In Pace Christi

Mason Edoardo

Mason Edoardo
Data de nascimento : 08/11/1903
Local de nascimento : Limena PD/I
Votos temporários : 01/11/1920
Votos perpétuos : 01/11/1925
Data de ordenação : 11/07/1926
Data de consagração : 29/06/1947
Data da morte : 15/03/1989
Local da morte : Verona/I

Per un primo approccio alla personalità di mons. Edoardo Mason è bene leggere una specie di testamento spirituale che egli ha scritto a Verona il 25 gennaio 1972 "Festa della conversione di San Paolo". Per la verità, l'interessato ha chiamato questo scritto: "Consegne, ricordi e richieste di + Edoardo Mason F.S.C.J. pel tempo di sua traslazione a vita migliore".

Perché l'ha scritto nel 1972 e nella festa della conversione di San Paolo? Credo che la risposta non sia difficile. Nel 1972, in Italia, eravamo ancora in piena crisi post-sessantotto. Una crisi che ha messo in discussione, primo fra tutti, il principio di autorità e tanti altri valori, insieme a pseudo valori, ai quali le persone di una certa età erano attaccate. La crisi ha investito anche la nostra Congregazione, le nostre case di formazione e le persone ad esse preposte con la conseguenza di un disorientamento che investì particolarmente i giovani e portò una grande sofferenza ai meno giovani causando, sovente, comprensibili irrigidimenti su due posizioni opposte: lassismo e rigorismo.

Vivendo in quel periodo a Verona, mons. Mason si trovò nell'occhio del ciclone. Inoltre, le tristi vicende del Sudan e l'opera in favore dei Rifugiati sudanesi che portava avanti lo tenevano sotto un continuo stress. E' logico, dunque, che il pensiero della morte si affacciasse con una certa assiduità alla sua mente. Prima di andarsene, tuttavia, voleva lasciare il suo contributo per una "conversione", un cambiamento, un ritorno, ai valori che avevano dato alla Chiesa e alla Congregazione degli autentici eroi in campo missionario. Con la nuova linea dove si sarebbe andati a finire?

Queste considerazioni erano legittime in un uomo di una rettitudine senza incrinature e di una linearità assolutamente priva di dossi e semicurve qual era mons. Mason. Tuttavia egli non bocciò tutto in blocco. Molto intelligentemente auspicava che "i tesori spirituali della Congregazione siano rinnovati con spirito nuovo e aggiornati ai bisogni presenti, e che si dia fiducia alla generosità dei giovani chiedendo loro dei sacrifici".

Tenendo presente questa chiave di lettura, consideriamo gli otto punti del suo

TESTAMENTO SPIRITUALE

"1° - Ringrazio il Signore per tutti i favori accordatimi in vita, e vorrei spirare con un 'grazie'  sul labbro. Ringrazio in particolare per:

a) il dono della vita;

b) il dono della fede cristiana;

c) il dono della vocazione religiosa-missionaria;

d) il dono del Sacerdozio e dell'Episcopato e, in questi, quello del celibato che ho sempre considerato un vero privilegio;

e) il dono della croce, specialmente negli ultimi dieci anni di lavoro nel Sudan meridionale.

2° - Prego i miei confratelli, sorelle spirituali, amici e benefattori (nella speranza che venga a tutti notificato con sollecitudine il mio trapasso) di voler, ancor prima dei suffragi da farsi per carità o per Regola, completare il mio 'grazie' al Signore con i loro Magnificat e Te Deum, per tutti i benefici da me ricevuti in vita.

3° - Confesso tutte le mie colpe, deficienze e difetti, sia noti che incogniti, e di tutti chiedo umilmente perdono a voi, fratelli.

Da parte mia non trovo di che perdonare, ma se qualcuno credesse di aver mancato verso di me, sappia che ho già perdonato e dimenticato.

4° - Sono felice di chiudere i miei giorni come figlio della Chiesa e del Papa, e membro della Congregazione dei Figli del Sacro Cuore di Gesù, Missionari Comboniani, anche se le intemperanze di alcuni mi hanno causato non poco dolore.

5° - Prego i confratelli di volersi mantenere fedeli alla loro vocazione apostolica che matura nelle sue due componenti: vivere con Gesù per sapersi donare e sacrificare per i fratelli.

Coltivate l'UNITA' nella carità e obbedienza, garanti della vostra maturazione spirituale e del sicuro sviluppo della vostra personalità.

6° - Se muoio in Italia vorrei essere sepolto nei loculi della cappella centrale del cimitero di Limena tra il clero locale, purché i Superiori vi consentano e i parenti ed amici ne sostengano le spese. Se, invece, il Signore mi concedesse di fare il mio trapasso in Africa, escludo qualsiasi traslazione.

7° - Dichiaro che tutte le cose da me usate e i residui dei fondi per i Rifugiati non sono di mia proprietà, essendo il tutto dell'Istituto per le sue opere comboniane, in particolare per aiutare i profughi sudanesi, ai quali sarà devoluto il resto delle questue, eccetto quanto sarà doveroso ritenere per la Casa e Comunità che con carità e pazienza mi avrà ospitato durante gli ultimi anni di mia vita, a giudizio del padre generale o provinciale.

8° - Ai superiori umilmente rivolgo le richieste seguenti:

a) Non lasciate deperire i tesori spirituali e la ricchezza di esperienza sia del fondatore Comboni, sia dei confratelli che ci hanno preceduto.

Vogliate vigilare perché tale tesoro sia conservato per uso quotidiano, sia rinnovato con spirito nuovo e adattato ai bisogni presenti, ricordando che aggiornamenti demolitori di bene sono fallaci.

b) Il Concilio, richiamando il Vangelo, ha accentuato il valore dell'autorità come servizio alla fraternità per consiglio, guida, aiuto e richiamo. Però non vogliate obliterarvi al punto che non si senta la vostra voce o non si veda la vostra segnaletica!

c) Nelle crisi attuali di vocazioni, di formazione e di fedeltà agli impegni presi, non cercate affrettati rimedi di facili adattamenti al mondo, di tuffi incontrollati nell'attività anche per i più giovani, di permissività a zoppicature in duas partes per chi è stanco della vita intrapresa.

Abbiate fede nella preghiera che tutto vince. Date fiducia alla generosità dei giovani chiedendo loro sacrifici. Fidatevi della provvidenza che, pur avendo scelto dei servi inutili, sa, può e vuole compiere le sue opere per mezzo vostro".

TANTA STRADA A PIEDI

Settimo di nove figli, Edoardo era nato a Limena l'8 novembre 1903 da Stefano e Bano Clementina. Dopo di lui vennero al mondo Luigi, che morì in tenera età, e Teresina, unica donna tra tanti uomini.

Di famiglia contadina benestante e religiosissima, apprese sulle ginocchia della mamma le preghiere e poi, insieme a tutta la squadra, imparò la strada della chiesa. Che Edoardo avesse propensione al sacerdozio lo dimostravano tanti piccoli segni, quale l'interesse per le cerimonie sacre, l'amore allo studio e alla preghiera. Quando ne ebbe l'età, fece parte del gruppo dei chierichetti. Anche se era l'ultimo arrivato e il non più alto di statura, manifestò subito la stoffa del capo.

Dopo le tre classi elementari a Limena, frequentò la quarta come privatista presso il cappellano di Sant'Andrea di Campodarsego, don Giuseppe Faccioli, un pio sacerdote che si prestava ad istruire i ragazzi che mostravano propensione agli studi. Con Edoardo c'era anche il cugino Leonzio Bano, futuro missionario comboniano. Edoardo aveva trovato ospitalità presso gli zii materni che abitavano proprio a Campodarsego.

Un grave lutto, intanto, colpì la famiglia: la morte del padre. La mamma non si perse d'animo e disse al figlio:

"Se desideri entrare in seminario, i tuoi fratelli ed io non ti faremo mancare il necessario per realizzare il tuo sogno".

Così, a 11 anni di età (1914), Edoardo entrò nel seminario diocesano di Padova per frequentare le medie come esterno. Ciò comportò anche un notevole impegno fisico dovendo percorre a piedi, ogni giorno, otto chilometri tra andata e ritorno, per raggiungere la stazione di Croce di Altichiero. In quei primi anni di seminario fu guidato negli studi dalle amabili figure di mons. Marco Fabris, mons. Vittorio De Zanche e don Apolloni. Al termine del ginnasio fu promosso con "menzione onorevole" essendosi classificato terzo fra quarantaquattro alunni.

Ben presto si sviluppò nel ragazzo il germe della vocazione missionaria. Questa volta la mamma si mostrò più restia a concedergli il permesso. Cosa poteva saperne di Africa e di missioni un ragazzino di 14 anni? Edoardo insistette dicendo che quella, e solo quella, era la strada che il Signore gli indicava. Finalmente l'ebbe vinta.

Il rettore del seminario di Padova accompagnò il giovane seminarista con la seguente raccomandazione: "Fu promosso con menzione onorevole alla classe quarta ginnasiale nell'anno scolastico 1916-1917 e tenne sempre ottima condotta". Anche sua madre volle scrivere una breve lettera di accompagnamento: "Nulla farò in avvenire per contrastare la vocazione di mio figlio Edoardo".

Intelligente com'era, riuscì a fare la quarta e la quinta ginnasio in un solo anno.

LA SFORTUNA DI ESSERE TROPPO GIOVANE

Mentre la prima guerra mondiale sconquassava l'Italia e consumava il suo terzo anno di lotte, Edoardo entrò nel noviziato comboniano di Savona. Eravamo nell'ottobre del 1917. La sede del noviziato era stata trasportata da Verona in quella città più sicura perché fuori dalla zona di guerra. Il giovane si impegnò con tutte le sue forze all'acquisto delle virtù religiose e missionarie risultando di modello a tutti nonostante la sua giovanissima età. A Savona completò il ginnasio e iniziò il liceo che poi portò a termine a Verona, unitamente agli studi teologici.

Fu proprio questa giovanissima età che gli giocò un brutto scherzo. Quando i suoi compagni emisero i primi Voti, egli, non avendo ancora l'età canonica per un passo così importante, dovette attendere un altro anno. Poté fare la sua professione il primo novembre 1920.

Nel 1921 sostituì per alcuni mesi un assistente nel seminario comboniano di Brescia. In quegli anni fu anche bibliotecario con l'esercizio della catechesi nelle parrocchie vicine. Fece pratica di musica e dedicò molto tempo allo studio della lingua inglese.

L'impedimento per la troppo giovane età lo perseguitò fino all'ordinazione sacerdotale che ricevette l'undici luglio 1926, previa dispensa da Roma di sedici mesi dall'età prescritta.

Fu ordinato nella chiesa parrocchiale di Limena da mons. Francesco Rossi, allora vescovo di Ferrara, che nella stessa chiesa, quando era arciprete, lo aveva battezzato. Era stato sempre mons. Rossi, quando era arcivescovo di Cagliari, a conferirgli la cresima.

STUDENTE E ... PROFESSORE

Dopo l'ordinazione sacerdotale, p. Mason partì per Southampton (Inghilterra) per lo studio sistematico della lingua inglese. Durante la permanenza in Inghilterra fece la supplenza del cappellano cattolico in un ospedale geriatrico chiamato "Brownlow Hill Institution" a Liverpool.

Alla fine di luglio 1927 fece ritorno in Italia, via Lourdes, e, da Napoli, alla fine di agosto, salpò per Alessandria d'Egitto dove era atteso dal superiore che lo avrebbe poi accompagnato a Wau, nel Sudan meridionale.

Fece il viaggio dal Cairo a Shellal in treno, poi col battello raggiunse Wadi Halfa e, di là, nuovamente in treno approdò a Khartum.

Dopo una breve sosta nella capitale del Sudan per visitare le opere comboniane, e per pregare su ciò che era rimasto della tomba del Comboni, riprese la navigazione sul Nilo a bordo del Pio XI, il battello della missione che trasportava uomini e merci lungo i fiumi del Sud per rifornire le stazioni missionarie.

Scrisse p. Mason: "Furono diciotto giorni di paesaggi incantevoli, di scene meravigliose e di incontri amichevoli con nuove tribù e nuovi confratelli". In quel viaggio, però, fece la prima esperienza della malaria. Grazie alla sua tempra robusta e ai suoi 24 anni incassò brillantemente il colpo senza conseguenze.

Giunto a Wau, capoluogo del Bahr-el-Ghazal (detto, per il clima,'la tomba del missionario') gli affidarono subito la responsabilità della scuola media superiore della missione. Una scuola tutta da organizzare alla quale affluivano alunni delle varie tribù dell'immenso vicariato. A quel tempo, quella scuola era l'unica concessa ai cattolici, nel Bahr-el-Ghazal, dalle autorità inglesi.

FARSI LE OSSA

P. Mason non aveva nessuna esperienza d'Africa. In compenso possedeva largamente le doti dell'educatore. Furono queste doti che gli attirarono ben presto la stima delle autorità coloniali, dei capi della zona e l'affetto degli alunni.

Nelle sue memorie racconta che il problema della convivenza delle varie razze fu uno dei più impegnativi: "C'erano Denka, Jur, Azande, Belanda, Ndogo, Kresh... I più difficili da armonizzare furono i Denka con gli Azande. Un giorno, però, riuscii a trovare il sistema per riconciliarli. Ogni volta che li coglievo mentre litigavano, li castigavo direttamente tutti, senza chiedere il motivo. Il castigo non era quello che usavano gli africani, cioè un determinato numero di scudisciate sulla parte posteriore del corpo; no, questo non mi andava, per cui ne scelsi uno di diversa natura. Spedivo i litiganti in dormitorio, collocavo da una parte i Denka e dall'altra gli Azande, e lì dovevano recitare un rosario ad alta voce. Finita la preghiera, uscivano tutti contenti anche perché non avevano subito punizioni fisiche che, oltre al dolore, sono motivo di profonda umiliazione. Filavano diritto per un po' di tempo, poi ricominciavano a picchiarsi, ed io ripetevo la cura. Così, un poco alla volta, con l'aiuto della preghiera, con le raccomandazioni e un po' di attenzione, queste lotte andarono diminuendo, e la pace nella scuola fu assicurata".

UNA SCUOLA PER MAESTRI

Nel 1930 p. Mason venne trasferito a Mupoi, 300 chilometri a sud di Wau, tra gli Azande. Visto che era bravo ad insegnare, lo incaricarono di iniziare un'altra scuola. Non per ragazzi questa volta, ma per maestri. La missione apriva scuolette in molti villaggi. Era indispensabile, in ognuna di esse, la presenza del maestro... che doveva essere formato lavorando sui ragazzi che avevano mostrato maggior intelligenza e accentuata propensione allo studio. P. Mason iniziò l'opera con tutto l'impegno e la determinazione che lo caratterizzavano.

Furono due anni di intensa e feconda attività. Insieme all'insegnamento, il Padre cercò di portare avanti l'apostolato diretto tra la gente, come aveva fatto a Wau. P. Ernesto Firisin gli fece da guida e per insegnare al novellino come si faceva, se lo portò in un safari di 15 giorni tra i villaggi degli Azande. A bordo di una Gilera a carrozzino, cominciò a percorrere piste e sentieri, a guadare torrenti e a sfidare savane. Intanto accostava i catecumeni, parlava con gli anziani, s'intratteneva con i cristiani di antica data, allacciava rapporti con i pagani e con le autorità locali.

Il Padre, alto, slanciato, solenne, incuteva rispetto e venerazione nonostante la sua giovane età. Inoltre parlava molto bene la lingua del luogo, che aveva imparato, insieme ad alcune altre, nel suo primo anno di permanenza in Africa.

Dopo aver impiantato la scuola e averla bene avviata, fu richiamato a Wau con l'incarico di superiore della missione e responsabile delle scuole di tutto il Vicariato. Questo suo incarico lo portò a dialogare, e qualche volta anche a scontrarsi, con i capi denka, molti dei quali rifiutavano di inviare i loro sudditi alla scuola. Solo verso la fine della seconda guerra mondiale avrebbero capito l'importanza di un diploma in un Sudan che si avviava all'indipendenza.

LA BATTAGLIA DEI CALZONI

Anche con le autorità coloniali inglesi ci furono delle divergenze non piccole. Uno dei casi che fece più scalpore fu il seguente: per attirare i turisti inglesi che scendevano in battello da Khartum, le autorità volevano conservare le tribù lungo il Nilo con i loro costumi tradizionali. L'ispettore scolastico emanò un decreto con il quale vietava nelle scuole di missione l'uso dei calzoni e imponeva il "lao", la mantellina che, cadendo dalle spalle, copriva solo la parte posteriore del corpo.

P. Mason disse: "Come missionari non abbiamo nessun pregiudizio e siamo convinti che non tocca a noi prescrivere o forzare gli Africani a vestirsi in un modo o nell'altro, anche perché in tutti i mercati locali vendono camicie e calzoni. Nei villaggi insegniamo catechismo a tutti, anche se si presentano così come Dio li ha creati. In chiesa esigiamo che le donne si coprano con pelli come fanno quando escono dal gruppo familiare. Per gli adulti il 'lao' in chiesa è più che sufficiente, perché non tira vento. Nei villaggi ci sono le famiglie che custodiscono i figli e le figlie: i genitori sono molto severi e la nudità non va a scapito della moralità. Nella scuola, però, le cose si presentano in maniera diversa. C'è un grande miscuglio di ragazzi e ragazze e ai responsabili della loro educazione tocca assicurare un ambiente sereno. Altrimenti non si dà quell'educazione morale che le famiglie si aspettano dalla missione". E' incredibile quanto questa storia, e altre analoghe, abbiano fatto soffrire il Padre.

THE MESSENGER

Oltre alla sistemazione e sviluppo della scuola media superiore di Wau, p. Mason favorì l'inizio della scuola di arti e mestieri, lo sviluppo della falegnameria e dell'officina meccanica. Fu pure iniziata una fabbrica di laterizi per venire incontro alle esigenze delle missioni che erano in continua espansione anche come fabbricati.

Ma l'opera che maggiormente incise per la formazione di un laicato cattolico fu la fondazione del giornale in lingua inglese "The Messenger", prima mensile e poi quindicinale. A questa pubblicazione se ne aggiunsero altre in diverse lingue locali.

P. Santandrea assicura che p. Mason "saggiamente si avvalse della collaborazione di non pochi volonterosi, e in seguito coinvolse la pubblica amministrazione a fornire notizie locali, estratti dal Diario provinciale, ecc. in modo che The Messenger risultasse un giornale di tutto rispetto e diventasse fonte di informazione per futuri studi sugli usi, costumi e cultura di quei popoli".

Intanto la scuola media superiore di Wau venne trasferita al Bussere, per toglierla dall'ambiente cittadino piuttosto corrotto e corruttore. Al Bussere stava sorgendo anche il seminario. P. Mason si trasferì in quella località per seguire più da vicino i ragazzi. Suo braccio destro divenne ben presto p. Arnaldo Violini che, in seguito, lo sostituì come responsabile dell'attività scolastica del vicariato.

I frequenti traslochi, anche se pesanti, furono utilissimi a p. Mason per conoscere più a fondo gli Africani e per apprendere le sfumature della loro lingua. In questo modo potè non solo essere in grado di formare cristiani e maestri, ma anche futuri sacerdoti.

UN SALTO IN AMERICA

Nel 1938 p. Mason si recò a Londra per frequentare il "Colonial Course" riservato a coloro che lavoravano nel settore scolastico. Ottenuto il certificato, anziché tornare in Africa, fu deviato negli Stati Uniti d'America con l'incarico di aprire una prima comunità tra i Neri. Accettò con entusiasmo, anche se avrebbe preferito tornare in missione. In pochi mesi, prese le consegne di una parrocchia a Cincinnati. Era il novembre del 1939, vigilia della seconda guerra mondiale.

I superiori, però, si accorsero che la sua presenza in Africa era troppo importante per cui mandarono in America i padri Accorsi e Ferrara (nominato in seguito vicario apostolico di Mupoi) a continuare l'opera, mentre Mason alla fine di febbraio del 1940 ritornò a Wau dove stava consolidandosi un complesso scolastico di prim'ordine, e il seminario.

RISPARMIATO DALLA PRIGIONIA

Con l'entrata in guerra dell'Italia, gli Italiani furono considerati come stranieri, nemici dell'Inghilterra. Però il Maggiore Cave, comandante in capo delle truppe sudanesi nel Sudan meridionale, cercò di favorire più che poté i Comboniani nella loro opera di evangelizzazione e di promozione umana. Dopo la guerra, questo militare divenne sacerdote.

Ad un certo punto, tuttavia, per non incorrere nelle ire dei suoi superiori, anche il Maggiore Cave dovette adottare alcune misure di sicurezza confinando i missionari nelle loro stazioni e proibendo loro di visitare i villaggi se non provvisti di uno speciale permesso.

Solo il vescovo, mons. Orler, poteva muoversi liberamente ed ebbe anche la facoltà di farsi accompagnare da qualche missionario come segretario. Oltre al vescovo, anche p. Mason aveva il permesso di muoversi liberamente per le missioni e le scuolette di villaggio, grazie al suo incarico di responsabile delle scuole del vicariato. Egli approfittò di questo privilegio per visitare i confratelli delle varie missioni portando loro notizie, conforto e incoraggiamento.

VESCOVO

Dieci mesi dopo la morte di mons. Orler, avvenuta nel luglio del 1946, p. Mason fu eletto vicario apostolico del Bahr-el-Ghazal. Egli stesso raccontò come apprese la notizia di tale nomina: "Ero in Italia per partecipare al Capitolo generale della Congregazione. Prima di tornare in Africa volli prendermi qualche giorno di vacanza al mio paese. Come scesi dalla corriera a Limena, mi corse incontro una signora che gestiva un negozio di abbigliamento e mi disse: 'Eccellenza, benvenuto... Abbiamo appena sentito che è stato eletto vescovo'. Io, che non sapevo ancora niente, la pregai di non diffondere chiacchiere vane. La signora rispose: 'No, no! E' arrivata la notizia ufficiale. Hanno già suonato le campane perché uno del paese è diventato vescovo'. Fu così che venni a sapere effettivamente che mi avevano eletto vescovo. Una cosa cui non avevo mai pensato".

Fu consacrato a Padova nella basilica del Santo il 29 giugno 1947. I vescovi consacranti furono: Carlo Agostini, Vittorio de Zanche e Giovanni Ambrosi.

Dopo una breve visita negli Stati Uniti, fece l'ingresso a Wau alla fine di ottobre.

La consegna che mons. Mason diede ai suoi missionari fu la seguente: "Non siamo qui solo per l'istruzione religiosa, ma anche per ogni attività caritativa". Per essere coerente a questo programma, diede un impulso straordinario all'insegnamento che già costituiva il suo piatto forte. Ovunque, anche nei villaggi più remoti, furono aperte scuole e dispensari che dovevano fare da corona alla chiesetta.

È rimasto celebre il suo incontro con le alunne della scuoletta di Nyamlel. Al veder arrivare per la prima volta la jeep verde del vescovo, le scolarette furono prese dal panico. "Perché avete paura?", chiese l'insegnante. "Quel bianco grande non verrà mica a divorarci?", rispose una a nome di tutte.

LA CATTEDRALE DI WAU

Nel 1950 mons. Mason tornò a Roma per il Giubileo ed ebbe come compagni p. Ireneo Dud, primo sacerdote sudanese dei tempi moderni, tre denka, di cui due capitribù, e un maestro. Conosceva bene p. Ireneo che, nel 1960 diventerà il suo successore sulla cattedra di Wau. Ricordava in particolare il giorno in cui, ragazzino, Ireneo era entrato in seminario e la mamma gli era saltata agli occhi perché non voleva che suo figlio diventasse prete. "Se mio figlio entrerà in seminario, io mi getterò nel fiume", aveva gridato.

Mons. Mason approfittò del viaggio in Italia per un giro di animazione missionaria con p. Ireneo in vista anche di raccogliere fondi per la erigenda cattedrale di Wau. Questa colletta fu poi completata da una seconda due anni dopo, sicché, nel 1953, ebbero inizio i lavori di costruzione.

La prima pietra, però, fu benedetta nel 1951 in occasione del venticinquesimo di sacerdozio di mons. Mason. In quella cattedrale, non ancora ultimata, fu ordinato vescovo mons. Ireneo come vicario apostolico di Rumbek. Fu poi inaugurata nel 1956, ma consacrata solo nella festa dell'Immacolata del 1981.

Mons. Mason non immaginava che una costruzione materiale come quella avesse un peso psicologico così importante tra gli Africani. Nella loro povertà tutti vi contribuirono con sacrifici personali e, anche i pagani, la chiamavano: "La nostra grande casa di Dio".

La cattedrale più bella alla quale si dedicò con tutte le sue forze, fu, però, la formazione del clero indigeno. "Quando venni eletto rettore del nuovo seminario maggiore del Sudan (1954-1964) - scrive p. Bresciani - i miei contatti con mons. Mason furono numerosi e importanti. Egli era preciso in tutti i suoi impegni, ma quello della formazione del clero indigeno gli premeva in modo particolare. Quindi ci fu un continuo scambio di lettere sui seminaristi che conosceva uno ad uno grazie alle sue frequenti visite che non erano affatto superficiali".

ANNI DIFFICILI

La nomina di mons. Mason alla sede episcopale di Wau coincise con il manifestarsi dei primi movimenti indipendentistici del Sudan e con le prime avvisaglie dei contrasti che finirono per opporre il sud al nord in maniera irriducibile.

Il nuovo vescovo, che aveva salutato con il canto del Te Deum l'indipendenza del Paese (primo gennaio 1956) ringraziando il cielo per la partenza degli inglesi, dovette difendere le comunità cristiane dalle pressioni che l'Islam esercitava sui capi e su tutto il sistema sociale e politico. In questo clima di semipersecuzione le conversioni al cattolicesimo si moltiplicarono al punto che si dovette creare la prefettura apostolica di Mupoi e il vicariato apostolico di Rumbek.

Col passare dei mesi la prepotenza musulmana si rese pesantissima. Le scuole di missione vennero incamerate, i missionari ebbero delle restrizioni nel loro ministero tanto che per muoversi necessitavano di permessi della polizia, non potevano distribuire medicine ai malati, nè battezzare i bambini. Molti cristiani vennero torturati e alcuni missionari imprigionati od espulsi. Insomma, si era caduti dalla pentola nella brace.

EGLI CI HA SEMPRE DIFESO

In questa situazione mons. Mason si dimostrò un coraggioso combattente e un intrepido difensore dei missionari. "Sono io il responsabile dei missionari - diceva alle autorità islamiche -. Se avete da dire qualcosa contro di loro dovete venire da me, rispondo io per loro".

P. Francesco Rinaldi Ceroni, che in quegli anni era segretario di monsignore, scrive: "In un tempo in cui già iniziavano le prime subdole persecuzioni contro noi missionari, da parte degli Inglesi prima e degli Arabi dopo l'indipendenza, egli ci ha sempre difeso. Devo dire ciò in tutta verità e per esperienza personale. Conoscendo io abbastanza bene la lingua araba, mi trovavo spesso, sia in cattedrale che nella scuola, a difendere i diritti dei cristiani e dei ragazzi delle scuole di Wau e del Bussere. Mons. Mason mi ha sempre sostenuto e incoraggiato, fino a quando il governatore di Wau mi cacciò dal sud Sudan.

Ricordo le ultime parole che mons. Mason mi disse prima che lasciassi la missione: 'Vada tranquillo, Padre: se lei fosse stato più seduto sulla sua sedia a sdraio, non le avrebbero certo sparato addosso'".

LE SFUMATURE DELLA VERA AMICIZIA

L'amore di mons. Mason per i missionari si estendeva anche ai familiari dei medesimi. Ogni volta che veniva in Italia faceva di tutto per andare a salutare le loro famiglie. Non mancava di farsi vivo con qualche scritto nei momenti di dolore. Scrive ancora p. Francesco Rinaldi Ceroni: "Numerose volte andò al mio paese (Casola Valsenio) a trovare i miei genitori e parenti quando mio fratello ed io eravamo in missione. Fu lui, il primo marzo 1972, a presiedere la celebrazione eucaristica per il funerale di mia madre. Volle essere ancora lui a benedire solennemente la statua della Madonna a Falzè di Trevignano, dono di p. Bernardo Sartori alla mia missione di Ndedu, in Zaire. Sì, mons. Mason, pur così austero e controllato, conosceva la vera amicizia e sapeva esprimerla in mille sfumature".

Nel 1958 dovette venire in Italia perché malato. Ripresosi, si fermò alcune settimane nel Cairo in attesa che si svolgessero le elezioni in Sudan: non voleva che qualcuno l'accusasse, con la sua presenza o la sua autorità, d'avere influenzato la minoranza cristiana a votare pro o contro questo o quell'altro. Conosceva, infatti, tutti gli uomini più in vista del sud Sudan essendo stati, molti, suoi alunni.

ESPULSO

Per impedirgli di esercitare il suo influsso sugli intellettuali sudanesi, le autorità musulmane lo allontanarono da Wau. In quell'occasione venne adottato un compromesso. Alla guida del vicariato apostolico di Wau subentrò mons. Ireneo Dud, già vescovo di Rumbek, mentre mons. Mason passò a fondare il nuovo vicariato di El-Obeid, chiamato 'la sposa delle sabbie', per la sua posizione in mezzo al deserto, nel nord-est del Paese, un territorio di quasi un milione di Kmq con cinque milioni di abitanti.

Ai fedeli che il giorno della sua partenza da Wau, 23 settembre 1960, avevano gremito la cattedrale, lasciò questo ricordo: "Le vostre preghiere e la vostra vita di buoni cattolici, saranno il premio più ambito per i trentatré anni spesi in mezzo a voi".

Il primo pontificale nell'umile chiesetta di El-Obeid si svolse all'insegna della semplicità. I guanti bianchi glieli imprestò una cattolica siriana, ma siccome erano troppo corti, vennero sforbiciati sulle punte. Le calzature vescovili furono un paio di scarpe da ginnastica comprate al bazar più vicino. Un ragazzino gli offrì dieci piastre perché aveva sentito che il vescovo progettava di costruire anche lì una cattedrale come aveva fatto a Wau.

Rimase ad El-Obeid quattro anni ed ebbe la gioia di edificare e di consacrare la cattedrale. Scrisse: "Non avevo consacrato la cattedrale di Wau nel 1956 per evitare un giorno di festa e di gioia che avrebbe irritato i musulmani. Invece a El-Obeid, essendo tra una maggioranza musulmana, mi sentii più libero di agire. In fondo, anche i musulmani si mostrano orgogliosi di quell'edificio e vi conducono gli stranieri a visitarlo".

Le notizie che giungevano dal Sud erano sempre più tragiche. Alla ribellione delle popolazioni di quelle regioni, il dittatore Abbud aveva risposto con una feroce repressione decretando, agli inizi del 1964, l'espulsione in massa di tutti i missionari, anche di quelli protestanti.

Al Nord il diktat giunse con ritardo: sulla lista, però, figurava anche il nome di mons. Mason che dovette lasciare quel Sudan dove aveva lavorato per 35 anni.

MORITURUS TE SALUTAT

Alla vigilia della partenza da Khartoum (22 marzo 1964) mons. Mason scrisse una lettera al ministro degli Interni nella quale possiamo cogliere la nobiltà dei sentimenti e l'attaccamento alla causa missionaria che sempre hanno contraddistinto la sua opera.

"Eccellenza, moriturus te salutat: ti saluta un uomo condannato a morte. Dopo trentacinque anni e mezzo di attività sacerdotale nel Sudan, vengo ora espulso dal Paese che ho sempre sinceramente amato e che ancora amo, malgrado mi siano perfino rifiutati quei pochi metri di terra che basterebbero per la mia tomba.

Come è solito accordarsi a un condannato a morte che esprima il suo ultimo desiderio, le chiedo di concedermi benignamente il permesso di esprimere con sincerità e libertà i miei sentimenti: primo, dichiaro dinnanzi a Dio e dinnanzi a lei, eccellenza, che ho sempre lavorato nelle cose spirituali delle quali fui incaricato, per il bene dei sudanesi, senza mire politiche od interessi personali; secondo, dichiaro che ho sempre cercato di aiutare nordisti e sudisti allo stesso modo, senza distinzione di razza o di religione; terzo, dichiaro che, sia io come i miei missionari, abbiamo sempre insegnato ai nostri cristiani a rispettarsi e ad amarsi l'un l'altro, secondo la dottrina del Vangelo; quarto, intendo manifestare la mia gratitudine, stima ed amicizia a tutti quei sudanesi (e non sono pochi soprattutto tra gli amministratori, i custodi della legge e dell'ordine, i maestri) che si mostrarono cortesi e gentili con noi aiutandoci nelle nostre difficoltà.

Non serbo nessun rancore verso alcuno, neppure verso i nostri accusatori, calunniatori, diffamatori. Prego Iddio di concedere loro luce e comprensione su ciò che realmente conduce all'unità e prosperità del Sudan - che non consiste nell'imporre una religione a delle persone libere - ma piuttosto nell'amore e nel mutuo accordo...".

IL CONCILIO VATICANO II

Mons. Mason prese parte al Concilio Vaticano II. Ebbe modo di accostare tanti vescovi ai quali parlò della situazione della Chiesa sudanese e del martirio che viveva. A proposito di questa Chiesa formulò dei giudizi illuminanti. Scrisse al superiore generale dei comboniani: "Nello sviluppo attuale della Chiesa in Africa noi missionari non abbiamo più il ruolo principale di traino o di spinta; siamo al servizio della Chiesa locale, e questo nostro servizio, sia nel modo di prestarlo che nel grado di influenza, non può essere imposto".

"Nel 1964 - scrive p. Bresciani - mi trovai a Roma durante le due ultime sessioni del Concilio Vaticano in intimo e stretto rapporto con mons. Mason, essendo stato nominato perito della Conferenza episcopale sudanese al Concilio, e insieme segretario del comitato pro Sudan, con l'incarico di curare l'aiuto comboniano alla causa cristiana e umanitaria del sud Sudan.

Sulla base di questo mio lavoro ho la possibilità di affermare quanto segue:

1°- Mons. Mason fu un vescovo missionario comboniano dedicato interamente ed esclusivamente al suo ufficio di pastore. Il suo carattere forte e tutto d'un pezzo, si abbinava ad una formazione teologica aggiornata, il che gli permetteva di programmare il suo lavoro e quello dei suoi collaboratori secondo una strategia lungimirante e con una tabella di marcia funzionale alle esigenze della missione, senza escludere i minimi particolari.

In un rapporto a Roma, il delegato apostolico mons. Matthews diceva che i due vescovi più stimati e rispettati dalle autorità coloniali erano mons. Blonjous dei Padri Bianchi in Tanzania, e mons. Mason dei Comboniani in Sudan. Ricordiamoci che gli 'scontri' di mons. Mason con le autorità britanniche in Sudan sono passati alla storia del Bahr-el-Ghazal come 'memorabili'.

2°- Quanto alla sua opera, ciò che mi pare più importante sottolineare sono questi tre punti: a) Il suo impegno per spingere al massimo le opere di istruzione (scuole, catecumenati); b) Il suo impegno a sfondare nella zona denka (fino allora dimenticata e lasciata ai protestanti) per occuparla con missioni; c) Il suo impegno per creare un laicato cattolico e istruito".

AL SERVIZIO DEI PROFUGHI

Giunto in Italia, provato nel fisico e nel morale, mons. Mason non si chiuse in se stesso logorandosi in inutili piagnistei. Non era nel suo stile. Essendo uomo di grandi meriti, gli venne suggerito di chiedere una diocesi in Italia. Ritenne invece suo compito dedicarsi all'assistenza delle centinaia di migliaia di profughi che la guerra civile aveva provocato nel sud Sudan. Un lavoro difficile che durerà dieci anni e che lo porterà a visitare i rifugiati in Zaire, Uganda, Etiopia, Kenya e a batter cassa in Europa e in America, soprattutto per ottenere borse di studio per i giovani che volevano studiare.

Non aveva una sede propria. Girava con la valigia che conteneva gli arredi episcopali per conferire le cresime là dove lo chiamavano. Viveva in comunità come tutti, puntuale al suono della campana come un novizio.

Scrisse il 10 novembre 1969: "La situazione in sud Sudan è gravissima perché la chiesa vi agonizza. Solo uno sforzo straordinario e organizzato può farvi fronte. Non aspettiamoci questo sforzo né dai Sudanesi stessi, nè dalle Congregazioni della Curia di Roma, né dalla diplomazia internazionale... Dobbiamo aiutare, escludendo, però, dalla nostra attività la partecipazione alla violenza, a partiti o divisioni tribali".

Per mettere bene a fuoco la questione sudanese e i problemi di quella Chiesa, diede alle stampe un libro dal titolo: "Così va il mondo nel Sudan", sotto lo pseudonimo di Yusef El Amin.

Col passare degli anni e degli uomini, la situazione sudanese sembrò prendere una piega migliore. Il Presidente Nimeiri, per mettere fine alla guerriglia che da troppi anni dissanguava il Sudan, si accordò con il Sud facendo varie concessioni. Anche la Chiesa poté godere dei benefici delle associazioni caritative internazionali. Addirittura qualche missionario ebbe il permesso di ritornare in quelle terre, e il Sud godette di una relativa autonomia politica e sociale.

Questo benessere sarà di breve durata. Una seconda guerriglia, ancor più feroce della prima, era alle porte.

APOSTOLO TRA GLI APOSTOLI DI GESÙ

Pur pensando e lavorando per il Sudan, mons. Mason non fu un malato di nostalgia. Per questo, quando nel 1974 si rese conto che gli organismi di assistenza della Chiesa sudanese si erano consolidati sul posto, chiese di poter andare in Kenya a lavorare alla formazione degli Apostoli di Gesù, un istituto missionario africano che stava muovendo i primi passi.

Scrive p. Marengoni, fondatore degli Apostoli di Gesù: "Mons. Mason è stato grande missionario, devotissimo religioso e integralmente comboniano. Tutta la sua vita fu per l'Africa con un amore mai diminuito, anzi accresciuto dall'essere stato espulso, maltrattato.

Ricordo con commozione le sue visite ai rifugiati sudanesi in Uganda: paterno, generoso, specie verso i seminaristi, i religiosi, le suore, i sacerdoti. E quanto interesse per le congregazioni religiose sorte in Africa!

Già avanti negli anni, egli volle dare il suo prezioso contributo alla congregazione degli Apostoli di Gesù e alla congregazione delle Suore evangelizzatrici. Prezioso il suo servizio attivo, preziose le sue generose offerte, preziosissimi i suoi consigli dati sempre con serenità, con franchezza, con perfetta retta intenzione, ispirati al vero bene delle anime.

Per l'istituto dei contemplativi evangelizzatori del Cuore di Cristo mons. Mason ha il merito immenso di avermi incoraggiato nel momento critico della sua concezione e della sua prima ispirazione. Egli ha il merito di avermi dato suggerimenti pratici quanto alla vita contemplativa da unirsi alla vita di evangelizzazione.

Ora eccolo in cielo con mons. Mazzoldi! Due grandi missionari, due grandi amici, due grandi anime che si sono completate unendo le loro qualità missionarie col loro identico zelo missionario. Queste due colonne in paradiso dovranno pur far qualcosa per il Sudan!".

NÉ A RIPOSO, NÉ IN PENSIONE

Nel 1979 la salute di Monsignore cominciava a declinare per cui era più opportuno rimpatriare. "Il mio - disse scherzosamente - non è né riposo, né pensione. Il missionario non è mai un pensionato. Sono solamente in congedo illimitato".

Scelse come sua comunità quella di Verona Casa Madre e visse come tutti gli altri religiosi, come i buoni religiosi, partecipando agli atti comuni e ai consigli di comunità nei quali portava con umiltà e discrezione il suo punto di vista sulle determinate questioni.

Fu di aiuto al vescovo di Verona e a quelli delle diocesi circonvicine per qualche ordinazione sacerdotale e l'amministrazione delle cresime. Si prestò volentieri al ministero, specie andando tutti i giorni a celebrare la messa al Cesiolo, presso le suore comboniane. Fu anche un valido animatore missionario.

A questo proposito voglio ricordare un episodio. Un giorno una professoressa della scuola media di Belfiore mi chiese di portare un missionario reduce dall'Africa per parlare ai ragazzi. Chiesi a mons. Mason se era disponibile. Accettò molto volentieri, anzi con entusiasmo. Parlò per più di un'ora a 250 scolari della sua esperienza missionaria e poi rispose alle domande a mitraglia che gli venivano rivolte. Per l'ampiezza della sala e la sua voce debole, si sforzò più di quanto le sue forze glielo permettessero. Tornando a casa mi disse: "Mi sono un po' stancato, ma sono contento. Speriamo che il Signore susciti qualche vocazione tra quei bravi ragazzi". Poi si addormentò.

COME UN NOVIZIO

Chi vedeva mons. Mason a Verona, scorgeva in lui il modello di religioso che veniva prospettato durante gli anni di noviziato. Quando chiedeva un favore premetteva sempre l'espressione: "Mi può fare la carità di..." e poi ringraziava promettendo un ricordo nella preghiera. Si confessava tutte le settimane regolarmente. Il suo confessore era un sacerdote di Don Calabria che esercitava questo ministero con le suore comboniane della nostra Casa Madre. Alla morte di Monsignore, questi disse: "Quanto mi ha edificato questo vescovo! Si confessava ancora come un novizio".

Mons. Mason sapeva anche incassare con spirito di umiltà qualche battuta umoristico-satirica che gli veniva rivolta, un po' scherzosamente, da qualche confratello.

Tutti sanno che preferiva il cibo preparato a parte. Ciò gli fu motivo di non pochi scherzetti che avrebbero potuto mandare sulle furie un tipo meno controllato di lui. Egli non fece mai niente per evitare tali facezie. Sembrava, anzi, che perseverasse nel suo sistema "specialistico" quasi per aver motivo di fare qualche atto di umiltà.

P. Cavallera, che gli è stato vicino per tanti anni, racconta parecchi episodi a questo riguardo. Ne cito uno: "Monsignore prendeva colazione con noi nel refettorio a Wau. Un giorno un Padre prese un frutto di papaia, lo tagliò a metà, lo pulì dai semi e poi prese il quartino di vino bianco e i biscotti del vescovo, e consumò il tutto facendo commenti non troppo lusinghieri all'indirizzo del destinatario di quella merce. In quel momento arrivò Monsignore. Vedendo la fine che aveva fatto la sua colazione (l'interessato aveva ancora alcuni biscotti in mano) disse: 'Beh! Cosa combina?'. E l'altro: 'Ho pensato di farmi una masonite'. Il vescovo sorrise alla battuta e fece colazione con ciò che era rimasto.

Un'altra volta un confratello - prosegue Cavallera - durante la ricreazione, raccontò una barzelletta niente affatto edificante. Monsignore stava leggendo il giornale, ma seguiva il racconto con l'orecchio. Alla fine, quando gli altri risero, egli disse all'interessato: 'Ma sono cose da raccontare!'. Il barzellettiere rispose: 'Se non voleva sentirla, poteva uscire'. Mons. Mason tacque e continuò la lettura del giornale".

Contestando quanto è stato detto ai funerali a Verona, p. Cavallera continua: "Non era certo un duro con gli altri, come è stato detto durante il funerale. Con noi era paterno, comprensivo, una guida sicura, sempre presente nelle difficoltà. Se ti dava un ordine e ne derivavano delle conseguenze sgradevoli, avocava a sé tutti i fastidi, si addossava tutta la responsabilità, specialmente di fronte alle autorità governative.

Dei suoi missionari si fidava sulla parola. A un confratello accusato, arrestato con tutte le apparenze a suo danno, disse: 'Dimmi: sei innocente?'. L'altro gli rispose di sì. Allora chiamò il miglior avvocato di Khartoum, pagò 5.000 sterline (un capitale a quei tempi) e fece assolvere il Padre, anche se poi il governo lo radiò dal Sudan.

Mons. Mason non teneva rancore a nessuno, neanche ai suoi persecutori. Il 14 settembre 1960 chiamò a Wau i superiori e le superiore delle comunità e ci comunicò la decisione governativa di espellerlo dal Sud. Pur sforzandosi di mantenersi sereno, si vedeva tanta sofferenza sul suo volto. Eppure non disse una parola di recriminazione contro nessuno anche se sapeva che qualche cristiano sparlava contro di lui con le autorità di governo".

UN NUOVO MOSÈ

Mons. Baroni paragona il confratello nell'episcopato a un nuovo Mosè che ha dedicato 40 anni della sua vita alla liberazione del popolo sudanese dalla schiavitù dell'ignoranza, della miseria e del peccato. Come Mosè ha dovuto affrontare sofferenze di ogni genere e aperte ostilità. Ha sofferto con il suo popolo e per il suo popolo; ha pregato con loro e per loro.

"Negli anni in cui gli integralisti islamici volevano annientare la Chiesa, mons. Mason è stato un intrepido difensore dei diritti dei cristiani e di tutti gli oppressi. E' stato un testimone di vergognose ingiustizie e di sanguinosi eccidi.

Di carattere volitivo, sempre coerente e leale per formazione, è stato singolarmente metodico e diligente nel suo operato. Grazie a queste sue doti è stato in grado di dare un impulso determinante all'evangelizzazione e alla promozione umana nel senso sancito poi dal Concilio Vaticano II. Con il primo vescovo sudanese, mons. Ireneo Dud, ha piantato la Chiesa nel Sudan meridionale.

Due amori lo hanno contraddistinto: la Chiesa e la Congregazione comboniana. Quando nel 1980 gli è stato chiesto se preferiva, dal punto di vista giuridico, essere considerato membro della provincia del Kenya o di quella italiana, ha risposto: 'Confesso che mi sento indeciso: godrei restare attaccato a un territorio di missione, ma mi pare che se muoio appartenendo alla provincia italiana, avrei maggior vantaggio per la quantità numerica dei suffragi'".

Mons. Mason è stato un gran devoto della Madonna. A lei, Regina della Nigrizia, ha consacrato la cattedrale di El-Obeid. Faceva tutti i tridui e le novene usando il manuale, quando in comunità si soprassedeva a qualcuna di quelle pie pratiche, altrimenti si adeguava con spirito aperto ai nuovi modi di pregare, mantenendosi in sintonia con le prescrizioni del Papa e degli Ordinari.

UN VESCOVO NON HA PAURA DELLA MORTE

Mons. Mason leggeva con attenzione tutte le pubblicazioni riguardanti la Congregazione. Primo fra tutti il Bollettino, dalla prima all'ultima riga.

Un giorno chiamò il redattore dei necrologi e gli disse: "Mi pare che in qualche punto non sia sempre troppo esatto". "Me ne rendo conto anch'io - rispose l'interpellato - ma alle volte devo scrivere situazioni e avvenimenti successi prima che io nascessi, inoltre spesso mi manca la documentazione dovendo lavorare lontano dai centri di informazione, e i confratelli che sono vissuti con il 'de cuius' in questione sono troppo avari quanto a testimonianze". "Capisco - rispose il vescovo -. Comunque devo renderle atto che non dà spazio a pettegolezzi e che mette in luce i buoni esempi di coloro che ci hanno preceduto. Questa è carità cristiana".

Vedendo che Monsignore era così disponibile, il redattore tentò la domandaccia: "Senta Monsignore, considerando che siamo tutti sulla strada che porta alla Casa del Padre, e che lei ha già vissuto una lunga esistenza portando sulle spalle tante responsabilità e una buona fetta di storia missionaria, perché non provvede lei stesso al suo necrologio? Sarebbe un atto di carità verso colui che dovrà scrivere di lei, e le cose sarebbero esatte. Non le sembra una cosa buona?".

Mons. Mason rifletté un momento, poi rispose: "E' una buona idea. Solo che faccio fatica a scrivere". "Non si preoccupi per questo: potrebbe incidere le sue parole su una fonocassetta". Poi, quasi ad attutire la botta, il redattore si scusò di aver tirato in ballo l'argomento 'necrologio'.

"Non c'è niente da scusare. Lei sa che un vescovo non deve aver paura della morte, anzi, quando giunge la sua ora i presenti glielo devono dire".

Il giorno dopo mons. Mason acquistò un modesto registratore e chiamò il redattore perché gli insegnasse come usarlo... Non è che la collaborazione di Monsignore abbia sollevato il redattore dalla fatica del necrologio, anzi... Il vescovo, infatti, incise ben 18 cassette da 90 minuti l'una. Sbobinate, costituiscono un grosso volume su 60 anni di storia della missione e della Chiesa in Sudan. Mons. Mason fece in tempo a correggerlo e a ritoccarlo. Ora si trova a Roma presso l'archivio della Congregazione.

NEL GIORNO DELLA NASCITA DI MONS. COMBONI

In modo quasi inaspettato, mons. Mason si spense rapidamente la sera del 15 marzo 1989, il giorno in cui i Comboniani di tutto il mondo celebrano l'anniversario della nascita di Daniele Comboni.

 Aveva seguito le orme del grande apostolo dell'Africa nera, aveva portato avanti il suo famoso Piano di salvare l'Africa con gli Africani, aveva dato tutto se stesso abbracciando volentieri le numerosi croci che incontrò sulla sua strada. Ora poteva andarsene in pace.

Da lungo tempo affetto da melanoma della pelle, ultimamente subiva un lento degrado fisico a seguito di metastasi depositatasi nel fegato. Tuttavia seguì la vita comune fino a qualche giorno prima di spirare.

Entrato in semicoma epatico nelle prime ore del pomeriggio del 15 marzo, alle ore 23 e 30 passava serenamente all'altra vita, quella vera.

La messa esequiale concelebrata in Casa Madre fu presieduta dal vescovo di Verona, mons. Giuseppe Amari, e la cerimonia venne radiotrasmessa in diretta e poi, in differita alla sera, da Radiotelepace. La salma è stata poi trasportata a Limena dove mons. Agostino Baroni ha presieduto la messa e la cerimonia della sepoltura avvenuta nel locale cimitero.

Se si domanda a un comboniano che ha vissuto con mons. Mason una parola, un'espressione per delinearne la personalità, ci si sente rispondere: "Era un uomo retto che aveva un grande amore per i suoi missionari". E' un magnifico elogio sul quale tutti sono d'accordo.

Il padre generale, parlando di mons. Mason disse: "Daniele Comboni promise che avrebbe pregato con particolare impegno per assicurare alla Chiesa e alla Congregazione missionari della tempra di san Paolo e di san Francesco Saverio. Mons. Mason fu di questa razza per cui il Comboni avrà certamente gioito e ringraziato il Signore poiché in questo missionario la sua preghiera è stata esaudita.

L'augurio mio e di tutti i Comboniani è che la fiaccola lasciata da mons. Mason trovi mani giovanili pronte ad accoglierla e a portarla avanti con lo stesso amore per la missione e per la congregazione".
P. Lorenzo Gaiga

Da Mccj Bulletin n. 164, ottobre 1989, pp. 37-46