In Pace Christi

Viviani Angelo

Viviani Angelo
Data de nascimento : 26/08/1898
Local de nascimento : Sant’Anna d’Alfaedo VR/I
Votos temporários : 08/12/1929
Votos perpétuos : 08/12/1932
Data da morte : 15/10/1984
Local da morte : Verona/I

«L'8 dicembre 1929, festa dell'Im­macolata, pronunciati i miei santi Voti nella casa di noviziato di Ve­negono...». Con queste parole inizia il lunghissimo diario di fratel Viviani. Un diario minuzioso e particolareggiato che ci auguriamo venga uti­lizzato per una biografia di questo confratello dalla spiritualità elevata fino a raggiungere la contemplazione mistica.

Il binario sul quale ha camminato la santità di fratel Viviani è costi­tuito dalla devozione particolarissi­ma all'Eucaristia, concretizzata in lunghissimi periodi di adorazione, e dall'amore al prossimo vissuto nell'ufficio di infermiere.

Con il comandamento nuovo (amore di Dio e amore del prossimo) vanno di pari passo le virtù teologali e quelle morali con i loro addentellati quali il silenzio, il raccoglimento, l'umiltà, il coraggio, la schiettezza...

Un fragile pastorello

Il papà di Angelo faceva il po­stino. Per motivi di lavoro dovette lasciare il paese natale per trasferirsi a Romagnano, un paese arrampicato sul versante est della Valpantena, a pochi chilometri da Verona.

Ad Angelo e ai fratellini (erano in 11) vennero affidate alcune pecore che conducevano alla pastura sui magri pascoli. Al mattino e alla sera, con gli altri ragazzi, si recava in chiesa per la messa e per il rosario. Era il modus vivendi della gente di Romagnano. Qualche mattina mamma Barbara costringeva Angelo a rimanere a letto perché era piuttosto fragile di salute. Ciò non gli impediva di essere membro at­tivo dell'azione cattolica e – come figlio del postino – l'incaricato di tenere i contatti tra i lettori di Nigrizia del paese.

La guerra disperata del '15-18 lo arruolò e lo inviò sul fronte fran­cese benché le sue condizioni di salute fossero sempre precarie. Una serie di circostanze provvidenziali, seguite a un lungo periodo di soffe­renza in cui compromise un polmo­ne, lo rimandò a casa con una piccola pensione per malattia.

Ti darò salute

«Una settantina d'anni fa ero qui con voi – ebbe a dire fratel Viviani in una testimonianza missionaria tenuta nella sua chiesa di Romagna-no – ero un povero ragazzo, sempre sofferente; passavo da una ma­lattia ad un'altra. Conobbi il dolore, l'incomprensione, l'abbandono. Una mattina ero qui, in questa chiesa; avevo fatto la santa Comunio­ne e stavo pregando il Signore per-ché provvedesse anche per me. Mi donò una grande consolazione nell'anima e nel medesimo tempo una voce interna (e questa non mi ab­bandonò mai) mi disse: «Vieni, ti darò salute e godrai la vita». Allora chiesi: «Dove, Signore?». Mi rispose: «Missionario». «Come è possibile? I missionari devono essere giganti e io...». Mi rispose anco­ra: «Tu sei come ti ho voluto io, le tue sofferenze e i tuoi dolori sono stati la mia scuola e ti serviranno per tutta la vita».

In effetti Angelo cominciò a stare bene. Per lui ciò fu segno della chiamata di Dio alla vita missionaria. I1 27 luglio 1927 spedì la richiesta di ammissione all'Istituto. «Una ne­cessità mi spinge verso di lei per farle noto un mio desiderio che da diverso tempo si è radicato nel fondo della mia anima. Desidero ardentemente di consacrarmi a Dio e impiegare tutti i giorni della mia vita pel bene delle anime.

Lo so, Reverendissimo Padre, che per essere missionario sono neces­sarie delle doti speciali, ed io sono così meschino che, a dirle la verità, sono indegno e non so se potrò marciare a fianco dei diletti suoi figli. Ho riposto tutta la mia fiducia nel Sacro Cuore di Gesù. Solo da Lui aspetto le grazie necessarie e la forza di poter adempiere tutti i miei doveri. La mia età è anni 29; la mia salu­te è soddisfacente...».

A questa lettera fece seguito quella del parroco di Romagnano, don Ottavio Carcereri, in data 11 agosto 1927: «Trovo giustificata la perples­sità del superiore Generale in riguar­do all'età del postulante Viviani... Altro mestiere egli non conosce che il lavoro dei campi in mezzo ai quali è nato e vissuto... Devo notare che egli possiede un'istruzione elementa­re migliorata con la passione dello studio, sicché in poco tempo riuscirà un buon fratello catechista.

Circa la sua salute posso assicurare che in un corpo poco appariscente ha una eccellente robustezza fisica. Fece il soldato in guerra, ha sempre atteso al rude lavoro. Le racconterò un fatto: Per due anni (25-26) egli assunse l'ufficio di procaccia rurale. Ebbene, ogni giorno coprì a piedi il percorso di una ventina di chilometri (tra l'andata e il ritorno) in una regione abbastanza montuosa com'è la nostra. E dire che quando cammina, questo giovane pare vada cercando sempre ‘l'ubi consistam’.

Egli è di costumi i più rigidi, prudente nella parola, schivo delle compagnie, la sua gioia è la casa paterna. Trova diletto di conversazione con noi sacerdoti. Docile agli ammo­nimenti, sente il bisogno di professare pubblicamente la sua religione senza rispetto umano. Spesso — l'ho detto tra me — ma quello lì dovrebbe farsi religioso! Se proprio nella prova del noviziato non sarà trovato idoneo, tornando alla sua famiglia non sarà uno spostato, perché ha qualche cosa al sole e il lavoro non gli manca... Spero che se si verrà alla prova, mi darà ragione».

Infermiere

Con questa presentazione, Angelo Viviani fu accolto nel noviziato di Venegono il 26 settembre 1927. Il suo comportamento convinse i supe­riori ad accorciare di 5 mesi il novi­ziato. «Il giorno seguente ai Voti — prosegue il diario — 9 dicembre 1929, venni a Verona. Di lì dovevo partire per l'Africa. Ma un fatto nuovo venne a rompere i piani. Il vecchio in­fermiere doveva assentarsi un poco. Il superiore Generale, padre Meroni, mi chiamò e mi disse: "Per un po' di tempo, un mese al massimo, mi fate il favore di prendere il posto di fratel Giuseppe Bortolato che è andato ad aprire la casa di Carraia insieme a padre Gambaretto. Prendete l'in­fermeria e la portineria. Ripeto: un mese o quaranta giorni al massimo". Per farla breve sono passati 53 anni. L'uomo propone e Dio dispone.

Il lavoro di infermiere da princi­pio mi era davvero pesante. Non avevo nessuna cognizione, e poi assistere padri anziani mi faceva un po' di soggezione... Pregavo Dio perché mi mandasse un sostituto. Mi risuonò allora in fondo all'anima la medesi­ma voce che conoscevo e mi disse: "Perché ti impressioni così tanto a fare l'infermiere? Non devi impres­sionarti; basta ubbidire al medico. La cosa più importante è avere un cuore di mamma. Per questo ti ho scelto. Ed ora ti avverto: tieniti pronto perché tra pochi giorni arri­verà un ammalato. Lo affido a te, prendine cura".

Infatti venne l'ammalato, così compresi che questa era opera di Dio. E Dio stesso, non gli uomini, mi aveva chiamato. Compresi anche che le mie sofferenze giovanili mi furono date da Dio per comprendere e compatire i sofferenti».

Ci sono io, non temere

«Un momento oscuro. Il 1953 fu un periodo eccezionale. Ne moriro­no diversi. Il lavoro era diventato pesante. Ce la misi tutta, ma nelle troppe cose da fare mi dimenticai di ricorrere al Signore e lui mi lasciò solo perché mi rompessi il naso in tutto quel lavoro giorno e notte.

Dopo aver vegliato più notti, mi sentii stanco, triste e depresso. Una mattina ero in chiesa. Stavo medi­tando ma non combinavo nulla. Venne il Maligno e si avvicinò con le sue lusinghe e insinuazioni. Egli cer­cava di scompaginare il disegno di Dio. "Non vedi che non ce la fai? I superiori si prendono gioco di te. Pianta lì tutto e torna ai tuoi monti, là vivrai felice". Io veramente ero depresso. Dissi al Signore: "Non so quanto resisterò in queste condizio­ni". La solita voce interna, in tono severo mi ammonì: "Miserabile, perché hai paura? Ci sono io!" Rimasi atterrito; non sapevo più cosa dire. Dopo un attimo di silenzio dissi al Signore: "Perdonami, confidavo nelle mie forze". Allora Gesù mi disse: "Avanti, avanti sempre, ci sono io. Non temere, io sarò la tua forza e la tua ricompensa".

"Grazie, grazie, Signore". Mi alzai e andai a confessarmi per ottenere l'assoluzione del peccato di poca fidu­cia nel Signore.

Dopo la confessione mi sentii invaso da una nuova forza che mi aiutava ad affrontare qualsiasi ostacolo. E la solita voce interna mi diceva: "Ora stiamo uniti, tu va' avanti". Così ripresi con nuovo en­tusiasmo e senza sosta».

La santa Comunione

«Rinnovavo la forza, ogni giorno, nella santa Comunione che è sempre stata la mia forza e la luce del mio cammino... Sì, l'Eucaristia è il centro vitale per tutti i cristiani, è il cardine sul quale girano tutte le opere di carità. È la santa Comunione che aiuta a sopportare tutte le fatiche e i disagi che devono sostenere i mis­sionari in terre lontane. È l'Eucari­stia che dà la forza e la soddisfa­zione a tutti quelli che si dedicano ad assistere i lebbrosi e si abbassano a curare le piaghe più ributtanti. È la Comunione che dà la forza ai gio­vani di mantenersi puri, ai genitori di sostenere il peso e la responsabi­lità di educare i figli perché crescano e si mantengano buoni cristiani... Dopo il rimprovero che mi diede, il Signore mi assicurò che mi sarebbe stato sempre vicino. E così fu. La sua forza mi cambiò completamente. Da quel tisicuccio che ero, mi diede la forza di superare tanti ostacoli. Il lavoro aumentava, le veglie di notte non si contavano più. Ero sempre sulla breccia e non sentivo stan­chezza».

...i gradini sono cento

Finché padre Marchetti non installò l'ascensore in Casa Madre, a fratel Viviani toccò salire e scendere le scale reggendo il portavivande sulle braccia. Fu un lavoro faticoso, perché qualche malato al terzo piano (allora occupato dagli studenti) c'era sempre. Il continuo appoggiare del-l'asse sullo stomaco, gli causò una brutta ernia ombelicale che gli procurò delle emorragie. Nel 1973 dovette sottoporsi all'operazione. In un primo tempo si pensava che quel groviglio di vene lacerate fosse qualcosa di brutto. «Se si tratta di un tumore — disse Viviani al medico — me lo dica pure; sono pronto a ricevere anche questo dalle mani di Dio».

L'espressione “anche questo” fa pensare che c'era dell'altro. Basta sfogliare le pagine del diario per scoprirlo. Oltre che infermiere, fratel Viviani era — almeno nei primi tempi — anche refettoriere e portinaio. Con una certa frequenza capitava che, trovandosi ormai in cima alle scale, sentiva il campanello della porta che suonava. Allora deponeva il vassoio sul davanzale di una finestra e scen­deva ad aprire. Non raramente do­veva rifare l'operazione più volte pri­ma di portare a termine la sua in­combenza. Una volta, ritornato per l'ennesima volta alla porta, s'imbatté in un superiore il quale lo rimpro­verò aspramente per averlo fatto attendere fuori dalla porta. Con il suo solito umorismo, fratel Viviani gli disse: «Contento o non contento, i gradini sono cento». Quella delle rime era un'altra caratteristica del Fratello che in questo modo rallegrava le feste e sdrammatizzava le si­tuazioni. Un altro superiore, anche questo non eccessivamente forte in pa­zienza, dopo aver atteso l'apertura della porta, sbottò: «Dov'era questo fratel Viviani!». E l'interessato: «Su e giù per i piani!».

«Fratello, fatemi una rima» gli chiese un malato un po' depresso.

«Ve l'ho appena fatta prima!» fu la risposta.

La solita voce

Con il termine “solita voce” fratel Viviani chiamava le intense ispira­zioni che gli venivano da parte di Dio. Vivendo in continuo silenzio e raccoglimento, era in grado di captare questi impulsi della grazia. Gli episodi e proposito sono tanti nel diario. Ne riportiamo uno assai significativo.

«Si era alla sera della seconda domenica di maggio 1954. Il superiore mi incaricò di andare ad Arco a portare dei documenti, perciò avvertii un Fratello perché si prendesse cura di padre Huber, l'unico che necessi­tava di attenzione. Partii alla mattina per tempo col treno alla volta di Rovereto, poi presi la corriera per Arco. Disimpegnai il mio compito, pranzai con la comunità, poi ricrea­zione, quindi riposo. Di lì a un po' mi recai in cappella. Gesù mi atten­deva per il suo messaggio. La chiesa era deserta; io stavo pregando con la testa tra le mani quando, d'un tratto, fui colpito da una luce. Al­zai la testa e vidi con mia grande sorpresa e commozione tutto il taber­nacolo come in una fiamma e la por­ticina tutta raggiante.

Di fronte a questo spettacolo gli occhi mi si riempirono di lacrime e il cuore mi batteva forte. Allora dissi: "Signore ho compreso tutto; questo è un avviso per dirmi che è in viaggio un ammalato grave da assi­stere". Allora la solita voce interna mi disse: "A Verona in casa nostra c'è uno che ti chiama continuamen­te, ed è tutto il giorno che ti chiama". Allora esclamai: "Questo è certo padre Huber colpito da nuovo attacco". Mi rispose: "Sì è lui; torna subito a casa, lo affido a te. Prendine cura e tutto tornerà normale". Rimasi stordito anche perché Gesù benedetto mi disse "l'affido a te" (quale degnazione!) e anche perché mi disse "parti subito". D'improvviso mi balenò un pensiero: il treno Trento-Verona ferma a Mori. Prendere quello vuol dire guadagnare un po' di tempo. Così ho fatto.

Arrivato in casa chiesi cosa ci fosse di nuovo. Mi risposero: "Andate su subito da padre Huber perché è tutto il giorno che vi chiama e continua a chiamarvi".

"Non è andato il Fratello come eravamo d'accordo?"

"Sì, è andato, ma lui vuole voi"...

Non ho scritto queste righe per farmi credere qualche cosa, no, per carità non ci tengo, ma scrissi per rendere chiaro quanto il Cuore euca­ristico di Gesù ha fatto per noi».

L'eco della “solita voce”, un poco alla volta, fece capire a fratel Viviani che il Signore lo voleva a Verona come infermiere dei confratelli. Là, lungo quei corridoi, accanto ai letti bianchi, esercitando l'umile e alto ufficio dell'infermiere avrebbe svolto la sua missione apostolica.

Egli però ebbe sempre paura di sbagliarsi; per questo chiese più volte di essere inviato in missione, come vedremo nel paragrafo seguente.

Potrà recarsi in missione insieme a fratel Alfonso Bertagnoli nel 1972. «Questo viaggio di tre mesi in Africa — gli scrisse padre Sina a nome del Consiglio Generale — non intende essere un premio ai vostri meriti, ma solo un'occasione per darvi un po' di meritato riposo. Sappiamo che il premio ve lo aspettate solo dal Signore. Dopo tale periodo di riposo ed il viaggio in Africa, vi chiederemmo di trasferirvi ad Arco come assisten­te particolare di padre De Negri...».

Fratel Viviani, vedendo che ormai il Centro Ammalati funzionava rego­larmente, accettò di andare in Africa insieme a Bertagnoli.

Fu un'esperienza meravigliosa che poi ricordava spesso e raccontava con dovizie di particolari ai confra­telli.

Africa Africa

Il desiderio costante di fratel Vi­viani era quello di andare in missio­ne. Dopo un po' di tempo che era a Verona, chiese al Generale di poter partire. Ma ogni volta, quando sembrava che tutto fosse pronto per la partenza, saltava fuori qualche cosa che lo fermava. Dapprima fu la ma­lattia di padre Vianello «un uomo provato dalla guerra e dalla divisio­ne con i tedeschi, che nessuno ritene­va malato e invece era distrutto. Questi mi disse: "Vedi, noi siamo degli eterni bambinoni e abbiamo bisogno della mamma".

Il 10 ottobre 1931, centenario della nascita di monsignor Comboni, tentai una seconda volta con padre Simoncelli. Mi negò il permesso.

Insistei una terza volta. Ed il Ge­nerale: "Cacciate via quell'idea come una tentazione". Ed io allora: "Devo anche confessarmi se per caso penso all'Africa?" Soffrii tanto quan­do qualcuno, ignorando tutto questo, mi rinfacciò che non volevo andare in missione».

Appena divenne Generale padre Todesco, Viviani chiese nuovamente di poter partire. «Ci ho già pensato – gli rispose. – Appena possibile an­drete a Londra per un po' di inglese e di pratica infermieristica (aveva già fatto un corso a Verona) e poi partirete». Ma intanto c'era padre Vi­gnato che stava poco bene. Questi chiamò Viviani e gli disse: «Dicono che andate a Londra, e io "dicono" che starete a Verona». Alla morte di padre Vignato doveva essere la volta buona per salpare. Ma padre Tode­sco: «Davanti a Dio non posso met­termi contro una cosa che è tanto chiara. Voi dovete restare a Verona per fare l'infermiere».

«Padre Albrigo, superiore, è una vera mamma per gli ammalati. Come è bello sacrificarsi quando c'è carità e amore» annota il diario. E in un'altra parte: «Oggi ho bagnato le pia­strelle del corridoio di lacrime. Un padre che ha grado mi ha chiesto quanto ci mettono questi vecchi a morire. Non si parla così di chi si ama». Il diario naturalmente porta nomi e cognomi.

Molte pagine avanti c'è qualche cosa anche sul padre che aveva pro­nunciato quella frase infelice. Occu­pò l'infermeria per molti anni, gravemente malato. Fratel Viviani lo curò con grande amore senza mai ri­cordargli il fatto di tanto tempo pri­ma. Alla data della morte di questo confratello annota il diario: «Prego per chi mi ha aiutato e prego il doppio per chi mi ha contristato».

II centro ammalati

Il Centro Assistenza Ammalati fu l'opera per la quale fratel Viviani maggiormente insistette, operò e si arrabbiò. Già dalle poche battute riportate fin qui possiamo vedere la necessità che c'era in Congregazione di questo Centro. Oggi sembra una cosa ovvia, invece ci furono contrad­dizioni, lotte e malintesi a non finire. «Il Centro è voluto dal Signore, ma il Maligno conduce una lotta continua servendosi degli stessi Padri. Non di tutti però. Io sono un peccatore; credo però alle parole del Signore, che dicono: Quello che avete fatto al più piccolo dei miei fratelli, lo avete fatto a me». I tempi intanto maturavano. E anche le persone. Le nuove generazioni di superiori si mo­strarono sensibili al problema amma­lati. Un po’ alla volta la Casa Madre venne attrezzata e tutto il secondo piano passò all'infermeria. Nuovi in­fermieri, suore e perfino donne per le pulizie cominciarono a girare per il reparto. E anche i confratelli bisognosi di cure o di assistenza venivano a Verona sempre più numerosi e sempre più contenti.

Fratel Viviani era felice. Il suo vec­chio sogno si stava realizzando. Ulti­mamente vide di buon occhio la ristrutturazione della cappella per allargare l'infermeria. Qualche giorno prima di spirare volle dire grazie al superiore di Verona per quanto si stava facendo. Anche nella nuova ristrutturazione egli continuò ad essere l'angelo consolatore dei degenti. Pur non avendo responsabilità diretta (e con quanto garbo seppe mettersi in disparte) si rese utile fino all'ultimo. Quando non era al capezzale di un confratello era in chiesa davanti al tabernacolo. In questo modo si prepa­rava all'ultima fase della sua mis­sione.

Non mancarono neppure le prove spirituali. Dubbi, scrupoli, incertezze. Quante volte voleva bruciare i suoi diari sembrandogli che non servis­sero a niente, anzi fossero di danno. Ci volle l'obbedienza dei vari supe­riori e di qualche suo confidente il quale, più concretamente, glieli portava via con la scusa di rivederli e or­dinarli, man mano che li sfornava. Il diavolo lo tartassò nello spirito. E poi fu provato anche nel corpo.

La vetta

Godette discreta salute fino a pochi mesi prima della morte. Poi comin­ciarono i giramenti di testa. «Bisogna prenderli dalle mani di Dio» diceva. Verso la Pasqua del 1984 cadde a terra due volte. La prima volta non si fece alcun danno; la seconda volta si ruppe il femore. Fu portato all'ospedale di Negrar dove venne operato, poi tornò a casa conducendo una vita di letto e poltrona.

Verso giugno apparvero le prime piaghe da decubito. Contemporaneamente accusò un indebolimento generale. Tornò per una seconda volta all'ospedale di Negrar per alcune tra­sfusioni seguite da una leggera ripresa.

Tornato a casa, dopo un po' fu assalito dalla febbre. Un terzo ricovero a Negrar si dimostrò inutile. Nella sua cameretta al secondo piano attendeva serenamente sorella morte. La attese in silenzio, pregando e offrendo. Pur capendo tutto, qualche volta non riusciva neanche a parlare tanto era debole. Aveva frequenti visite da parte dei confratelli e dei nipoti che venivano quasi tutti i giorni a trovare lo zio per il quale avevano una grande venerazione.

Ad ogni sacerdote che entrava, chiedeva l'assoluzione e una preghie­ra che egli si sforzava di accompa­gnare a fil di voce. Vedendo tanto movimento, disse un giorno: «Perché vi interessate di me? Non valgo pro­prio nulla!»

Qualche giorno prima di spirare fece cenno al superiore di volergli parlare. Questi si abbassò vicinissimo al volto per sentire cosa volesse dirgli. Ma non riuscendo ad esprimersi, il Fratello gli diede un bacio.

Spirò alle ore 18,30 di lunedì 15 ottobre, festa di Santa Teresa. Sul diario c'è anche scritto: «Santa Teresina affermò che non avrebbe mai creduto di poter soffrire tanto. Io posso dire lo stesso di me».

Il funerale ebbe luogo giovedì alle 10,30. Presero parte 50 concelebran­ti, confratelli, suore e parenti.

I compaesani vollero portare la salma nel cimitero del paese per aver sempre vicino chi giudicavano già come un protettore.

p. Lorenzo Gaiga