Martedì 10 febbraio 2015
In preparazione al prossimo Capitolo Generale, P. Carmelo Casile condivide una sua riflessione intitolata “Alcuni nodi da sciogliere all’interno dell’Istituto”, auspicando che possa essere utile a qualche confratello. “Tento di individuare – scrive il missionario – alcune cause che a mio parere ci portano all’indebolimento del nostro incontro con il Signore, e quindi a situazioni di fallimento e alla perdita della gioia del vangelo”. Nella foto: P. Carmelo Casile, uno dei due formatori nello scolasticato comboniano di Casavatore, in Italia.


ALCUNI NODI DA SCIOGLIERE

ALL’INTERNO DELL’ISTITUTO


per vivere la gioia del Vangelo nel mondo di oggi

Per “vivere la gioia del Vangelo nel mondo di oggi”, abbiamo bisogno di parlare concretamente di vita spirituale o di spiritualità all’interno del nostro Istituto; dobbiamo avere il coraggio di trovare il tempo e il modo per abbordare apertamente alcuni nodi da scogliere o malintesi da chiarire circa il nostro itinerario spirituale. La mancanza di questo coraggio sta mettendo a dura prova la nostra vita di missionari comboniani, in particolare nell’ambito della promozione vocazionale, della formazione di base e permanente.

Una conferma di ciò possiamo trovarla nelle «Considerazioni per il Segretariato AMEV», del P. Giovanni Munari nel Notiziario della Provincia italiana (n. 5/2014, pp. 36-38), in cui afferma: «C'è un aspetto che mi mette in profonda discussione: la prospettiva missionaria dell'Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium e di papa Francesco in quest'anno e mezzo di pontificato. […] Il papa parla di un cristianesimo che va vissuto in un certo modo, o lo si tradisce. Fa riferimento più agli “atteggiamenti" che agli "ambiti". La missione non può riprodurre cose vecchie e ammuffite ma deve rispondere in modo sempre più nuovo alle attese e aspirazioni dell'umanità di oggi. E lo si fa non cambiando posto (a volte può essere necessario!) o andando dove non si era mai andati, ma andando diversamente. […] Nella pratica cambiamo pochissimo e sempre con moltissime resistenze. Il papa dice che per rinnovarsi bisogna andare alla fonte della novità che è l'incontro con il Signore. Oso dire che questo sia il nostro grandissimo punto debole. In parte i segni di un "fallimento" (almeno in Italia) ce li abbiamo tutti, basta guardare i numeri delle vocazioni (non è vero che ci sia crisi; per molte realtà ecclesiali le vocazioni ci sono, e come!), l'impatto sempre più scarso che abbiamo tra la gente e – fenomeno per me molto preoccupante – il volume di "patologie" che ci portiamo addosso. […] Papa Francesco parla di un rinnovamento della chiesa che nasca da un rinnovamento delle persone. […] La sfida vera […] è quella di diventare noi in qualche modo portatori del nuovo che il papa chiede alla chiesa. Perché altrimenti finiamo esattamente in quello che lui condanna, che è il guardare dall'esterno come se della chiesa o dell'istituto noi non facessimo parte o non fossimo degli ingranaggi fondamentali che, se non funzionano come si deve, inceppano tutto il sistema».

Nelle note che seguono tento di individuare alcune cause che a mio parere ci portano all’indebolimento del nostro incontro con il Signore (RV 20; 20.1; 46), e quindi a situazioni di “fallimento” e alla perdita della “gioia del vangelo”.

1. La nostra vita spirituale appare debole e bisognosa di discernimento

Ho l’impressione che questa debolezza nasca dal fatto che le risposte alle sfide della missione scaturiscano da un annuncio del Vangelo inteso più come un manuale di morale che porti all’impegno sociale che dall’incontro personale con il Signore Gesù, per portare il suo Nome alle nazioni con tutte le conseguenze che nascono da questo annuncio nei vari versanti dell’esistenza umana, incluso quindi anche quello sociale, che ha dato origine alla dottrina sociale della Chiesa.

Intesa prevalentemente in chiave morale, la missione è vissuta come un esserci nel mondo per la storia, sancito dalle necessità del mondo attuale, più che l’annuncio del «Mistero di Gesù di Nazaret, figlio di Dio» (cfr. RV 59); appare come un ministero sociale da scoprire sempre e nuovamente, dove il messaggio evangelico fa da cassa di risonanza a un sistema di valori “sostenibili”: dalla cooperazione alla solidarietà, dalla sobrietà alla salvaguardia del creato; dove il messaggio evangelico è ridotto a fare da veicolo di un’etica globale ripulita di qualsiasi riferimento alla Trascendenza, cioè da quella forza interiore che spinge da sempre l’uomo ad andare al di là di ciò che gli offre il presente per costruire un mondo secondo il progetto missionario di Dio[1], che risplende nell’annuncio chiaro e umile di Gesù Cristo, che è venuto in questo mondo per offrire all’uomo “la liberazione integrale”, che “trova il suo compimento e consolidamento nella piena comunione con Dio Padre e tra gli uomini” (cfr. RV 61; Gv 10,10)[2].

In questa visione riduttiva della missione, si elude il difficile e costoso viaggio verso la propria interiorità per trascendersi in Dio per Cristo (Cfr RV 46); la Chiesa come istituzione e in essa lo stesso Istituto Comboniano con il “suo patrimonio spirituale” (RV 1.4) possono diventare ingombranti; del carisma comboniano si selezionano gli elementi che più corrispondono alle proprie idee, il contenuto e il dinamismo del carisma ce li mettiamo noi, man mano che ci inoltriamo nella missione incalzati dalle sfide del mondo attuale globalizzato; la spiritualità diventa così un sistema di pensiero forte, “intelligente”, forgiato con la lettura dei segni dei tempi per cambiare il mondo.

Per dare forza a queste posizioni, si stigmatizzano i pericoli del devozionismo, dello spiritualismo, del ritualismo. Certo questi pericoli sono reali e possono portare la vita spirituale alla deriva fino a farla diventare un insieme di pratiche religiose asfittiche, ma non per questo si possono sottovalutare in un sano cammino spirituale senza gravi conseguenze per la vita spirituale personale e comunitaria. In questo campo non serve procedere con ragionamenti a scudisciate o a suon di scure, ma c’è bisogno di un impegno personale e comunitario, sistematico e paziente, rimanendo fedeli alla scuola della Liturgia della Chiesa, della pietà polare, e aperti a tante scuole di preghiera e movimenti di vita spirituale esistenti oggi nella Chiesa, nei quali la dimensione missionaria è una conseguenza logica dell’incontro con il Signore, che non trascura la lettura di quei “segni dei tempi” che il missionario incontra nel suo cammino di fede nel mondo e per il mondo (cfr. RV 16).

Personalmente sono convinto che in questa prospettiva la nostra Regola di Vita non è affatto obsoleta e ci offre le motivazioni e mezzi necessari per mantenerci “in crescita per tutta la vita” (cfr. RV 80-85), così che possiamo vivere il nostro presente con efficacia a servizio del Regno di Dio.

In effetti, nel cammino della vita spirituale, se manca un impegno guidato da una visione completa ed equilibrata nei suoi vari elementi, si può cadere nel formalismo spirituale pietistico o nel formalismo di stampo ideologico. Si tratta di due posizioni antitetiche e ambedue mortifere, che confluiscono però nella autoreferenzialità.

1.1. Il formalismo pietistico

Il formalismo spirituale pietistico è quel modo di andare verso Dio, in cui il credente vive la vocazione in prevalenza come ricerca di sistemarsi nel mondo e rifiuta quindi di distaccarsi da se stesso e di abbandonarsi in Dio; non mette in gioco la propria interiorità, trincerandosi in un egoismo, che cerca in Dio la propria soddisfazione; invece di servire Dio e quindi i fratelli nella Chiesa, vive la vocazione come frutto di un progetto umano, si serve così di Dio e della sua Chiesa e mette i fratelli a suo servizio…; anche i poveri corrono questo rischio…

La vita spirituale è sempre vocazione all’Amore, ricevuto e donato in Cristo. La vocazione non è una scelta, è l’essere scelti: “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi” (Gv15, 16).

Per realizzare l’abbandono di se stessi a questo “Amore”, ricevuto e donato in Cristo, bisogna andare a Lui portando se stessi integralmente, cioè «con tutto ciò che si è, la propria carcassa, il proprio spirito, la propria anima, … le grandezze e le debolezze, il passato di peccato e le grandi speranze per il futuro, le tendenze più basse e più violente... tutto, tutto, poiché tutto deve passare attraverso il fuoco. Tutto deve essere insomma integrato per fare di sé un essere umano capace di entrare anima e corpo nella conoscenza di Dio.

Dio vuole davanti a sé un essere reale che sappia piangere e gridare sotto l'effetto della sua grazia purificatrice. Vuole un essere che conosca il prezzo dell'amore umano e l'attrazione dell'altro sesso. Vuole un essere che senta anche il desiderio violento di resistergli, perché no?.. È un essere umano reale che Dio vuole vedere davanti a lui, senza di che la sua grazia non avrà niente da trasformare. Ora il male sta qui: troppi, tra coloro che si donano a Dio, hanno semplicemente offerto alla sua azione una personalità presa a prestito... Non bisogna stupirsi se un giorno si accorgono di essere fatti per altre cose».

Essere completamente presenti, nella piena integrità della propria persona, non è ancora sufficiente per cominciare il cammino verso Dio: «è necessario mettersi in un accordo totale, anima e corpo, con il grande corpo di Cristo che è la Chiesa, vivere con essa, ascoltare in essa le pulsazioni gigantesche che scandisce la sua vita liturgica, nei suoi insegnamenti, nei suoi sacramenti, nella sua costante attenzione... Vivendo al ritmo della Chiesa è facile orientare tutto il nostro essere verso il Signore e vivere nella speranza di sentire presto la mano di Dio posarsi su di noi.

E poiché il fine a cui conduce il cammino si perde in Dio e nessuno lo conosce se non colui che viene da Dio, Gesù Cristo, occorre, pur ascoltando i maestri che incontriamo, fissare gli occhi su Cristo solo. Egli è la via, la verità e la vita. Lui solo d'altronde ha percorso il cammino nei due sensi. Dobbiamo mettere la nostra mano nella sua e partire.... »[3]. Allora saremo veramente discepoli missionari.

1.2. Il formalismo religioso di stampo ideologico

È importante notare che accanto al “formalismo pietistico”, può esistere anche un “formalismo ideologico”. Questo si ha quando la ricerca di Dio è intesa come ricerca di sistemare il mondo in nome di Dio, come capacità di prendere distanza da noi stessi, dalle nostre idee, dalle nostre stesse aspirazioni e ruoli…, di saper convivere con il differente, in virtù di un imperativo etico-morale che può anche nascere da un contatto con il Vangelo, senza però entrare con tutto il proprio essere nella dinamica del Mistero Pasquale, crogiuolo del cammino spirituale col suo percorso di passione, morte e risurrezione. Si vuole vivere da risorti, o si vuol vivere lo spirito di Pentecoste, senza sperimentare con Cristo il mistero della vita che nasce dalla morte (cfr. RV 35.3) e che culmina nell’esperienza del Cenacolo (cfr. RV 36.3).

Il “formalismo ideologico” [4] ha l’aspetto di un cammino di liberazione, ma è micidiale per la vita spirituale tanto quanto il “formalismo pietistico”.

San Paolo ci avverte: «Anche satana si maschera di angelo di luce» (2Cor 11, 14). Perciò, ci esorta: «Esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono» (1Tess 5, 21).

Il rischio del “formalismo ideologico” è quello di essere attaccati alla propria missione[5], al successo e al protagonismo, all’appagamento che proviene dall’opera che si svolge; è quello ancora di presumere di dovere sapere e fare tutto per gli altri, di poter dire a tutti che cosa debbono pensare e come debbono vivere. Ma resta vero che «chi cerca di fare ed agire in favore degli altri, o del mondo, senza approfondire la conoscenza di sé, la propria libertà, integrità e capacità di amare, non avrà niente da dare agli altri. Comunicherà loro nient’altro che il contagio delle proprie ossessioni, aggressività, delusioni riguardanti fine e mezzi e ambizioni, egocentriche»[6]. Abbiamo tutti bisogno, per tanto, di lasciarci sloggiare dalla corazza  in cui è prigioniero il nostro io, e andare verso gli altri non perché noi sappiamo tutto e meglio, ma perché abbiamo gustato la vita, perché abbiamo nelle narici l’odore dello Spirito e adesso questa vita la vorremmo scoprire e fomentare anche negli altri[7], convinti che il combattimento per conquistare la propria libertà interiore e l’impegno in favore degli altri non solo non si oppongono, ma sono l’una il volto dell’altro.

Un altro rischio inerente al “formalismo ideologico” è il ricorso alla fuga in avanti.

Dall’attaccamento alla propria missione e dal protagonismo missionario può nascere la paura di essere omologati. Ci sono allora  missionari che si sentono sempre uno o due passi avanti a tutti e dissentono dalla Chiesa o dalle direttive dell’Istituto, quando dicono o scelgono cose che a loro non piacciono.

Sta di fatto che la Congregazione si muove fin dall’inizio sulla via del connubio fede-civiltà, che comporta l’intreccio della fede con le dinamiche sociali.

Sarebbe logico quindi utilizzare la ricchezza che il passato ci offre, per affrontare le sfide del contesto in cui viviamo e proiettarci nel futuro.

Piuttosto che fuggire in vanti, la strada da seguire è mettersi in ascolto di Cristo nella Chiesa e con la Chiesa per affrontare le sfide di oggi; dobbiamo mettere la nostra mano nella mano di Gesù e camminare con Lui ascoltando, imparando e annunciando....

Per la paura di essere omologati, alcuni sono sempre alla ricerca di novità senza mai accettare di rinnovarsi, e quindi di mettere in gioco se stessi e ripartire sempre di nuovo da Cristo per andare incontro al mondo di oggi.

«Io sono fermo ed irremovibile nel mio principio di fare, e poi di parlare: caepit Jesus facere et docere; e mai imiterò quelli che progettano e chiacchierano, e pubblicano dieci prima di aver fatto tre» (S. D. Comboni, S 6449).

In effetti, al di fuori dell’incontro personale con Cristo, vissuto e approfondito continuamente (cfr. RV 21.1), Gesù può essere cercato con mentalità secolarizzante come un esempio, o un grande leader dell’umanità capace di stimolare la crescita della persona nella dimensione della solidarietà e di offrire anche all’uomo di oggi idee eccezionali che stanno alla base di movimenti politici, culturali, filantropici, religiosi, ecc. C’è quindi il rischio che il Vangelo diventi solo un messaggio sociale, che promuova solo una liberazione umana, senza l’incontro con il Liberatore, Gesù di Nazaret, il Messia Crocifisso-Risorto per la liberazione integrale dell’uomo (RV 61).

1.3. La spinta della “spiritualità della liberazione” al superamento del formalismo pietistico e ideologico

Del rischio del formalismo pietistico o ideologico se n’era accorto P. Segundo Galilea, sacerdote cileno, morto il 27 maggio 2010  e commemorato da Nigrizia nel numero di maggio 2011, p. 63. È uno dei pionieri della teologia della liberazione e uno dei primi ad affermare la necessità di motivare l’impegno per le librazioni sociali con una profonda vita spirituale, aprendo così la strada alla “spiritualità della liberazione”.

Di lui Mariangela Mammi traccia un interessante profilo nel libro “Luci di speranza”, (Ed. EMI, 2011, pp. 65-82), con l’intento di rispondere alla domanda: “Quale missione nel nostro tempo di crisi?”

Prima di lei, Maria Barbagallo aveva pubblicato un articolo nel “L'Osservatore Romano” (26-27 luglio 2010) dal titolo: “In mano una valigia e nel cuore Gesù”, in cui emergono i tratti fondamentali della vita spirituale missionaria vissuta dal P. Segundo Galilea.

Padre Galilea appartiene a quel periodo storico in cui la teologia della liberazione era la grande protagonista in America Latina e si diffondeva nella mentalità teologica della Chiesa e nel mondo. Come teologo della teologia della liberazione, non fu mai un estremista, ma visse il suo impegno nell'adesione fedele a Gesù Cristo e alla Chiesa e la sua predicazione instancabile aveva al suo centro Gesù di Nazaret, la Chiesa, la missione, l'evangelizzazione. Fu uno dei primi che ebbe subito la lucidità necessaria per rendersi conto che l'impegno socio-politico dei cristiani per la liberazione aveva bisogno di un solido fondamento spirituale.

Perciò desiderava che la teologia della liberazione avesse un'anima ben fondata nella sequela a Gesù Cristo, unico e vero salvatore e liberatore, e che il popolo cristiano si mantenesse strettamente unito a Gesù Cristo con la preghiera e la contemplazione. La sua proposta per una vita spirituale cristiana è riassunta in questi termini: "Se vogliamo una Chiesa più missionaria, più coerente e testimoniale, più partecipativa nella comunione, significa che vogliamo una Chiesa più spirituale, più orante e più contemplativa, cioè più bella, che, come Gesù, sia il Vangelo del Padre per la forza dello Spirito".

Questa era la sua mistica: l'adesione al Dio della vita rivelatosi in Gesù di Nazaret. Per questo suo impegno più d'uno lo definì il "padre spirituale dell'America Latina".

In un'intervista dove esplicitamente gli chiedevano se lui poteva dirsi un teologo della liberazione, rispose: "La teologia della liberazione è stata caricata di politica e ideologia, ma ha mancato di mistica, e questo è stato il mio contributo". Nella stessa intervista, alla domanda se il messaggio spirituale possa trovare seguaci in un mondo così materialista, ha risposto: "La spiritualità è uno degli argomenti sopra i quali io porto la mia riflessione in quello che scrivo. Credo che a ogni cristiano questo interessi molto".

L’epicentro della sua mistica missionaria era l'adesione a Gesù, povero e obbediente, nel tentativo di portare la gente di Chiesa a riflettere che non esiste dinamismo missionario senza una radicale adesione a Gesù Cristo. Per Secondo Galilea «il paradigma della missione, ovvero della vita di ogni credente che non può non essere missionario, è la persona di Gesù: il cristiano è colui che pensa e agisce come Cristo, anzi, è inserito in Lui: “La missione è sequela, Cristo è il modello unico della missione”».

Il suo tema preferito era la "misericordia di Dio" che si china su noi, sulla nostra miseria per elevarci a lui. Da qui la sua insistenza nella sequela di Gesù in obbedienza alla Chiesa che ne spiega, secondo i tempi, una modalità sempre più profonda.

Una di queste modalità è l’"inserimento" (o inserzione) della comunità missionaria tra la gente, e lo spiegava così:

«L' "inserimento" è un tema che va acquistando sempre più importanza sia nella teologia che nella pastorale, nella vita religiosa e nella spiritualità del cristianesimo contemporaneo. Esso è stato motivato dal rinnovamento missionario degli ultimi quarant'anni, e dalle sfide della crescente secolarizzazione e scristianizzazione delle società, oltre che dalle emergenti maggioranze di poveri ed emarginati. Di fronte a questa situazione, la missione ha dato maggior accento alla dimensione del dialogo, della testimonianza, del servizio solidale e della ricerca dei più poveri e diseredati, "le pecore senza pastore" (Mc 6, 34). Tutto questo esige l'inserimento della comunità apostolica nei diversi contesti, perché non si evangelizza né si redime quello che non viene assunto in Cristo e non si condivide come condizione umana: "Quello che non è assunto non è redento", secondo un antico principio di sant'Ireneo sulla incarnazione».

Era anche convinto che: «Non c'è carità integra e universale senza fede. Certo, c'è l'amore e l'umanitarismo in molte persone che non hanno fede, perché questo fa parte della natura umana che è immagine di Dio, e lo Spirito Santo, d'altra parte, in qualche modo agisce in tutti. Però questo amore sarà sempre parziale e precario, avrà sempre orizzonti limitati. L'apertura alla fede per queste persone, da una parte può significare la necessità di mantenere l'autenticità del loro umanitarismo e del loro amore, e d'altra parte la possibilità di slanciarsi verso la pienezza e la potenzialità della carità che esiste nel cuore umano e che attende, per potersi accendere, la scintilla che produce la conversione alla fede».

Un tratto che distingue Segundo Galilea è il suo grande senso ecclesiale e il suo grande rispetto per la tradizione: egli raccoglie tutto ciò che è valido della spiritualità del passato e lo incorpora alle acquisizioni della teologia e della cultura attuali. È cosciente che gli strappi violenti quasi mai sono vantaggiosi. La vita, infatti, è sintesi e questa, alla fine, quasi sempre finisce per imporsi. Da questa convinzione nasceva in lui la passione per i mistici spagnoli, che hanno segnato la vita cristiana dell’America Latina.

Ho avuto la grazia di ascoltare P. Segundo Galilea in Messico in due Assemblee per formatori comboniani; sono stati due incontri che hanno segnato il mio cammino come missionario e formatore fino ad oggi.

È una figura che ha influito nella vita, nel pensiero e nell’opera di Mons. Franco Masserdotti. Questa influenza si può facilmente costatare nel suo libro “Spiritualità missionaria. Meditazioni” (EMI 1989), dove non è difficile notare i punti di contatto con il libro di Galilea che ha per titolo “El camino de la espiritualidad” (Bogotà 1982). Da questo libro riporta la definizione di spiritualità che si trova a p. 18 e che Segundo Galilea dice che gli è stata suggerita da un operaio:

«Segundo Galilea afferma che la vita spirituale è simile ad un prato verde costituito dalle nostre attività, idee, visioni, progetti… cioè dal nostro impegno di vita: La spiritualità cristiana è come l’acqua che mantiene il prato umido, sempre verde e in crescita. Non vediamo l’acqua (vediamo solo il verde), ma senza di essa il prato diventerebbe secco» (p. 11).

A questo punto, alla luce della testimonianza di Segundo Galilea e dello stesso Mons. Masserdotti, è chiaro che il Cristo storico è il Signore Gesù che professiamo nel Credo; è il Crocifisso-Risorto, Spirito datore di vita, che ci incontra con il Battesimo e ci fa membri della sua Chiesa e partecipi del mandato missionario che ad essa affida, dotandoci di un carisma particolare nella Chiesa per il mondo.

Per tanto, il momento decisivo della vocazione del missionario è il suo incontro con il Signore Risorto (cfr. RV 21.1-2).

Il cammino per realizzare questo incontro è la preghiera o meglio la contemplazione dei Misteri della vita di Cristo così come sono presentati dal Vangelo.

Siamo, infatti, chiamati a essere con Cristo, prima che a fare qualcosa per Cristo. La chiamata dei Dodici è chiara: Gesù li chiamò a seguirlo, cioè a rimanere con Lui e a essere mandati da Lui nel mondo, condividendone il destino (RV 21). Essi, prima di fare qualcosa per Cristo, furono con Cristo. A Giovanni e Andrea che gli chiedevano: “Maestro, dove abiti”, Gesù rispose: “Venite e vedrete”, cioè propose loro di “essere” con Lui, prima che di “fare” qualcosa con Lui.

Quanto a noi rimaniamo in Cristo attraverso la contemplazione dei misteri della sua vita. Allora il Cantico del prologo della 1ª Lettera di Giovanni è destinato a divenire il Cantico del discepolo missionario:

“La Vita si è fatta visibile,
io l’ho vista e ne sono testimone e vi annuncio la Vita eterna.
Era presso il Padre e si è resa visibile a me.
Quello che ho visto e udito, io lo annunzio anche a voi
perché anche voi siate in comunione con me,
col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo.
E vi annuncio queste cose perché siate nella gioia perfetta
e la mia propria gioia sia perfetta”
(1Gv 1, 1-4).

1.3.1 Il cammino di vita spirituale proposto nel Documento Conclusivo di Aparecida

Il superamento del formalismo spirituale pietistico o di stampo ideologico possiamo coglierlo nel cammino di vita spirituale proposto dal Documento di Aparecida (2007):

Chiamati all’incontro con Gesù Cammino, Verità e Vita, che ci fa discepoli missionari, in comunità, per annunciare il Vangelo.

I diversi elementi che compongono la tematica del Documento, si sviluppano in tre coordinate fondamentali e articolate tra esse: chiamata alla santità e configurazione a Cristo (conversione), comunione nella Chiesa, missione a servizio della vita piena. Si tratta di tre atteggiamenti basici, che sono ordinati direttamente e intrinsecamente al gran tema dell’incontro con Gesù Cristo, come alla sua fonte e radice. Come lo dimostra chiaramente la parola di Dio, i tre atteggiamenti basilari enunciati nascono dall'incontro personale col Figlio di Dio fatto uomo. È Gesù che invita gli uomini e le donne di tutti i tempi a quel cambiamento di vita (metanoia: cf. Mc 1, 15), che è il primo passo per entrare in comunione (koinonia) con lo stesso Signore Gesù e con i suoi discepoli (cf. At 2,42). La comunione dei credenti in Cristo si orienta, finalmente, seguendo le orme del Servo di Dio, a vivere in solidarietà e servizio (diaconia) con tutti e specialmente coi più piccoli (cf. Mt 25,40).

Dato che l'incontro con Gesù Cristo è l'origine della conversione, della comunione e della missione, ognuna delle rispettive parti del testo dà particolare importanza agli effetti di questo incontro nella vita personale e comunitaria dei credenti:

  • Solo attraverso la configurazione a Cristo per mezzo della conversione al Vangelo sono possibili la vera comunione e l'autentica missione;
  • la comunione con Cristo e con la sua Chiesa è, contemporaneamente, la base per una continua conversione personale ed il fondamento sul quale si realizza la missione;
  • la missione, in quanto annuncio del Vangelo a servizio della vita piena, evidenzia quale è il fine verso il quale convergono la conversione e la comunione.

2. Un malinteso concetto di consacrazione circola anche in mezzo a noi

In una sua riflessione pubblicata il 30 luglio 2013 su “comboni.org”, dal titolo “CAMMINI DI RICONCILIAZIONE NELLA NOSTRA STORIA DI ISTITUTO”, P. Alberto Pelucchi, Vicario Generale, ci pone una domanda-provocazione: - “Religiosi” o (solo) missionari; le due cose assieme, oppure…?, e riassume la questione in questi termini:

«Da quando sono entrato nei Missionari Comboniani è stato uno dei temi e dibattiti più ricorrenti di cui posso fare memoria. Così come innumerevoli sono le ragioni che mi sono state presentate pro e contro l’una o l’altra tesi. Facendo appello alla volontà del Fondatore in una prima istanza, poi riveduta e corretta alla luce di nuove lettere e testimonianze. “Partire dalla missione”, si sente spesso dire. “Sì, però la Regola di Vita parte dalla vita religiosa e solo poi si arriva alla missione”, notano altri. Di quale missione parliamo poi? La missione vissuta in modo molto individualistico o come comunità in cui si condivide tutto? “Tutto ma non tutti i soldi, lasciatemi dire”, specificano altri. “Attenzione allo spirito fratesco da cui Comboni metteva in guardia i suoi”, aggiungono altri, e via dicendo.

Non so se oggi siamo arrivati a una vera sintesi o se la questione è stata semplicemente messa da parte, in stand-by. È un conflitto che ha portato a frutti e richiami buoni, ma che, ho il sospetto, ha anche offerto scusanti a debolezze e fragilità che avevano e hanno a che fare più con la natura umana che con il desiderio di maggiore fedeltà alle chiamate ed esigenze della missione e della vita religiosa».

Questa costatazione fa eco alla Ratio Missionis (Settembre 2012). In essa, nel nostro darci da fare per trovare nuovi spazi di missione, ci viene segnalato il fatto che questo nostro sforzo sarà insufficiente, se ci manca il coraggio di includere anche le “periferie esistenziali” di casa nostra. Una di queste periferie ce la indica al n. 3.1.3, dove rileva che se, da una parte, concordiamo sull’importanza di una sana vita spirituale, dall’altra, si denota come la nostra spiritualità sia debole e incerta e ciò comporti delle pesanti conseguenze”. Tra le varie conseguenze si stigmatizza il fatto che si vive una certa schizofrenia tra il fare missione e la nostra dimensione di religiosi consacrati, tra fede e vita”. Per superare questo ostacolo viene suggerito che “ogni comboniano si impegni in una lettura feconda della RV” e “la comunità faccia una lettura continuata per una riflessione condivisa”.

Quanto a me, sono entrato nell’Istituto direttamente in Noviziato dal Seminario, dopo aver completato lo studio della Filosofia. Durante il periodo del Noviziato e poi dello Scolasticato (1959-1964) non mi sono accorto di questa questione. Provenivo dal Seminario Regionale di Reggio Calabria che era retto dai Gesuiti della Provincia di Napoli. Il Rettore e un Fratello incaricato della portineria erano stati molti anni missionari in India, ho visto arrivare e ripartire per l’India due Gesuiti, originari di Reggio Cal., e tanti altri missionari religiosi che visitavano il Seminario, tra i quali anche alcuni comboniani (i PP. Fare, Mazzoni e Bartolucci). In quegli anni per me la vita religiosa e la vita missionaria facevano un tutt’uno, era semplicemente vita missionaria; era questo il messaggio che arrivava a me da quegli uomini di Dio, attraverso i quali ho cominciato a sognare la missione. Devo però aggiungere che in quegli anni sono stato testimone di un episodio che è rimasto impresso nella mia mente. Facevo parte di un gruppo di seminaristi che si prendevano cura dei ragazzi di un quartiere povero vicino al Seminario. È arrivato il momento in cui avevamo bisogno di un Sacerdote per le confessioni di questi ragazzi. Il Rettore ci indicò il nostro professore di Filosofia. Quando gli abbiamo fatto la richiesta, si rifiutò dicendoci:« Io mi son fatto religioso per salvare la mia anima, non per confessare i ragazzi”. Riportammo la risposta al Rettore, che ottenne ciò che gli aveva chiesto…

Quando nel 1967 ho ricevuto la destinazione per la Missione in Mozambico, passando per Roma, andai a visitare il P. Spirituale dello Scolasticato, che conoscevo e stimavo, per comunicagli la mia gioia per la bella notizia ricevuta. Purtroppo in risposta ricevetti una doccia fredda, quando ha cercato di calmare il mio “impeto”, raccomandandomi di stare attento a “non perdere la vocazione religiosa”. Siccome per me la vita missionaria era intrinsecamente religiosa, la risposta fu istintiva e senza alcuna distinzione: “Preferisco perderla piuttosto che non viverla per paura di perderla!”

Partì con la consapevolezza di essere chiamato a vivere un'unica vocazione, cioè una vita missionaria offerta a Dio mediante i voti che avevo fatto.

La questione in modo esplicito e a volte polemico se siamo missionari o religiosi, se prima missionari e poi religiosi, ecc. ho cominciato a percepirla dopo il Capitolo del 1969 e quando ho cominciato a lavorare nel campo della formazione come incaricato del Noviziato.

Ho avvertito anche che la questione veniva estesa al ministero sacerdotale, adducendo che “noi non siamo preti diocesani”, ricorrendo così a una teoria di supporto per giustificare l’esercizio di un ministero sacerdotale “originale”, secondo i propri “gusti missionari”…

Eco di questa questione si trova in un recente scritto-testimonianza di un giovane missionario in Sud Sudan : Evangelizzare. Considerazioni Missionarie da Fangak (Sud Sudan) di P. Christian Carlassare (12 Novembre 2014).

P. Christian espone la questione in questi termini:

«Non vorrei essere frainteso. Non è mia intenzione distinguere l’attività pastorale dalle opere di promozione umana per elevare l’una a scapito dell’altra e creare così una innaturale dicotomia. Sento però commenti di questo genere: “Non siamo preti diocesani”, “noi non ci limitiamo alla pastorale da parroci”, “siamo per lo sviluppo integrale della persona”. Temo però che nella pratica rischiamo di essere assorbiti dalle domande del livello orizzontale usando quello verticale solo come motivazione di fondo; quasi come si fa con gli slogans in una campagna politica. E’ mia intenzione invece sostenere che l’attività pastorale e l’opera di promozione umana devono essere complementari come le due facce di una medaglia: entrambe a servizio dell’annuncio del Vangelo. La predicazione infatti non è un discorso che parla di Dio secondo i canoni di ciò che pensiamo buono e bello: un Dio addomesticato e a servizio dei diritti umani; ma una parola che chiama alla conversione e al dono di sé».

A questo riguardo sono stato testimone di un episodio significativo. Nell’assemblea continentale di formatori realizzata a Quito nel 1990, una sera abbiamo avuto un incontro con un gruppo di “giovani afro”. Durante l’incontro una ragazza ci ha fatto una domanda provocatoria, di cui ora non ricordo le parole esatte, ma il significato che mi è rimasto nella memoria era questo: «Perché voi che siete missionari, alla gente parlate di Gesù, le annunciate il Vangelo, la invitate alla conversione, ma verso di noi vi comportate in un altro modo: vi interessate della nostra cultura, dei nostri valori, della nostra promozione umana e non vi preoccupate di parlarci di Gesù, di annunciarci il Vangelo, di invitarci alla conversione, perché anche noi facciamo peccati e abbiamo bisogno di convertirci…». Alla sua provocazione è seguito un silenzio imbarazzante, rotto finalmente da una risposta evasiva, che non ha chiarito niente… Difatti ricordo ancora la domanda, mentre la risposta è svanita dalla mia memoria…

Da quando ho preso coscienza della questione, e stimolato dall’impegno nella formazione dei novizi, ho cominciato a riflettere espressamente su di essa, prendendo come punti di riferimento la Parola di Dio, il Concilio Vat. II, il successivo Magistero della Chiesa e la nostra Regola di Vita. Ho cercato di avvicinarmi a queste fonti con l’occhio di san Daniele Comboni e tenendo sempre in vista la Missione, in cui sono rimasto in certa misura sempre inserito durante gli anni di attività nella formazione.

Mi sono convinto che la consacrazione missionaria scaturisce dall’incontro con Dio in Cristo, che la Regola di Vita descrive negli elementi essenziali nei numeri 2-5; 20-21; 46 e 56.

La consacrazione è un evento nella storia della salvezza di un credente, che passa attraverso il suo cuore, luogo dell’incontro con Dio. Il cuore, infatti, è terra dell’uomo dove egli si agita, desidera e cerca Dio, ed è simultaneamente terra di Dio, che in essa si manifesta con il suo stile di Dio-Amore, Padre di tutte le genti. L’agitazione dell’uomo provoca l’intervento di Dio e l’intervento di Dio stimola l’instabilità e la precarietà dell’uomo nel suo desiderio di Dio, introducendolo nella profondità del suo Mistero, rivelandogli e coinvolgendolo in un particolare aspetto del suo piano di salvezza in favore dell’umanità.

In questa ottica, la consacrazione è una questione di cuore, una relazione di grazia e di dono di sé da parte di Dio, a cui corrisponde una relazione di rendimento di grazie e di libero dono di sé da parte dell’uomo. In questo rapporto d’appartenenza reciproca, mentre l’eletto sperimenta di essere amato e salvato da Dio, va prendendo gradualmente coscienza con chiarezza sempre maggiore, che Dio lo elegge per una missione soprannaturale da compiere, e si va mettendo in atteggiamento di totale disponibilità: “Eccomi, manda me!” (Cfr Is 6,1-8; S 2742). Relazione a Dio e ai fratelli, amati da Dio, costituiscono i due elementi inseparabili dell’esistenza consacrata: non l’una o l’altra, ma l’una come fondamento dell’altra.

Nello stesso tempo mi sono convinto anche del fatto che una fonte di disaggio nel cammino spirituale che si riflette poi nel cammino formativo di base e permanente, proviene proprio da un malinteso concetto di consacrazione, che riguarda sia la Professione religiosa sia la Consacrazione sacerdotale. È necessario notare, infatti, che concetti come vocazione, consacrazione, missione oggi sono termini anche “laici” con un significato differente rispetto a quello che hanno nel contesto religioso.

Così con il termine vocazione si è passati da un concetto che aveva per centro e protagonista Dio ad un concetto che ha come unico protagonista l'uomo. In questa prospettiva la vocazione non è una chiamata di Dio che coinvolge l'uomo in un progetto che lo trascende, ma la risposta dell'uomo alle sue esigenze interiori, in vista della propria realizzazione.

Allo stesso modo la consacrazione non è l'atto di Dio che prende possesso dell'uomo trascinandolo a sé e trasformandolo interiormente perché possa vivere le esigenze di un mondo superiore, ma è l'atto dell'uomo che si dedica così intensamente ad un determinato compito o progetto da lasciarsene totalmente assorbire. In questo senso, si dice che uno si "consacra" all’educazione dei giovani, o alla ricerca scientifica, a una missione di pace, ecc...

In questa prospettiva, per tanto, la missione è un compito che uno si assegna, un’opzione per una causa secondo le proprie propensioni.

Bisogna tenere presente questa diversità di significati, se non si vuole continuamente cadere in ambiguità ed equivoci nocivi, che purtroppo serpeggiano anche tra noi. Nel contesto laico, ad esempio, uno non riceve una vocazione ma se la dà; e come se la dà così se la può cambiare. Il fatto che uno parli di "temporaneità" della vocazione sacra non è che conseguenza di questa confusione di concetti! Lo stesso discorso viene fatto per quanto guarda la "consacrazione", con l'aggravante che, per il credente qui si tratta di un'autentica "contradictio in terminis"; se il "sacro" in effetti dice sempre rapporto con Dio, non si riesce proprio a capire come si possa parlare di consacrazione quando si fa riferimento solo ad un progetto o attività umana. Ma c'è di più. Quando si parla di consacrazione personale si vuole dire che la persona è totalmente presa, sequestrata, espropriata; ora non c'è nessun progetto o attività umana che possa giustificare un tal genere di vita. Perché questo sia possibile, è necessario che al centro ci sia sempre una persona, che sia affascinante. La conclusione è che si finisce col concepire la vita religiosa non come una "consacrazione" incondizionata a Dio per essere a sua disposizione, bensì come adesione a un progetto nella cui attuazione uno pensa di realizzarsi. Così, invece di mettersi a disposizione di Dio per la realizzazione di un suo progetto, ci si mette e si usa il progetto di Dio come mezzo per la realizzazione di se stessi. L’estrema conseguenza di tutto questo si verifica quando uno (per motivi i più svariati) non si ritrova più nel progetto abbracciato: il suo abbandono è presentato addirittura come una esigenza della fedeltà dovuta a se stessi.

In questo contesto laico, il concetto tradizionale della nostra consacrazione missionaria “ad vitam”, cioè della dedicazione del comboniano al servizio missionario per tutta la vita [usque ad mortem] (RV 10.1; cfr. Regole del 1871, Cap. II, S 2654;), diventa consacrazione per la vita, cioè “impegno a saper promuovere i valori della vita, specialmente dove questa è disprezzata e vilipendiata” (Quaderno di Limone n. 4, p.10).

Questo impegno certamente è parte integrante della nostra azione evangelizzatrice e la nostra Regola di Vita lo propone e lo descrive con chiarezza (RV 5; 60-61); lo fa derivare però dalla nostra sequela di Cristo (RV 21), intimamente legata all’umanità e alla sua storia (cfr. RV 16). Solo l’incontro personale con Cristo, rivissuto e approfondito continuamente nella comunione con Lui (RV 21.1-2), potrà garantire il nostro impegno “per la vita”, frutto di una gioiosa dedizione di se stessi al Cuore di Cristo “per tutta la vita” (RV 3-4; 10.1).

Il Superiore Generale attuale, P. Enrique Sánchez González, nel suo messaggio per la festa del Sacro Cuore del 2011, «LA MISSIONE CHE NASCE DAL CUORE», sottolinea che «il Cuore del Signore è il santuario dove siamo sfidati a vivere la rinuncia totale a noi stessi, lo svuotamento che ci fa diventare dipendenti dall’Altro e dagli altri; è il luogo preciso dove siamo chiamati a vivere dell’Amore (con la lettera maiuscola) per diventare capaci di vivere amando».

E chi impara dal Cuore di Gesù a “vivere amando”, vive impegnato “ad vitam”, cioè “per tutta la vita”, perché tutti abbiano vita e l’abbiano in abbondanza.

Nel valutare il contesto in cui si svolge il processo di maturazione del missionario comboniano che dura tutta la vita ( RV 85) nella comunità e per la comunità ( RV 84), dobbiamo prendere atto che le ambiguità su vocazione, consacrazione e missione circolano anche tra noi Comboniani di oggi. Questa situazione si manifesta:

  • Nell’individualismo, tante volte segnalato dai nostri Superiori;
  • nello slancio missionario inteso soprattutto come protagonismo liberatore e promotore di Giustizia/Pace e Conservazione del creato, mentre rimane nell’ombra la gratuità della consacrazione e l’esigenza della comunione, cioè della missione come frutto del coinvolgimento nell’amore di Dio per l’umanità e della risposta alla chiamata di Dio che crea la comunione nella comunità missionaria. Questi elementi teologali, quando ci sono, normalmente sono presenti a livello intellettuale, ma non sono integrati nel cuore e quindi non incidono nell’affettività e nel comportamento quotidiano; le motivazioni che determinano il comportamento, si rifanno più a un impegno morale nell’ambito sociale che all’impegno di identificazione con Cristo;
  • in un senso debole e poco significativo d’appartenenza alla Chiesa, in poca sensibilità per la vita liturgica e sacramentale (in particolare per il sacramento della riconciliazione), in un indebolito senso della necessità dell’annuncio cristiano.

In particolare, la consacrazione si trova in una situazione di penombra, soprattutto perché è legata alla forma giuridica della “vita religiosa”. Allora si sente ribadire che la vita religiosa non era presente all’inizio della nostra storia come missionari, e quindi per noi è qualcosa di laterale in rapporto alla missione, e costituisce un ostacolo all’apostolato. Nasce così la tendenza a vivere separatamente la vita religiosa e la vita missionaria, dando enfasi alla missione a detrimento della vita religiosa. Quando entriamo nel discorso della necessità di tornare alle radici, sorge spesso la questione se siamo prima religiosi e poi missionari o viceversa, a quale delle due realtà bisogna dare il primo posto ecc.

Nel valutare questa situazione bisogna tener presente che questo disaggio non è esclusivo del nostro Istituto e che proviene da molto lontano. Infatti, «nella tradizione della Chiesa ci sono due tipi di società religiose, a seconda della maniera di vita: gli ordini contemplativi e quelli apostolici. Nei primi secoli si riteneva che tutti i monaci dovessero essere contemplativi, cioè dediti alla preghiera, alle pratiche ascetiche e all’esercizio delle virtù. Ma quando arrivarono ad un grado più alto di intimità con Dio, capirono che dovevano uscire dalla solitudine e dedicarsi agli altri per condurli a Cristo» (Špildílk).

Fu così che la vita monastica divenne protagonista del primitivo cammino missionario della Chiesa. Tuttavia questo cammino non fu lineare, ma seguì un moto pendolare, oscillando quindi tra la vita contemplativa, intesa prevalentemente come vita ascetica e ritirata dal mondo, e l’attività apostolica. Così si spiega come per molto tempo nella Chiesa si è considerata la vita di tipo contemplativo o monastico come l’ideale a partire dal quale bisognava comprendere ogni specie di vita religiosa, anche quella di vita attiva: l’essenziale era costituito dall’insieme delle “osservanze” di preghiera, di ascesi, di vita comune. Avvenne allora che nelle Congregazioni dedite all’apostolato, l’azione apostolica non fu integrata alla consacrazione vissuta nella vita religiosa, ma fu considerata come una specie di aggiunta necessaria certamente, ma più o meno artificiale, poco amalgamata alla “vera” vita religiosa di osservanze, e dunque capace di esporre il religioso a delle sollecitazioni di ordine diverso e quindi a porsi la domanda se viene prima la vita religiosa o la missione. Si temeva perfino che la vita missionaria potesse far perdere la vocazione religiosa…

A questo punto si può notare come Comboni, pur non avendo dato fin dal principio al suo Istituto una struttura religiosa, in realtà la consacrazione missionaria da lui vissuta e proposta era inclusiva di quella legata ai voti religiosi e nello stesso tempo più radicale per via di quella disponibilità, nello spirito della croce, a morire a ogni istante «per la salvezza degli africani»: infatti «quelli che ne fanno parte — precisava — devono avere tutte le virtù dei religiosi e quella di essere ad ogni istante disposti alla morte per la salvezza degli africani» (S 5984)..

Daniele Comboni, per tanto, come Fondatore si tirò fuori da questa ambiguità, fondando la vita dei suoi missionari sulla consacrazione per la missione nella linea del più genuino spirito della sequela di Cristo. Dava così un nesso intrinseco tra la vita spirituale dei suoi missionari e il loro apostolato, che lo esprimeva con l’espressione ”santi e capaci”, che costituiva il programma di vita da imparare e nel quale crescere nel “cenacolo di apostoli”. Ci rispondeva così fin da allora che ciò che viene prima è una buona coerenza tra questi due elementi.

Il nostro Istituto nel suo cammino di rinnovamento a partire dal Capitolo del 1969, riallacciandosi all’esperienza originaria del Fondatore, alla tradizione dell’Istituto e seguendo gli orientamenti del Magistero della Chiesa, ha chiaramente messo come componenti essenziali della sua Regola di Vita carisma-consacrazione-comunità (comunione)-missione.

Ma ciò non impedisce che la mentalità dualistica tra consacrazione e missione e l’evasione dalla comunità siano presenti in mezzo a noi e proprio in nome della “missione”.

È naturale che quando e nella misura in cui ciò avviene, nascano disagi a livello individuale e comunitario, che si ripercuotono nella vita quotidiana e nell’ambito della formazione di base e permanente. Non c’è dubbio che davanti a questa situazione di tensione, per mantenere e approfondire l’identità dell’Istituto Comboniano nei suoi membri e nelle sue strutture, è indispensabile una visione chiara e unitaria della vita missionaria comboniana nelle sue dimensioni esistenziali e nelle sue dinamiche apostoliche. Il superamento di quest’ambiguità, l’abbandono delle “teorie di supporto” a cui si ricorre per giustificarla, è un presupposto indispensabile per dare nuovo slancio all’Istituto nel suo ministero missionario nel mondo di oggi e rendere credibile l’impegno nella promozione vocazionale e nella formazione sia di base che permanente.

3. La provocazione dell’assenza delle vocazioni nel nostro Istituto

L’assenza delle vocazioni nel nostro Istituto, come avviene soprattutto in tutto il mondo occidentale, è ormai un dato di fatto che ci deve interrogare e provocare fino in fondo. Non basta costatarlo e aggirarlo concludendo che è così per tutti. Non si tratta, infatti, solo di una crisi quantitativa e puramente statistica, ma anche qualitativa, che intacca la nostra vita di consacrati come è dimostrato dal numero elevato di coloro che lasciano l’Istituto. I Superiori non solo non hanno più personale per rispondere a tutte le esigenze della Missione, ma passano una buona parte del loro tempo con confratelli demotivati sia sul piano spirituale che su quello missionario. Questa situazione merita di essere affrontata direttamente, in modo da gettare uno sguardo sulla consistenza dei fondamenti che si offrono a quanti intendono porsi alla sequela di Cristo in uno stato di vita cristiana che comporta il massimo della donazione di sé (RV 2). Provare seriamente a riflettere e a confrontarsi insieme su questi argomenti, interrogarsi seriamente sul significato spirituale della programmazione in atto nella realtà dei vari settori della vita dell’Istituto di oggi, sarebbe certamente il dato più significativo per il benessere della formazione.

È più che evidente tra di noi l’enfasi data agli aspetti morali, politici, sociali, ecologici, antropologici e psicologici più che spirituali. Certamente è un’attenzione particolare che nasce dalle emergenze del vasto campo della missione a cui siamo consacrati; il problema non sta in quest’attenzione che è dovuta per fedeltà alla nostra stessa vocazione, ma nel fatto che diamo troppo per scontato tutto il discorso sui fondamenti evangelici e spirituali di questi stessi problemi. E questo avviene all’interno della nostra vita di “cenacolo” e anche riguardo alla gente e soprattutto ai giovani che potrebbero seguirci, dimenticando che ciò che viene dato per scontato, non è affatto detto che lo sia realmente. Forse non ci siamo ancora sufficientemente accorti che abbiamo bisogno di riscoprire i fondamenti della vita ecclesiale e spirituale per noi e per quelli che accompagniamo. E questo implica tempo, uso di mezzi appropriati, disponibilità e impegno a lavorare con metodo e disciplina su se stessi, e quindi programmazione a livello personale e comunitario. Solo così si può far "scattare" il passaggio verso un'autentica dimensione religiosa della vita e re-imparare a vivere e a proclamare la fede cristiana. Senza questo scatto, corriamo il pericolo di rimanere menomati nella vita spirituale per causa dell’atrofia dei nostri dinamismi spirituali, e quindi di cadere nel "tragico" gioco della privatizzazione della fede, della separazione tra la vita vissuta di una persona e la sua esperienza religiosa, e di rinchiudere l’apostolato missionario in una specie di mondo aziendale, che non coinvolge in profondità le persone. In questo momento della vita dell’Istituto sembra che s’impone una domanda, se cioè non ci siamo lasciati ingannare, concentrando la nostra attenzione sulla dimensione umana, accettando le categorie di una “spiritualità laica” e operando solo o prevalentemente all'interno di queste realtà. Se questo sta succedendo, allora non ci si intende più, non si capisce più la Chiesa, non si fa più una proposta vocazionale integrata nel Mistero di Cristo e non riusciamo a fare un vero stop e organizzarci per trovare la via per uscirne fuori.

Alla luce di queste constatazioni, potrebbe essere provvidenziale il fatto che le nostre file si assottigliano sempre di più (in Europa), e magari da qualche parte si gonfiano per via di prospettive di ordine sociologico più che spirituale, creando nuovi problemi invece che soluzioni. Almeno potremmo convincerci di dover iniziare seriamente a riflettere e a pregare e ritornare al nostro “amore di prima” (Ap 2,1-7), assecondando il richiamo del “Messaggio dei Consigli Generali Comboniani” del 15 Marzo 2003:

“L'evento della canonizzazione fa risuonare dentro di noi una forte chiamata a "rigenerare" la passione per il nostro carisma comune, chiamata che ci spinge ad una vita consacrata più autentica, ad una spiritualità più solida e ad una fedeltà alla missione più profetica. La canonizzazione di Daniele Comboni vuole trovarci uniti nel percorrere le orme della sua santità”.

Secondo l’Apocalisse, le tentazioni che la comunità di Efeso doveva affrontare erano quelle che anche noi dobbiamo affrontare oggi, e cioè la tentazione che viene con il logorio del tempo: si raffredda l’amore che si era acceso nei primi momenti della conversione - consacrazione; e poi la mancanza di coraggio per rimanere attaccati alla “mentalità di Cristo”, lasciandoci coinvolgere in mentalità secolarizzanti.

Che noi che viviamo nella Chiesa come battezzati che hanno fatto dell’evangelizzazione la ragione della propria vita (cfr. RV 56)”, dobbiamo imparare dal mondo chi è Gesù Cristo per noi, è un sintomo di malessere molto grave. Certe cose il mondo non le può insegnare al cristiano, proprio perché sono nate con i cristiani. Non siamo giunti, forse, a una situazione esplicitamente denunciata da san Paolo, secondo il quale è contro ogni logica voler finire la propria vita con la carne, dopo averla iniziata nello Spirito?

4. Un errore fatale: identificare il carisma con il progetto apostolico

Tra le tante ragioni del basso indice di perseveranza dei nostri candidati il Consiglio Generale tramite il P. Generale nel messaggio «Insieme verso l’Assemblea Intercapitolare 2006»[8], riconosce che “forse, il clima che i giovani respirano nell'Istituto e la testimonianza che diamo non devono essere tanto convincenti. Forse nella prospettiva della nostra vita abbiamo lasciato affievolire lo spirito di contemplazione e d’abbandono in Dio; forse abbiamo lasciato sbiadire lo slancio missionario come unico e fondamentale amore della nostra consacrazione”. Ci troviamo, dunque, di fronte a una comunità comboniana, in cui il clima e la testimonianza sono poco convincenti.

Riflettendo sulla mia esperienza come formatore e come animatore del Corso di rinnovamento di Roma, ho l’impressione che i giovani che arrivano nelle nostre case di formazione, in genere, sono stati indotti a concepire la vita missionaria come la vita di un militante cristiano o di un attivista sociale che è celibe e che sceglie di vivere con altri, che lottano per una causa comune in favore dei più deboli. Non sembra che abbiano captato che la vita missionaria a cui aspirano, è anzitutto vita centrata su un’intensa esperienza religiosa cristiana, che si sviluppa come esperienza d’amicizia con Cristo Gesù, in confronto al quale tutto va considerato come spazzatura (Fil 3, 8-11), e quindi come stile evangelico di vita e come missione di annunciare Gesù Cristo al mondo intero, a partire dai più poveri e lontani, con il rischio di giocarsi la vita per la verità e la giustizia.

In una vocazione autentica, ciò che motiva in primo luogo la scelta di un giovane è il dono di sé a Dio, un voler essere per Dio solo, dentro una chiamata in cui percepisce Dio come Amore assoluto e incondizionato. E ciò implica un’esperienza religiosa radicale, come risposta irresistibile e assoluta a Colui che per primo l’ha amato. In quanto consacrato si percepisce allora come “testimone dell’Invisibile”, perché ha incontrato Dio in Colui che “ha amato i suoi fino alla fine”. Ho costatato che un novizio, che varca la soglia del Noviziato mosso da una simile esperienza, ha già fatto affettivamente, cioè nel suo cuore, la consacrazione religiosa e si mette da subito in sintonia con il cammino del noviziato; è uno che non ha bisogno di essere trascinato, ma trascina, anche gli stessi formatori…., e si fa con gioia e generosità “vicino dei poveri” a cominciare da quelli di casa. È con questi soggetti che s’instaura un autentico dialogo formativo…

Per tanto, se nel cammino formativo la dimensione religiosa non è esplicitamente dominante, se è tergiversata o annacquata, la prospettiva di una vocazione intesa come un insieme di attività “impegnate” suppone la proposta e la comprensione della vocazione come risposta ad un imperativo morale o ad un’emergenza sociale, e ciò è insufficiente per entrare in una vita di consacrazione missionaria che sia vita centrata nell’incontro con Dio e che giustifichi le rinunce che l’accompagnano. Queste hanno senso quando servono per proclamare che non c’è niente di più grande che credere nel primato dell'Amore che Dio ha per noi e nella forza della sua Parola (Cf RV 20-21; 46).

P. André Manaranche ci ricorda che nella vita dell’apostolo di Gesù la funzione (= apostolato) e la vita (= discepolato) coincidono rigorosamente, a meno che non vengano separate dalle nostre astrazioni. L’intima compagnia con Gesù unifica l'esistenza apostolica, impedendo che “lo strafare per Lui” la discristifichi insensibilmente e la renda una semplice vita generosa (= filantropica).

Da questo fatto lo stesso autore deduce che una vita apostolica separata dalla compagnia di Gesù, Maestro e Signore, è insignificante. In questo caso la critica mordace in nome di Gesù contro la società non è conseguenza della partecipazione alla funzione profetica di Cristo, per cui è una critica inutile che nasce da uno zelo apostolico aggressivo e amareggiato. Visto da quelli che stanno al di fuori, l’apostolo senza la compagnia di Gesù dà credito all'idea che l'Apostolato è l'infame sfruttamento di una persona da parte del suo Dio: un Dio austero che le dà frustate, imponendole uno stile di vita e ritmi di lavoro che sterilizzano ogni felicità. Allora, il discepolo che suscita una simile riputazione verso il suo Maestro e Signore, finisce per diffamarlo precisamente quando è convinto di servirlo[9].

Lo zelo eccessivo o esclusivo per alcuni valori morali essenziali di cui l’umanità ha urgente bisogno – come Giustizia/Pace e Conservazione del creato o l’“opzione per i poveri”, ecc. - può far dimenticare al missionario che nella sua attività di evangelizzazione è chiamato ad impegnarsi nella “liberazione integrale dell’uomo”, cioè in quella liberazione che “trova il suo compimento e consolidamento nella piena comunione con Dio Padre e tra gli uomini” (RV 61); se ciò non avviene, fa sparire dall’orizzonte dell’attività missionaria l’urgenza dell’annuncio del Mistero di Gesù di Nazaret, Figlio di Dio e Salvatore del mondo (cf (RV 59), e dimenticare o annebbiare la dimensione salvifica della consacrazione religiosa (cf. RV 22; 46; 58).

Questa mentalità riduttiva della consacrazione missionaria l’Istituto la proietta molto chiaramente sui giovani che bussano alla nostra porta per cominciare un dialogo vocazionale.

Non è, infatti, difficile percepire che tra noi Comboniani esiste la tendenza a identificare il carisma con il progetto apostolico, o con le opzioni operative fatte all’interno del progetto stesso, fino a ridurlo a quella dimensione di esso che ci interessa di più... Si coglie, cioè, il dono dello Spirito Santo in modo riduttivo e prevalentemente se non semplicemente funzionale. Questo modo riduttivo di considerare il dono dello Spirito (= il carisma), ricevuto per mezzo di san Daniele Comboni, impoverisce il missionario, fino a portarlo alla perdita dell’identità vocazionale (cfr. AC ’91, 11.3); porta, infatti, a far perdere di vista nella vita quotidiana il versante mistico-spirituale e comunitario e il corrispondente cammino ascetico per interiorizzare il carisma in modo integrale.

In questo processo d’impoverimento dell’identità è presente il peso della pretesa di ridurre la vita spirituale alla semplice attività apostolica, allo “stare con la gente”, come se l’attività in se stessa per il fatto di essere apostolica è automaticamente spirituale, cioè vissuta nel e secondo lo Spirito di Gesù. In realtà, ognuno comunica il senso di Dio, impara ed è evangelizzato dall’attività che svolge, a partire dal grado di libertà interiore, dalla docilità allo Spirito del Signore Gesù, che gli consente di lasciarsi toccare e plasmare dalla realtà esterna e così crescere nella vita spirituale nella, dalla e per la missione durante tutta la vita.

Quest’affermazione ha il suo riscontro nel concreto della nostra vita di Missionari Comboniani.

Infatti, gli ultimi Capitoli Generali, come risulta dai rispettivi Atti Capitolari, sottolineano con evidente preoccupazione l’individualismo, l’attivismo, un insufficiente impegno nella preghiera personale e nello studio, un’incidenza frammentaria dell’esperienza carismatica di Daniele Comboni nel processo di formazione di base e permanente e nella vita quotidiana, l’incapacità d’integrare le esigenze di preghiera, studio e lavoro, ecc…. [10].

La Direzione Generale, nel Messaggio del 6 gennaio 2005[11], riconosce che questi limiti sono ancora presenti nell’Istituto, li riassume dicendo di aver notato “una certa stanchezza, l'affievolimento dello spirito di appartenenza, la dispersione, l'isolamento e l'individualismo”, e quindi richiama alcuni limiti in particolare.

Tutte queste costatazioni son riprese e completate nell’ultimo Capitolo del 2009.

Lo stato di vita dell’Istituto nel momento presente è illustrato con chiarezza in una serie di “Riflessioni”, che il P. Manuel Augusto Lopes Ferreira, alla fine del suo mandato come Superiore Generale, ha pubblicato nel Bollettino Informativo della Provincia Portoghese e che ha completato con due interventi apparsi in “Comboni.org” in vista del prossimo Capitolo Generale. Essi sono:

«Porque “falham” os capítulos?» (15 Agosto 2014) «Porque tarda o “efeito Francisco” a chegar até nós?» (10 Ottobre 2014).

Sono “riflessioni” che meritano di essere prese in considerazione, per fare il punto della nostra situazione attuale come Missionari Comboniani.

Le stesse perplessità sono condivise dall’attuale Superiore Generale, come si può vedere nella sua lettera “La missione che nasce dal cuore” e nell’Omelia per la celebrazione del 144o anniversario della fondazione dell’Istituto Comboniano (Roma, giugno 2011).

La situazione di uno zelo missionario riduttivo o di “una certa stanchezza” va chiarita a livello di Istituto per non continuare a proiettarlo a livello di promozione vocazionale e delle varie tappe formative. Pretendere di vincere questo virus con una seria impostazione del Noviziato senza che ci sia continuità nella fase successiva dello Scolasticato e nella vita quotidiana delle varie comunità locali, è in modo assoluto insufficiente, perché può portare i più giovani ad una crisi di delusione, che sfoci nell’uscita o all’accettazione del Noviziato e Scolasticato come parentesi, per ritornare poi e adattarsi alla visione e alla prassi della vita missionaria religiosa come possibilità di attività “impegnate”, nelle quali il giovane professo spera di trovare la realizzazione della propria vita, impegnandosi negli studi e in favore degli altri, e accantona l’impegno nel cammino dello spirito.

Questo è il modo di procedere adatto per avvelenare le radici della propria identità e il futuro della consacrazione a Dio per la missione.

Al contrario lo sviluppo della vita spirituale porta il missionario a unificare tutte le proprie energie e risorse naturali e soprannaturali, e a esprimerle nella linea della vocazione missionaria. Egli è chiamato a essere apostolo e deve essere capace di vedere tutta la sua vita e la sua persona in funzione del ministero apostolico proprio dei MCCJ. Se centra la sua vita su una certa esperienza di Dio, è perché si sente chiamato ad annunciare questa esperienza (RV 46; 81-82); se costruisce se stesso secondo un concreto programma ascetico (RV 2. 2; 3. 2; 90. 2; ecc.), è perché ciò lo abilita a un determinato stile di servizio missionario (cfr. AC '91, 13; 13. 1; ecc.); se vive l'amore fraterno all'interno della comunità religiosa come in un “nuovo piccolo cenacolo di Apostoli”, è perché l'amore fraterno che va oltre la carne e il sangue, è per sua natura segno della presenza di Cristo e del suo Regno: “Umanità nuova nata dallo Spirito” (RV 36; cfr.  AC '91, 30; 30. 1), ed è la prima testimonianza che deve dar al mondo.

La Regola di Vita ci indica il cammino per trovare “il come” sviluppare o riqualificare la nostra vita a partire dalla specificità del nostro carisma senza operare riduzioni depauperanti; traccia per noi un cammino di sequela di Cristo, qualificato dagli ideali e dall’esperienza del Comboni come sono vissuti dall’Istituto, ci indica un metodo per introdurci e progredire nel “cammino dello spirito”, ci traccia anche le linee portanti su cui costruire la Ratio missionis.  Tuttavia, si ha l’impressione che la Regola di Vita è da noi poco frequentata, quindi non è conosciuta in profondità e regola ancora poco la nostra vita personale e comunitaria....

- Cerchiamo di capire lo sviluppo della vita spirituale alla luce dell’immagine dell’albero

Per capire la necessità dello sviluppo della vita spirituale, ci può servire l’immagine dell’albero. Il Concilio Vat. II, infatti, presenta la Vita Consacrata come “un albero piantato da Dio nel suo campo”, che è Chiesa (Cf LG 43).

Ci fa bene allora pensare all’albero, al suo modo di crescere e di vivere. Un albero con molta chioma e poche radici viene sradicato al primo colpo di vento, mentre in un albero con molte radici e poca chioma la linfa scorre a stento, e quindi siamo di fronte a una esistenza rachitica dell’albero. L’albero, per tanto, deve stare ben immerso nella terra per rimanere ben stabile sopra di essa, e perciò le sue radici e la chioma devono crescere in misura proporzionata, solo così potrà offrire ombra e riparo e alla stagione giusta potrà coprirsi di fiori e di frutti.

Né va dimenticato che se l’origine dei frutti è nelle radici dell’albero, tuttavia la produzione effettiva e la qualità dei frutti dipendono dalla corretta potatura dell’albero stesso. Se l’albero non è potato o è potato male, si raccolgono solo foglie….

Se la nostra vita missionaria religiosa vuole prendere il largo nel mondo di oggi, deve reggersi sulle due dimensioni inscindibili della trascendenza (= radici) e dell’incarnazione (= chioma), che la riconducono al primato di Dio, ma cercato e vissuto nella storia.

Il richiamo alle radici e alla necessità della potatura dell’albero, ci ricorda il necessario cammino ascetico e il confronto chiarificatore con il nostro passato come presupposto per la riuscita nella vita e nel cammino spirituale, per realizzare quell’autentico incontro con Dio, che sfoci nella testimonianza e nella proclamazione del suo amore davanti al mondo (cfr. RV 46).

Se quest’impegno è debole, lasciato alla spontaneità e all’improvvisazione, vuol dire che abbiamo la pretesa di vivere nella parte alta dell’albero, tra i rami, le foglie e i frutti, eludendo la fatica di prenderci cura delle radici e dello stato inferiore del terreno, in cui l’albero della nostra vita è radicato e da cui riceve il nutrimento. Così continuiamo a vivere «in superficie», senza curarci della qualità e autenticità dei frutti e perdendo di vista il fatto che «all’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva» (Deus caritas est, 1).

5. Ripercussione della visione riduttiva del carisma nel cammino formativo

Quando in vari modi enfatizziamo tra noi come «proprio» della vita missionaria comboniana l’impegno a rispondere alle grandi sfide dell’umanità, che si concentrano soprattutto nel Sud del Mondo, allora la consacrazione perde la dimensione spirituale di chiamata gratuita da parte di Dio e di risposta generosa in libertà e gratitudine a questa chiamata (Cfr RV 20), e diviene una consacrazione di tipo moralista[12], soltanto funzionale, che priva il Carisma del suo nucleo generatore, che è l'aspetto cristologico del Carisma stesso da cui nascono le motivazioni decisive per un impegno a vita nel servizio missionario. A sua volta la proposta formativa diviene riduttiva, cerca prevalentemente la gratificazione personale sia degli animatori sia dei giovani, e si sviluppa intorno al volontarismo (moralismo) e all’esperienzialismo[13], in una prospettiva ideologica.

A questo punto la significatività del Carisma si diluisce fino a divenire insignificanza.

Certamente, alla presenza di tale tendenza, i giovani ci ammirano e nel loro cammino formativo concentrano le loro forze sulla preparazione “professionale” con lo studio e l’attività apostolica. Il risultato è mortifero: una vita consacrata missionaria mediante i consigli evangelici (RV 1; 11), ridotta ad una semplice vita generosa (= filantropica), non giustifica le rinunce che richiede e finisce per aprire il cammino verso una doppia vita, con i risvolti dolorosi che non è difficile immaginare…

6. Un’attenzione costante: tenere saldi i pilastri della vita di consacrazione missionaria

L’impostazione del nostro cammino formativo di base e permanente è segnato dall’impegno a formare alla vita del Vangelo “qualificata dagli ideali e dall’esperienza del Comboni come sono vissuti nell’Istituto” (RV 81) e quindi, nello stesso tempo, a coinvolgere i giovani nel servizio missionario alla luce dei segni dei tempi.

Tale impegno purtroppo si rivela illusorio, come possiamo costatare dallo scarso indice di perseveranza dei nostri candidati e da improvvisi episodi di vita scadente, in cui non si capisce che fine ha fatto non solo la vita evangelica che ci proponiamo di vivere, ma perfino il senso morale.

Da qui nasce per noi formatori la necessità di perseverare con serietà nel lavoro per aiutare i giovani in formazione a vivere una prossimità autentica al Signore Gesù (RV 21; 21.1-2; 3-5). Non sarà un lavoro facile né gratificante, perché non saremo graditi a tutti gli Scolastici e forse non saremo compresi da confratelli maggiori, ma daremo una mano allo Spirito Santo, perché porti a termine la sua opera in quelli che sono fedeli al «Sì» che gli hanno dato.

Nella nostra azione formativa non possiamo perdere di vista in nessun momento che il carisma missionario comboniano (RV 1-9) poggia su tre pilastri, da cui nasce l’identità del missionario comboniano o la personalità comboniana:

  • consacrazione ( = esperienza di Dio in Cristo => esperienza mistica => vita spirituale): RV 2-5; 20-35; 46-55;
  • comunione (= vita comunitaria => senso di appartenenza): RV 36-45;
  • servizio missionario (= progetto apostolico): 56-79.

La vita spirituale, cioè l’esperienza di Dio in Cristo, la vita comunitaria e la missione sono unificate dal cammino ascetico.

La vita spirituale è l’esperienza fondante, da cui nasce l’esperienza mistica, cioè l’esperienza di Dio in Cristo, nella quale il comboniano sperimenta che cosa Dio opera in lui, quando si mette in sintonia con il carisma di san Daniele Comboni: Dio lo ama e lo salva attraverso il Cuore Trafitto di Gesù Buon Pastore e lo fa sacramento di quest’amore per la Nigrizia (S 2742).

L'esperienza mistica attraverso l'interiorizzazione del carisma di Comboni è percepita, quindi, anzitutto come una nuova rivelazione ed iniziazione al Mistero Salvifico di Dio, in cui è messo in risalto un aspetto della infinita ricchezza divina in ordine ad una particolare azione salvifica, che Dio vuole realizzare in favore dell'umanità bisognosa di salvezza, qui e ora. In questa esperienza il comboniano sente come Dio lo ama e lo salva e nello stesso tempo lo sceglie come strumento di questa stessa salvezza, affidandogli una missione specifica da compiere, che lo lega strettamente al suo piano di salvezza del mondo.

L’esperienza mistica, per tanto, si concretizza nella consacrazione e crea nel comboniano il senso di appartenenza al carisma e alla comunità di persone che l'hanno ricevuto assieme a lui ( = vita di comunione di con-vocati nella comunità-cenacolo).

La consacrazione a sua volta s’incarna in un concreto servizio missionario, che diviene la ragione della vita del missionario comboniano (AC '91, 6; 6.1-6; 9; RV 56).

La vita spirituale, la vita comunitaria e la missione maturano e progrediscono attraverso il cammino ascetico.

Il cammino ascetico o cammino nello spirito è la naturale conseguenza dell’esperienza mistica: “La passione per Gesù Cristo, crocifisso e risorto, contemplato specialmente nel mistero del suo Cuore che 'dona la sua vita per le pecore più abbandonate', perché diventino soggetti e protagonisti della propria storia e della salvezza già avvenuta” (AC '91, 13.1), fa nascere nel missionario comboniano l'esigenza profonda di conformarsi a questo mistero contemplato.

Questa è precisamente l'ascesi, che deve essere intesa come cammino di formazione di base e permanente. In questo cammino unificante, il servizio missionario, definito dal carisma comboniano, costituisce il punto di riferimento costante, la tensione ideale, verso la quale il missionario, per mezzo della consacrazione, orienta la sua comunione con Dio, il suo amore fraterno nella comunità e il suo cammino ascetico.

Il cammino ascetico, che innerva il cammino formativo, deve essere inteso «come una graduale assimilazione della “sequela Christi” vissuta dal Comboni, concretizzata nel servizio missionario “ad gentes” secondo i segni dei tempi. La missione, come afferma il Fondatore nell'introduzione alla Regola del 1871, illumina e determina l'iter formativo, affinché i missionari siano “santi e capaci”. Oggi più che mai queste parole sono attuali e degne della massima attenzione» (AC '91, 34; cfr. Ratio 4-5). Infatti, l'esperienza carismatica di san Daniele Comboni viene personalizzata, cioè comincia a coinvolgere e a segnare la personalità del missionario giovane o adulto, quando provoca in lui un processo di interiorizzazione dei contenuti di questi tre pilastri attraverso il cammino ascetico (cfr. AC '91, 9; 12.3).

L'immagine più espressiva di questo cammino “è il Figlio che, sulla croce, dà al Padre la risposta più grata al suo amore eterno e dona agli uomini con amore gratuito la sua vita. E siamo al vertice del concetto di responsabilità cristiana. Salvati da quel gesto, infatti, siamo ora resi capaci di ripeterlo nella nostra vita, dando la stessa risposta, respons-abili della salvezza dell'umanità, liberi dalla preoccupazione egoistica della propria individuale salvezza. Mistero grande!”.

7. Un rischio da evitare

Il grosso rischio nel cammino di formazione di base e permanente è di compromettere lo sviluppo armonico di questi tre pilastri, unificati dal cammino ascetico.

Nell’ambito dello Scolasticato si può facilmente costatare che gli scolastici s’impegnano in primo luogo nello studio, poi nell’apostolato, quindi passano molto tempo al telefono o telefonini e a internet, un mondo tanto vasto che gestiscono da soli con criteri personali, a volte perfino contrari all’identità cristiana e religiosa…; per coltivare la vita spirituale si ha l’impressione che si accontentano di usare i residui di tempo o si occupano quando hanno tempo. In questo settore si nota la lacuna più grande, accompagnata dalla lamentela – giustificazione che non c’è tempo…

Questa situazione si percepisce nel fatto che fanno fatica a narrare la loro esperienza spirituale e a impegnarsi nell’uso dei mezzi per riuscire in questo impegno.

Lo scarso impegno nella vita spirituale impedisce di purificare e approfondire le proprie motivazioni, così da personalizzare il carisma e stabilire un rapporto nuziale con la comunità, superando il mero rapporto istituzionale - funzionale.

Inoltre, lo scarso impegno nella vita spirituale appiattisce la vita di comunione, che si alimenta di motivazioni superficiali, al massimo umaniste, per cui la vita di comunità invece di essere comunione fraterna è convivenza pacifica, tolleranza diplomatica o cameratesca. Viene così minato il fondamento della lealtà vicendevole e della fiducia e il suo ruolo costruttivo nella comunità, e comincia a insinuarsi tra i suoi membri una sensazione di estraneità reciproca e di diffuso individualismo.

In questo clima, il rischio che si corre è di segare i fondamenti evangelici e spirituali della vita missionaria posti nel noviziato, dando per scontata una vita spirituale definitivamente acquisita, che in realtà è sempre incipiente per tutti e che, se non è coltivata adeguatamente, deperisce, portando all’atrofia o anoressia spirituale e quindi all’insignificanza vocazionale e all’affievolimento dell’identità …

Non possiamo dimenticare, come ci ricorda Benedetto XVI, che «oggi vi è un'ipertrofia dell'uomo esteriore e un indebolimento preoccupante della sua energia interiore».

Il quadro qui disegnato riflette situazioni che si vivono nell’Istituto in maniere molto evidenti da parte di missionari che già vantano parecchi anni di vita missionaria.

Non è difficile renderci conto che tra gli scolastici alcuni si prendono certe licenze contrarie al nostro modo di vivere come persone consacrate nella Chiesa, perché vedono e sanno che ci sono missionari che fanno così e lo fanno impunemente. Tra loro commentano che a volte questo modo di comportarsi diventa un’occasione per essere mandati a studiare in qualche università... Commentano anche che da parte dei Superori c’è più tolleranza per le mancanze dei confratelli occidentali che per quelli del Sud del mondo, per cui devono fare attenzione a non farsi scoprire o pescare.

Ancora una volta va ribadito che non basta proclamare e proporre valori, se contemporaneamente non esistono nelle comunità locali dell’Istituto modelli di riferimento, cioè persone in carne e ossa, che sono impegnati a vivere tali valori, cioè non esistono dei modelli di riferimento.

E questi modelli di riferimento siamo chiamati a esserlo tutti i membri della comunità: dai giovani agli anziani.

Questo avverrà se ci educhiamo alla relazione, convinti che le condizioni per un cordiale rapporto con le persone dipendono anzitutto da noi stessi.

Le persone ci accolgono e ci vogliono bene nella misura in cui ci presentiamo con una personalità sufficientemente matura ed equilibrata, cioè con un "normale funzionamento psichico" e morale, e occupati a migliorarci tramite un paziente e costante impegno di lavoro su noi stessi (ascesi).

La qualità delle nostre relazioni, anche se condizionata da fattori personali, culturali e ambientali, è legata soprattutto alla cura e all'impegno che ciascuno mette nello sforzo di migliorare continuamente il proprio modo di rapportarsi con le persone che incontra.

Tuttavia, la qualità delle nostre relazioni non può dipendere semplicemente dalla moralità (onestà) e dal galateo, cioè dalle buone maniere, che sono indispensabili, ma che sono legate ad una determinata cultura e alla mentalità del tempo.

Per i cristiani il criterio ultimo per stabilire la bontà delle proprie relazioni è Gesù Cristo. Le nostre relazioni interpersonali sono buone nella misura in cui esprimono quei sentimenti che sono del Signore Gesù e ne imitano gli esempi.

Per raggiungere questo obiettivo ci fa da guida san Daniele Comboni, che ci esorta a tenere fisso lo sguardo su Gesù Cristo, amandolo teneramente (cfr. S 2720-2721).

Gesù appare, infatti, «una persona nella quale l'umanità ha raggiunto il suo vertice; in lui si trova tutto ciò che fa grande l'uomo: magnanimità e umiltà, fortezza e dolcezza d'animo, libertà assoluta e disponibilità totale per Dio e per i fratelli, forte senso dell'amicizia e capacità di solitudine, comunione profonda con Dio e comunione con i poveri e i peccatori, conoscenza dell'animo umano, elevatezza di pensiero e semplicità nell'esprimersi. Una personalità straordinaria per quello che è stato e per quello che ha insegnato. Non si trova in lui alcuna forma di tattica o forme di astuzia. Non fa mai violenza alle persone, rispetta la libertà. Più che un organizzatore, egli irradia potere e fascino e le persone lo cercano.

Molto attivo e impegnato, è nello stesso tempo capace di riposarsi. Non cerca l'applauso o lo spettacolare. Dà prova di essere audacemente libero da interessi personali, dalla legge, dalla famiglia, dalle cose. Non si lascia condizionare dai giudizi altrui; è determinato nel perseguire i suoi obiettivi e chiaro nelle sue idee».

Lo sguardo fisso su Gesù Cristo ci porta ad approfondire la relazione con Dio.

Per Comboni, il missionario è un uomo assetato di Dio che sotterra la vita di prima e la centra in Lui solo, animato da un vivo interesse alla sua gloria e al bene delle anime; sazia la sua sete e centra la sua vita in Dio “col tener sempre gli occhi fissi in Gesù Cristo, amandolo teneramente, e procurando di intendere ognora meglio cosa vuol dire un Dio morto in croce per la salvezza delle anime”:

«La vita di un uomo, che in modo assoluto e perentorio viene a rompere tutte le relazioni col mondo e colle cose più care secondo natura, deve essere una vita di spirito e di fede. Il Missionario, che non avesse un forte sentimento di Dio ed un interesse vivo alla sua gloria ed al bene delle anime, mancherebbe di attitudine ai suoi ministeri, e finirebbe per trovarsi in una specie di vuoto e d'intollerabile isolamento» (S 2698).

Il dialogo con Dio arricchisce la nostra vita spirituale e di conseguenza anche il nostro dialogo con le persone. San Doroteo di Gaza spiegava: «Pensate a un cerchio tracciato per terra. Il cerchio è il mondo e il centro è Dio. I raggi sono le vie degli uomini: quanto più essi avanzano, tanto più si avvicinano a Dio e più si avvicinano anche tra di loro. E viceversa».

San Daniele Comboni ci spiega il «viceversa» con l’icona del Cenacolo di Apostoli mettendo come Centro l’esperienza di Dio in Cristo:

«Questo Istituto perciò diventa come un piccolo Cenacolo di Apostoli per l'Africa, un punto luminoso che manda fino al centro della Nigrizia altrettanti raggi quanto sono i zelanti e virtuosi Missionari che escono dal suo seno: e questi raggi che splendono insieme e riscaldano, necessariamente rivelano la natura del Centro da cui emanano» (S 2648).

Ruolo della cura della vita interiore dei membri della comunità

Nella comunità, per tanto un ruolo decisivo spetta alla cura della vita interiore dei suoi membri.

La relazione con l'altro, infatti, è arricchente e gratificante nella misura in cui siamo persone interiormente ricche e sensibili. Il nostro andare incontro alle persone deve nascere da motivazioni nobili e valide; non deve nascere da un bisogno compulsivo di contatti umani e di approvazione, né dalla paura della solitudine, né dall'ansia, né da vanità o egoismo, ma da un cuore buono e sensibile, desideroso di dare e ricevere. Occorre ritrovare continuamente l'interiorità se si vuole che le nostre relazioni siano ricche e significative per sé e per gli altri. Tutto ciò è indispensabile per sottrarci alla banalità di tante conversazioni, alla insignificanza e alla superficialità di tanti incontri, al parlare vuoto e al pettegolezzo.

Per creare un clima propizio alla cura della vita interiore dei membri della comunità, “la fede missionaria”, contenuta nei tre pilastri della vita missionaria comboniana, va continuamente proposta, mai presupposta in nessuna fase della vita del missionario comboniano, tanto meno nella fase dello Scolasticato. L’unico rimedio per superare la crisi in cui ci troviamo, che nell’Assemblea di Palencia 2005 fu definita “scisma bianco, una divisione tra linguaggio e vita”, è anche per noi “una nuova evangelizzazione”, per essere “discepoli missionari” nel nostro tempo nell’ottica del carisma dell’istituto (cfr. RV 99). Altre vie di uscita sarà difficile trovarle.

«La vita fraterna ci mette in condizione di lavorare su noi stessi e questo ci rende normalmente più comprensivi e anche più disponibili nei confronti degli altri. Di questo tipo di trasformazione lenta e progressiva potranno approfittare tutte le persone che avranno a che fare con noi. Per questo amo insistere perché nessuno si dispensi dalla fatica del vivere comune. Giustamente le costituzioni affermano che essa favorisce molto la formazione permanente. Questo ci aiuta a crescere verso un tipo di relazioni che possano dirsi realmente "redente" e che sono frutto sia della grazia che dell'impegno di ciascuno dei membri della fraternità. Lavorare su se stessi costa molta fatica, eppure è una condizione indispensabile per raggiungere una più grande maturità umana, specie nei rapporti con gli altri. Quante volte mi capita di accusare gli altri del mio stare poco bene! Agendo in questo modo, senza nemmeno rendermene conto, attribuisco agli altri un potere enorme nei miei confronti e indolente mi piace stare nel ruolo della vittima. Tutti i nostri tentativi di cambiare gli altri sono tempo perso! Le relazioni in seno a una fraternità migliorano dal momento in cui qualcuno inizia a lavorare su se stesso senza pretendere che gli altri facciano lo stesso. Constatando il cambiamento, anch'essi inizieranno a cambiare». (Fra Mauro Jöhri, ministro generale dei cappuccini).

Per creare un clima propizio che permette lavorare su se stesi, la comunità ha bisogno di un servizio di animazione che sia capace di educare al silenzio e all’interiorità e creare un clima di scuola di preghiera. Tutto questo non è facile, ma un aiuto ci può venire se prendiamo in considerazioni le indicazioni che ci offre la nostra Regola di Vita, che definisce la comunità comboniana “orante” e le traccia un cammino di iniziazione alla preghiera: 46-55.

Siamo in grado di capire allora che buona parte della formazione di base e permanente passa attraverso le relazioni comunitarie e la vitalità della vita comunitaria centrata sulla preghiera.

LA LEZIONE DI HETTY HILESUM:
LA DEDIZIONE AGLI ALTRI COME ESITO DELLA VITA SPIRITUALE
[Cfr. A. Gentili, ‘Sarò io ad aiutare Dio!’ Il cammino spirituale di Hetty Hillesum, Ed. Ancora, 2014].

Alcuni pensieri di Hetty Hillesum possono illuminarci nel nostro cammino spirituale.

Sono significativi alcuni pensieri del suo Diario. Etty Hillesum è una giovane donna ebrea che vive in Olanda e nel 1941 inizia a scrivere un diario. Esso ci mostra il suo percorso di crescita spirituale, in cui lei alimenta la sua capacità di resistenza creando degli spazi per sé, di bellezza e meditazione, e contemporaneamente esercita la sua solidarietà nella società. Etty lavora con il Consiglio Ebraico della città, entra in contatto con gli ebrei che vengono deportati, va poi per sua scelta nel campo di concentramento da cui partirà in treno per Auschwitz, dove anche lei morirà qualche mese dopo (novembre 1943).

Ragazza che «non sapeva inginocchiarsi», intraprese una ricerca interiore che la radicò in quel puro essere in cui percepì la presenza divina e accolse le vittime dello sterminio: «La mia vita è un ininterrotto “ascoltare dentro” me stessa, gli altri, Dio». Di fronte a un «inferno assoluto», sostiene che se Dio «non sarà più in grado di aiutare noi, saremo noi a dover aiutare Dio», conservandone le tracce nel cuore umano.

I pensieri di Etty qui riportati esprimo molto bene il significato della vita spirituale messa al centro del cammino della vita umana e cristiana, vissuta nella logica di “aiutare Dio, aiutando gli altri”, di “immergersi in sé, per immergersi negli altri”, “distruggere in se stesso ciò che si ritiene di dover distruggere negli altri”.

«La mia testa è l’officina dove tutte le cose di questo mondo devono giungere a essere formulate in piena chiarezza. E il mio cuore è la fornace ardente nella quale tutto deve essere sentito e sofferto con intensità».

«M’immagino che certe persone preghino con gli occhi rivolti al cielo: esse cercano Dio fuori di sé. Ce ne sono altre che chinano il capo nascondendolo fra le mani: credo che cerchino Dio dentro di sé».

«Dentro di me c’è una sorgente molto profonda. E in quella sorgente c’è Dio. A volte riesco a raggiungerla, più volte essa è coperta di pietre e sabbia: allora Dio è sepolto. Allora bisogna dissotterrarlo di nuovo».

«Non vedo nessun’altra soluzione che quella di raccoglierci in noi stessi e strappar via il nostro marciume. Non credo più che si possa migliorare qualcosa del mondo esterno senza aver prima fatto la nostra parte dentro di noi».

«Non sono i fatti a contare nella vita, conta solo ciò che grazie ai fatti si diventa».

«Cercherò di aiutarti (Dio), affinché tu non venga distrutto dentro di me, ma a priori non posso promettere nulla. Una cosa però diventa sempre più evidente per me, e cioè che tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare te, ed in questo modo aiutiamo noi stessi. L'unica cosa che possiamo salvare in questi tempi e anche l'unica che veramente conti è un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio. E forse possiamo anche contribuire a disseppellirti dai cuori devastati di altri uomini. Sì, mio Dio, sembra che tu non possa far molto per modificare le circostanze attuali ma anch’esse fanno parte di questa vita. Io non chiamo in causa la tua responsabilità, più tardi sarai tu a dichiarare responsabili noi. E quasi ad ogni battito del mio cuore cresce la mia certezza: tu non puoi aiutarci, ma tocca a noi aiutare te, difendere fino all’ultimo la tua casa in noi».

«Ho spezzato il mio corpo come se fosse pane e l’ho distribuito agli uomini»: frase mirabile in cui si intravede l’abbozzo della confessione della valenza eucaristica impressa alla propria vita da questa giovane donna, che preferì essere «sola e per tutti». Ci ricorda che l’amore si fa dono, così da renderci pane spezzato per gli altri.

Hetty, come molti altri scrittori dopo Auschwitz, si rende conto che Dio, in qualche modo, non agisce, perché siamo noi a dover agire. Dio non agisce perché agisce attraverso di noi. Siamo noi a dover salvare lo spazio per Dio in questo mondo, siamo noi a dover avere cura di Dio nella nostra esistenza, nella nostra società e nelle relazioni con gli altri. Siamo noi a cui Dio si è affidato nella debolezza dell'incarnazione, e quindi, come dice Etty, siamo noi a dover aiutare Dio.

Non è un appello al nostro senso di onnipotenza, ma un richiamo profondo ed importante alla responsabilità che noi abbiamo nella storia!

L'amore che noi possiamo esprimere deve essere capace di indignazione e di giustizia, deve essere capace di passione, capace di dire dei no, capace di porre dei limiti all'ingiustizia. Questo lo si fa anche attraverso una ricerca di spazi in cui sé e Dio possono coesistere. Quando Etty si prende cura di sé, sa che si prende cura di Dio dentro di sé, ed in questo modo lascia che Dio agisca in lei.

Prendersi cura della presenza di Dio nel mondo significa anche prendersi cura di noi, e viceversa: prenderci cura di noi significa aiutare Dio ad essere presente nel nostro mondo e nella nostra società». (cfr. Letizia Tomassone in «Prendersi cura di sé, degli altri, di Dio», Gabrielli Editori, p. 171s).

P. Carmelo Casile, mccj
Casavatore, Gennaio 2015

 


[1] Cf. Alberto Degan, L’Uomo trascendente. Progetto Missionario di Dio, Ed. EUROPRINT, 2005.

[2] Cfr. Benedetto XVI, Messaggio al 3° Congresso Missionario Americano, a Quito (Ecuador), 12.8.2008.

[3] Cf Yves Raguin, Cammini di contemplazione, Gribaudi 1972, pp. 27-30.

[4] Cf. P. José A. Netto de Oliveira SJ, Opzione evangelica e opzione ideologica per i poveri. Riflessioni sul processo di formazione, in Convergencia 1987, rivista della Conferenza dei Religiosi del Brasile.

[5] Cf M. Ivan Rupnik, Il discernimento, Ed. Lipa, pp. 141-144.

[6] Cf Joyce Ridick, I Voti: un tesoro in vasi di argilla, PIEMME 1992, p. 32.

[7] Cfr. Anselm Grün, Año Litúrgico sanador, pp. 107-114.

[8] Lettera del Superiore Generale, Insieme verso l’Assemblea Intercapitolare 2006», MCCJ Bulletin Gennaio 2006, pp. 1-11.

[9] Cf A. Manaranche, Come gli Apostoli, Queriniana 1972, p. 89.

[10] Cf AC ’91, 4.6; 11, ecc…..

[11] Cf. Verso la Ratio Missionis, Messaggio del Consiglio Generale.

[12] Cf Benedetto XVI, Messaggio per la Quaresima del 2006, LEV, p. 10.

[13] P. Siro Stocchetti, Possibili modelli formativi + Modello integrativo della formazione, in Allegati dell’Assemblea dei formatori, Palancia 2005, pp. 111-128.