P. Giuseppe Bertinazzo era il maggiore di quattro fratelli, due maschi e due femmine. Il minore è morto a 24 anni causa la guerra, lasciando la moglie e una bimba di 6 mesi. Fu uno strazio per quella famiglia di contadini, che lavoravano terra presa in affitto. Il papà, Angelo, la mamma, Felicita Oliviero, e il nonno Giuseppe, ferventi cristiani, si strinsero ancora di più l’un l’altro nel tentativo di superare il momento difficile che la famiglia attraversava.
Giuseppe era un ragazzo vivace e allegro, assiduo frequentatore della parrocchia come chierichetto. Dotato di intelligenza superiore alla media e di cuore buono, colpì subito il suo parroco che lo invitò ad entrare nell’Istituto dei Servi di Maria di Monte Berico. “Spensierato com’ero – scrisse – non pensando sul serio alla mia vocazione, terminata felicemente la classe prima ginnasiale, accettai la proposta dei genitori di entrare in seminario diocesano. Il pensiero delle missioni mi seguì in questo cambiamento, anzi accrebbe in me l’entusiasmo quando trovai due compagni che accarezzavano il mio medesimo ideale. In quinta ginnasio, calmati gli ardori giovanili, pensai sul serio al mio avvenire e mi decisi per il sacerdozio.
In prima liceo mi tornò il pensiero delle missioni, non con gli slanci di prima, ma in una forma più pacata. Sottomisi tutto al padre spirituale che, verso la fine di seconda liceo, mi assicurò sull’autenticità della mia vocazione missionaria. Il pensiero che si trattasse di una mia idea e che non avessi la forza di superare le difficoltà, mi fecero differire la decisione”. A diciotto anni e quattro mesi Giuseppe anni lasciò il seminario per entrare tra i Comboniani.
Il rettore del seminario ebbe parole lusinghiere nel presentare Giuseppe ai Comboniani: “In coscienza posso affermare che il Bertinazzo sia per la condotta, sia per la disciplina morale e per il profitto negli studi, è degno di lode. La sua pietà sentita, la serietà congiunta al buon umore e la sua salute ci fanno sperare in un’ottima riuscita…”.
Due lettere rivelatrici
La sorella Maria ci ha inviato un paio di lettere molto rivelatrici sulla lotta che il giovane chierico dovette sostenere per convincere i genitori sulla sua vocazione. Le riportiamo perché sono un capolavoro di logica cristiana e umana. Di fronte ad esse, un cristiano non poteva tirarsi indietro e non assumere le proprie responsabilità. Col papà e col nonno, inoltre, toccò una corda che faceva tremare.
“Vicenza, 21 marzo 1934.
Cara mamma, ormai l’anno santo volge al tramonto, ma nessuno della nostra famiglia ha avuto la grazia di andare a Roma, di acquistare il giubileo e di vedere il Vicario di Cristo. Gesù, però, ha voluto posare il suo sguardo di compiacenza su uno di noi, su me, il più indegno di tutti. Ricorda quel fatto narrato nel Vangelo: un giorno si presentò al divino Maestro un giovane e gli chiese che cosa dovesse fare. Allora Gesù gli rivolse un amabile sorriso pieno di bontà, e gli disse: ‘Ebbene, lascia tutto ciò che hai di più caro, e seguimi’. Le stesse parole ha rivolto anche a me, ed anche adesso mi invita a lasciare tutto, anche te e tutti voi di famiglia. Sono passati già 1900 anni, ma quanti popoli non conoscono ancora il grande beneficio della redenzione! Quanti poveri infedeli non sanno d’avere un Padre celeste che ha sacrificato il suo unico Figlio unigenito! Eppure Gesù ha sofferto per tutti, ed ora, con una vocazione speciale, mi chiama a farlo conoscere a quei poveri, mi vuole suo missionario.
Mamma, come posso io fare il sordo alla sua richiesta? Il pensiero dei tanti benefici che mi ha fatto, il pensiero della grande grazia che mi fa con il dono di chiamarmi a diventare suo apostolo, il pensiero della preferenza che ha fatto su di me, povero peccatore, fra tante centinaia di giovani più buoni, mi spinge ad offrirgli non solo questa mia unica vita, ma anche cento vite, se le avessi.
Per me, mamma, questa vocazione è una grande grazia, ma anche per te, per il caro papà, per tutta la famiglia è un grande onore. Però, se è un onore, la mia vocazione ti costa molto, ti chiede il sacrificio più grande che ad una mamma cristiana si possa domandare. Un giorno il Signore comandò ad Abramo di sacrificargli il suo unico figlio Isacco. Senza replicar parola, il nostro patriarca prese il figlio, e lo condusse sul monte santo. Stava già per sacrificarlo, quando gli fu trattenuta la mano da un angelo mandato dal Signore, che era soddisfatto della pronta obbedienza di Abramo. Anche tu, o mamma, non devi resistere alla richiesta di Dio che ti chiede di sacrificargli tuo figlio. Devi lasciare che tuo figlio compia la volontà del Signore.
Certamente neppure ti passerà per la mente che io voglia partire perché non vi amo. No, vi ho sempre amati, anzi adesso vi amo ancora di più, ma dobbiamo, o mamma, spiritualizzare il nostro amore. Solleviamo il nostri sguardo al cielo, ricorriamo alla Vergine Santissima ed essa ci darà la forza e il coraggio di fare con generosità il volere di Dio.
La ricompensa l’avremo e sarà grande: il cento per uno, ci ha promesso Gesù.
Sono sicuro, o mamma, che tu mi hai compreso. Di’ pure a mio padre ciò che ti ho scritto, ma, ti raccomando, con molta dolcezza. Ricordagli che è grande la responsabilità dei genitori che si rifiutano di dare a Dio quello che è di Dio, e che è grande il loro egoismo interessato e ingeneroso per cui preferiscono avere un figlio al proprio fianco, disertore del suo dovere, piuttosto che lontano, ma assertore di un nobile ideale. Ti raccomando di far pregare tanto i miei fratelli per me. Un bacio sincero a te e al babbo”.
Non sappiamo quale fu la risposta a questa lettera. Fatto sta che, il 31 aprile 1934, Giuseppe prese la penna in mano, anzi, si mise alla macchina da scrivere questa volta, e si rivolse al papà e al nonno.
“Seminario di Vicenza, 31 aprile 1934
Caro padre e caro nonno, sono quasi due settimane dacché sono partito da casa, ma il mio pensiero vola continuamente a voi, ed io vedo specialmente voi due, nelle vostre occupazioni, ma con in volto una tristezza che in fondo in fondo è inspiegabile.
Voi desideravate, sì, che mi consacrassi al Signore, ma che restassi sempre vicino a voi per essere un giorno la vostra consolazione, il vostro conforto nei momenti difficili della vita. Ed ora dite di veder deluse tutte le vostre più belle speranze, dopo tanti sacrifici. Non si può, forse, spiegare così la vostra tristezza? Eppure non mi pare che ciò sia giusto. Osservate chiaramente come sta la cosa: io fra alcuni anni, se piace al Signore, non sarò più fra voi col corpo, ma il mio cuore sarà sempre vicino al vostro, i vostri palpiti saranno i miei. Non mi vedrete, allora, personalmente, ma nelle mie lettere troverete tutto l’animo mio, tutto l’affetto che io vi porterò ancora. E poi, quale consolazione più grande sarà per voi che il pensiero d’avere un figlio e un nipote che combatte nelle prime file dell’esercito vittorioso di Cristo?
‘Ma getta via quel pensiero che t’è venuto per la mente, credi forse che non puoi amare il Signore anche qui?’. Questa è la frase che voi mi avete ripetuto più di una volta. Certamente avreste ragione, se fosse questo un pensiero che mi è balenato così in un fervore giovanile e basta. Temevo anch’io che fosse causato da un fervore giovanile e poi, come un fuoco di paglia, dopo le prime vampate, sarebbe presto cessato e, in poco tempo, anche dimenticato. Perciò mi sono confidato con un santo uomo, il padre spirituale, il quale per due lunghi anni mi ha sempre moderato, ma infine anch’egli mi ha detto che potevo star sicuro: era la dolce chiamata di Dio che, anche dalle pietre, può cavare l’acqua viva.
Assicuratevi, dunque, che la mia vocazione non è un pensiero giovanile, ma è una vera chiamata divina; disgraziato me, se non la seguissi… Sono certo che non avrete il coraggio di opporvi alla volontà di Dio, perché voi pure sapete che ciò potrebbe essere pericoloso per voi e per me. Più di una volta dei genitori furono per sempre privati dei figli ai quali essi impedivano di consacrarsi al Signore.
Coraggio, caro padre e caro nonno, ravviviamo la nostra fede, preghiamo specialmente la nostra buona mamma celeste, la Madonna, e vedrete che presto ogni ombra di tristezza sarà dissipata e il nostro cuore sarà inondato della vera pace che possono godere solo i figli di Dio. Un saluto affettuoso a tutta la famiglia, ai padroni e a Rino. Vostro aff.mo Giuseppe.
Novizio a Venegono
Finalmente ottenne la benedizione da parte dei genitori e poté fare la sua domanda ufficiale ai superiori, per essere ammesso al noviziato. Nella richiesta del 12 maggio 1934, dice tra l’altro che la motivazione della sua vocazione è “attendere alla mia santificazione santificando molte e molte anime”. Parla anche delle difficoltà incontrate con la famiglia e degli studi fatti: “Ora frequento la seconda liceale, gli studi non mi riescono tanto difficili”.
In una seconda lettera del 20 maggio, rispondendo ad alcune domande che gli furono poste, rispose: “Da giovinetto la vita missionaria mi apparve bella, fin troppo poetica. Alcune riviste formavano il materiale dei miei sogni.
Riguardo alla purezza, con la grazia di Dio ho sempre resistito alle tentazioni del maligno. Il mio carattere è molto allegro. Mentre potrebbe presentare qualche lato buono, mi offre anche una falange di difetti come la facilità di trasgredire qualche regola e l’aver la lingua un po’ troppo lunga. Per fortuna che la sua Congregazione non accetta solo i santi, ma s’accontenta di chi ha la buona volontà di diventarlo. E’ il mio caso.
Ho una salute di ferro. La mia famiglia, nonostante i momenti di crisi, non si dibatte in grandi strettezze economiche. I miei genitori si sono opposti per circa un mese alla mia vocazione missionaria, ma ora sono rassegnati…”.
In noviziato Giuseppe si trovò bene, pur impegnandosi seriamente a combattere i suoi difetti, specialmente la facilità di critica e l’orgoglio che gli derivava dal fatto di sentirsi più intelligente nei confronti degli altri.
Durante l’anno 1935-1936 frequentò la terza liceo presso il seminario diocesano di Milano (Venegono Inferiore) ottenendo una pagella con voti lusinghieri. Il 7 ottobre 1936 emise la professione religiosa. Qualche anno dopo, considerando la sua vita religiosa, scrisse: “La vita religiosa, veduta così attraente in noviziato, vissuta nella realtà ha perduto, almeno per me, tanta poesia, ma si è rivestita del manto altrettanto attraente del sacrificio.
Il Signore, di giorno in giorno, mi fa apprezzare tale vita così che io stesso mi meraviglio come mai possa averne un concetto così elevato, mentre tante grazie ho calpestato sfidando la misericordia divina. Due anni passati in Congregazione, non hanno segnato il progresso atteso, eppure oso chiedere di essere ammesso per la terza volta ai Voti…”. P. Bombieri scrisse: “Attenda di più alla pietà e sia più energico a reagire contro l’orgoglio, combatta la dissipazione e sia più attento a non ‘allargare’ quanto all’osservanza delle regole. Do il mio voto favorevole ai suoi Voti annuali”.
Dopo la professione religiosa, Giuseppe Bertinazzo fu inviato a Roma per lo studio della teologia. Qui, il 23 marzo 1940 venne ordinato sacerdote. Con la licenza di teologia in tasca, il suo destino era già predeterminato: fare l’insegnante. Ecco il suo curriculum prima di andare in missione. Insegnante di teologia a Venegono 1940-41, studente a Roma 1941-42 dove si licenziò in filosofia; insegnante a Verona 1942-1943; insegnante a Venegono 1943-1944; insegnante a Rebbio (dove si era trasferita la teologia a causa della guerra) 1944-47.
Ricordiamo un episodio accaduto proprio a Rebbio. Si era durante la guerra in un periodo di particolari strettezze economiche. Il superiore, giustamente, si preoccupava perché quei giovani avessero cibo sufficiente e buono. Però tirava su tutto il resto. Un giorno P. Bertinazzo gli disse: “Lei si preoccupa del cibo materiale per i nostri giovani, e fa bene, io però le vorrei chiedere anche un po’ di cibo spirituale: acquisti qualche libro decente per la nostra biblioteca”.
Sudan e Uganda
Con la fine della guerra, si aprirono anche le vie della missione, e P. Bertinazzo fu destinato al Sudan meridionale, previo un corso di inglese in Inghilterra, che frequentò dal 1947 al 1948. Con il titolo di abilitazione all’insegnamento concessogli dall’autorità inglese, s’imbarcò per la missione. Sua prima tappa fu Palotaka (1948-49) come insegnante nel locale seminario e vice parroco. Nel 1949 fu deviato a Rejaf con lo stesso incarico e per un altro anno.
A questo punto i superiori pensarono di fargli cambiare aria e lo dirottarono in Uganda come insegnante nel seminario di Lacor (1950-51). In tre anni, tre destinazioni diverse. Sì, tutti questi spostamenti, se misero alla prova lo spirito di disponibilità del Padre, gli fecero chiedere con insistenza di essere mandato finalmente nell’apostolato diretto. Lo ascoltarono e lo mandarono ad Angal come parroco. Vi rimase sei anni, dal 1951 al 1957.
“E’ duretto – scrissero di lui i superiori - qualche volta impetuoso, ma un ottimo missionario, molto zelante e di molteplici capacità. E’ davvero esemplare nella pietà, nella pratica della vita religiosa, nell’amore allo studio ed al suo ufficio di insegnante, nello zelo apostolico e nel ministero.
Pieno di vita, di esuberanza, di allegria e di giovialità, è molto intelligente e vivace nelle discussioni, però non è mai offensivo. I suoi giudizi su cose e avvenimenti sono azzeccati anche se insiste un po’ troppo nel difendere le proprie idee. Riesce ottimamente sia nel campo scolastico come nel ministero. Potrebbe assumere qualsiasi ufficio di responsabilità”.
Ad Angal P. Giuseppe maturò le doti di organizzatore e di animatore, talvolta anche a costo di scontri con l’autorità coloniale.
L’ospedale di Angal
Stupisce come un uomo di scienza e di studio come P. Bertinazzo, abbia avuto l’intuizione pratica di fondare un ospedale che rappresentò come lo sbocco naturale della prima missione aperta dai Comboniana ad Omach nel 1910 (che in seguito venne appunto spostata ad Angal). Lì, per lunghi anni, Fr. Clemente Schroer, seguito da Fr. Pietro Poloniato, aveva fatto della cura dei malati una priorità assoluta. Dopo la prima guerra mondiale, le suore Comboniane continuarono quest’opera. Non solo, ma P. Giuseppe si adoperò in tutti i modi per preparare o aggiornare centri catechistici in ogni zona linguistica, quindi anche tra gli Alur di Angal.
Il personale della missione era così composto all’inizio: P. Marcabruni, superiore, P. Silvio, sacerdote indigeno poi trasferito ad Arua, P. Biolo, P. Venturini (addetto alla zona del fiume Nilo con residenza a Pakwach e Fr. De Rossi (sostituito poi da Fr. Battistata). Inoltre c’erano chiese e cappelle da costruire e la Legio Mariae assorbiva molto lavoro. Durante la visita di Miss Dickson, organizzatrice della Legio, il demonio fece sentire il fastidio che quella iniziativa gli dava: un ragazzo morì morsicato da un serpente appena ricevuto il battesimo, altri due ragazzi caddero a terra in preda a strane convulsioni, un altro ragazzo fu morsicato da un cane, P. Marcabruni, preso da una strana febbre, dovette tornare in Italia.
P. Bertinazzo, nominato parroco e superiore al posto di Marcabruni, sulle orme dei suoi predecessori, si diede a un gran lavoro per accorrere alle frequenti chiamate degli ammalati e per le confessioni, specialmente al primo venerdì del mese e nelle solennità della Chiesa. Ma c’erano tanti altri lavori da portare avanti. Scrive il Padre: “Tutte le costruzioni della missione sono in brutte condizioni: la casa dei Padri è marcia e puzzolente; la casa delle Suore, infestata dai pipistrelli, senza soffitto, rende difficile il soggiorno; tutti gli edifici scolastici esigono riparazioni; la grande chiesa ha il soffitto di stuoie che cade a brandelli, e il cattivo odore dei pipistrelli fa svenire. Prevedendo la fame, P. Biolo si dedica alla campagna. Ma ci sono anche soddisfazioni spirituali: il vecchio ex capo di Paganimur (la nostra piccola Sodoma e Gomorra), concubino ma fedele al rosario quotidiano, si è messo a posto e, per la fine dell’anno, il Signore lo ha chiamato al cielo. La Peregrinatio Mariae con la statua della Madonna che passa da villaggio in villaggio, fa prodigi di conversione. Con P. Codognola, arriva una moto Guzzi, dono di suo padre, che facilita il lavoro tra gli ammalati che spesso abitano lontano.
Una notte volli far interrompere un’orgia notturna. Povero me! Per poco non mi massacrarono. Lezione: non andare mai, specie di notte, a interrompere i loro bagordi”.
Quando si trattò di mettere mano alla Maternità, ci si accorse che non c’era acqua a sufficienza. Bastava un po’ di siccità e la pompa si seccava. Le suore fecero preghiere in continuazione a San Giuseppe e, dopo un anno, arrivò una pompa che da un pozzo molto profondo dava 2.500 galloni all’ora. Verso la fine del 1954, come coronamento all’anno mariano, venne costruita la Maternità, coperta di zinchi. Poi sorsero le abitazioni per le future infermiere, e altri fabbricati… Insomma l’ospedale cominciò a funzionare e a svilupparsi. Per definire il metodo di lavoro di P. Giuseppe, basta una frase scritta dal suo P. Provinciale: “E’ un lavoratore instancabile, però fa lavorare anche chi non ne ha voglia”.
Superiore degli scolastici a Venegono
Dopo un anno trascorso a Gozzano come insegnante dei novizi (1957-58), P. Giuseppe venne dirottato a un nuovo incarico.
Col Capitolo del 1959 P. Giuseppe Baj, superiore a Venegono, fu eletto economo generale. P. Bertinazzo prese il suo posto. Gli scolastici notarono subito la differenza tra i due. Tanto era stato comprensivo il primo, altrettanto era duro e deciso il secondo. Nel suo primo incontro con gli scolastici, s’introdusse con queste parole: “So bene che sono stato preceduto dalla fama di essere un buldozer, tuttavia con San Paolo voglio dirvi che voi sarete la mia gioia e la mia corona, come ha detto ai Filippesi”. Ad uno scolastico ammalato, che era esonerato dalle passeggiate a piedi, disse: “Giovanotto, il tempo dei privilegi è finito. Gambe!”. Questo è solo un esempio del nuovo clima che si era instaurato. Allora, però, non esisteva la contestazione. Si chinava la testa e si tirava avanti. A ben ragionare, con più di cento giovanotti dal sangue bollente nelle vene, un po’ di polso fermo era spiegabile.
Tuttavia, man mano che conosceva le persone e l’ambiente, la severità che gli era consona si tramutò in una maggiore attenzione e cordialità. Il suo umorismo e la sua allegria, di tanto in tanto balzavano fuori rendendo l’aria gradevole. Nei candidati al sacerdozio curò soprattutto uno spirito di pietà soda, basata sulla fede e sulla ragione (non per niente era filosofo) e una cultura teologica profonda.
Superiore regionale
Nel 1964 fu richiamato in Uganda come superiore regionale di Guilu. Nel 1959 era stata eretta anche la regione di Arua. Teniamo presente che, a quel tempo, i superiori maggiori erano eletti dalla Direzione generale, senza sentire il parere, almeno ufficiale, dei confratelli. Con P. Bertinazzo non si parlò di unificare in un’unica provincia l’Uganda. Di questo si cominciò a trattare solo nel Capitolo del 1969. La decisione fu votata nonostante la forte opposizione di uno dei capitolari di Arua (P. Alessandro Medeghini).
L’unificazione delle due regioni ugandesi fu attuata da P. Mario Marchetti nel 1970. P. Bertinazzo, tuttavia, costruì la sede del futuro provinciale a Kampala e dilatò la presenza dei Comboniani verso sud, sia nell’Archidiocesi di Kampala, che in quella di Mbarara. Egli stesso nel 1969 volle terminare il suo servizio di superiore chiedendo di fare il parroco nella nuova chiesa nei quartieri di Mbuya, in Kampala.
Per mettere in pratica ciò che il Concilio Vaticano II aveva suggerito a proposito dell’inculturazione del Cristianesimo nei singoli popoli, a sessant’anni di età si dedicò allo studio delle lingue sottoponendo il suo cervello ad un notevole sforzo. Per mettere in mano ai catechisti qualcosa di valido, scrisse il suo unico libro “Catechismo per adulti” che fece tradurre in Alur, Karimojong, Luganda, Swahili e Inglese, avendo cura di adattarlo ad ogni singola cultura, quindi, in pratica, sono più libri. “E’ necessario – scrisse – che la Chiesa africana approfondisca e risistemi il corpus della sua fede”.
Nel 1972 andò per un anno ad Angal per dare forma stabile e definitiva al centro catechistico.
La terza fase della sua vita
Col passare degli anni, P. Giuseppe crebbe in quella scienza del cuore che è il coronamento di ogni esistenza felicemente impegnata. Scrive P. Antonio Solcia “Ho trascorso un po’ di tempo con lui a Lodonga. Non si riconosceva più in P. Giuseppe l’uomo energico dei tempi dello scolasticato. Era diventato dolce, comprensivo, profondamente umano. Aveva perso perfino quella sottile ironia che lo aveva caratterizzato nella sua vita. Davvero era un piacere vivergli accanto e condividere la giornata con lui”. Dio lo stava preparando all’incontro finale, tuttavia P. Giuseppe trovò ancora il tempo di dedicarsi all’insegnamento della filosofia a Moroto tra gli Apostoli di Gesù (1974-89) dei quali fu eletto anche superiore. Il P. generale, Francesco Pierli, in una lettera del 9 ottobre 1987, gli scrisse: “Ti esprimo tutta la mia ammirazione e il mio ringraziamento per il lavoro ultradecennale che stai portando avanti con gli Apostoli di Gesù. Lavoro importantissimo, perché si tratta di dare la fisionomia, l’identità ad una congregazione missionaria che condivide con noi lo spirito di Comboni. Ho capito che i veri formatori siete voi, attraverso la scuola e la testimonianza della vita… L’insegnamento della filosofia, che alcuni anni addietro veniva un po’ snobbata da tanti, oggi viene rivalutata da tutti. Io saluto con grande gioia questo ritorno senza il cui contributo, la formazione dei futuri ministri della Chiesa sarebbe seriamente deficitaria. Comboni è contento di te perché stai realizzando il suo motto ‘salvare l’Africa con l’Africa’. Apprezzo il tuo libro ‘Il Catechismo degli adulti’ che è venuto fuori dalle Edizioni Paoline di Nairobi. E’ un lavoro eccellente che non si basa soltanto sulla tua cultura filosofica, teologica e antropologica, ma anche sulla tua esperienza diretta”.
P. Giuseppe continuò lo stesso ministero a Jinja con i postulanti comboniani insieme a quelli di altri istituti (1989-98), rifiutando di considerarsi un pensionato.
“La formazione metodica della mente – scrisse – è indispensabile per sviluppare la comprensione della teologia, della cultura e della lettura dei segni dei tempi e della storia”.
Parlando confidenzialmente con un confratello, gli disse: “Vorrei mettere in testa ai futuri Apostoli di Gesù dei principi sodi, perché senza questi, anche l’osservanza minuziosa delle regole, non serve ad indirizzare la mente e le azioni di un uomo. I futuri Apostoli devono saper rispondere agli innumerevoli perché della loro vita e trovare una ragione perché devono fare certe cose e non farne altre”.
Il Signore premiò il suo sforzo concedendogli molti anni di questo ministero prezioso di “annaffiatore di radici africane degli istituti missionari”.
A 82 anni il cuore non reggeva più, per cui dovette rientrare definitivamente in Italia. Andò, tuttavia, ancora con i giovani nel noviziato di Venegono. Qui la morte lo colse all’improvviso alle prime ore dell’alba del 3 febbraio del 2001. Il Padre era pronto ad entrare nella Casa di Dio con tutto il suo bagaglio di bene, purificato dall’ultimo periodo di sofferenza e da una vita intensamente spesa per la formazione dei futuri sacerdoti africani. Dopo il funerale nella cappella dei Comboniana a Venegono, la salma è stata traslata nel cimitero del suo paese accanto ai genitori. Di lui ci resta il ricordo e l’esempio di un uomo che ha amato il Signore e la scienza, vista proprio come impronta di Dio nella storia. (P. Lorenzo Gaiga)
Da Mccj Bulletin n. 210, aprile 2001, pp. 108-117