La crisi economico-finanziaria globale ha particolari ripercussioni sull’Africa meno sviluppata

Immagine

Venerdì 29 marzo 2024
Le vicende finanziarie a livello internazionale, soprattutto a seguito della crisi russo-ucraina, sono sintomatiche di un fenomeno che sta penalizzando l’economia mondiale, in particolare quella africana: la bolla globale del debito. (...) [Padre Giulio Albanese – L’Osservatore Romano]

La bolla del debito

Le vicende finanziarie a livello internazionale, soprattutto a seguito della crisi russo-ucraina, sono sintomatiche di un fenomeno che sta penalizzando l’economia mondiale, in particolare quella africana: la bolla globale del debito. Senza considerare quella causata dai derivati finanziari, prendendo dunque in esame quella pubblica, delle imprese e delle famiglie, sarebbe aumentata lo scorso anno di circa 15.000 miliardi di dollari. Una cifra che ha portato il debito globale del mondo all’astronomica cifra di 310.000 miliardi. La fonte che ha rivelato questo pernicioso trend, l’Institute of international finance, è attendibile se si considera che è l’associazione delle maggiori istituzioni finanziarie del pianeta con sede a Washington. A questo proposito, Paolo Raimondi, economista che da anni segue come studioso l’evolversi di questo fenomeno, ritiene che le conseguenze della progressiva e irrefrenabile crescita della bolla rischino di essere catastrofiche per i Paesi svantaggiati, soprattutto quelli africani.

Ma andiamo per ordine. La preoccupazione principale sta nel fatto che negli Stati Uniti dal giugno 2023 ogni cento giorni il debito pubblico aumenta di ben mille miliardi di dollari. «I dati sono eloquenti — afferma Raimondi — considerando che dal 2014 a oggi, il debito americano è raddoppiato, passando da 17.000 miliardi all’attuale cifra di 34.500 miliardi». A fronte dell’insostenibilità del debito, molti analisti propongono la riduzione del cosiddetto deficit di bilancio, che in sostanza implica tagli significativi alla spesa pubblica, senza naturalmente minimamente scalfire i costi determinati dall’industria bellica. Questo di fatto già sta avvenendo e implicherà sempre di più un giro di vite sul welfare, dunque sulle spese sanitarie, sull’istruzione, sui trasporti, eccetera, penalizzando i ceti meno abbienti e la cosiddetta middle class o media borghesia che dir si voglia.

Di fronte a questo scenario, le turbolenze sui Paesi svantaggiati, in primis quelli africani, sono tali per cui, già oggi, essi sono coloro che più di altri ne pagano le conseguenze. Stiamo parlando di economie con alti tassi di informalità e quindi scarsi introiti fiscali, forte dipendenza verso l’estero per i beni essenziali e quindi alta esposizione alle oscillazioni dei prezzi internazionali, necessità di contrarre prestiti in dollari o in euro con conseguente dirottamento di gran parte degli introiti da esportazioni al pagamento del servizio del debito.

«Tutto questo disordine si è acuito — spiega Raimondi — da quando i governi africani, hanno sostituito su istigazione delle istituzioni finanziarie internazionali il debito multilaterale a basso costo e lungo termine con un debito verso creditori privati (assicurazioni, banche, fondi di investimento, fondi di private equity) molto più oneroso e a breve termine». Ecco che allora il debito di cui sopra, non solo è diventato più costoso, ma è anche stato letteralmente finanziarizzato con il risultato che il pagamento degli interessi è inscindibilmente legato alle attività speculative sui mercati internazionali.

Questo ha comportato costi di servizio del debito e rischi di rifinanziamento più elevati con il risultato che la cifra assoluta del debito africano ha raggiunto i 1.140 miliardi di dollari. Si tratta di un valore assoluto certamente inferiore a quello delle economie avanzate. È però una cifra debitoria elevata se raffrontata al valore complessivo del Pil africano che è di circa 3 trilioni di dollari. Per avere un confronto, basti pensare che quello dell’Unione Europea (Ue) è di 16 trilioni e mezzo.

Morale: proprio perché per i privati vige solo la legge di mercato che in nome del rischio e dell’azzardo speculativo impongono ai poveri tassi sempre più alti rispetto a quelli applicati ai ricchi, si genera un meccanismo a dir poco vessatorio. Si fa presto a dire che esistono, come insegnano i guru dell’economia finanziaria, “debiti buoni” se usati per investimenti produttivi e “cattivi” se usati per consumi correnti. In linea di principio sarà anche vero, ma non dimentichiamo che se il debito è troppo costoso sarà sempre e comunque alla prova dei fatti “cattivo”, perché finirà per alimentare se stesso. Questo meccanismo a spirale fa sì che i governi del Global South, in particolare quelli africani, non essendo in grado di pagare gli interessi, cerchino di coprire le falle ricorrendo a nuovo debito. Ma ogni nuovo debito produce nuovi interessi che a loro volta producono altro debito, in un crescendo senza fine.

Tutto questo con il risultato che mentre in Africa l’inflazione è cresciuta alle stelle e l’innalzamento dei tassi d’interesse ha reso a dir poco onerosa la vita della gente, sui mercati internazionali, la speculazione regna suprema. Non a caso Standard&Poor’s 500, il più importante indice azionario della borsa di Wall Street, ha sfondato ampiamente il punto massimo storico di 5.000 punti. L’euforia è dovuta, almeno in parte, all’effervescenza dei titoli legati alle imprese dell’intelligenza artificiale. «Per esempio — spiega Raimondi — il produttore di chip AI Nvidia ha registrato l’incredibile crescita dei ricavi del 265 per cento nel quarto trimestre 2024, facendo salire più del 60 per cento il prezzo delle sue azioni da inizio anno».

Ma attenzione, qui entra in gioco la bolla speculativa che alla prova dei fatti, sempre secondo l’analisi di Raimondi, sta “drogando” le piazze finanziarie. Il rischio dunque è che si ripeta quanto avvenne a Wall Street nel 2000 con il crac finanziario dei titoli IT (Information technology). Ancora una volta dunque si pone il problema della de-regulation, di una finanza per così dire “allegra” che sfugge ai controlli della politica e delle banche centrali di mezzo mondo. È evidente che in linea di principio, come abbiamo già detto, i debiti non sarebbero un problema se servissero a sostenere gli investimenti per lo sviluppo industriale e tecnologico. Il problema è che oggi sono prevalentemente speculativi e sganciati dall’economia reale; in questi casi crescono in maniera sproporzionata, penalizzando i ceti meno abbienti a qualsiasi latitudine essi siano.

La vera sfida, guardando al futuro, riguarda la messa a punto di strumenti atti a contenere le varie forme di speculazione. Da questo punto di vista, come già scritto ripetutamente su questo giornale, siamo ancora in alto mare perché i grandi attori internazionali si limitano o a ridurre il valore attuale netto del debito tramite l’estensione della data di maturazione delle obbligazioni, sospendendo momentaneamente il pagamento d’interessi, o attraverso il cosiddetto haircut, che consiste nel taglio del valore nominale del debito.

Questi provvedimenti servono purtroppo solo a dilazionare il problema, senza affrontarlo in modo sistemico. Basterebbe ad esempio che si passasse alla certificazione da parte delle autorità pubbliche di tutti i prodotti che provengono dall’innovazione finanziaria, provando una volta per tutte a regolamentazione il sistema finanziario. La sfida sta proprio nel promuovere un coordinamento sovranazionale che dichiari illegittimi quegli atti il cui fine sia l’aggiramento delle norme vigenti che generano una speculazione fuori controllo. La dice lunga il fatto che il “sistema bancario ombra” sia fuori controllo, per non parlare della finanza offshore che com’è noto offre grandi possibilità di evasione e di elusione fiscale. Il contrasto alla povertà e ad ogni forma di esclusione sociale non può prescindere da queste considerazioni.

P. Giulio Albanese – L’Osservatore Romano