the Founder, he opened a seminary for the same Institute.

In 1986 "The Sudanese Liberation Army" (SPLA) reached Rejaf. Everyone had to flee. Fr. Mattia moved to Terakeka, among the pastoral tribe of Mundari, north of Juba. There he was made parish priest until in 1988 the SPLA occupied the area once again. Fr. Mattia found refuge in Juba. The city was overflowing with people and plenty of apostolic work to be done. The city authorities were controlled by the people of the North who used a heavy hand especially towards the students who were trying to flee to Uganda and Kenya to carry on with their studies. Many were killed. A march to protest against the government was organised. Fr. Mattia marched with them. The marchers were video recorded, identified, expelled from Juba and sent to Khartoum. Once again Fr. Mattia, this fighter for justice, was obliged to leave the place. “If chased through the door, I come back through the window”. So in 1994 he was back in the New Sudan, that is the area controlled by the SPLA. He worked at Marial Lou among the Dinka till 1999.

In the year 2000 Fr. Mattia went to Adjumani, Northern Uganda, to assist the Sudanese refugees till the end of March 2001.

Fr. Mattia went back to Italy to celebrated his jubilee anniversary of ordination together with Fr. Antonio La Salandra. In July he was back in Sudan, at Lomin, to assist the new parish priest. Fr. Mattia was suffering from diabetes, but he did not seem to worry about it. Engrossed in his work, he did not look after his health. Till the end he did not wish to burden anyone. On 2 August Fr. Mattia felt very ill on the road to Moyo. He thought it was a passing thing. In the afternoon he was taken to Moyo Hospital where the tests showed that his sugar level was very high. Fr. Mattia insisted that he be taken back to his mission at Lomin, where he had a very difficult night with shivers. In the morning he was taken back to Moyo Hospital, always lovingly cared for by the sisters of the Sacred Heart. The sugar level was extremely high. The doctors managed to take the level down to normal, but, due to other complications, he passed away during the night.

Fr. Mattia is now buried in the mission graveyard of Lomin in Sudan, just a few kilometres from the border of Uganda, the two countries he deeply loved and faithfully served.

Da Mccj Bulletin n. 214 suppl. In Memoriam, aprile 2002, pp.11-24