In Pace Christi

Martini Livio

Martini Livio
Data de nascimento : 11/05/1910
Local de nascimento : Taggia (IM)/I
Votos temporários : 07/10/1929
Votos perpétuos : 07/10/1934
Data de ordenação : 07/07/1935
Data da morte : 29/04/1998
Local da morte : Verona/I

Papà Antonio e mamma Luigina Faraldi erano affittuari di un vasto oliveto, con orto ad uso familiare che coltivavano con l’aiuto del figlio maggiore, Antonio (nato nel 1901). Producevano anche verdura, frutta e un po’ di vino. E se restava del tempo, lavoravano per conto terzi, sempre in campagna.

L’unico reddito vero veniva dalla vendita delle olive ma, come si sa, gli ulivi sono produttivi solo ad anni alterni per cui, ad una stagione buona ne segue una magra. Papà Antonio, per venire incontro alle necessità della famiglia, si recava periodicamente in Tunisia come “maestro di frantoio”. Riceveva una buona paga ma, appena rientrato in patria, doveva spendere tutto per pagare i debiti che si erano accumulati nella bottega del paese e così si era sempre daccapo.

Ad un certo punto il secondogenito, Rosolino (nato nel 1906), entrò nel seminario diocesano. La retta mensile fu un nuovo aggravio economico per la famiglia. Il giovinetto andò avanti, divenne sacerdote e operò a Genova, a Lucca e a Cattolica. Morì carico di anni e di meriti nel 1988. Già questa vocazione ci dice quale fosse la temperatura spirituale della famiglia Martini. La morte della mamma, avvenuta quando Livio non aveva ancora 10 anni, si abbatté sulla famiglia, tre maschi e due femmine, come un uragano.

Come i suoi fratelli, anche Livio, quartogenito, frequentò le elementari a Taggia, dove ricevette anche i primi Sacramenti. Essendo nella situazione di orfani, e trovandosi spesso il papà all’estero per motivi di lavoro, i ragazzi furono aiutati da famiglie religiose e benestanti. Proprio queste famiglie pensarono anche alla retta di Rosolino, e poi anche di Livio, mentre si trovavano nel seminario diocesano di Ventimiglia.

Dopo le elementari, dunque, anche Livio espresse il desiderio di diventare sacerdote. E seguì il fratello Rosolino che era quattro anni avanti a lui.

La vocazione missionaria

Un giorno, il comboniano p. Giovan Battista Cervetto, passò dal seminario dove si trovava Livio e parlò di Africa e di missioni ai seminaristi. Livio fu colpito da quelle parole e vi rifletté a lungo; quindi, consigliatosi con i suoi superiori e col Vescovo, ottenne il permesso di farsi comboniano.

Il giovane Martini era preparato all’incontro col missionario perché era assiduo lettore di Nigrizia. In un articolo indirizzato appunto a Nigrizia nel 1979 parla della sua vocazione. Lo scritto non è stato pubblicato perché il direttore di allora non lo ritenne adatto, tuttavia la lettera è finita in archivio e oggi ci apre una finestra sulla vocazione di questo insigne missionario:

“Cara Nigrizia, la prima volta che ti incontrai fu nel 1924 quando, ancora fanciullo, frequentavo la seconda media in seminario. L’assistente era tuo abbonato e con piacere ci permetteva di leggere i racconti che riportavi. Erano racconti provenienti dall’Africa centrale, allora unico territorio affidato ai Comboniani.

Ero seminarista, ma osservando i sacerdoti che vedevo (i più erano canonici della Cattedrale) mi convincevo che probabilmente non ero chiamato per fare il prete. Leggendo, invece, la vita dei missionari, dissi: ‘La vita di questi sacerdoti, sì che mi piace! Quella sarà la mia vita. Così, nel 1925 entrai nella scuola apostolica di Brescia...”.

Per papà Antonio la notizia della vocazione missionaria del figlio Livio costituì un duro colpo. “Lo abbiamo perso!”, ripeteva in famiglia. “Con queste parole - ci riferisce il nipote che si chiama Livio come lo zio missionario - il papà, esperto di Africa, voleva sottolineare il fatto che, una volta in missione, non sarebbe più tornato in famiglia”. Il povero papà non poté vedere il figlio partire per la missione perché morì prima.

Novizio a Venegono Superiore

Nel 1927 Livio iniziò il noviziato a Venegono Superiore impegnandosi soprattutto a controllare e a ben incanalare la sua forte personalità che lo portava a qualche scatto d’ira, specialmente quando vedeva che qualcuno se la prendeva troppo comoda o non era pronto e preciso negli uffici che gli erano assegnati..

Il p. Maestro, tuttavia, ebbe per lui espressioni di ammirazione assicurando che sarebbe riuscito un ottimo missionario, “esatto in tutte le sue cose, di intensa preghiera e di notevole spirito di sacrificio”. Emise la professione il 7 ottobre del 1929, poi passò a Verona per terminare il liceo e la teologia studiando presso il seminario diocesano. Venne consacrato sacerdote il 7 luglio 1935.

I superiori lo trattennero in Italia ancora due anni, anche per non procurare una ferita troppo profonda al papà che soffriva al pensiero della partenza del figlio. Solo nel 1937 poté lasciare l’Italia.

Nel frattempo fu inviato nel seminario comboniano di Carraia come insegnante ai piccoli seminaristi. Era esigente ma buono, comprensivo, sempre pronto a dare una mano a chi aveva qualche difficoltà nell’apprendere la lezione. Durante la ricreazione scendeva in cortile con i ragazzi e prendeva parte ai loro giochi con molta cordialità.

20 anni in Sudan

Nel 1937 fu inviato in Sudan meridionale. Vi sarebbe rimasto 20 anni, fino al 1957, anno in cui venne espulso dal governo islamico del Sudan che aveva ottenuto l’indipendenza dall’Inghilterra proprio l’anno prima.

Scrive il Padre: “Avevo sognato il Bahr el Ghazal. Non arrivai proprio fin là. Però mi toccò la stazione di Yoinyang tra la grande tribù dei Nuer, situata sul fiume Bahr el Ghazal. Ero felice...‘Magico suolo che sognai fanciullo, eccomi giunto finalmente a te’, era il mio canto”.

P. Martini cominciò subito a lavorare con entusiasmo e costanza ma dopo due anni, per ragioni politiche, i Comboniani dovettero lasciare la zona e trasferirsi nella provincia dell’Equatoria tra i Bari, i Lokoja e poi tra i Nyangwar e i Mundari. Il Padre fu nelle missioni di Rejaf, di Juba e di Kadulè. Nel 1954 fondò la missione di Tali della quale divenne superiore. Fu il suo “canto del cigno”. Infatti, nel 1957, essendo ormai l’atteggiamento degli arabi nei confronti degli africani del sud e, in particolare, dei cristiani, ispirato ad autentica persecuzione, p. Martini non riuscì a tacere. Le ingiustizie e i soprusi contro i deboli non gli andavano giù... Fu prelevato dalla missione dai poliziotti e chiuso per due mesi nelle carceri al Khòber di Khartum e poi espulso dal paese.

Volle conoscere la gente

P. Leali, che fu missionario con lui nella stessa zona, dice: “P. Martini amava molto la gente. Non aveva mai fretta quando parlava con qualcuno. S’interessava anche della famiglia, dei parenti, della salute e di tutte quelle cose che facevano piacere all’interessato. Aveva un debole per gli anziani e per gli ammalati che visitava regolarmente portando ciò di cui la missione poteva offrire, ma soprattutto non faceva mancare la sua parola confortatrice e la sua amicizia”.

Nei suoi anni di Sudan, p. Martini scrisse alcuni servizi che vennero pubblicati su Nigrizia. Nel maggio del 1940 fece un bell’articolo su “Simone il lebbroso”, nel maggio del 1950 in un suo scritto dal titolo “Era già l’ora che volge il desio” parla del suo cambio di missione. Nel marzo del 1955 descrive in “Un disperato ring” la lotta accanita tra un gruppo di missionari in viaggio e uno sciame di api che si avventò su di loro. Nel febbraio del 1957 parla delle credenze pagane tra i Mundari nell’articolo dal titolo “Al villaggio gli spiriti sono di casa". Questo tanto per dire che p. Martini non solo fu uno zelantissimo missionario capace di affrontare safari di settimane per visitare i cristiani, ma anche un uomo che cercò di capire l’anima degli africani, di studiarne gli usi e i costumi. Lo stesso farà durante i 35 anni di vita ecuadoriana.

35 anni in Ecuador

Da vero missionario qual era, p. Martini, giunto in Italia, non si piegò sotto il peso della croce che gli gravava le spalle, ma, pur sofferente, chiese ai superiori di essere mandato in un’altra missione, anche fuori dall’Africa, purché fosse missione e, possibilmente, di prima linea.

Mons. Angelo Barbisotti, che era stato missionario con lui in Sudan e che ora era prefetto apostolico di Esmeraldas, in Ecuador, lo invitò in quella terra. Il Padre partì immediatamente e gli parve di trovarsi... a casa sua.

“Mi parve di essere piovuto in una provincia africana - scrisse. - La stessa gente, la stessa pelle, lo stesso carattere aperto e schietto... popolazioni strappate dall’Africa in modo simile al mio. Ci sentimmo doppiamente fratelli”.

In un’altra lettera aggiunse: “Comboni aveva scelto l’Africa centrale per il fatto che i suoi abitanti erano i più abbandonati del mondo. La Congregazione dei Comboniani, seguendo il carisma del fondatore, si va spingendo sempre più avanti per assistere i più abbandonati di ogni paese. Quindi anche qui mi sento al posto assegnatomi da Comboni”.

Rimarrà in Ecuador 35 anni, dal 1958 al rientro in Italia per morire.

Dopo aver appreso la lingua, fu per 3 anni nella missione di Limones, costruita su un isolotto traballante di segatura e scarti di legname. Quindi passò a fondare la missione di Santa Maria tra gli indios Cayapas, un posto isolatissimo, affondato nella foresta equatoriale.

L’attività missionaria di p. Livio a Santa Maria de los Cayapas, la missione che lui fondò il 6 novembre 1961, s’interseca con quella di p. Alberto Vittadello, di cui è stata scritta la biografia. Molti particolari di p. Martini si trovano, pertanto, nel libro su p. Vittadello.

Per potersi muovere, p. Livio dovette procurarsi una barca a motore. La sua missione e la sua gente erano lungo i fiumi. Scrisse p. Vittadello: “Santa Maria era la missione più lontana e più difficile dell’Ecuador e, molto probabilmente, di tutto il mondo comboniano. Situata sulle rive del Rio Santiago, poteva essere raggiunta solo con più giorni di navigazione, parte su bananiere, parte con la canoa, stando attenti a sfruttare il gioco della marea per non dover rompersi la schiena dal lungo remare. In più, quasi ogni giorno a determinate ore, il cielo rovesciava sulla terra un diluvio di acqua che bisognava prendere in santa pace.

Uomo metodico e abituato alla dura vita del Sudan, p. Martini cominciò subito a fare conoscenza con la gente, la buona e cordiale gente di Santa Maria, ma piena di vizi e di superstizioni, ultimo resto di un popolo in fuga di fronte alla prepotenza degli invasori che venivano dall’Europa (gli spagnoli). I Cayapas avevano trovato scampo rifugiandosi in zone impenetrabili. Cinquecento anni prima avevano anche ricevuto un’infarinatura di cristianesimo che ancora conservavano, almeno per quanto riguardava la venerazione dei santi e della Madonna, anche se tutto era mescolato a tanta superstizione e magia”.

P. Martini costruì un chiesetta dalle pareti in legno e coperta di foglie, con due stanzette, un magazzino e una piccola cucina. Come tutte le costruzioni locali, gli edifici poggiavano su palafitte per evitare la tremenda umidità e le acque torrenziali che, con una certa frequenza, spazzavano via tutto. Una precaria scaletta a pioli consentiva l’accesso alle abitazioni. La temperatura oscillava tra i 28 gradi centigradi di notte e i 35 di giorno con l’umidità costante al 90 per cento. A questo si aggiungano zanzare, scarafaggi, insetti di ogni genere e cibo precario, e si avrà una pallida idea della vita a Santa Maria. P. Martini, dall’anima contadina, si faceva mandare dai suoi di Taggia sementi per l’orto (che veniva regolarmente annientato dagli insetti, ma qualcosa avanzava anche per lui!) e allevava qualche gallina per le uova. In compenso, il grande fiume offriva dell’ottimo pesce e la gente allevava tanti maialini che grufolavano sotto le capanne tenendole pulite dai rifiuti che cadevano. Poi c’era anche un macellaio, un bianco incaricato dal governo per amministrare la giustizia, fare da giudice e capo della polizia. Questi imbrogliava sempre sul peso. Allora p. Martini gli mandava indietro la merce e poi gli diceva: “Con i tuoi pesi fasulli e con le tue misure false andrai all’inferno”. Una brava donna, istruita dal Padre, era diventata una cuoca provetta.

La scuola

L’unica costruzione in muratura era la scuola. Sì, perché il Padre voleva cominciare con l’istruzione, elemento primo per l’elevazione umana e sociale di quel popolo che da secoli era tagliato fuori da ogni segno di civiltà.

Attorno c’erano alcune capanne di indios. Dall’altra parte del fiume c’era il villaggio di Camarones, abitato da neri i cui antenati, quattrocento anni prima, erano fuggiti in massa da una nave negriera, forse in seguito ad un naufragio o ad un ammutinamento. Quella gente richiamava tanto da vicino l’Africa.

La gente del fiume parlava una lingua difficilissima che il Padre non riuscì mai ad apprendere perfettamente, tuttavia si fece subito intendere, sia grazie ad un traduttore che conosceva lo spagnolo e il cayapas, sia, soprattutto, grazie al linguaggio dell’amore. P. Martini visse per due anni in quella solitudine, dimostrando di quale tempra fosse. Quando alla fine del 1963 arrivò p. Vittadello la vita cambiò, non solo perché il nuovo venuto portò un fornello con il quale era possibile mangiare i cibi cotti come si deve, ma anche per il clima di cordialità e di carità che si stabilì tra i due.

Mi manifesta la bontà di Dio

“P. Livio - scrisse il nuovo venuto - mi manifesta la bontà di Dio per le sue creature. È un vero padre che si preoccupa della mia salute e di tutto quanto mi possa occorrere. Egli è un vero esperto di missione e, con lui, io mi sento sicuro. Periodicamente vuole che vada a Quito o ad Esmeraldas per un po’ di riposo e per vivere una vita un po’ più confortevole. Lui si considera un vecchio missionario rotto ad ogni fatica”.

Quando p. Vittadello portò un piccolo generatore di corrente che, per alcune ore, alimentava tre lampadine, sembrava che Santa Maria fosse diventata una metropoli americana.

P. Martini si dimostrò estremamente aperto nell’accettare certi riti e certe danze con le quali la sua gente celebrava la Pasqua e il Natale. “Se la Chiesa dovesse proibire queste danze - disse - automaticamente si metterebbe fuori dalla religiosità della gente”.

Dopo 11 anni di quella vita, nel 1973 il Padre passò alla missione di Viche e vi rimase fino al 1977. Dal 1978 al 1991 fu a Honorato Vasquez.

Il miracolo coi laici

Sul lavoro di p. Martini e di p. Ferri a Honorato Vasquez, p. Vittadello ha rilasciato questa testimonianza: “Debbo dire che la missione di p. Ferri e di p. Martini è una meraviglia. I due confratelli hanno realizzato una missione completa di casa canonica, chiesa, centro catechistico, casa delle suore e una grande quantità di chiesette nei vari centri che sono 24, ma comprendono 88 villaggi sparsi sulle colline.

Il miracolo vero di questi due grandi missionari è che sono riusciti a scovare ed impegnare molto seriamente una quantità di persone in differenti ministeri laicali. Ci sono guide di comunità, tutti uomini maturi e qualche donna, catechisti in tutti i villaggi, legionari e legionarie di Maria (centinaia) e gruppi giovanili e di preghiera. Con loro collaborano quattro suore salesiane; una è italiana e tre ecuadoriane. Ultimamente hanno piantato una grossa falegnameria che è una cooperativa artigianale denominata ‘Solidarietà’ per dare lavoro alla gente.

P. Martini, pur essendo di una certa età, si mostrò aperto anche alle ‘Comunità di base’ dalle quali sono venuti fuori bravissimi animatori che andavano nei villaggi a spiegare la Parola di Dio e a insegnare alla gente a pregare”.

Solo un accenno alla povertà di p. Martini. Il 2 agosto 1991 p. Vittadello scrisse: “Mi trovo nella stanza di p. Martini che, dopo aver lasciato Honorato Vasquez, è andato nel seminario di Esmeraldas. Alle pareti tanti chiodi e aggeggi tipici dei missionari tuttofare e che sanno vivere anche in situazioni precarie.

C’è una fotografia di Mons. Comboni ed un crocifisso e, sopra gli armadi, scatole di cartone e vecchie valigie, credo ancora quelle che ha portato dal Sudan quando è stato espulso negli anni Sessanta. P. Martini è un missionario stupendo. La gente apprezza molto l’adorazione al Santissimo e veglia fino a notte tarda. Ma sapete da chi ha imparato? Dai missionari p. Ferri e p. Martini”.

La testimonianza di p. Alberto Ferri

Per la morte di p. Martini, il suo amico p. Ferri ha mandato una testimonianza: “Praticamente ho passato quasi tutta la mia vita missionaria vicino a p. Martini o con p. Martini. Negli anni di Limones eravamo confinanti. Da Limones lo aiutavo per le spese, portate a Santa Maria in canoa. Quando lui ed io ci siamo trovati soli, ci confessavamo a vicenda. Poi siamo stati insieme a Viche e a Vasquez per quasi 20 anni.

Devo dire che per me la vicinanza con p. Martini fu una grande grazia di Dio e un aiuto grandissimo. Fu a Viche dove abbiamo iniziato il cammino di comunità ecclesiali con i ministri laici. P. Martini ci credeva e diede tutto il suo appoggio, incoraggiamento ed aiuto.

In quel tempo facevo visite ai villaggi che duravano settimane e, quando ritornavo al centro, era sempre una festa. Quanti buoni piatti di verdura da lui coltivata nel piccolo orto! La verdura fresca e abbondante, in quelle situazioni, era più che un manicaretto. Poi le preghiere insieme e il suo metodo missionario che imparai a memoria. Mi parlava del Bahr el Gebel, delle missioni sudanesi che aveva nel cuore, dei seminaristi, dei suoi ragazzi, uno dei quali è diventato vescovo. Quando parlava di missione si animava e pareva ridiventasse giovane. Mai si dimenticò dei 20 anni di duro lavoro missionario in Sudan e lo ricordava con tanta nostalgia e amore, anche se aveva aperto il suo cuore alla nuova gente e alla nuova missione dell’Ecuador.

Era molto legato a un suo fratello sacerdote, morto santamente a Cattolica, già cieco e che lavorò fino all’ultimo confessando e confessando. Ricordava spesso anche i suoi parenti e amici di Taggia. I parenti erano ormai figli di nipoti dai quali era conosciuto poco. Parlava anche di sua sorella suora morta giovane e poi ricordava la sua infanzia, la mamma e i begli anni passati in collina nella sua casa tra campi di olivi e frutta”.

Il triste addio

“Ci siamo separati nel 1991 – continua p. Ferri – quando Honorato Vasquez fu dato alla diocesi. Per ordine del p. Provinciale (Fantin) egli lasciò Vasquez un mese prima di me, per essere destinato al seminario di Esmeraldas. Lo portai io: piangevamo tutti e due, e piangeva la gente che mi chiedeva perché non potesse rimanere a Vasquez dove loro lo avrebbero amato e curato come un padre.

Alcuni mesi dopo, quando ero già al Carmen, al mio ritorno da una visita ai villaggi, mi dissero che p. Martini aveva telefonato da Quito. Vi andai subito e lo trovai molto triste e in pianto perché ‘lo mandavano via’. Stava aspettando l’aereo per partire definitivamente per l’Italia con destinazione Centro Ammalati di Verona. Era il 1991. Siamo rimasti insieme varie ore e, insieme, abbiamo celebrato la santa messa. Le poche volte che poi l’ho visto a Verona, mi commuoveva. Recitava il rosario e, ad ogni ave Maria, pregava per qualcuno del Sudan, di Santa Maria, di Viche e di Vasquez e, insieme, ricordavamo tante storie di vita, di conversioni e di lavoro. Davvero p. Martini è stato un grande missionario che ha lavorato sodo nel silenzio, nel nascondimento, stimando e amando intensamente la gente, e donandosi ad essa totalmente. Io prego perché un poco del suo spirito scenda su di me”.

Capacità di amare

Leggendo le lettere rimaste, si scopre una personalità semplice, forte e generosa. Ma soprattutto viene fuori un p. Martini con una grandissima capacità di amare. Non c’è lettera che non finisca col chiedere di salutare tutti i confratelli della missione o della casa, nominandoli uno ad uno, compresi gli impiegati e il personale di servizio.

È stato, inoltre, un imitatore di Comboni soprattutto per l’attaccamento alla missione: “Il mio corpo è a Roma, ma il mio cuore è rimasto in Ecuador”, disse mentre faceva il Corso di aggiornamento. Manifestò sempre anche un forte senso di appartenenza all’Istituto come famiglia apostolica: “Prego ogni giorno per tutti”, scrisse nella sua ultima lettera al Provinciale, quando era quasi cieco.

Ogni giorno, anzi, più volte al giorno, mentre era ricoverato al Centro Ammalati di Verona, offriva a Dio le missioni per le quali era passato e i confratelli che vi avevano lavorato. Questa sua preghiera-offerta era così intensa e così sentita, che spesso gli scendevano le lacrime dagli occhi.

Uomo di Dio, ha sempre letto gli avvenimenti della sua vita, specie quelli più dolorosi, alla luce della fede, e quindi con serenità evangelica, ringraziando Dio per le tante manifestazioni di amore nei suoi riguardi, specie nella sua anzianità. Tutto quello che gli veniva fatto era un dono di Dio, anzi era Dio stesso che, attraverso gli infermieri, si chinava su di lui per mostrargli ancora una volta il suo amore, la sua tenerezza.

Testimonianze

Il nipote, signor Livio Martini, scrive: “Lo zio missionario era un uomo di grande cordialità e simpatia ed era ben voluto da tutti. I suoi ex compagni di scuola, i sacerdoti della diocesi, gli volevano un gran bene e, quelle rare volte in cui veniva in vacanza, lo invitavano per la celebrazione della messa nelle loro parrocchie. Ma celebrava volentieri anche nella casa di riposo di Taggia dove poteva intrattenersi con tanti anziani che aveva conosciuti nella sua fanciullezza. La casa di mio padre era la sua casa, perché tra mio papà e p. Livio c’era una cordialità come tra papà e figlio.

Ricordo le numerose lettere che ci mandava, prima dal Sudan e poi dall’Ecuador. A queste spesso allegava fotografie. Mio padre ed io eravamo cacciatori di piccoli uccelli, lui invece ci scriveva di immensi stormi di faraone selvatiche e di una infinità di selvaggina. Mandò anche la foto di un elefante che lui aveva abbattuto dopo essere stato chiamato dalla gente di un villaggio che era terrorizzata dalle incursioni di quel bestione che demoliva le capanne e faceva scempio dei campi coltivati.

Ricordo pure la lettera in cui parlava del suo arresto in Sudan. Si lamentava di quella ingiustizia nata dalla discriminazione religiosa, ma non aveva rimpianti, né si perdeva d’animo. Era contento del bene che aveva potuto fare alla gente per la quale aveva costruito scuole e ospedali.

Quando era in Ecuador parlava della sua missione di Santa Maria de los Cayapas, delle continue piogge, degli strani usi della gente, dei tanti maiali che aveva modo di vedere intorno a sé, dei progressi dell’orto (io gli mandavo le sementi)... In una cappella aveva messo la riproduzione di un quadro della Madonna di Taggia che veniva onorata dai cristiani.

Due anni fa sono andato a trovarlo a Verona con i miei figli. Ci accolse con gioia e ci parlò con entusiasmo della beatificazione di Mons. Comboni. Era orgoglioso di appartenere ad un Istituto che aveva dato alla Chiesa un così grande santo.

Tutte le sue lettere terminavano con questa frase: ‘Vi ricordo tutti ogni giorno nelle mie preghiere’. Sono sicuro che ci ricorda anche dal cielo”.

Il Vescovo di Ventimiglia

Anche il vescovo di Ventimiglia-San Remo, mons. Giacomo Barabino, ha voluto partecipare al lutto di p. Livio con una lettera ai superiori. “Diocesi, sacerdoti e fedeli, in particolare parenti e amici di Taggia e della valle Argentina, ci uniamo alla comune preghiera di suffragio e di lode a Dio per i doni concessi a p. Livio e le buone opere compiute nella sua vita di missionario. Preghiamo anche perché il posto lasciato vuoto venga preso da qualche buona vocazione”.

Gedeone Soardo, che lavora presso il Centro Ammalati di Verona, e che col Padre aveva stretto una sincera amicizia, dopo la messa funebre in Casa Madre ha così riassunto la vita di p. Livio lasciandosi trasportare dall’onda dei ricordi che il Padre gli comunicava: “Durante i frequenti safari ti spostavi in bicicletta o in canoa, ti accontentavi di un pugno di riso, ti riposavi in una capanna prima di ripartire il giorno dopo per visitare un altro villaggio sperduto nella foresta o tra i fiumi.

In missione la tua vita è stata piena di soddisfazioni, ma anche di sacrifici e di lavoro, tutto vissuto con coerenza e fedeltà cristiana.

La Casa Madre a Verona, da quando ti ho conosciuto, è stata la casa della sofferenza, mitigata dalla continua preghiera. Gli acciacchi dell’età avanzata, la cecità pressoché totale e la spossatezza che ogni tanto ti sfiancava, ti facevano sentire maggiormente la solitudine e l’incomprensione.

Eri uno spirito libero e schietto: dicevi quello che pensavi. E dopo ogni piccolo servizio che ricevevi, non mancava mai il tuo ‘que Diòs te paghe’. Caro p. Martini, ti ringrazio sentitamente di avermi dato la possibilità di scoprire e concretizzare la tenerezza divina che si trova in ognuno di noi”.

Sì, p. Martini a Verona ha esperimentato la sua ora del Getzemani per il senso di solitudine che lo ha preso. E se pensiamo a quale sia stata la sua vita missionaria, possiamo bene capirlo; tuttavia sopportò con coraggio e spirito di fede la situazione.

Due anni prima della morte sopravvenne anche una paralisi che lo obbligò a stare su una sedia a rotelle. Subì anche l’operazione agli occhi per tentare un miglioramento alla vista, ma tutto fu inutile: l’oscurità quasi completa avvolse i suoi ultimi anni. L’unico rifugio era la preghiera che si fece più intensa, dando sempre nuovo vigore alla sua fede.

Chi scrive queste note, ricorda p. Martini al Centro Ammalati di Verona, seduto sulla sua carrozzella in atteggiamento retto, nobile, dignitoso. Sempre uguale a se stesso, sempre gentile con tutti. Contribuì efficacemente a dare appunti e indicazioni per la biografia di p. Vittadello che considerava un “santino”. Ora sono certamente insieme in paradiso accanto a Comboni, al Signore e alla Madonna che tanto hanno amato, e chissà quante cose si raccontano!

È uno dei grandi missionari

Mancavano dodici giorni al compimento degli 88 anni quando, per insufficienza renale e scompenso cardiocircolatorio in un soggetto già fortemente debilitato, il padre si spense. Dopo il funerale in Casa Madre, è stato sepolto nel cimitero di Verona, nella tomba dei Comboniani.

P. Martini entra nella corona dei “grandi missionari”, non solo per quanto ha fatto durante la sua vita attiva, ma anche per la testimonianza della sua malattia e della sua morte. Il cappellano del Centro Ammalati di Verona ha detto: “Quest’uomo è stato missionario fino alla fine, perché fino all’ultimo ha sentito in sé la passione per la missione che lo ha sempre animato fin dalla gioventù. In lui possiamo vedere attuato quanto afferma il Capitolo, quando dice che la passione per la missione e per tutto quanto fa parte del nostro carisma ‘deve caratterizzare l’iter formativo ed essere presente lungo tutta la nostra vita, anche nella malattia e nella vecchiaia’. È quanto ha fatto p. Livio Martini.

Una caratteristica di p. Martini durante la sua vita è stata la preghiera di intercessione per le missioni, per i confratelli, per le vocazioni e anche per le nazioni nelle quali ha esercitato il suo ministero. Siamo certi che in Cielo continuerà questo suo ministero di intercessore per gli infiniti bisogni della Chiesa, della Congregazione e del mondo, specie quello missionario.

P. Lorenzo Gaiga, mccj

Da Mccj Bulletin n. 201, ottobre 1998, pp. 104-111