In questa festa della Trasfigurazione del Signore si contempla il volto del “Figlio dell’uomo” radioso di una luce destinata all’umanità intera: una luce di vita e di comunione. Essere uomini e donne destinatari della Trasfigurazione significa anche essere capaci di mutare lo sguardo per vedere l’invisibile nel volto umano, e lì vedere Dio.

La Pasqua dell’estate
nel tempo del “frattempo”

Festa della Trasfigurazione del Signore
Matteo 17, 1-9

1. La Festa della Trasfigurazione

Il perché di questa Festa. La liturgia interrompe la lettura del vangelo di Matteo, che stiamo seguendo in queste domeniche del tempo ordinario, per celebrare la Festa della Trasfigurazione del Signore, il 6 agosto. Si tratta di una festa particolarmente cara alla Chiesa d’oriente che la chiama la “Pasqua dell’estate”, una delle 12 solennità del calendario liturgico bizantino. Perché il 6 agosto? Perché secondo la tradizione la trasfigurazione di Gesù sarebbe avvenuta 40 giorni prima della sua crocifissione. Orbene, come celebriamo la festa dell’Esaltazione della Santa Croce il 14 settembre, la Trasfigurazione venne fissata 40 giorni prima.
Se l’Oriente ha messo in risalto l’importanza di questa festa, l’Occidente l’ha piuttosto trascurata. Oggi si sente la necessità di rivalutarla. Ricordiamo che è stata inserita nei “misteri luminosi” del rosario. Teilhard de Chardin l’ha definita “il più bel mistero del cristianesimo”, perché è la primizia di un universo trasfigurato, diventato ‘cristico’.

La Trasfigurazione secondo il vangelo di Matteo. I tre vangeli sinottici (Matteo, Marco e Luca) presentano questo episodio in termini simili. La liturgia ci propone la versione di Matteo, il vangelo che stiamo ascoltando in questo anno liturgico (ciclo A).

Dove avviene. I vangeli parlano di “un monte”. Secondo la tradizione si tratta del monte Tabor, che spicca isolato nella pianura della Galilea. Matteo parla di “un alto monte”. Sappiamo che il monte ha una valenza simbolica di vicinanza a Dio. Matteo dà una importanza speciale ai “monti”. Questo sarebbe il quinto dei sette monti del suo vangelo.

Il contesto di questo evento. Il contesto in cui viene situato questo evento sembra quello della festa ebraica delle Capanne o delle Tende (Sukkot) che commemora i 40 di Israele nel deserto. Durante sette giorni si viveva in capanne. Ecco perché la proposta di Pietro “farò qui tre capanne” non è una “stupidaggine” di un Pietro balbettante, ma il desiderio di rimanere lì a celebrare la festa che si svolgeva in quei giorni. Mosè ed Elia rappresentano la Legge e i Profeti (al tempo di Gesù l’espressione “Mosè e i Profeti” voleva dire tutta la Scrittura) che dialogano con la Parola definitiva. Ma entrambi, Mosè ed Elia, sono collegati al Sinai o Horeb. Questo “alto monte” diventa, quindi, il nuovo Sinai!

Una epifania del Cristo e della Trinità. Infine, è evidente che questo è un racconto che rivela il Cristo Glorioso, un anticipo della risurrezione. Pietro, Giacomo e Giovanni, testimoni privilegiati della passione, condotti da Gesù su questo monte, sono introdotti nel mistero della sua persona. Si tratta pure di una epifania trinitaria, simile a quella del battesimo, in cui il Padre fa sentire la sua voce e lo Spirito si manifesta tramite la nube luminosa e la sua ombra.

Come possiamo vedere, gli spunti di meditazione e di preghiera che ci offre questo vangelo sono tanti. Mi limito a due riflessioni.

2. La Trasfigurazione e il “frattempo” in cui viviamo

Questa festa, la “Pasqua dell’estate”, ci ricorda che noi viviamo nel tempo del… “frattempo”! Questo è il tempo dell’uomo, fra la nascita e la morte, vissuto nella speranza di raggiungere una certa pienezza stabile (felicità?). Il “frattempo” è anche il tempo del credente, vissuto tra due Pasque, quella di Cristo e quella nostra. La Trasfigurazione illumina questo “frattempo”, non per sopprimerlo, ma per alimentarlo. Il nostro desiderio sarebbe di raggiungere subito la pace, la gioia, la vita, la felicità del tempo definitivo: “Signore, è bello per noi essere qui! Piantiamo qui le tende!” Eh no! bisogna scendere a valle! Allora a cosa serve quella visione? “Si sale, si vede, si scende. Poi non si vede più. Ma si è visto. C’è un’arte di guidarsi nelle regioni inferiori [della pianura] con il ricordo di ciò che si è visto nelle regioni superiori. Quando non si può più vedere, si può ancora sapere, almeno, che ci sono cose in alto” (René Daumal, filosofo e poeta surrealista francese).

3. La Trasfigurazione, epifania della bellezza

L’umanità cerca la bellezza, in tutte le sue forme. Cresce, oggi più che mai, la cura del proprio corpo, le operazioni estetiche, l’attenzione all’ambiente… In contrasto con questa tendenza, però, aumenta lo sfruttamento della natura, lo squallore di certi ambienti cittadini, l’indifferenza per la crescita della povertà… Il nostro è un tempo di trasfigurazione o di… “sfigurazione”?

Il 6 agosto del 1945 gli Stati Uniti sganciavano su Hiroshima la prima bomba atomica e tre giorno dopo su Nagasaki. dove risiedevano il 70 % dei cattolici giapponesi. Si poneva fine, in modo atroce, alla seconda guerra mondiale e si dava inizio all’era atomica attuale. Nel giorno della Trasfigurazione l’uomo ha iniziato l’era della massiva “sfigurazione” dei suoi simili e nessuno sa dove essa lo porterà!

Gesù, “il più bello tra i figli dell’uomo” (Salmo 44,3), è venuto a rivelarci la vera bellezza. Non si tratta di una bellezza seduttrice, ma di una bellezza trasfigurata, pasquale, quella del ‘Pastore Bello’ (Giovanni 10,11-18), che dà la vita per il gregge. Questa bellezza talvolta è velata, irriconoscibile, come quella del Servo de Yahweh “uomo dei dolori… davanti al quale ci si copre la faccia” (Isaia 53,3). Solo contemplando la bellezza dell’amore crocifisso possiamo essere a nostra volta trasfigurati ed essere testimoni della vera bellezza che trasfigurerà il mondo.

Per la riflessione e la preghiera

Approfondire questa affermazione straordinaria di San Paolo: “Noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria, in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore” (2 Corinzi 3,18).

Grazia da chiedere: “Fammi vedere il tuo volto” (Salmo 27); “Mostrami la tua Gloria” (Esodo 33,18-23).

P. Manuel João Pereira, missionario comboniano
Castel d’Azzano (Verona) agosto 2023

La Trasfigurazione di Gesù
Matteo 17,1-9

Il Vangelo della Trasfigurazione di Gesù ci porta a riflettere sul destino di trasfigurazione a cui siamo tutti chiamati.  Il racconto della Trasfigurazione di Gesù è la seconda rivelazione della sua identità filiale. La prima è avvenuta in occasione del suo battesimo. In tutti e due gli eventi, la voce del Padre presenta Gesù come suo Figlio. La novità (rispetto alla teofania del battesimo) di questa seconda ed ultima volta che il Padre parla è l'appellativo "eletto" e l'invito all'ascolto del Figlio. E' Dio Padre in persona che offre la propria garanzia: Gesù è il profeta che devono ascoltare. L'appellativo "eletto" è ripreso
dalla presentazione del servo del Signore che ha il compito non solo di liberare i figli di Israele, ma anche di essere luce delle nazioni.

La Trasfigurazione è il punto d'arrivo dell'universo. Il volto di Gesù, bellezza di Dio e compimento del suo disegno di salvezza, è il nostro vero volto, nel quale, per il quale e in vista del quale siamo stati fatti (Col 1, 15). In lui tutto raggiunge il suo fine e si ricongiunge al suo principio.

Il racconto della Trasfigurazione segna una svolta decisiva sia nel cammino di Gesù, che va verso Gerusalemme, sia in quello dei discepoli, ai quali il Padre mostra il mistero del Figlio. In effetti, la presenza di fianco a Gesù dei due personaggi emblematici dell'Antico Testamento, Elia (il Padre dei profeti) e Mosè (il mediatore della Legge), ha una valenza molto significativa. La Legge e i profeti parlano di lui, compimento di ogni promessa di Dio. E la comparsa di Mosè ed Elia accanto a lui conferma che il tempo dell'attesa e della promessa è compiuto. Perciò, al termine resta solo Gesù: basta solo lui come dottore della Legge perfetta e definitiva, e come compimento di tutte le Profezie.

Quindi, la scena conclusiva mette in risalto il ruolo mediatore unico di Gesù riguardante la parola rivelatrice di Dio. Questo messaggio è particolarmente importante per i tre personaggi e per i loro compagni. Si tratta di seguire un Messia che adesso vedono avvolto nello splendore della gloria, trasfigurato, ma che tra poco vedranno deriso, umiliato, sfigurato e condannato a morte. Mosè ed Elia parlavano di questa sofferenza e di questa morte vicina, e confortavano Gesù. La voce del Padre sembra anche un incoraggiamento, in previsione della passione. Il Padre invocato a gran clamore durante la notte di Getsemani non risponderà, perché aveva già risposto a al Thabor. D'altra parte, poiché gli apostoli dovevano vederlo posto tra le mani dei nemici, fosse stato bene che l'avessero visto prima nella gloria della trasfigurazione. Quindi adesso, tutte le precauzioni sono prese, e Gesù può andare al suo destino. La sua trasfigurazione è preludio alla sua risurrezione.

Pietro vorrebbe eternizzare questo momento privilegiato. Interpreta la visione come un segnale di riposo definitivo, mentre essa costituisce un punto di partenza, un invito a camminare e a riprendere coraggio. Associando alcuni discepoli alla Trasfigurazione, Gesù vuole farci capire che anche i nostri corpi sono chiamati ad un destino di trasfigurazione definitiva e di vita in Dio. 

"Faremo tre tende". La tenda richiama la dimora di Dio tra gli uomini. In realtà tre sono i modi con cui Dio dimora tra noi: la Legge (Mosè) che ci àncora al passato, la promessa (Elia) che ci attira al futuro, e l'umanità di Gesù, presenza in cui si compie tutto il passato e termina tutto il futuro. Questa è la tenda definitiva di Dio tra gli uomini. Il principio della nostra trasfigurazione è  l'ascolto di Gesù. Non c'è altra rivelazione da cercare. L'ascolto di lui ci rende come lui, figli di Dio, partecipi della sua vita. Senza la sua trasfigurazione neanche avremmo immaginato la gloria cui siamo destinati   "E' bello per noi essere qui", dice Pietro. Infatti, è bello essere con Gesù trasfigurato. Qui raggiungiamo ciò per cui siamo fatti, e ci sentiamo a casa. Altrove è brutto e non possiamo stare. In Gesù trasfigurato, infatti, tutta la creazione raggiunge quella bellezza che Dio aveva aggiudicata fin dal principio. La viviamo più direttamente col nostro battesimo. La trasfigurazione corrisponde quindi alla vita nuova che il battesimo ci conferisce.
Don Joseph Ndoum

Rivelazione della Bellezza che salva il mondo

La Trasfigurazione
J. Ratzinger

In tutti e tre i sinottici la confessione di Pietro e il racconto della trasfigurazione di Gesù sono collegati tra loro da un’indicazione temporale. Matteo e Marco dicono: «Sei giorni dopo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni» (Mt. 17,1; Mc. 9,2), Luca scrive: «Circa otto giorni dopo questi discorsi … » (Lc 9,28). Ciò significa innanzi tutto che i due avvenimenti in cui Pietro svolge sempre un ruolo preminente hanno a che fare l’uno con l’altro. In un primo momento potremmo dire: entrambe le volte si tratta della divinità di Gesù, il Figlio; ma entrambe le volte l’apparizione della sua gloria è legata anche al tema della passione. La divinità di Gesù va insieme alla croce; solo in questo legame riconosciamo Gesù in modo giusto. Giovanni ha espresso questo intimo intreccio di croce e gloria dicendo che la croce è l’«esaltazione» di Gesù e che la sua esaltazione non si compie se non sulla croce. Ora dobbiamo tuttavia andare un po’ più a fondo circa questa singolare datazione. Esistono due interpretazioni differenti che però non devono escludersi a vicenda.

In particolare Jean-Marie Van Cangi e Michel Van Esbroeck hanno sviscerato il rapporto con il calendario delle festività giudaiche. Essi richiamano l’attenzione sul fatto che soltanto cinque giorni separano due grandi feste giudaiche nell’autunno: prima vi è lo Yom Kippur, la grande festa dell’espiazione; sei giorni dopo viene poi celebrata la festa delle Capanne (Sukkot) che dura una settimana. Ciò starebbe a significare che la confessione di Pietro ha avuto luogo durante il grande giorno dell’espiazione e che teologicamente andrebbe anche interpretata sullo sfondo di questa festa, l’unica occasione dell’anno in cui il sommo sacerdote pronuncia solennemente il nome YHWH nel Santo dei Santi del tempio. In questo contesto la confessione di Pietro in Gesù Figlio del Dio vivente acquisirebbe un’ulteriore dimensione di profondità. Jean Daniélou ricollega invece l’indicazione della data fornita dagli evangelisti esclusivamente alla festa delle Capanne, che – come già detto – durava un’intera settimana. In sostanza, dunque, le indicazioni temporali di Matteo, Marco e Luca concorderebbero. I sei, rispettivamente circa otto giorni, si riferirebbero quindi alla settimana della festa delle Capanne; la trasfigurazione di Gesù avrebbe pertanto avuto luogo l’ultimo giorno di questa festa, che ne costituiva insieme il culmine e la sintesi interna.

Le due interpretazioni sono accomunate dal fatto che la trasfigurazione di Gesù ha a che fare con la festa delle Capanne. Vedremo che, in effetti, questa relazione si manifesta nel testo stesso e ci consente una comprensione più profonda dell’intero avvenimento. Oltre la peculiarità di questi racconti emerge un tratto fondamentale della vita di Gesù, delineato soprattutto da Giovanni, come abbiamo visto nel capitolo precedente: i grandi avvenimenti della vita di Gesù hanno un rapporto intrinseco con il calendario delle festività ebraiche; sono, per così dire, avvenimenti liturgici in cui la liturgia, con la sua commemorazione e la sua attesa, diventa realtà, diventa vita, che riconduce a sua volta alla liturgia e che da lì vorrebbe ridiventare vita.

Proprio nell’analisi delle relazioni tra la storia della trasfigurazione e la festa delle Capanne vedremo ancora una volta con chiarezza, che tutte le feste giudaiche hanno in sé tre dimensioni. Derivando da celebrazioni della religione naturale, parlano del Creatore e della creazione; si trasformano poi in ricordi dell’agire storico di Dio e infine, in base a ciò, in feste della speranza che vanno incontro al Signore che viene, nel quale giunge a compimento l’agire salvifico di Dio nella storia e si risolve al tempo stesso nella riconciliazione di tutta la creazione. Vedremo come queste tre dimensioni delle feste si approfondiscano ulteriormente e acquistino un nuovo carattere mediante la loro realizzazione nella vita e nella passione di Gesù. A questa interpretazione liturgica della data se ne contrappone un’altra, sostenuta con insistenza soprattutto da Hartmut Gese, che non reputa sufficientemente fondata l’allusione alla festa delle Capanne e legge invece l’intero testo sullo sfondo di Esodo 24 – la salita di Mosè sul monte Sinai. In effetti, questo capitolo, in cui viene descritta la stipulazione dell’Alleanza di Dio con Israele, è una chiave interpretativa essenziale per l’evento della trasfigurazione. Vi si legge: «La Gloria del Signore venne a dimorare sul monte Sinai e la nube lo coprì per sei giorni. Al settimo giorno il Signore chiamò Mosè dalla nube» (Es 24,16). Il fatto che quia differenza dei Vangeli – si parli del settimo giorno non deve smentire un legame tra Esodo 24 e l’evento della trasfigurazione; mi sembra tuttavia più convincente la datazione basata sul calendario delle festività giudaiche. Del resto, non vi è nulla di inconsueto nel fatto che diversi collegamenti tipologici confluiscano negli avvenimenti del cammino di Gesù, dimostrando così che Mosè e i Profeti parlano tutti di Gesù.

Veniamo ora al testo stesso della trasfigurazione. Vi si dice che Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li portò sopra un monte alto, loro soli (cfr. Mc 9,2). Ritroveremo questi tre discepoli sul monte degli Ulivi (cfr. Mc 14,33) nell’estrema angoscia di Gesù come immagine di contrasto con la trasfigurazione, sebbene i due episodi siano inscindibilmente legati tra loro. Qui non si può non vedere il riferimento a Esodo 24, dove Mosè porta con sé nella sua salita Aronne, Nadab e Abiu – ma anche settanta anziani d’Israele.

Come già nel Discorso della montagna e nelle notti trascorse in preghiera da Gesù, incontriamo di nuovo il monte come luogo della particolare vicinanza di Dio; di nuovo dobbiamo pensare ai vari monti della vita di Gesù come a un tutt’uno: il monte della tentazione, il monte della sua grande predicazione, il monte della preghiera, il monte della trasfigurazione, il monte dell’angoscia, il monte della croce e infine il monte dell’ascensione; su di esso il Signore – in contrasto con l’offerta del dominio sul mondo in virtù del potere del demonio – dichiara: «Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra» (Mt 28,18). Sullo sfondo si stagliano però anche il Sinai, l’Oreb, il Moria – i monti della rivelazione dell’Antico Testamento, che sono tutti al tempo stesso monti della passione e monti della rivelazione e, dal canto loro, rimandano, anche al monte del tempio su cui la rivelazione diventa liturgica.

Nella ricerca di un’interpretazione, senza dubbio si profila dapprima sullo sfondo il simbolismo generale del monte: il monte come luogo della salita – non solo della salita esteriore, ma anche dell’ascesa interiore; il monte come un liberarsi dal peso della vita quotidiana, come un respirare nell’ aria pura della creazione; il monte che offre il panorama dell’ampiezza della creazione e della sua bellezza; il monte che mi dà elevatezza interiore e mi permette di intuire il Creatore. La storia aggiunge a queste considerazioni l’esperienza del Dio che parla e l’esperienza della passione, che culmina nel sacrificio di Isacco, nel sacrificio dell’agnello, prefigurazione dell’Agnello definitivo, sacrificato sul monte Calvario. Mosè ed Elia avevano potuto ricevere la rivelazione di Dio sul monte; ora sono a colloquio con Colui che è la rivelazione di Dio in persona.

«Si trasfigurò davanti a loro» dice semplicemente Marco e, con un po’ di goffaggine, quasi balbettando dinanzi al mistero aggiunge: «Le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaia sulla terra potrebbe renderle così bianche» (9,2s). Matteo dispone già di parole più impegnative: «Il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce» (17,2). Luca è l’unico ad aver indicato già in precedenza lo scopo della salita: «Salì sul monte a pregare», e da lì spiega poi l’avvenimento di cui i tre discepoli diventano testimoni: «E, mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante» (9,29). La trasfigurazione è un avvenimento di preghiera; diventa visibile ciò che accade nel dialogo di Gesù con il Padre: l’intima compenetrazione del suo essere con Dio, che diventa pura luce. Nel suo essere uno con il Padre, Gesù stesso è Luce da Luce. Ciò che Egli è nel suo intimo e ciò che Pietro aveva cercato di dire nella sua confessione – si rende percepibile in questo momento anche ai sensi: l’essere di Gesù nella luce di Dio, il suo proprio essere luce come Figlio.

Qui diventano visibili il riferimento alla figura di Mosè e la differenza: «Quando Mosè scese dal monte Sinai [ … ] non sapeva che la pelle del suo viso era diventata raggiante, poiché aveva conversato con il Signore»(Es 34,29). Attraverso la conversazione con Dio, la luce di Dio si irradia su di lui e lo rende a sua volta raggiante. Tuttavia, si tratta, per cosi dire, di un raggio che lo raggiunge dall’esterno, e ora fa risplendere anche lui. Gesù, invece, risplende dall’interno, non riceve solo luce, ma è Egli stesso Luce da Luce.

L’abito di Gesù, bianco come la luce durante la trasfigurazione, parla tuttavia anche del nostro futuro. Nella letteratura apocalittica le vesti bianche sono espressione della creatura celeste – le vesti degli angeli e degli eletti. così, l’Apocalisse di Giovanni parla delle vesti candide che verranno indossate dai salvati (cfr. soprattutto 7,9.13; 19,14), Essa, però, ci dice anche qualcosa di nuovo: le vesti degli eletti sono candide perché essi le hanno lavate nel sangue dell’ Agnello (cfr. Ap 7,14) – vuol dire: perché mediante il battesimo sono stati uniti alla passione di Gesù e la sua passione è la purificazione che ci restituisce la veste originaria, perduta nel peccato (cfr. Le 15,22!). Mediante il battesimo siamo con Gesù rivestiti di luce e siamo diventati noi stessi luce.

Ora appaiono Mosè ed Elia e parlano con Gesù. Ciò che il Risorto spiegherà ai discepoli sulla via di Emmaus è qui un’apparizione visibile. La Legge e i Profeti parlano con Gesù, parlano di Gesù. Soltanto Luca ci riferisce – almeno in un breve accenno – di che cosa conversavano i due grandi testimoni di Dio con Gesù: «Apparsi nella loro gloria, parlavano della sua dipartita che avrebbe portato a compimento a Gerusalemme» (9,31). Il loro argomento di conversazione è la croce, intesa tuttavia in senso ampio come esodo di Gesù, che doveva aver luogo a Gerusalemme. La croce di Gesù è esodo, un uscire da questa vita, un attraversare il «Mar Rosso» della passione e un passare nella gloria, nella quale tuttavia restano sempre impresse le stimmate.

In tal modo si chiarisce che il tema fondamentale della Legge e dei Profeti è la «speranza di Israele» l’esodo che libera definitivamente; che il contenuto di questa speranza è il sofferente Figlio dell’uomo e servo di Dio che, soffrendo, apre la porta verso la libertà e la novità. Mosè ed Elia sono essi stessi figure e testimoni della passione. Parlano con il Trasfigurato di ciò che hanno detto sulla terra, della passione di Gesù; ma, mentre ne parlano con il Trasfigurato, diventa palese che questa passione porta salvezza; che è permeata dalla gloria di Dio, che la passione viene trasformata in luce, in libertà e gioia.

A questo punto dobbiamo anticipare la conversazione che i tre discepoli intrattengono con Gesù durante la discesa dal «monte alto». Gesù parla con loro della sua futura risurrezione dai morti che, appunto, include la croce come precedente passaggio. I discepoli, invece, pongono domande sul ritorno di Elia annunciato dagli scribi. Gesù dice loro: «Sì, prima viene Elia e ristabilisce ogni cosa; ma come sta scritto del Figlio dell’uomo? Che deve soffrire molto ed essere disprezzato. Orbene, io vi dico che Elia è già venuto, ma hanno fatto di lui quello che hanno voluto, come di lui sta scritto» (Me 9,9-13). Gesù conferma così, da una parte, l’attesa del ritorno di Elia, ma dall’altra completa e corregge al con tempo l’immagine che ci si era fatti di quell’evento. Identifica tacitamente l’Elia che ritorna con Giovanni Battista: nell’attività del Battista ha avuto luogo un ritorno di Elia.

Giovanni era venuto per riunire Israele, per prepararlo all’ avvento del Messia. Se però il Messia è Egli stesso il sofferente Figlio dell’uomo e solo così apre la via verso la salvezza, allora anche l’attività preparatoria di Elia deve stare in qualche modo sotto il segno della passione. E infatti: «Hanno fatto di lui quello che hanno voluto, come di lui sta scritto» (Mc 9,13). Qui Gesù ricorda, da una parte, l’effettivo destino del Battista, ma dall’ altra, con il riferimento alla Scrittura, allude forse anche a tradizioni esistenti, che predicevano il martirio di Elia: Elia veniva considerato «l’unico a essere sfuggito al martirio durante la persecuzione; al suo ritorno deve subire anch’egli la morte» (Pesch, Markusevangeliurn II, p. 80).

L’attesa della salvezza e la passione vengono pertanto comunemente associate tra loro, sviluppando così un’immagine della redenzione che, in fondo, è conforme alla Scrittura, ma che possiede una novità travolgente rispetto alle aspettative esistenti: la Scrittura andava e va continuamente riletta con il Cristo sofferente. Sempre di nuovo dobbiamo lasciarci introdurre dal Signore nel suo dialogo con Mosè ed Elia, continuamente dobbiamo imparare di nuovo a partire da Lui, il Risorto, a comprendere la Scrittura.

Torniamo al racconto stesso della trasfigurazione. I tre discepoli sono sconvolti dalla grandezza dell’ apparizione: il «timore di Dio» li pervade, come abbiamo visto in altri momenti in cui avvertono la vicinanza di Dio in Gesù, intuiscono la propria miseria e sono quasi paralizzati dalla paura. «Erano stati presi dallo spavento» ci dice Marco (9,6). E tuttavia Pietro prende la parola, anche se nel suo stordimento, «non sapeva [ … ] che cosa dire» (9,6): «Maestro, è bello per noi stare qui; facciamo tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia!» (9,5).

Di queste parole per così dire estatiche, pronunciate nel timore ma anche nella gioia della vicinanza di Dio, si è discusso molto. Hanno forse a che fare con la festa delle Capanne, nel cui ultimo giorno ebbe luogol’apparizione? Hartmut Gese contesta questa ipotesi e ritiene che il vero punto di riferimento nell’ Antico Testamento sia Esodo 33,7ss, dove viene descritta la «ritualizzazione dell’ episodio del Sinai» . Secondo questo testo, Mosè piantò «fuori dell’accampamento» la tenda della rivelazione, su cui scese poi la colonna di nube. Lì il Signore e Mosè parlarono «faccia a faccia, come un uomo parla con un altro» (33,11). Qui Pietro vorrebbe dunque dare continuità all’ evento della rivelazione ed erigere tende di rivelazione; il particolare della nube che ora avvolge i discepoli potrebbe confermarlo. Una reminiscenza di questo testo della Scrittura potrebbe senz’ altro essere presente; l’esegesi ebraica e paleocristiana conosce un intreccio in cui differenti riferimenti alla rivelazione confluiscono e si completano a vicenda. Il fatto che debbano essere costruite tre tende della rivelazione è tuttavia in contrasto con un simile riferimento o almeno lo fa apparire secondario. Il rapporto con la festa delle Capanne diventa convincente se si considera l’interpretazione messianica di questa festa nel giudaismo all’epoca di Gesù. Jean Daniélou ha approfondito questo aspetto in maniera convincente, collegandolo alla testimonianza dei Padri, in cui le tradizioni ebraiche erano senz’ altro ancora note e venivano reinterpretate nel contesto cristiano. La festa delle Capanne presenta la medesima tridimensionalità caratteristica – come abbiamo già potuto vedere – delle grandi feste giudaiche in generale: una festa tratta originariamente dalla religione naturale diventa al tempo stesso una festa dei ricordi storici delle azioni salvifiche di Dio, e il ricordo diventa speranza di salvezza definitiva. Creazione – storia – speranza si collegano tra loro. Se durante la festa naturale delle Capanne con la sua offerta dell’ acqua si era implorata la pioggia necessaria in una terra arida, la festa diviene ben presto il ricordo della peregrinazione di Israele nel deserto, dove gli ebrei avevano vissuto nelle tende (capanne, sukkot) (cfr. Lv 23,43), Daniélou cita prima Riesenfeld: «Le capanne furono concepite non solo come ricordo della protezione divina nel deserto, ma [ciò che è importante] anche come una prefigurazione dei sukkot [divini] nei quali i giusti avrebbero abitato nel secolo a venire. Sembra, quindi, che con il rito più caratteristico della festa delle Capanne, così come questa era celebrata nei tempi del giudaismo, era collegato un significato escatologico molto preciso» (p. 451). Nel Nuovo Testamento, ritroviamo in Luca il discorso delle eterne tende dei giusti nella vita futura (16,9). «L’epifania della gloria di Gesù» così Daniélou «è interpretata da Pietro come il segno che i tempi messianici sono arrivati. E uno dei caratteri dei tempi messianici era il soggiorno dei giusti nelle tende di cui quelle della festa delle Capanne erano figura» (p. 459). L’esperienza della trasfigurazione durante la festa delle Capanne permise a Pietro di riconoscere, nella sua estasi, «che le realtà prefigurate dai riti della festa erano realizzate [ … ]. La scena della trasfigurazione indica dunque che i tempi messianici sono venuti» (p. 459). Solo durante la discesa dal monte Pietro dovrà imparare ancora in modo nuovo a comprendere che l’epoca messianica è innanzitutto l’epoca della croce e che la trasfigurazione – il diventare luce in virtù del Signore e con Lui – comporta il nostro essere arsi dalla luce della passione.

A partire da questi collegamenti acquista nuovo significato anche la frase fondamentale del Prologo di Giovanni, dove l’evangelista riassume il mistero di Gesù: «E il Verbo si fece carne e venne ad abitare [letteralmente: pose la tenda] in mezzo a noi» (Cv 1,14). Sì, il Signore ha piantato la tenda del suo corpo in mezzo a noi, inaugurando così l’epoca messianica. Seguendo questa traccia, Gregorio di Nissa ha commentato il rapporto tra la festa delle Capanne e l’incarnazione in un testo magnifico, che parte dalla constatazione che la festa delle Capanne veniva sempre celebrata ma non era compiuta: «La vera festa della costruzione delle Capanne, infatti, non c’era ancora. Ma proprio per questo, conformemente alla parola profetica [allusione al Salmo 118,27], Dio il Signore dell’universo si è rivelato a noi, per compiere la ricostruzione della tenda distrutta della natura umana» (Gregorio di Nissa, De anima, PC 46, 132 B; cfr. Daniélou, pp. 464-466). Con negli occhi questa panoramica, torniamo ora al racconto della trasfigurazione. «Poi si formò una nube che li avvolse nell’ombra e uscì una voce dalla nube: “Questi è il Figlio mio prediletto: ascoltatelo!”» (Me 9,7). La nube sacra è il segno della presenza di Dio stesso, la Shekinah. La nube sopra la tenda della rivelazione indicava la presenza di Dio. Gesù è la tenda sacra sopra la quale si trova la nube della presenza di Dio e dalla quale essa avvolge «nell’ombra» ora anche gli altri. Si ripete la scena del battesimo di Gesù, quando il Padre stesso dalla nube aveva indicato Gesù come Figlio: «Tu sei il Figlio mio prediletto, in te mi sono compiaciuto» (Mc 1, 11).

A questa solenne proclamazione della dignità filiale si aggiunge però ora l’imperativo: «Ascoltatelo! ». Qui torna visibile la relazione con la salita di Mosè sul Sinai, che all’inizio avevamo visto come sfondo della storia della trasfigurazione. Sul monte, Mosè aveva ricevuto la Torah, la parola d’insegnamento di Dio. Ora, con riferimento a Gesù, ci viene detto: «Ascoltatelo! ». Hartmut Gese ha commentato questa scena con perspicace correttezza: «Gesù è diventato la stessa Parola divina della rivelazione. I Vangeli non possono presentarlo in modo più chiaro e più possente: Gesù è la stessa Torah» (p. 81). L’apparizione è così terminata, il suo significato più profondo è riassunto in quest’unica parola. I discepoli devono ridiscendere con Gesù e imparare sempre di nuovo: «Ascoltatelo!».

Se impariamo a interpretare così il contenuto del racconto della trasfigurazione – irruzione e inizio dell’epoca messianica – riusciamo anche a comprendere la parola oscura che Marco inserisce tra la confessione di Pietro e l’insegnamento ai discepoli, da una parte, e il racconto della trasfigurazione, dall’altra: «E diceva loro: “In verità vi dico: vi sono alcuni qui presenti, che non morranno senza aver visto il regno di Dio venire con potenza”» (9,1). Che cosa significa? Gesù predice forse che alcuni degli astanti saranno ancora in vita al momento della sua Parusìa, dell’irruzione definitiva del regno di Dio? Oppure preannuncia qualcos’altro?

Rudolf Pesch (II 2, p. 66s) ha osservato in modo convincente che la collocazione di questa parola subito prima della trasfigurazione indica con molta chiarezza il rimando a questo avvenimento. Ad alcuni che sono poi i tre accompagnatori di Gesù nella salita sul monte – viene promesso che faranno l’esperienza della venuta del regno di Dio «con potenza». Sul monte, i tre discepoli vedono splendere la gloria del regno di Dio in Gesù. Sul monte, la nube sacra di Dio li avvolge nell’ombra. Sul monte – nel dialogo di Gesù trasfigurato con la Legge e i Profeti – essi riconoscono che la vera festa delle Capanne è arrivata. Sul monte apprendono che Gesù stesso è la Torah vivente, l’intera parola di Dio. Sul monte vedono la «potenza» (dynamis) del regno che viene in Cristo.

Tuttavia, proprio nello spaventoso incontro con la gloria di Dio in Gesù devono imparare ciò che Paolo dice ai discepoli di tutti i tempi nella Prima Lettera ai Corinzi: «Noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio [dynamis] e sapienza di Dio»(1,23s). Questa «potenza» (dynamis) del regno futuro appare loro nel Gesù trasfigurato che parla con i testimoni dell’ Antica Alleanza della «necessità» della sua passione come via verso la gloria (cfr. Lc 24,26s). Vedono così la Parusìa anticipata; vengono così iniziati pian piano all’intera profondità del mistero di Gesù.
J. Ratzinger-Benedetto XVI “Gesù di Nazaret, pg. 352-366