Martedì 11 agosto 2020
Sono considerazioni che ho già espresso a voce e per scritto altre volte; ora le riordino e le propongo con qualche aggiornamento in vista dell’incontro dei formatori dei Noviziati e Scolasticati che si terrà a Palencia dal 10 al 30 luglio 2005, perché le considero ancora attuali. Ci sono valutazioni positive e negative e qualche proposta, che potrà essere utile per mantenerci sulla buona strada, nella certezza che la Provvidenza farà quello che a noi è impossibile.

LE MIE IMPRESSIONI OSSERVANDO LO SCOLASTICATO DI CASAVATORE
IN VISTA DELL’INCONTRO SULLA FORMAZIONE
PALENCIA 10-30 luglio 2011

PREMESSA

Anzitutto c’è da notare che le osservazioni fatte a Palencia nel 2005, secondo me, sono ancora valide per il 2011 nel versante positivo e in quello negativo. Si potrebbero riprendere e segnalare le novità da aggiungere. Le riflessioni che espongo sono un tentativo per cercare di capire meglio la situazione attuale in vista di individuare qualche punto che merita maggiore attenzione.

1. Il basso indice di perseveranza dei nostri candidati

Prendo come punto di partenza il basso indice di perseveranza dei nostri candidati, che è un dato di fatto anche in questo momento. I membri del Consiglio Generale nel loro messaggio del 6 gennaio 2006, che introduce il documento «Verso la Ratio Missionis», si dichiarano “sconcertati dal numero delle uscite, come dalla facilità con cui si conduce – senza tanti scrupoli – una doppia vita”. E questo sconcerto persiste ancora oggi.

Il fenomeno è complesso e a suo riguardo si possono fare molte considerazioni, cercando di capirlo con lo scopo di riuscire a trovare qualche soluzione. Certamente sulla perseveranza nella vocazione giocano un ruolo importante fari fattori che dipendono dai vari contesti sociali, culturali e dai singoli individui, di cui non sempre il candidato è immediatamente consapevole ma che comunque agiscono in lui.

Ma è altrettanto vero che questi stessi giovani sono capaci di apprezzare il cammino formativo sia del Noviziato che dello Scolasticato e assumerlo con responsabilità e generosità e con senso di comprensione per le debolezze che notano nella stessa comunità religiosa.

Certamente restiamo sorpresi e tristi quando, dopo un certo tempo d’impegno preso con tanta serietà e solennità, lo si scioglie "tranquillamente. In genere però l'impegno non è preso solo in apparenza né viene sciolto così "tranquillamente" come sembra. In realtà, molte volte questo modo di agire significa che l'individuo ha subìto l'aggravarsi di una situazione che veniva da lontano, di cui forse non ha avuto tempo di rendersi consapevole e che gli è scoppiata pian piano o all'improvviso tra le mani. Se c'è un effetto, c'è sempre una causa; anche quando essa ci risultava sconosciuta.

Altre volte non c'è da restare sorpresi, perché generalmente, coloro che lasciano oppure sono consigliati a lasciare il cammino formativo dopo il noviziato, sono persone che pur avendo vissuto il noviziato nella mediocrità e nell'indecisione, alla fine vengono ammesse ugualmente alla Prima Professione nella speranza che...., e a volte anche nonostante il parere contrario espresso dai formatori.

2. Il noviziato vissuto come parentesi

Un dato da prendere in seria considerazione è che parecchi candidati che arrivano allo Scolasticato, non si mostrano convinti che il cammino della formazione iniziato nel Noviziato devono portarlo avanti e approfondirlo, usando i mezzi di crescita che lì avrebbero dovuto cominciare a usare.

Sembra che abbiano vissuto il Noviziato più come una parentesi che come l’inizio di una vita secondo l’identità dell’Istituto, che deve continuare a crescere per tutta la vita; sembra che abbiano costruito il loro cammino vocazionale più sulla sabbia che sulla roccia.

La prima professione sembra che sia stata assunta più come condizione giuridica per entrare in un’istituzione da cui il giovane si aspetta di ottenere qualcosa, che come primo passo per entrare in un processo di approfondimento per confermare l’autenticità e la stabilità della scelta vocazionale; prevale il senso di appartenenza giuridica che conferisce diritti, più che quello di appartenenza affettiva e mistica, da cui nasce la spinta al dono di sé e alla personalizzazione del carisma e quindi dà al giovane la possibilità di entrare nel processo di inculturazione del carisma stesso, arricchendolo con il meglio delle proprie doti umane e culturali.

In queste situazioni il continuo appellarsi alla propria cultura è un semplice meccanismo di difesa delle proprie posizioni di comodo, che si pensano già acquisite.

In questo caso, lo Scolasticato e lo stesso Istituto sono percepiti come una realtà che esiste al di fuori del candidato, un oggetto con cui ha una relazione[1], che diventa uno strumento per realizzare i propri sogni di autorealizzazione o autoaffermazione, anche se i motivi sono diversi da persona a persona: si entra non per lasciare qualcosa in vista dell’incontro con Qualcuno che dà senso pieno alla vita con una missione da compiere in Suo Nome, ma per trovare qualcosa, per avere successo nella vita. Sembra che si cerchi un modo di vivere la Vita Religiosa professata alla fine del Noviziato, che non implichi la fatica di dover dire dei “no” a se stesso; sembra che le categorie del “sentirsi bene”, dello “star bene”, del “tutto bene per me qui!”, che la preoccupazione del “come mi sento, come sto?”, prevalgano sul “verso Chi e verso dove sono orientato?”, che è centrale nella vita cristiana e quindi a maggior ragione nella vita di consacrazione. Ogni cammino, infatti, richiede tempo, pazienza e fatica, così come richiede la consapevolezza della direzione verso cui andare.

Mancando questa consapevolezza, non è possibile nessun tipo di discernimento per approfondire la propria esperienza religiosa, e il discorso formativo è assunto come una pura formalità, perché la coscienza viene ridotta all'ambito del soggettivo, invece di essere luogo dell'ascolto della verità vocazionale e quindi della responsabilità davanti a Dio e ai membri della comunità nella Chiesa. Credo che solo così può avere spiegazione la reazione degli scolastici di fronte a casi di grave infedeltà agli impegni della professione, che si sono verificati nella nostra comunità, e che hanno provocato scandalo tra la gente in cui è inserita la nostra comunità.

Alla chiara disapprovazione da parte dei formatori, esternata con modalità rispettose con l’intento di superare in maniera positiva la situazione imbarazzante, sembrava che in un primo momento avessero apprezzato il nostro modo di intervenire; dopo un po’ di tempo però sembra che ci abbiano ripensato e sono tornati sull’argomento, chiedendoci di metterci una pietra sopra e guardare avanti: tanto sono cose che si verificano anche negli altri Scolasticati. Il richiamo mi ha sorpreso perché non mi sembra che da parte dei formatori o di altri nella comunità ci siano stati continui ritorni su quei casi, una volta che si sono affrontati a livello comunitario. Ricordo anche che è stato apprezzato il modo come sono stati affrontati.

Poco più avanti sono tornati alla carica per giustificare ciò che era successo affermando che si tratta di scelte personali di persone adulte che fanno le loro scelte e che quindi vanno rispettate, senza minimamente riferirsi al fatto che sono scelte di persone che fanno i voti nella Chiesa nelle mani del Superiore di una comunità davanti al popolo di Dio, e che perciò sono scelte che coinvolgo tutti i membri della comunità che celebra e conferma questa professione.

È chiaro in questo caso che la libertà di coscienza è ridotta nell’ambito del soggettivismo come supporto per giustificare le proprie scelte, anche quando sono in contrasto con quanto è espresso nella consacrazione religiosa, nella quale prima della nostra risposta viene l’iniziativa di Dio che solo ispira, salva e invia; la nostra risposta consiste nell’accogliere con libertà e gratitudine il dono della chiama e nell’impegno a rispondevi con coerenza nella scelte concrete della vita (cfr. RV 46).

Se è chiaro l’orientamento verso cui andare, l’incontro con il Signore Gesù e il coinvolgimento nella sua missione rende accettabile e fonte di gioia la fatica della rinuncia conseguente a tale scelta, e rende possibile una franca e cordiale comunicazione tra formandi e formatori.

Nell’impossibilità di stabilire un dialogo positivo tra formando e formatore, si crea nella comunità uno stile di vita segnato dalla mediocrità e un'apparente pacifica convivenza che nasconde una frattura profonda, per cui tra formandi e formatori diventa impossibile potersi confrontare veramente e promuovere tra gli scolastici i valori del sacrificio, della necessità di puntare sempre all'obiettivo più alto, per arrivare a una sicurezza personale di cui nessuno riuscirà più a privarli.

La vita di consacrazione missionaria è esplicitazione della vita di Dio ricevuta nel battesimo (cfr. RV 20.1) e caratterizzata da una triplice comunione, con Dio, con gli altri, con se stessi, come vita intrisa dell'umanità vissuta da Cristo (cfr. RV 3.2-3). Il percorso comunitario è possibile soltanto per persone “nuove”, cioè che hanno aderito alla vita di Cristo dopo aver rinunciato al male e hanno perdonato il male che hanno ricevuto. La comunione nella comunità è vera, quando ha la chiarezza del Mistero Pasquale.

La dinamica morte-risurrezione in cui ci coinvolge il Mistero Pasquale, porta le persone a percepire la povertà della propria vita e risveglia in esse il desiderio che le salvi dalla mediocrità. Allora le comunità dello Scolasticato inizierà a riconfigurarsi come scuola della ricerca del ”magis”, cioè del desiderio di vivere nel bene e di passare dal bene al meglio, della ricerca di dono di sé e di amicizia, in cui al binomio individuo-massa subentra il binomio persona-comunità. Viene così superato il virus individualistico, che pervade le nostre comunità, dove succede che le persone si incontrano per alcuni anni rimanendo estranee le une alle altre…

La ragione di questa situazione non dipende dalle strutture formative, grandi o piccole che siano, o dalle comunità formative costituite da piccoli gruppi di Scolastici più o meno inserite; è semplicemente questione di mantenere chiara la direzione verso Chi e verso dove andare, entrando in un serio cammino di vita spirituale, attraverso un’azione formativa decisamente centrata sulla persona a partire dalla sua situazione concreta. Allora soltanto noi siamo ciò che siamo in Cristo. E ciò che siamo, ciò riflettiamo intorno a noi.

Per tanto, il vero snodo del cammino formativo è la formazione al dono di sé nella libertà, nella gratuità e nella gratitudine (RV 20), che ha il suo fulcro nell’Eucaristia (cfr. RV 53). È essa che alimenta e porta a compimento l'innesto della nostra vita in Cristo, partecipata a noi dal Padre e ci configura nella nuova splendida realtà dell'unico Corpo del quale Cristo è il capo. Per questo la nostra vita di consacrazione deve passare dall'umano al divino, cioè lasciarci raggiungere dal divino e partire da esso per migliorare la nostra umanità e renderla spiritualmente feconda e quindi capace di proclamare l’amore del Padre, esperimentato nella comunione personale con Cristo, sotto la guida dello spirito Santo (cfr. RV 46).

A questo riguardo sono illuminanti le parole di san Paolo ai Corinti: «2Io provo per voi una specie di gelosia divina: vi ho promessi infatti a un unico sposo, per presentarvi a Cristo come vergine casta. 3Temo però che, come il serpente con la sua malizia sedusse Eva, così i vostri pensieri vengano in qualche modo traviati dalla loro semplicità e purezza nei riguardi di Cristo» (2Cor 11, 2-3).

L’epicentro del cammino formativo con il corrispondente compito dei formatori ci viene indicato chiaramente da queste parole di san Paolo. Egli è consapevole che ha il dovere di preparare la comunità all’incontro con Cristo suo Sposo, è perciò deve garantire davanti a questo Sposo l’integrità e la fedeltà della sposa e quindi metterla in guardia dai possibili inganni che la possono far traviare nei riguardi Cristo.

Questa consapevolezza lo accompagna fino alla fine della sua vita e la dichiara formalmente nel suo discorso di addio agli anziani di Efeso convocati a Mileto: «Attesto solennemente oggi, davanti a voi, che io sono innocente del sangue di tutti, perché non mi sono sottratto al dovere di annunciarvi tutta la volontà di Dio» (At 20, 26-27).

3. Motivi di disaggio nel cammino formativo provenienti dagli Scolastici

Per capire le ragioni dei casi in cui con facilità si conduce una doppia vita e del basso indice di perseveranza dei nostri candidati, sono da prendere in considerazione soprattutto quelle ragioni che sono inerenti all'ambiente da cui proviene la maggior parte dei nostri giovani.

- Le “vocazioni sociologiche”

Non possiamo dimenticare che molti dei nostri candidati provengono da ambienti sociali, in cui generalmente non è assicurato il minimo vitale. Possono, pertanto, nascere “vocazioni sociologiche”, cioè vocazioni di giovani che hanno bisogno di entrare nella vita religiosa per sistemarsi[2]. A volte questa possibilità rappresenta per loro l’unica tavola di salvezza. Se riescono ad aggrapparsi ad essa, vi rimangono fortemente legati finché non abbiano raggiunto una certa sicurezza nella vita, quindi prendono la loro decisione finale, che può consistere nel ratificare la vita intrapresa che era presente in loro in germe fin dall’inizio e con la quale si sono man mano identificati, oppure decidono di prendere un'altra strada... Una vita di stampo internazionale come la nostra, che sembra offrire tante possibilità come studiare all'estero, imparare lingue, ottenere un diploma, una laurea, ecc. risulta certamente molto attraente e conveniente...

Ma può succedere che l'abbandono avviene anche per il sopraggiungere della delusione, in quanto quello stato di vita che appariva come la via per un'ottima sistemazione, pian piano presenta un prezzo da pagare troppo caro....

- Le vocazioni giovanili-adulte

Con la terminologia “Vocazioni giovanili-adulte”[3] indichiamo le vocazioni che si manifestano nei giovani fino ai trent’anni.

Questi giovani-adulti che frequentano le nostre comunità vocazionali presentano spesso rilevanti carenze catechistiche, e anche un senso d’appartenenza alla Chiesa debole e poco significativo.

Questi giovani, per tanto, hanno bisogno di un periodo di vera iniziazione spirituale, che abbia come fondamento una visione globale del mistero di Cristo, favorisca un approfondimento dell’esperienza di fede, una riscoperta dell’appartenenza alla Chiesa, e un accompagnamento adeguato per discernere la propria vocazione.

In questo ministero educativo non mancano punti problematici che bisogna tener presenti. Il primo è che queste persone arrivano con caratteristiche già impostate, e i cambiamenti prevedono tempi lunghi.

Per tanto, per un positivo discernimento non deve mai mancare all'animatore o educatore la certezza dell'educabilità della persona in questione. Solo chi si consegna all'azione educativa della Chiesa nell’Istituto Comboniano ed è disponibile a mettersi in gioco, consegnandosi con fiducia ai suoi formatori, può essere ritenuto idoneo per questo tipo di cammino.

Bisogna poi tener conto delle sorprese che possono nascere nel corso della verifica delle vere motivazioni vocazionali, che devono essere approfondite in modo serio. Non è raro, infatti, che in un certo periodo della vita, magari dopo un periodo di lontananza dalla fede, riscoperta in seguito a esperienze significative o semplicemente emotive, un giovane-adulto scambi per vocazione missionaria come Sacerdote o come Fratello quello che è invece il riemergere gioioso della sua vocazione battesimale, e che determinati slanci di generosità non indichino la necessità di un cammino di formazione alla Vita Consacrata ma il momento di ritornare con convinzione matura alla fede della Chiesa.

Chiarire con un adeguato approfondimento la generica e ambigua motivazione «voglio farmi missionario per fare qualcosa di utile per gli altri», è il primo passo da compiere da parte di chi li accompagna spiritualmente. La vocazione è qualcosa di più della generosità, di cui i giovani certo non mancano. Da parte sua, il promotore vocazionale o il formatore deve aiutare il giovane a compiere questo passo mosso dal senso della gratuità, senza lasciarsi condizionare da possibili risultati contrari alle sue aspettative.

- Le vocazioni intese come “protagonismo in nome di Dio”

Se l'ambiente di provenienza è di una certa agiatezza come nel mondo occidentale, l'inizio del cammino formativo può cominciare sotto l'influsso di un forte entusiasmo per la missione intesa come protagonismo in nome di Dio, espresso e vissuto come opzione per i poveri…. Un protagonismo che può essere accompagnato da un certo senso di superiorità, da spirito paternalista, ed anche da un certo senso di colpa…

Questo slancio spinge ad impegnarsi nei dibattiti sui problemi della società mondiale, e a voler coinvolgersi in attività di solidarietà coi bisognosi con un’intensità tale, da far dimenticare che è altrettanto necessario occuparsi della rigenerazione del proprio cuore. San Pietro vede nel cuore il profondo dell’essere, la sede dell’uomo non ancora neppure a lui rivelato. Si tratta dell’“uomo nascosto in fondo al cuore” (1Pt 3,4). È quell’uomo interiore, che può essere intercettato nel quotidiano della vita, quando la persona s’impegna in un itinerario d’interiorizzazione. Quest’itinerario porta a mettere in sintonia il proprio mondo interiore con il mondo di Dio, in modo da assimilare quelle motivazioni dell’impegno missionario che danno consistenza alla propria scelta. Quando si evade o si prende alla leggera questo cammino, il momento della Professione Perpetua o dell’Ordinazione sacerdotale arriva come un evento improvviso che mette in questione la coscienza della persona …. È la prima crisi vocazionale, che finalmente mette la persona nell’assoluta necessità di discernere ciò che ha fatto e a prendere una decisione definitiva, che può consistere nella ratifica del passo che sta per dare o nel rifiutarlo per non averlo scelto e voluto in piena coscienza….

Questa prima crisi a volte si può verificare subito dopo la Professione Perpetua o l’Ordinazione Sacerdotale e può concludersi con l’uscita….

- Le vocazioni nate dal bisogno di soccorso per disaggio esistenziale

Nei giovani d’oggi si può riscontare con frequenza un profondo stato di disaggio, provocato dal disorientamento circa il senso della vita e il suo valore. È un fenomeno presente sia nella società dell’Occidente come nel Sud del mondo, anche se con sfumature diverse.

In questi casi la condizione più importante perché una persona possa trovare una via per uscire dal suo disaggio, è avere una famiglia o un gruppo su cui contare.

In uno scenario mondiale in cui la famiglia è allo sfascio o comunque non sempre all’altezza del suo compito educativo, molti giovani sono alla ricerca di persone che possano offrir loro proposte concrete formulate in comunità accoglienti, che li aiutino a vedere chiaro nella loro vita e a trovare quelle ragioni della speranza che tuttavia hanno nel cuore e che, sole, possono sostenerli nell’inevitabile combattimento della vita. In questa ricerca di proposte vitali, molti di essi includono molto spesso anche l’urgenza di dare una risposta al bisogno di credere in Dio, che manifestano soprattutto come apertura e interesse per forme diverse e nuove di religiosità.

Quando i nostri promotori vocazionali si presentano in questi scenari, ancora una volta lanciano ai giovani una tavola di salvezza.

In realtà il promotore vocazionale intende svegliare l’attenzione dei giovani sulle urgenze della Missione; in pratica il giovane scopre una via d’uscita dal vicolo cieco in cui si trova. Finché il giovane non è uscito dal suo “punto cieco” e non ha trovato una risposta alle sue domande sul senso della vita, il discernimento vocazionale specifico e il cammino di formazione in senso stretto rimangono in situazione d’attesa, come in standby…

Queste situazioni di disagio possono essere presenti nella vita di un giovane collegate tra esse e possono influire nella sua condotta con più o meno con intensità … Ad ogni modo il momento della scelta dello stato di vita e l’inizio del cammino formativo specifico arriva quando dal disaggio esistenziale il giovane passa all’incontro con il Signore Gesù, esperimentato come via alla verità della propria vita. Soltanto adesso il giovane ha un orizzonte stabile nel quale può cominciare a scrivere le pagine nuove della propria storia. In questa storia può nascere come frutto la Consacrazione alla vita missionaria comboniana, o la vita come Sacerdote in una Diocesi o quella di un laico impegnato, ecc… Questi frutti, nascendo in ambito comboniano, saranno certamente vissuti secondo lo spirito di san Daniele Comboni….

- Imparare dalla storia, per promuovere la “pastorale della santità”

La situazione descritta richiede da parte nostra, come primo passo nel cammino formativo, un deciso impegno in vista di un’accurata formazione umana e alla vita cristiana in prospettiva vocazionale e missionaria.

Se consideriamo con attenzione questa esigenza, ci accorgiamo che ci unisce allo spirito del Piano di Daniele Comboni e con lui ci fa complici dello Spirito Santo nel generare la Chiesa missionaria nei suoi consacrati e nei suoi laici…

Comboni, infatti, aveva assimilato gli obiettivi educativi dell’Istituto Mazza, dove il messaggio del Cuore di Gesù era accolto e tradotto in piano educativo nella sua originalità: la salvezza è per tutti, è offerta a tutti gli uomini dall’amore del Cuore di Gesù, attraverso l’opera missionaria della Chiesa, ed è una salvezza integrale.

È una salvezza, pertanto, che abbraccia la persona umana nelle sue dimensioni naturali e soprannaturali (spirito-anima-corpo) e nelle sue relazioni con la società e il creato, secondo la prassi e l’insegnamento di Gesù. Egli, infatti, non ammette una pratica religiosa staccata dalla vita, incapace di portare all’impegno “a diventare il Buon Samaritano del giorno”.

Fondato su tali basi, il progetto missionario dell’Istituto fondato da Comboni si proponeva coniugare “religione e civiltà” a favore dei popoli dell’Africa Centrale, che apparivano i più emarginati dalla storia, in continuità con l’obiettivo degli Istituti Mazza a Verona, che era precisamente quello di preparare ottimi cittadini e perfetti cristiani.

L’efficacia di questa concezione della formazione cristiana e dell’attività missionaria è illustrata nella cripta dell’attuale chiesa di S. Carlo nell’Istituto Mazza, quindi sotto il trittico dell’«Altare delle devozioni», dove il Servo di Dio Nicola Mazza è sepolto in mezzo alle figure di due suoi insigni discepoli: da un lato c’è san Daniele Comboni, apostolo della «rigenerazione della Nigrizia», e dall’altro il Beato Giuseppe Tovini, uno dei grandi fondatori del cattolicesimo sociale.

Il Tovini (1841-1897) è contemporaneo del Comboni, alunno anche lui del Mazza; è uno dei grandi fondatori, con Toniolo ed altri, del cattolicesimo sociale nella seconda metà del 1800. Nella sua vita è stato sindaco di Brescia, fondatore di scuole cattoliche, di una banca e di un giornale cattolico oltre che padre di 10 figli, a uno dei quali ha posto il nome di Daniele in omaggio appunto a Daniele Comboni, apostolo dell’Africa Centrale.

Tutto questo non può che darci gioia e magari stimolarci a ripensare la nostra prassi d’animazione vocazionale e formazione in termini più comboniani, cioè più ecclesiali e missionari, superando così l’orizzonte ristretto del proselitismo congregazionale.

Come tradurre questa visione nel nostro piano formativo è un punto che meriterebbe una particolare attenzione da parte nostra. Forse ci aiuterà a superare la tendenza di attribuire alle strutture le cause delle difficoltà che incontriamo nel campo della formazione, come se le strutture avessero in se stesse il potere di raggiungere l’interiorità delle persone e cambiarle; nello stesso tempo ci aiuterà a farci promotori della “pastorale della santità” all’interno delle nostre comunità, nella certezza che questa è l’attività che, raggiungendo “l’uomo interiore”, cioè il cuore dell’uomo “che ha sete di trascendenza”, fa nascere “uomini nuovi per un mondo nuovo”, in cui tutti i vari ambiti della vita siano permeati di spirito evangelico …

4. Strutture troppo comode e protettive?

Nelle nostre valutazioni sulla formazione, emerge sempre l’affermazione che le strutture formative costituiscano uno dei principali punti deboli del processo formativo, giacché sono troppo comode e protettive.

È vero che le strutture troppo comode e protettive incidono negativamente nel processo di maturazione vocazionale. Dove ci sono tali strutture, bisogna porre rimedio.

Tuttavia, nel cercare il rimedio da porvi, bisogna riconoscere che le comodità e la protezione non provengono tanto dalla casa in cui si vive, ma da come si vive dentro di essa… È un fatto visibile che abbiano in Congregazione qualche struttura formativa creata su misura per una vita povera, sobria e solidale con i poveri, eppure i risultati che in essa si producono, non sono per nulla migliori di quelli che si ottengono nelle altre strutture per così dire tradizionali e “imborghesite”, anzi… D’altra parte, possiamo costatare che ci sono strutture tradizionali che non sono per niente “imborghesite”, e che hanno raggiunto buoni risultati o per lo meno non hanno suscitato perplessità sul buon andamento del cammino formativo.

Per risolvere il problema delle strutture, bisogna tener presente che l’aspirazione di fondo d’ogni giovane è di superarsi, di essere di più ed avere di più, di ottenere successo nella vita. Se il giovane proviene da una situazione di carenza, quest’aspirazione è ancora più forte. Ed è naturale che sia così. Allora, qualsiasi rinuncia che gli si chieda, - soprattutto se chi la chiede non è passato per la via della strettezza -, la percepisce come una violenza alle sue legittime aspirazioni. In quest’ottica, le proposte ascetico-morali date dall’esterno in nome delle grandi cause dell’umanità, in nome di una Missione eroica o difficile, anche se sullo stile di quella di Comboni, difficilmente sono accolte e integrate autenticamente dai giovani nella propria esperienza di vita. Un giovane del Nord del mondo, le accetterà mosso da sensi di colpa e assumendo un comportamento conformista di fronte all’urgenza di impegnarsi nella soluzione dei grandi problemi, che sfidano il mondo d’oggi e che sono provocati dal mondo del benessere di cui fa parte. Un segno di ciò può essere il fatto che un tal giovane vive amareggiato e insoddisfatto, in un’attitudine di ribellione contro tutto e tutti, e con comportamenti spesso incoerenti. Da parte sua, il giovane del Sud del mondo, farà di necessità virtù, e nello stesso tempo farà il possibile per trovare il modo di liberarsi da questa camicia di forza che gli viene imposta. In pratica nessuno dei due vive e cresce nell’autenticità, armonizzando il movimento unitivo ed espansivo della vita vissuta nello Spirito del Signore Gesù.

In entrambi i casi, il criterio da cui bisogna partire è quello di dare al giovane l’opportunità di arrivare al massimo delle sue possibilità e nello stesso tempo fare in modo che la formazione spirituale sia all’altezza della formazione intellettuale e della missione da svolgere. Sarà una profonda relazione personale con il Signore Gesù (cfr. RV 21.1) che lo spingerà a dare una direzione oblativa al suo sforzo di progresso umano, cioè, a sviluppare le sue capacità secondo le esigenze della sua vocazione e ad imparare ad usare i beni e i mezzi che sono a sua disposizione, tanto quanto esige la sua scelta fondamentale di stare con Gesù Cristo ed essere da Lui mandato nel mondo (cfr. RV 21). Solo allora il giovane sarà in grado di “lasciare” da parte le sue ambizioni personali e sarà felice di seguire Gesù con tutta la propria vita e le proprie possibilità. Allora prenderà coscienza che il suo Sì a Cristo” comporta anche dei No, ma sono i No che nascono dal suo cuore abitato dalla presenza del Signore Gesù. Il giovane entra così in un cammino di radicalità evangelica o di sobrietà come ricerca di austerità di vita, che è conseguenza della sua generosità nel seguire il Signore, condividendo la sua Missione di Salvatore del mondo.

La “sobrietà”, infatti, è vivere con l’attenzione posta su Dio che è la realtà che conta, che ha un vero peso nella ricerca del senso della vita e che rimane per sempre; è vivere mantenendo l’attenzione sulla relazione personale con il Signore Gesù, da cui si imparano e si gustano le cose vere, giuste e sicure, e da lì si va avanti nel cammino della vita, cercando di seguire le tracce di Cristo stesso, combattendo per il Regno di Cristo al modo di Cristo stesso. La sobrietà, per tanto, è quell’atteggiamento dello spirito che raccoglie tutte le facoltà, e “focalizza l’intera esistenza nell’incontro con Dio in Cristo (cfr. RV 46). Il realismo del rapporto con questo Dio-Amore, che si rivela come un Dio pasquale, cioè del sacrificio di sé, della morte e della risurrezione, porta ad assumere uno stile di vita strettamente connesso all’adesione a Dio, libera la persona dagli atteggiamenti egoistici e la apre alla solidarietà con gli altri dentro e fuori della comunità.

Per tanto, l’importante è che, sotto l’influsso dell’incontro pasquale con Dio in Cristo, chi arriva nelle nostre strutture da ambienti più agiati, impari a contentarsi con il necessario che trova nell’ambiente in cui ora vive; e chi viene da situazioni di vita in cui ha sofferto la mancanza forse anche del necessario, non cada nella trappola dell’avidità e di voler cambiare il suo stato sociale a causa della sua nuova situazione di religioso-studente, ma impari dall’incontro con Dio a vivere felice nell’offrire ciò che è e ha, incluso il suo sapere, al servizio della Missione, partendo dalla solidarietà con i più bisognosi.

Uno stile di vita improntato alla radicalità evangelica, si ottiene offrendo ai giovani strutture semplici, sì, ma adeguate alla vita di una comunità di religiosi studenti, dove si vive una vita austera e semplice che manifesti l’impegno della comunità nella sequela radicale di Gesù e favorisca la condivisione solidale con coloro che hanno meno. Questo suppone che, assieme allo studio, si coltivino i valori umani ed evangelici.

Nella ricerca di modelli alternativi per la formazione, a mio modo di vedere, bisognerebbe insistere prima di tutto su alcuni punti imprescindibili che riguardano il processo dell’identificazione vocazionale dei giovani. La persona, infatti, nel soddisfare i suoi bisogni e le sue aspirazioni, è mossa dallo spirito che arde dentro di sé. Se questo spirito è lo Spirito del Signore Gesù, allora la persona comincia ad incarnare questa presenza e a irradiarla con tutto il suo essere, cioè con i gesti del suo corpo, con gli atteggiamenti della sua affettività, con i comportamenti che scaturiscono dalla sua volontà, illuminata dalla sua intelligenza. Questo tipo di persona contribuisce a creare un ambiente comunitario di generosità evangelica, piuttosto che lasciarsi attrarre da prospettive d’imborghesimento. Le strutture che veramente tengono sono le convinzioni interiori nelle quali ognuno si va radicando, man mano che va rispondendo a Dio che lo chiama, sostenuto e stimolato dall’ambiente favorevole del cammino della comunità.

Il banco di prova del passaggio da una vita centrata sulla soddisfazione dei propri bisogni vitali ad una vita che cresce nella linea evangelica del dono di sé, è la vita quotidiana, che ha sempre bisogno di un certo ordine in un minimo di strutture adeguate. Per misurare il livello di crescita nell’identificazione vocazionale, l’attenzione va posta sulla vita concreta della persona inserita nella routine di una comunità, più che alle sue affermazioni di principio: le scelte autentiche possono essere certificate solo dai fatti più che dai desideri o dalle intenzioni, per quanto lodevoli, sincere e buone.

5. Motivi di disaggio provenienti dal vissuto dei voti

5.1. Difficoltà da superare

Nella cultura attuale, anche se con caratteriste diverse nelle varie aree culturali, manca una cultura cristiana di fondo e ciò non favorisce l'impegno a vivere alcuni valori, come i tre consigli evangelici di povertà, obbedienza e castità.

D’altra parte, «molte delle stesse guide della comunità cristiana paiono incapaci di una parola convinta, decisa, obbediente al “sì sì, no no” evangelico, una parola in grado cioè di far risuonare con vigore nell’oggi della storia le assolute esigenze cristiane» (Lettera agli amici, Bose, Pentecoste 2011).

Questa situazione in qualche modo riguarda anche noi comboniani e richiede sia ai Superiori sia a noi formatori di essere attenti all'approfondimento della conoscenza di Cristo e del suo irradiamento affettivo ed effettivo nella vita dei giovani candidati proprio attraverso la fedeltà e la perseveranza nella pratica dei voti. Tra noi comboniani siamo convinti che il cuore della formazione sia la missione, ma forse non ci rendiamo conto che impieghiamo poche energie per imparare a "essere", cioè per imparare a vivere ciò che vorremmo comunicare agli altri con l’evangelizzazione…

La fedeltà, infatti, è la virtù essenziale a ogni relazione interpersonale nella comunità-cenacolo, a cominciare dalla relazione fondante con Cristo che diventa il centro del nostro stare assieme nella lealtà e fiducia reciproca e del nostro andare incontro agli altri nel servizio apostolico. La perseveranza è la virtù specifica del tempo, che dà stabilità e fa maturare la relazione con Cristo e le relazioni interpersonali in Cristo. I valori che professiamo con i voti esistono realmente in noi e creano un’atmosfera specifica di testimonianza nella comunità davanti al mondo solo in virtù della fedeltà e della perseveranza. A che cosa si riduce la professione dei consigli evangelici senza la fedeltà e la perseveranza di persone lealmente e generosamente impegnate in un processo di assimilazione dei voti professati?

5. 2. I voti non costituiscono principalmente uno stato ma soprattutto un processo.

I voti, infatti, non costituiscono principalmente uno stato ma soprattutto un processo. La consegna incondizionata di sé per amore che i voti suppongono ed esprimono, si manifesta nella disponibilità senza restrizioni della persona consacrata; è la persona tutta, in tutta la sua affettività e capacità, che si consegna a Cristo.

È un dato di fatto che l'uomo non raggiunge in un modo immediato lo stadio definitivo della sua consegna nell'amore, ed anche quando raggiunge un impegno totale, è sempre con la vigilanza attraverso la fedeltà e la perseveranza che riesce a mantenerlo; così anche nella vita consacrata, la consegna iniziale di sé a Dio, professata in forma pubblica e definitiva nella professione perpetua, continua ad approfondirsi e radicalizzarsi anche esteriormente per mezzo di gesti sempre più impegnativi durante tutta la vita.

In effetti, i voti, dovuto all’impegno interiore che suppongono, non creano uno stato acquisito, ma iniziano un processo che attualizza giorno per giorno la consacrazione. Il religioso, per il voto di castità, inizia il processo di verginizzazione della sua vita; sarà povero, non tanto per la promessa fatta, quanto per la realizzazione concreta del distacco ogni giorno ed in ogni occasione; e la sua obbedienza sarà una ricerca ininterrotta della volontà salvifica di Dio senza mai raggiungerla pienamente durante la peregrinazione in questo mondo.

Il missionario religioso vive il dinamismo della consacrazione missionaria nella professione dei voti, quando è persuaso che "se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo" (Gv 12,24), e che solamente spinto dall'amore potrà raggiungere quella disponibilità interiore fondamentale che lo rende capace di vivere esclusivamente davanti a Dio per gli uomini suoi fratelli fino al fine.

Per questo è urgente che la pratica dei voti sia centrata in Cristo Gesù, «il quale vergine e povero, redense e santificò gli uomini con la sua obbedienza fino alla morte » (RV 22).

Per quanto riguarda la castità è decisivo assumerla come il segno più eloquente della sequela radicale di Cristo. Nella dinamica della sequela di Cristo (cf. Lc 18,29-30; Mc, 29-30), il voto di castità anzitutto è segno che niente e nessuno deve essere preferito all'amore di Cristo. Per questo implica una rottura con i vincoli del sangue (famiglia, matrimonio), con i legami della propria terra (patria, etnia) e con l'attività professionale (lavoro, campi). Il voto di castità vissuto non come disprezzo del corpo e andando oltre l’osservanza formale dell’obbligo assunto con il voto, inaugura un’arte di vivere l'amore in maniera diversa, introduce il missionario in un modo nuovo di amare per tutta la vita, che lo spinge a una dedizione totale alle persone che evangelizza e che quindi va al di là di una pura rinuncia al matrimonio e di una vita di perfetta continenza (cfr. RV 25). Vissuto così, il voto di castità porta la persona consacrata a una nuova apertura verso tutti, imparata nell’assidua contemplazione del Mistero del Cuore di Cristo (cfr. RV 3.2-3), e rappresenta un grande valore nel mondo di oggi, in ogni continente, in quanto manifesta la fecondità spirituale con dei notevoli effetti sociali…

Al di là di inaugurare un modo nuovo di amare in questo mondo con benefici effetti sociali, il voto di castità emerge come segno escatologico, che ricorda a tutti, a ricchi e poveri, che questo mondo «anche dopo la vittoria di Cristo, dopo la sua resurrezione e la trasmissione delle energie del Risorto al cristiano, resta ancora operante l’influsso del “principe di questo mondo” (2Cor 4,4), sicché il tempo del cristiano permane tempo di esilio, di pellegrinaggio, in attesa della realtà escatologica in cui Dio sarà tutto in tutti (1Cor 15,28). Il cristiano, infatti, sa – e non ci stancheremo mai di ripeterlo in un’epoca che non ha più il coraggio di parlare […] di eternità, in un’epoca appiattita sull’immediato e sull’attualità – che il tempo è aperto all’eternità, alla vita eterna, a un tempo riempito solo da Dio: questa è la meta di tutti i tempi, in cui “Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre” (Ebr 13,8). Il télos delle nostre vite è la vita eterna e quindi i nostri giorni sono attesa di questo incontro con il Dio che viene» (Lettera agli amici, Bose, Pentecoste 2011).

Da parte sua san Daniele Comboni presenta il missionario come una persona assettata di Dio e animato da un vivo slancio missionario, per cui «spoglio affatto di tutto se stesso, e privo di ogni umano conforto, lavora unicamente pel suo Dio, per le anime le più abbandonate della terra, per l'eternità (cfr. S 2701-2702).

L’espressione “per l’eternità” va riferita al lavoro fatto unicamente sia per Dio intensamente cercato dal missionario sia per le anime più abbandonate, chiamate assieme a lui alla vita eterna (cfr. S 2742).

L'orizzonte, infatti, in cui Comboni scopre e vive la consacrazione alla missione è l'eternità, intesa come esperienza profonda, dinamica e perseverante del Mistero di Dio.

Perdendo di vista l’eternità, la vita del missionario è ridotta a semplice attività filantropica e perde lo slancio divino della sua origine ed il suo significato ultimo, per cui il missionario è il primo a rimanere esposto ad una specie di vuoto e isolamento intollerabile.

L’opera missionaria di san Daniele Comboni non è una filosofia della vita o un'avventura filantropica causata dai problemi umani degli Africani, ma un'offerta di salvezza, presenza dell'AMORE ASSOLUTO, che produce la gioia propria del Regno di Dio, nel costatare che è presenza rigeneratrice dell'uomo oppresso. Il missionario è partecipe di questa gioia, sentendosi amato e inviato da Dio per essere suo strumento in quest'opera di ri-generazione. Far presente l'amore rigeneratore di Dio in mezzo agli ultimi della terra e sperimentare questo stesso amore come senso ultimo della propria vita è lavorare per l'eternità.

Per tanto, per Comboni lavorare per l'eternità non significa che si dedica alla missione per fare meriti e comprare la felicità eterna per se stesso e per gli africani oppressi, ma che si dedica alla missione aperto alle necessità del mondo nell’ottica di Dio, mirando quindi ad un futuro con speranza di resurrezione, perché sa che le uniche buone sono le mani di Dio, Amore “fontale” e finale di ogni vita umana: abbia successo o insuccesso nella missione, Dio Padre è sempre con lui ed è l'unico garante del suo Regno. Perciò egli può morire, ma l'opera che il Padre gli ha affidato non morirà. Senza la dimensione escatologica, l’opera missionaria di Comboni sarebbe come un camminare senza meta finale.

Al segno eloquente del voto di castità va unita il segno della vita fraterna o della koinonia.

Il voto di castità, infatti, apre alla possibilità di una vita fraterna, una vita cioè che non si ferma alla vita comune, ma che diventa vera vita di comunione, koinonia-communio, comunità-cenacolo. Tra di noi la vita comune non è percepita da tutti allo stesso modo: c’è chi la percepisce come semplice vita regolare che è anche al di sopra della missione; c’è chi la percepisce in vista della missione da compiere e quindi ad essa subordinata; non manca chi la concepisce come un ostacolo alla missione e quindi bisogna aggirarlo.

La nostra Regola di Vita in sintonia con l’ispirazione originaria del Fondatore ci propone la consacrazione, la comunione e la missione come i tre pilastri, intorno ai quali vene costruita la vita consacrata alla missione sulle orme di Daniele Comboni.

Questa visione corrisponde alla visione proposta nel Primo Incontro di Nuove Forme di Vita Consacrata (Roma 4/6/2011), il cui motto era “Aprendo cammini: consacrazione, comunione, missione”. I partecipanti all’Incontro spiegano in una nota che il motto scelto esprime “le tre realtà, che, intimamente relazionate tra loro, costituiscono la vita consacrata in tutte le sue forme” e “la vocazione ad aprire nuovi cammini nella Chiesa di fronte ai cambiamenti radicali che stiamo vivendo e alla chiamata ad una nuova evangelizzazione”.

L’accento sulla “comunione” sta a indicare che oggi si sta prendendo nuovamente coscienza che una vera vita comunitaria deve essere vita di comunione, cioè deve essere intesa prima di tutto in vista di un servizio reciproco, e pensata come una vita nella quale l'opera prima, al di là di tutto, è mettere come base del vivere insieme il comandamento del Signore: «Amatevi a vicenda come io vi ho amati» (RV 38; Gv 15,12). Se c'è quest’amore, allora c'è la profezia, parola di Dio per gli uomini, anche per i non credenti. Si realizza così il desiderio di Gesù: «da questo tutti conosceranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 14,35) e la sua preghiera: «siano perfetti nell’unità e il mondo sappia che Tu mi hai mandato» ( RV 36; Gv 17,23).

In questa prospettiva bisogna pensare alla situazione delle nostre comunità religiose, dove persone di origine, di etnie e di culture diverse, di preparazione intellettuale diversa s’incontrano e vivono insieme; se si amano reciprocamente, ciò giustifica già l'esistenza della loro comunità, perché è segno visibile dell’umanità nuova nata dallo Spirito (RV 36).

Riguardo alla povertà è decisivo che il missionario sia unito alla persona di Gesù come a sua unica ricchezza da condividere con gli altri (Cfr. At 3, 1-10).

Senza questa ricchezza, la vita è vissuta nella logica dell’individualismo disgregatore della vita comunitaria, nella paura della perdita di sé e delle proprie cose, nell’ansia di affermarsi e di accumulare; il distacco dai beni materiali, la trasparenza nell’uso dei mezzi economici, la solidarietà con i poveri a partire dalla propria povertà, la disponibilità di andare in missione in aree povere, non saranno scelte generose di vita evangelica, ma restrizioni vissute come una penalità nella speranza di trovare una via di evasione.

La vicenda emblematica di Anania e Saffira e del giovane Èutico

Senza la ricchezza dell’amore del Padre, esperimentato nell’incontro personale con Cristo (cfr. RV 46; 21.1), senza il coinvolgimento affettivo nei misteri della vita di Cristo attraverso i quali il Vangelo ci narra quest’amore, si finisce per essere coinvolti nella tragica vicenda di Anania e Saffira: una coppia che mentì allo Spirito Santo, non accettando la legge della piena comunione che comporta condivisione di cuori, di beni e di vita. Si trasformarono così in cadaveri, in pesi morti per la comunità (At 5, 1-11).

Secondo qualche studioso della Bibbia, negli Atti degli Apostoli la vicenda di questa coppia è presentata come il “peccato originale” nella nuova comunità, svilita da membri che conducono una vita vissuta con riserve mentali e con mentalità individualistica, dominati dalla paura di perdere ed esposti al contagio della falsità per proteggere il prestigio personale.

È significativo che il peccato per cui ci si esclude dalla comunità dei discepoli prenda il volto della cupidigia di denaro e della menzogna. Sono queste due vie privilegiate per fare alleanza con il padre della menzogna e il divisore, e così sconvolgere l’itinerario di fede, che abbiamo intensificato quando siamo stati raggiunti dalla proposta della sequela radicale del Signore rivolta al giovane ricco: «Vendi tutto, da’ il ricavato ai poveri, poi vieni e seguimi», dunque quasi al culmine del cammino di fede (= la proposta dei consigli evangelici).

La condivisione del denaro che doveva essere segno di fraternità, condivisione, comunione diventa invece occasione per essere fonte di divisioni fondate sulla menzogna. Ciò accade perché i fratelli condividono con la comunità solo un’immagine artificiosa di se stessi, con la quale vogliono far vedere che vivono determinati valori che in realtà sono ancor ben lontani di integrare nel vissuto reale della propria coscienza. Questa è una scelta grave, perché la vita di consacrazione professata con i voti e la comunità vengono strumentalizzate in vista del proprio tornaconto. Si giunge a vivere in uno stato di menzogna più o meno cosciente.

La strategia che qui è messa in atto è quella del finto distacco da se stesso e dai propri beni, che è frutto di una mancata e seria risposta alla chiamata del Signore. Nasce così una vita impostata in un circolo vizioso di cui rimango io stesso vittima; un circolo vizioso che mi porta a non condividere realmente la vita, a giocarmi la vita tenendo per me dei segreti con l’obiettivo di essere l’unico padrone della mia vita, mentre gli altri li metto a servizio delle mie ambizioni. In realtà ciò che voglio è rimanere l’unica autorità della mia vita, senza doverne rendere conto ad alcuno, ma con il diritto di ricevere dagli altri in quanto membro della comunità.

In tali situazioni i formatori si trovano di fronte a un bivio: prendere la via del coraggio di compiere il loro servizio fino in fondo proponendo i valori della consacrazione missionaria qualificata dagli ideali e dall’esperienza del Comboni come sono vissuti nell’Istituto (RV 81-82; 1) nel contesto dell’ascolto della Parola (RV 47), ben sapendo che la Parola è spada a doppio taglio che può ferire e guarire ed anche uccidere (cfr Ebr 4,12-13).

Se lo fanno, certamente lo fanno con timore perché sanno bene che chi annuncia la Parola è anzitutto egli stesso sottoposto allo stesso suo giudizio, perché tutti noi siamo un po’ come Anania e Saffira con i nostri “gruzzoletti” (attaccamenti) nascosti da difendere…

L’altra via che si può prendere è quella di far finta di niente “pro bono pacis”. Ma in questo modo tradiamo il servizio al quale il Signore ci chiama.

Infatti, procedendo in questo modo, non ci mettiamo a servizio della formazione alla vita di consacrazione missionaria in e nella Verità[4], e la nostra incoerenza offusca la nostra proposta di seguire Cristo come viene insegnato dal Vangelo, che è la regola suprema di ogni vita consacrata missionaria in ogni parte del mondo (Cfr. PC 2a; AG 23-24; RV 21).

In questo caso il peccato nella comunità formativa è condiviso tra formandi e formatori e si configura come un affronto e attentato contro la santità e l’integrità della fede in Cristo e della vita della comunità. La menzogna coinvolge tutti ed è nei confronti di Dio e della sua famiglia.

Al caso di frode di Anania e Saffira si può aggiungere la situazione d’indecisione e ambiguità del giovane Èutico della comunità di Tròade (At 20, 7-12). Paolo era arrivato a Tòade da Filippi. La sera prima di partire, la celebrazione della Cena del Signore si allungò fino alla mezza notte. Il giovane Èutico partecipava seduto sulla finestra, quindi né dentro né fuori: era un po’ parte della comunità e un po’ non lo era. Il suo grave problema era l’indecisione e l’ambiguità nel dono di sé: voleva due cose alla volta senza decidersi veramente per nessuna delle due. Non partecipando alla comunità con la totalità della vita, si addormentò, e cadde nel vuoto…. Paolo rimediò alla tragedia con un miracolo; a noi tocca indicargli il posto giusto in seno alla comunità; se non riusciamo, non ci resta altra soluzione che farlo scendere dalle scale, perché segua la sua strada…

Per quanto riguarda l'obbedienza, è decisivo che si viva nella consapevolezza che il Figlio obbediente del Padre, ci coinvolge nei palpiti del suo Amore per un mondo bisognoso di ritornare tra le braccia del Padre e mette nelle nostre mani i fratelli della terra, sospingendoci a darci per loro con Lui e come Lui.

Si possono superare così aspetti ideologici, etnici e culturali contingenti, che spesso diventano un pretesto per rimanere arroccati nei propri gusti e interessi egocentrici; nello stesso tempo si può superare un modo di governare e di obbedire solamente in maniera formale e amministrativa.

Inoltre nei momenti di crisi personale, comunitaria o sociale, l’obbedienza vissuta così è la forza che trattiene dal seguire l’istinto etnico o ideologico anziché la vocazione cristiana.

6. Alcuni nodi da sciogliere all’interno dell’Istituto

6. 1. Discernimento condotto in modo “blando”

Ho l’impressione che stiamo fomentando l’“inflazione delle vocazioni” per mezzo di un processo di discernimento condotto in modo “blando”. A questo riguardo voglio sottolineare la necessità di introdurre il candidato in un cammino di discernimento “esigente”.

Questo stile di discernimento deve essere praticato sia dal versante del formatore sia del candidato, così che camminino assieme con i piedi per terra con il desiderio di prendere la strada giusta, che porti il giovane alla scoperta e all’appropriazione vitale della sua scelta di vita.

In concreto per il formatore si tratta di rinunciare al professionismo assistenziale, e mettere il giovane in condizione di crescita (= in crisi), promovendo la sua responsabilità personale fino a fare di lui un vero artefice della sua identificazione vocazionale.

Il professionismo assistenziale da parte del formatore si manifesta nell'eccessiva preoccupazione di portare in braccio i giovani, quando questi s’incontrano con le prove e gli ostacoli della vita. Questo comportamento crea persone deboli in campo psico-affettivo, incapaci di dirsi i “No” necessari per raggiungere le mete che si sono proposte e di tirar fuori della propria interiorità quelle ricchezze e potenzialità sconosciute, ma presenti nel loro mondo interiore. Solo il giovane allenato al dono di sé (cf. GS 24) potrà porre le basi per vivere con libertà e gratitudine nelle scelte concrete della vita la consacrazione a Dio per il servizio missionario (Cf RV 20).

Introdurre in un serio cammino di discernimento significa aiutare i giovani a individuare le fonti delle difficoltà che, di fatto, dipendono anzitutto dall’indole della persona stessa e poi dai vari contesti sociali, culturali ecclesiali, congregazionali, comunitari..., e affrontarle come opportunità per crescere e progredire nella sequela di Cristo.

Da parte del giovane, entrare in un serio cammino di discernimento significa farsi artefice della propria formazione.

Dal Concilio Vat. II in poi, le direttive della Chiesa sulla formazione hanno continuamente ribadito la necessità che ogni formando assuma gli impegni della vita consacrata con quel grado sufficiente di maturità umana e spirituale che gli permetta una scelta libera, responsabile e generosa; che lo renda artefice della propria formazione.

Questa prospettiva è ripresa nel Cap. II dell’Istruzione “Potissimum Institutioni” del 2 febbraio del 1990: si tratta di disposizioni e orientamenti sulla formazione in vista di esplicitare le norme del diritto e di aiutare ad applicarle. Questo capitolo presenta, in una visione d’insieme, gli attori e gli ambienti della formazione. Ci sono due attori invisibili: lo Spirito Santo e la Vergine Maria; e quattro ben visibili: la Chiesa e la comunità (che sono anche ambienti), il formando stesso e i “formatori”. Il formando è presentato come “il responsabile della sua formazione” (n. 29[5]).

Per assumere questa responsabilità, il giovane deve essere anzitutto consapevole che nel processo globale della formazione il cammino spirituale è il centro e il principio unificatore di tutta la formazione; è il principio che assicura l’unità di vita, giacché è il punto di riferimento e nello stesso tempo l’anima della vita missionaria religiosa. Per essere realmente efficace, la formazione umana, intellettuale e missionaria vanno integrate in un cammino spirituale che permetta al giovane da una parte che faccia una personale esperienza della comunione con Dio e dall’altra che sia in grado di comunicare il mistero di Dio ai fratelli[6].

La nostra Regola di Vita raccoglie quest’unità di vita attorno alla carità missionaria del Cuore di Gesù e ne fa il principio interiore e dinamico capace di unificare le molteplici e diverse attività dell’azione missionaria e della vita comunitaria (Cf RV 3; 3.1-3; 36; 46; 81-85; PDV[7] 23).

Riguardo al Noviziato e allo Scolasticato, entrare nella dinamica di questa responsabilità implica che

  • il candidato, vivendo in sintonia con la Chiesa, la comunità ed i formatori, entri in prima persona nel processo formativo con tutte le sue potenzialità, per appropriarsi dei mezzi di crescita che gli sono proposti, e così arrivi a personalizzare i valori specifici della vocazione alla quale è con-vocato nell’Istituto, e quindi apporti nuova vitalità in seno alla comunità;
  • si coinvolga nel cammino formativo del Noviziato e dello Scolasticato, che si sviluppa secondo tre coordinate principali: la vita interiore attraverso l’esperienza di Dio in Cristo (RV 46), l’esperienza di comunione attraverso la vita comunitaria (RV 36; 84), l’attività apostolica svolta come “esperienza formativa”, cioè, in quanto è un fattore ordinato all’apprendimento e crescita spirituale nella, dalla e per la missione; servono al giovane in formazione perché metta le basi umane e spirituali per la realizzazione del servizio missionario durante tutta la vita;
  • superi l’idea che il Noviziato e lo Scolasticato sono una parentesi obbligatoria nella vita, di carattere istituzionale, per entrare nell’Istituto;
  • sia motivato ad impegnarsi per fare un’esperienza profonda e con mentalità aperta delle differenti tappe o momenti del cammino formativo, in modo da non lasciarsi portare dall’ansia dell’ “esserci già” e senza la dovuta preparazione nel servizio missionario.

Non sempre è facile mantenere l’armonia tra i quattro attori visibili. Una delle possibili difficoltà è la confusione dei ruoli: da una parte può succedere che i formatori non hanno un sostegno adeguato da parte della comunità religiosa e non s’impegnano a fondo nell’esercizio del loro ministero; dall’altra ci possono essere formandi che tendono a mettere da parte la Chiesa e a bruciare le tappe e la comunità, passando da discepoli a maestri….

6. 2. Un malinteso concetto di consacrazione circola anche in mezzo a noi

Una fonte di disaggio nel cammino formativo proviene da un malinteso concetto di consacrazione. È necessario notare, infatti, che concetti come vocazione, consacrazione, missione oggi sono termini anche “laici” con un significato differente rispetto a quello che hanno nel contesto religioso.

Così con il termine vocazione si è passati da un concetto che aveva per centro e protagonista Dio ad un concetto che ha come unico protagonista l'uomo. In questa prospettiva la vocazione non è una chiamata di Dio che trascina l'uomo in un progetto che lo trascende, ma la risposta dell'uomo alle sue esigenze interiori, in vista della propria realizzazione.

Allo stesso modo la consacrazione non è l'atto di Dio che prende possesso dell'uomo trascinandolo a sé e trasformandolo interiormente perché possa vivere le esigenze di un mondo superiore, ma è l'atto dell'uomo che si dedica così intensamente ad un determinato compito o progetto da lasciarsene totalmente assorbire. In questo senso, si dice che uno si "consacra" all’educazione dei giovani, o alla ricerca scientifica, a una missione di pace, ecc...

In questa prospettiva, per tanto, la missione è un compito che uno si assegna, un’opzione per una causa secondo le proprie propensioni.

Bisogna tenere presente questa diversità di significati, se non si vuole continuamente cadere in ambiguità ed equivoci grossolani e deleteri, che purtroppo serpeggiano anche tra noi. Nel contesto laico, ad esempio, uno non riceve una vocazione ma se la dà; e come se la dà così se la può cambiare. Il fatto che uno parli di "temporaneità" della vocazione sacra non è che conseguenza di questa confusione di concetti! Lo stesso discorso viene fatto per quanto guarda la "consacrazione", con l'aggravante che, per il credente qui si tratta di un'autentica "contradictio in terminis"; se il "sacro" in effetti dice sempre rapporto con Dio, non si riesce proprio a capire come si possa parlare di consacrazione quando si fa riferimento solo ad un progetto o attività umana. Ma c'è di più. Quando si parla di consacrazione personale si vuole dire che la persona è totalmente presa, sequestrata, espropriata; ora non c'è nessun progetto o attività umana che possa giustificare un tal genere di vita. Perché questo sia possibile, è necessario che al centro ci sia sempre una persona, che sia affascinante. La conclusione è che si finisce col concepire la vita religiosa non come una "consacrazione" incondizionata a Dio per essere a sua disposizione, bensì come adesione a un progetto nella cui attuazione uno pensa di realizzarsi. Così, invece di mettersi a disposizione di Dio per la realizzazione di un suo progetto, ci si mette e si usa il progetto di Dio come mezzo per la realizzazione di se stessi. L’estrema conseguenza di tutto questo si verifica quando uno (per motivi i più svariati) non si ritrova più nel progetto abbracciato: il suo abbandono è presentato addirittura come una esigenza della fedeltà dovuta a se stessi.

In questo contesto laico, il concetto tradizionale della nostra consacrazione missionaria “ad vitam”, cioè per tutta la vita (cfr. Regole del 1871, Cap. II, S 2654; RV 11.1), diventa consacrazione per la vita, cioè “impegno a saper promuovere i valori della vita, specialmente dove questa è disprezzata e vilipendiata” (Quaderno di Limone n. 4, p.10).

Questo impegno certamente è parte integrante della nostra azione evangelizzatrice e la nostra Regola di Vita lo propone e lo descrive con chiarezza; lo fa derivare però dalla nostra sequela di Cristo, intimamente legata all’umanità e alla sua storia (cfr. RV 16; 60-61). Solo l’incontro personale con Cristo, rivissuto e approfondito continuamente nella comunione con Lui (RV 21; 21.1-2), potrà garantire il nostro impegno “per la vita” e “per tutta la vita”.

Il Superiore Generale attuale, P. Enrique Sánchez González, nel suo messaggio per la festa del Sacro Cuore del 2011, «LA MISSIONE CHE NASCE DAL CUORE», sottolinea che «il Cuore del Signore è il santuario dove siamo sfidati a vivere la rinuncia totale a noi stessi, lo svuotamento che ci fa diventare dipendenti dall’Altro e dagli altri; è il luogo preciso dove siamo chiamati a vivere dell’Amore (con la lettera maiuscola) per diventare capaci di vivere amando».

E chi impara dal Cuore di Gesù a “vivere amando”, vive impegnato “ad vitam”, cioè “per tutta la vita”, perché tutti abbiano vita e l’abbiano in abbondanza.

Nel valutare il contesto in cui si svolge il processo formativo nel nostro Istituto, dobbiamo prendere atto che le ambiguità su vocazione, consacrazione e missione circolano anche tra non pochi Comboniani di oggi. Questa situazione può apparire:

  • nell’individualismo, tante volte segnalato dai nostri Superiori;
  • nello slancio missionario inteso soprattutto come protagonismo liberatore e promotore di Giustizia/Pace e Conservazione del creato, mentre rimane nell’ombra la gratuità della consacrazione e l’esigenza della comunione, cioè della missione come frutto del coinvolgimento nell’amore di Dio per l’umanità, della risposta alla chiamata di Dio che crea la comunione nella comunità missionaria. Questi elementi teologali, quando ci sono, normalmente sono presenti a livello intellettuale, ma non sono integrati nel cuore e quindi non incidono nell’affettività e nel comportamento quotidiano; le motivazioni che determinano il comportamento, si rifanno più a un impegno morale nell’ambito sociale che all’impegno di identificazione con Cristo;
  • in un senso d’appartenenza alla Chiesa debole e poco significativo, in poca sensibilità per la vita liturgica e sacramentale (in particolare per il sacramento della riconciliazione), in un indebolito senso della necessità dell’annuncio cristiano.

In particolare, la consacrazione si trova in una situazione di penombra, soprattutto perché è legata alla forma giuridica della “vita religiosa”. Allora si sente ribadire che la vita religiosa non era presente all’inizio della nostra storia come missionari, e quindi per noi è qualcosa di laterale in rapporto alla missione, e costituisce un ostacolo all’apostolato. Nasce così la tendenza a vivere separatamente la vita religiosa e la vita missionaria, dando enfasi all’una o all’altra secondo i propri punti di vista. Quando entriamo nel discorso della necessità di tornare alle radici, sorge spesso la questione se siamo prima religiosi e poi missionari o viceversa, a quale delle due realtà bisogna dare il primo posto ecc.

Nel valutare questa situazione bisogna tener presente che questo disaggio non è esclusivo del nostro Istituto e che provieni da molto lontano. Infatti, «nella tradizione della Chiesa ci sono due tipi di società religiose, a seconda della maniera di vita: gli ordini contemplativi e quelli apostolici. Nei primi secoli si riteneva che tutti i monaci dovessero essere contemplativi, cioè dediti alla preghiera, alle pratiche ascetiche e all’esercizio delle virtù. Ma quando arrivarono ad un grado più alto di intimità con Dio, capirono che dovevano uscire dalla solitudine e dedicarsi agli altri per condurli a Cristo» (Špildílk).

Fu così che la vita monastica divenne protagonista del primitivo cammino missionario della Chiesa. Tuttavia questo cammino non fu lineare, ma seguì un moto pendolare, oscillando quindi tra la vita contemplativa, intesa prevalentemente come vita ascetica e ritirata dal mondo, e l’attività apostolica. Così si spiega come per molto tempo nella Chiesa si è considerata la vita di tipo contemplativo o monastico come l’ideale a partire dal quale bisognava comprendere ogni specie di vita religiosa, anche quella di vita attiva: l’essenziale era costituito dall’insieme delle “osservanze” di preghiera, di ascesi, di vita comune. Avvenne allora che nelle Congregazioni dedite all’apostolato, l’azione apostolica non fu integrata alla consacrazione vissuta nella vita religiosa, ma fu considerata come una specie di aggiunta necessaria certamente, ma più o meno artificiale, poco amalgamata alla “vera” vita religiosa di osservanze, e dunque capace di esporre il religioso a delle sollecitazioni di ordine diverso e quindi a porsi la domanda se viene prima la vita religiosa o la missione. Si temeva perfino che la vita missionaria potesse far perdere la vocazione religiosa…

A questo punto si può notare come Comboni, pur non avendo dato fin dal principio al suo Istituto una struttura religiosa, in realtà la consacrazione missionaria da lui vissuta e proposta era inclusiva di quella legata ai voti religiosi e nello stesso tempo più radicale per via di quella disponibilità, nello spirito della croce, a morire a ogni istante «per la salvezza degli africani»: infatti «quelli che ne fanno parte — precisava — devono avere tutte le virtù dei religiosi e quella di essere ad ogni istante disposti alla morte per la salvezza degli africani» (S 5984)..

Daniele Comboni, per tanto, come Fondatore si tirò fuori da questa ambiguità, fondando la vita dei suoi missionari sulla consacrazione per la missione nella linea del più genuino spirito della sequela di Cristo. Dava così un nesso intrinseco tra la vita spirituale dei suoi missionari e il loro apostolato, che lo esprimeva con l’espressione ”santi e capaci”, che costituiva il programma di vita da imparare e nel quale crescere nel “cenacolo di apostoli”. Ci rispondeva così fin da allora che ciò che viene prima è una buona coerenza tra questi due elementi.

Il nostro Istituto nel suo cammino di rinnovamento a partire dal Capitolo del 1969, riallacciandosi all’esperienza originaria del Fondatore, alla tradizione dell’Istituto e seguendo gli orientamenti del Magistero della Chiesa, ha chiaramente messo come componenti essenziali della sua Regola di Vita carisma-consacrazione-comunità-missione.

Ma ciò non impedisce che la mentalità dualistica tra consacrazione e missione e l’evasione dalla comunità siano presenti in mezzo a noi e proprio in nome della “missione”.

È naturale che quando e nella misura in cui ciò avviene, nascano disagi a livello individuale e comunitario, che si ripercuotono nell’ambito della formazione. Non c’è dubbio che davanti a questa situazione di tensione, per mantenere e approfondire l’identità dell’Istituto Comboniano nei suoi membri e nelle sue strutture, è indispensabile una visione chiara e unitaria della vita missionaria comboniana nelle sue dimensioni esistenziali e nelle sue dinamiche apostoliche. Il superamento di quest’ambiguità, l’abbandono delle “teorie di supporto” a cui si ricorre per giustificarla, è un presupposto indispensabile per dare nuovo slancio all’Istituto nel suo ministero missionario nel mondo di oggi e rendere credibile l’impegno nella formazione.

6. 3. La provocazione dell’assenza delle vocazioni nel nostro Istituto

L’assenza delle vocazioni nel nostro Istituto, come avviene soprattutto in tutto il mondo occidentale, è ormai un dato di fatto che ci deve interrogare e provocare fino in fondo. Non basta costatarlo e aggirarlo concludendo che è così per tutti. Non si tratta, infatti, solo di una crisi quantitativa e puramente statistica, ma anche qualitativa, che intacca la nostra vita di consacrati come è dimostrato dal numero elevato di coloro che lasciano l’Istituto. I Superiori non solo non hanno più personale per rispondere a tutte le esigenze della Missione, ma passano una buona parte del loro tempo con confratelli demotivati sia sul piano spirituale che su quello missionario. Questa situazione merita di essere affrontata direttamente, in modo da gettare uno sguardo sulla consistenza dei fondamenti che si offrono a quanti intendono porsi alla sequela di Cristo in uno stato di vita cristiana che comporta il massimo della donazione di sé (RV 2). Provare seriamente a riflettere e a confrontarsi insieme su questi argomenti, interrogarsi seriamente sul significato spirituale della programmazione in atto nella realtà dei vari settori della vita dell’Istituto di oggi, sarebbe certamente il dato più significativo per il benessere della formazione.

È più che evidente tra di noi l’enfasi data agli aspetti morali, politici, sociali, ecologici, antropologici e psicologici più che spirituali. Certamente è un’attenzione particolare che nasce dalle emergenze del vasto campo della missione a cui siamo consacrati; il problema non sta in quest’attenzione che è dovuta per fedeltà alla nostra stessa vocazione, ma nel fatto che diamo troppo per scontato tutto il discorso sui fondamenti evangelici e spirituali di questi stessi problemi. E questo avviene all’interno della nostra vita di “cenacolo” e anche riguardo alla gente e soprattutto ai giovani che potrebbero seguirci, dimenticando che ciò che viene dato per scontato, non è affatto detto che lo sia realmente. Forse non ci siamo ancora sufficientemente accorti che abbiamo bisogno di riscoprire i fondamenti della vita ecclesiale e spirituale per noi e per quelli che accompagniamo. E questo implica tempo, uso di mezzi appropriati, disponibilità e impegno a lavorare con metodo e disciplina su se stessi, e quindi programmazione a livello personale e comunitario. Solo così si può far "scattare" il passaggio verso un'autentica dimensione religiosa della vita e re-imparare a vivere e a proclamare la fede cristiana. Senza questo scatto, corriamo il pericolo di rimanere menomati nella vita spirituale per causa dell’atrofia dei nostri dinamismi spirituali, e quindi di cadere nel "tragico" gioco della privatizzazione della fede, della separazione tra la vita vissuta di una persona e la sua esperienza religiosa, e di rinchiudere l’apostolato missionario in una specie di mondo aziendale, che non coinvolge in profondità le persone. In questo momento della vita dell’Istituto sembra che s’impone una domanda, se cioè non ci siamo lasciati ingannare, concentrando la nostra attenzione sulla dimensione umana, accettando le categorie di una “spiritualità laica” e operando solo o prevalentemente all'interno di queste realtà. Se questo sta succedendo allora non ci si intende più, non si capisce più la Chiesa, non si fa più una proposta vocazionale integrata nel Mistero di Cristo e non riusciamo a fare un vero stop e organizzarci per trovare la via per uscirne fuori.

Alla luce di queste constatazioni, potrebbe essere provvidenziale il fatto che le nostre file si assottigliano sempre di più (in Europa), e magari da qualche parte si gonfiano per via di prospettive di ordine sociologico più che spirituale, creando nuovi problemi invece che soluzioni. Almeno potremmo convincerci di dover iniziare seriamente a riflettere e a pregare e ritornare al nostro “amore di prima” (Ap 2,1-7), assecondando il richiamo del “Messaggio dei Consigli Generali Comboniani” del 15 Marzo 2003:

“L'evento della canonizzazione fa risuonare dentro di noi una forte chiamata a "rigenerare" la passione per il nostro carisma comune, chiamata che ci spinge ad una vita consacrata più autentica, ad una spiritualità più solida e ad una fedeltà alla missione più profetica. La canonizzazione di Daniele Comboni vuole trovarci uniti nel percorrere le orme della sua santità”.

Secondo l’Apocalisse, le tentazioni che la comunità di Efeso doveva affrontare erano quelle che anche noi dobbiamo affrontare oggi, e cioè la tentazione che viene con il logorio del tempo: si raffredda l’amore che si era acceso nei primi momenti della conversione - consacrazione; e poi la mancanza di coraggio per rimanere attaccati alla “mentalità di Cristo”, lasciandoci coinvolgere in mentalità secolarizzanti in cui Gesù o è cacciato fuori o è ridotto a

  • un esempio, cioè, un mezzo psicologico che favorisce lo sviluppo della personalità, perché offre ideali, stimoli, motivazioni che aiutano nella crescita personale. Gesù offre tutto questo, ma non può essere strumentalizzato per l’autorealizzazione della persona.
  • un grande leader dell’umanità, capace di stimolare nella crescita della persona nel senso della solidarietà e di offrire anche all’uomo di oggi idee eccezionali che stanno alla base di movimenti politici, culturali, filantropici, religiosi, ecc.

In ambito più strettamente cristiano e nella stessa Vita Consacrata si ricorre a Gesù come a una medicina contro la fragilità della persona umana (Cfr. GS 13). È vero che egli aiuta potentemente la nostra fragilità morale liberandoci dal peccato e dando forza alla nostra natura ferita e debole. Tuttavia l’azione di Cristo su di noi non si limita a essere un supporto alle deficienze della nostra natura decaduta.

L’azione principale di Gesù nella nostra vita consiste nell’operare una trasformazione della nostra stessa persona nella sua. Ciò significa che la nostra vita trova il suo senso pieno nell’incontro personale con il Signore Gesù. È un incontro che si verifica in persone concrete, provoca in esse una spogliazione e la conformazione a Lui. In questo consiste il dinamismo dell’incontro di ogni persona umana con Cristo, che ha come obiettivo fondamentale: incontrarsi e vivere in comunione con Lui, per essere introdotto nell’esperienza dell’amore di Dio Padre e quindi scoprirsi fratello di tutti. Qui sta la sorgente della nostra vocazione missionaria, così come è descritta nella Regola di Vita soprattutto nei numeri 21; 21.1; 46 e 3. 2-3; da qui nasce ogni nostro impegno missionario e ogni sua riqualificazione, il nostro “esserci” in mezzo ai poveri.

Che noi che viviamo nella Chiesa come missionari “ad gentes”, dobbiamo imparare dal mondo chi è Gesù Cristo per noi, è un sintomo di malessere molto grave. Certe cose il mondo non le può insegnare al cristiano, proprio perché sono nate con i cristiani. Non siamo giunti, forse, a una situazione esplicitamente denunciata da san Paolo, secondo il quale è contro ogni logica voler finire la propria vita con la carne, dopo averla iniziata nello Spirito?

6. 4. Un errore fatale: identificare il carisma con il progetto apostolico

Tra le tante ragioni del basso indice di perseveranza dei nostri candidati il Consiglio Generale tramite il P. Generale nel messaggio «Insieme verso l’Assemblea Intercapitolare 2006»[8], riconosce che “forse, il clima che i giovani respirano nell'Istituto e la testimonianza che diamo non devono essere tanto convincenti. Forse nella prospettiva della nostra vita abbiamo lasciato affievolire lo spirito di contemplazione e d’abbandono in Dio; forse abbiamo lasciato sbiadire lo slancio missionario come unico e fondamentale amore della nostra consacrazione”. Ci troviamo, dunque, di fronte a una comunità comboniana, in cui il clima e la testimonianza sono poco convincenti.

Riflettendo sulla mia lunga esperienza come formatore e per un decennio come animatore del Corso di rinnovamento di Roma, ho l’impressione che i giovani che arrivano nelle nostre case di formazione, in genere, sono stati indotti a concepire la vita missionaria come la vita di un militante cristiano o di un attivista sociale che è celibe e che sceglie di vivere con altri, che lottano per una causa comune in favore dei più deboli. Non sembra che abbiano captato che la vita missionaria a cui aspirano, è anzitutto vita centrata su un’intensa esperienza religiosa cristiana, che si sviluppa come esperienza d’amicizia con Cristo Gesù, in confronto al quale tutto va considerato come spazzatura (Fil 3, 8-11), e quindi come stile evangelico di vita e come missione di annunciare Gesù Cristo al mondo intero, a partire dai più poveri e lontani, con il rischio di giocarsi la vita per la verità e la giustizia.

In una vocazione autentica, ciò che motiva in primo luogo la scelta di un giovane è il dono di sé a Dio, un voler essere per Dio solo, dentro una chiamata in cui percepisce Dio come Amore assoluto e incondizionato. E ciò implica un’esperienza religiosa radicale, come risposta irresistibile e assoluta a Colui che per primo l’ha amato. In quanto consacrato si percepisce allora come “testimone dell’Invisibile”, perché ha incontrato Dio in Colui che “ha amato i suoi fino alla fine”. Ho costatato che un novizio, che varca la soglia del Noviziato mosso da una simile esperienza, ha già fatto affettivamente, cioè nel suo cuore, la consacrazione religiosa e si mette da subito in sintonia con il cammino del noviziato; è uno che non ha bisogno di essere trascinato, ma trascina, anche gli stessi formatori…., e si fa con gioia e generosità “vicino dei poveri” a cominciare da quelli di casa. È con questi soggetti che s’instaura un autentico dialogo formativo…

Per tanto, se nel cammino formativo la dimensione religiosa non è esplicitamente dominante, se è tergiversata o annacquata, la prospettiva di una vocazione intesa come un insieme di attività “impegnate” suppone la proposta e la comprensione della vocazione come risposta ad un imperativo morale o ad un’emergenza sociale, e ciò è insufficiente per entrare in una vita di consacrazione missionaria che sia vita centrata nell’incontro con Dio e che giustifichi le rinunce che l’accompagnano. Queste hanno senso quando servono per proclamare che non c’è niente di più grande che credere nel primato dell'Amore che Dio ha per noi e nella forza della sua Parola (Cf RV 20-21; 46).

P. André Manaranche ci ricorda che nella vita dell’apostolo di Gesù la funzione (= apostolato) e la vita (= discepolato) coincidono rigorosamente, a meno che non vengano separate dalle nostre astrazioni. L’intima compagnia con Gesù unifica l'esistenza apostolica, impedendo che “lo strafare per Lui” la discristifichi insensibilmente e la renda una semplice vita generosa (= filantropica).

Da questo fatto lo stesso autore deduce che una vita apostolica separata dalla compagnia di Gesù, Maestro e Signore, è insignificante. In questo caso la critica mordace in nome di Gesù contro la società non è conseguenza della partecipazione alla funzione profetica di Cristo, per cui è una critica inutile che nasce da uno zelo apostolico aggressivo e amareggiato. Visto da quelli che stanno al di fuori, l’apostolo senza la compagnia di Gesù dà credito all'idea che l'Apostolato è l'infame sfruttamento di una persona da parte del suo Dio: un Dio austero che le dà frustate, imponendole uno stile di vita e ritmi di lavoro che sterilizzano ogni felicità. Allora, il discepolo che suscita una simile riputazione verso il suo Maestro e Signore, finisce per diffamarlo precisamente quando è convinto di servirlo[9].

Lo zelo eccessivo o esclusivo per alcuni valori morali essenziali di cui l’umanità ha urgente bisogno – come Giustizia/Pace e Conservazione del creato o l’“opzione per i poveri”, ecc. - può far dimenticare al missionario che nella sua attività di evangelizzazione è chiamato ad impegnarsi nella “liberazione integrale dell’uomo”, cioè in quella liberazione che “trova il suo compimento e consolidamento nella piena comunione con Dio Padre e tra gli uomini” (RV 61); se ciò non avviene, fa sparire dall’orizzonte dell’attività missionaria l’urgenza dell’annuncio del Mistero di Gesù di Nazaret, Figlio di Dio e Salvatore del mondo (cf (RV 59), e dimenticare o annebbiare la dimensione salvifica della consacrazione religiosa (cf. RV 22; 46; 58).

Questa mentalità riduttiva della consacrazione missionaria l’Istituto la proietta molto chiaramente sui giovani che bussano alla nostra porta per cominciare un dialogo vocazionale.

Non è, infatti, difficile percepire che tra noi Comboniani esiste la tendenza a identificare il carisma con il progetto apostolico, o con le opzioni operative fatte all’interno del progetto stesso, fino a ridurlo a quella dimensione di esso che ci interessa di più... Si coglie, cioè, il dono dello Spirito Santo in modo riduttivo e prevalentemente se non semplicemente funzionale. Questo modo riduttivo di considerare il dono dello Spirito, ricevuto per mezzo di san Daniele Comboni, impoverisce il missionario, fino a portarlo alla perdita dell’identità vocazionale (cfr. AC ’91, 11.3); porta, infatti, a far perdere di vista nella vita quotidiana il versante mistico-spirituale e comunitario e il corrispondente cammino ascetico per interiorizzare il carisma in modo integrale.

 In questo processo d’impoverimento dell’identità è presente il peso della pretesa di ridurre la vita spirituale alla semplice attività apostolica, allo “stare con la gente”, come se l’attività in se stessa per il fatto di essere apostolica è automaticamente spirituale, cioè vissuta nel e secondo lo Spirito di Gesù. In realtà, ognuno comunica il senso di Dio, impara ed è evangelizzato dall’attività che svolge, a partire dal grado di libertà interiore, dalla docilità allo Spirito del Signore Gesù, che gli consente di lasciarsi toccare e plasmare dalla realtà esterna e così crescere nella vita spirituale nella, dalla e per la missione durante tutta la vita.

Quest’affermazione ha il suo riscontro nel concreto della nostra vita di Missionari Comboniani.

Infatti, gli ultimi Capitoli Generali, come risulta dai rispettivi Atti Capitolari, sottolineano con evidente preoccupazione l’individualismo, l’attivismo, un insufficiente impegno nella preghiera personale e nello studio, un’incidenza frammentaria dell’esperienza carismatica di Daniele Comboni nel processo di formazione di base e permanente e nella vita quotidiana, l’incapacità d’integrare le esigenze di preghiera, studio e lavoro, ecc…. [10].

La Direzione Generale, nel Messaggio del 6 gennaio 2005[11], riconosce che questi limiti sono ancora presenti nell’Istituto, li riassume dicendo di aver notato “una certa stanchezza, l'affievolimento dello spirito di appartenenza, la dispersione, l'isolamento e l'individualismo”, e quindi richiama alcuni limiti in particolare.

Tutte queste costatazioni son riprese e completate nell’ultimo Capitolo del 2009.

Lo stato di vita dell’Istituto nel momento presente è illustrato con chiarezza in una serie di “Riflessioni”, che il P. Manuel Augusto Lopes Ferreira, alla fine del suo mandato come Superiore Generale, ha pubblicato nel Bollettino Informativo della Provincia Portoghese. Sono “riflessioni” che meritano di essere prese in considerazione, per fare il punto della nostra situazione attuale come Missionari Comboniani.

Le stesse perplessità sono condivise dall’attuale Superiore Generale, come si può vedere nella sua lettera “La missione che nasce dal cuore” e nell’Omelia per la celebrazione del 144o anniversario della fondazione dell’Istituto Comboniano (Roma, giugno 2011).

La situazione di uno zelo missionario riduttivo o di “una certa stanchezza” va chiarita a livello di Istituto per non continuare a proiettarlo a livello di promozione vocazionale e delle varie tappe formative. Pretendere di vincere questo virus con una seria impostazione del Noviziato senza che ci sia continuità nella fase successiva dello Scolasticato e nella vita quotidiana delle varie comunità locali, è in modo assoluto insufficiente, perché può portare i più giovani ad una crisi di delusione, che sfoci nell’uscita o all’accettazione del Noviziato e Scolasticato come parentesi, per ritornare poi e adattarsi alla visione e alla prassi della vita missionaria religiosa come possibilità di attività “impegnate”, nelle quali il giovane professo spera di trovare la realizzazione della propria vita, impegnandosi negli studi e in favore degli altri, e accantona l’impegno nel cammino dello spirito.

Questo è il modo di procedere adatto per avvelenare le radici della propria identità e il futuro della consacrazione a Dio per la missione.

Al contrario lo sviluppo della vita spirituale porta il missionario a unificare tutte le proprie energie e risorse naturali e soprannaturali, e a esprimerle nella linea della vocazione missionaria. Egli è chiamato a essere apostolo e deve essere capace di vedere tutta la sua vita e la sua persona in funzione del ministero apostolico proprio dei MCCJ. Se centra la sua vita su una certa esperienza di Dio, è perché si sente chiamato ad annunciare questa esperienza (RV 46; 81-82); se costruisce se stesso secondo un concreto programma ascetico (RV 2. 2; 3. 2; 90. 2; ecc.), è perché ciò lo abilita a un determinato stile di servizio missionario (cfr. AC '91, 13; 13. 1; ecc.); se vive l'amore fraterno all'interno della comunità religiosa come in un “nuovo piccolo cenacolo di Apostoli”, è perché l'amore fraterno che va oltre la carne e il sangue, è per sua natura segno della presenza di Cristo e del suo Regno: “Umanità nuova nata dallo Spirito” (RV 36; cfr.  AC '91, 30; 30. 1), ed è la prima testimonianza che deve dar al mondo.

La Regola di Vita ci indica il cammino per trovare “il come” sviluppare o riqualificare la nostra vita a partire dalla specificità del nostro carisma senza operare riduzioni depauperanti; traccia per noi un cammino di sequela di Cristo, qualificato dagli ideali e dall’esperienza del Comboni come sono vissuti dall’Istituto, ci indica un metodo per introdurci e progredire nel “cammino dello spirito”, ci traccia anche le linee portanti su cui costruire la Ratio missionis.  Tuttavia, si ha l’impressione che la Regola di Vita è da noi poco frequentata, quindi non è conosciuta in profondità e regola ancora poco la nostra vita personale e comunitaria....

- Cerchiamo di capire lo sviluppo della vita spirituale alla luce dell’immagine dell’albero

Per capire la necessità dello sviluppo della vita spirituale, ci può servire l’immagine dell’albero. Il Concilio Vat. II, infatti, presenta la Vita Consacrata come “un albero piantato da Dio nel suo campo”, che è Chiesa (Cf LG 43).

Ci fa bene allora pensare all’albero, al suo modo di crescere e di vivere. Un albero con molta chioma e poche radici viene sradicato al primo colpo di vento, mentre in un albero con molte radici e poca chioma la linfa scorre a stento, e quindi siamo di fronte a una esistenza rachitica dell’albero. L’albero, per tanto, deve stare ben immerso nella terra per rimanere ben stabile sopra di essa, e perciò le sue radici e la chioma devono crescere in misura proporzionata, solo così potrà offrire ombra e riparo e alla stagione giusta potrà coprirsi di fiori e di frutti.

Né va dimenticato che se l’origine dei frutti è nelle radici dell’albero, tuttavia la produzione effettiva e la qualità dei frutti dipendono dalla corretta potatura dell’albero stesso. Se l’albero non è potato o è potato male, si raccolgono solo foglie….

Se la nostra vita missionaria religiosa vuole prendere il largo nel mondo di oggi, deve reggersi sulle due dimensioni inscindibili della trascendenza (= radici) e dell’incarnazione (= chioma), che la riconducono al primato di Dio, ma cercato e vissuto nella storia.

Il richiamo alle radici e alla necessità della potatura dell’albero, ci ricorda il necessario cammino ascetico e il confronto chiarificatore con il nostro passato come presupposto per la riuscita nella vita e nel cammino spirituale, per realizzare quell’autentico incontro con Dio, che sfoci nella testimonianza e nella proclamazione del suo amore davanti al mondo (cfr. RV 46).

Se quest’impegno è debole, lasciato alla spontaneità e all’improvvisazione, vuol dire che abbiamo la pretesa di vivere nella parte alta dell’albero, tra i rami, le foglie e i frutti, eludendo la fatica di prenderci cura delle radici e dello stato inferiore del terreno, in cui l’albero della nostra vita è radicato e da cui riceve il nutrimento. Così continuiamo a vivere «in superficie», senza curarci della qualità e autenticità dei frutti e perdendo di vista il fatto che «all’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva» (Deus caritas est, 1).  

6. 5. Ripercussione della visione riduttiva del carisma nel cammino formativo

Quando in vari modi enfatizziamo tra noi come «proprio» della vita missionaria comboniana l’impegno a rispondere alle grandi sfide dell’umanità, che si concentrano soprattutto nel Sud del Mondo, allora la consacrazione perde la dimensione spirituale di chiamata gratuita da parte di Dio e di risposta generosa in libertà e gratitudine a questa chiamata (Cfr RV 20), e diviene una consacrazione di tipo moralista[12], soltanto funzionale, che priva il Carisma del suo nucleo generatore, che è l'aspetto cristologico del Carisma stesso da cui nascono le motivazioni decisive per un impegno a vita nel servizio missionario. A sua volta la proposta formativa diviene riduttiva, cerca prevalentemente la gratificazione personale sia degli animatori sia dei giovani, e si sviluppa intorno al volontarismo (moralismo) e all’esperienzialismo[13], in una prospettiva ideologica.

A questo punto la significatività del Carisma si diluisce fino a divenire insignificanza.

Certamente, alla presenza di tale tendenza, i giovani ci ammirano e nel loro cammino formativo concentrano le loro forze sulla preparazione “professionale” con lo studio e l’attività apostolica. Il risultato è mortifero: una vita consacrata missionaria mediante i consigli evangelici (RV 1; 11), ridotta ad una semplice vita generosa (= filantropica), non giustifica le rinunce che richiede, anzi potrebbe avvallare l’idea che si tratta di un inutile, se non infame, sfruttamento di una persona da parte del suo Dio. Si finisce così per diffamare Dio stesso precisamente quando si è convinti di servirlo, come già è stato osservato.

6. 6. Un’attenzione costante: tenere saldi i pilastri della vita di consacrazione missionaria

L’impostazione del nostro cammino formativo è segnato dall’impegno a formare alla vita del Vangelo “qualificata dagli ideali e dall’esperienza del Comboni come sono vissuti nell’Istituto” (RV 81) e quindi, nello stesso tempo, a coinvolgere i giovani nel servizio missionario alla luce dei segni dei tempi.

Tale impegno purtroppo si rivela illusorio, come possiamo costatare dallo scarso indice di perseveranza dei nostri candidati e da improvvisi episodi di vita scadente, in cui non si capisce che fine ha fatto non solo la vita evangelica che proponiamo, ma perfino il senso morale.

Da qui nasce per noi formatori la necessità di perseverare con serietà nel lavoro per aiutare i giovani in formazione a vivere una prossimità autentica al Signore Gesù (RV 21; 21.1-2; 3-5). Non sarà un lavoro facile né gratificante, perché non saremo graditi a tutti gli Scolastici e forse non saremo compresi da confratelli maggiori, ma daremo una mano allo Spirito Santo, perché porti a termine la sua opera in quelli che sono fedeli al «Sì» che gli hanno dato.

Nella nostra azione formativa non possiamo perdere di vista in nessun momento che il carisma missionario comboniano (RV 1-9) poggia su tre pilastri, da cui nasce l’identità del missionario comboniano o la personalità comboniana:

  • consacrazione ( = esperienza di Dio in Cristo => esperienza mistica => vita spirituale): RV 2-5; 20-35; 46-55;
  • comunione (= vita comunitaria => senso di appartenenza): RV 36-45;
  • servizio missionario (= progetto apostolico): 56-79.

La vita spirituale, cioè l’esperienza di Dio in Cristo, la vita comunitaria e la missione sono unificate dal cammino ascetico.

La vita spirituale è l’esperienza fondante, da cui nasce l’esperienza mistica, cioè l’esperienza di Dio in Cristo, nella quale il comboniano sperimenta che cosa Dio opera in lui, quando si mette in sintonia con il carisma di san Daniele Comboni: Dio lo ama e lo salva attraverso il Cuore Trafitto di Gesù Buon Pastore e lo fa sacramento di quest’amore per la Nigrizia (S 2742).

L'esperienza mistica attraverso l'interiorizzazione del carisma di Comboni è percepita, quindi, anzitutto come una nuova rivelazione ed iniziazione al Mistero Salvifico di Dio, in cui è messo in risalto un aspetto della infinita ricchezza divina in ordine ad una particolare azione salvifica, che Dio vuole realizzare in favore dell'umanità bisognosa di salvezza, qui e ora. In questa esperienza il comboniano sente come Dio lo ama e lo salva e nello stesso tempo lo sceglie come strumento di questa stessa salvezza, affidandogli una missione specifica da compiere, che lo lega strettamente al suo piano di salvezza del mondo.

L’esperienza mistica, per tanto, si concretizza nella consacrazione e crea nel comboniano il senso di appartenenza al carisma e alla comunità di persone che l'hanno ricevuto assieme a lui ( = vita di comunione di con-vocati nella comunità-cenacolo).

La consacrazione a sua volta s’incarna in un concreto servizio missionario, che diviene la ragione della vita del missionario comboniano (AC '91, 6; 6.1-6; 9; RV 56).

La vita spirituale, la vita comunitaria e la missione maturano e progrediscono attraverso il cammino ascetico.

Il cammino ascetico o cammino nello spirito è la naturale conseguenza dell’esperienza mistica: “La passione per Gesù Cristo, crocifisso e risorto, contemplato specialmente nel mistero del suo Cuore che 'dona la sua vita per le pecore più abbandonate', perché diventino soggetti e protagonisti della propria storia e della salvezza già avvenuta” (AC '91, 13.1), fa nascere nel missionario comboniano l'esigenza profonda di conformarsi a questo mistero contemplato.

Questa è precisamente l'ascesi, che deve essere intesa come cammino di formazione di base e permanente. In questo cammino unificante, il servizio missionario, definito dal carisma comboniano, costituisce il punto di riferimento costante, la tensione ideale, verso la quale il missionario, per mezzo della consacrazione, orienta la sua comunione con Dio, il suo amore fraterno nella comunità e il suo cammino ascetico.

Il cammino ascetico, che innerva il cammino formativo, deve essere inteso «come una graduale assimilazione della “sequela Christi” vissuta dal Comboni, concretizzata nel servizio missionario “ad gentes” secondo i segni dei tempi. La missione, come afferma il Fondatore nell'introduzione alla Regola del 1871, illumina e determina l'iter formativo, affinché i missionari siano “santi e capaci”. Oggi più che mai queste parole sono attuali e degne della massima attenzione» (AC '91, 34; cfr. Ratio 4-5). Infatti, l'esperienza carismatica di san Daniele Comboni viene personalizzata, cioè comincia a coinvolgere e a segnare la personalità del missionario giovane o adulto, quando provoca in lui un processo di interiorizzazione dei contenuti di questi tre pilastri attraverso il cammino ascetico (cfr. AC '91, 9; 12.3).

L'immagine più espressiva di questo cammino “è il Figlio che, sulla croce, dà al Padre la risposta più grata al suo amore eterno e dona agli uomini con amore gratuito la sua vita. E siamo al vertice del concetto di responsabilità cristiana. Salvati da quel gesto, infatti, siamo ora resi capaci di ripeterlo nella nostra vita, dando la stessa risposta, respons-abili della salvezza dell'umanità, liberi dalla preoccupazione egoistica della propria individuale salvezza. Mistero grande!”.

6. 7. Un rischio da evitare

Il grosso rischio dello Scolasticato è di compromettere lo sviluppo armonico di questi tre pilastri, unificati dal cammino ascetico.

Si può facilmente costatare che gli scolastici s’impegnano in primo luogo nello studio, poi nell’apostolato, quindi passano molto tempo al telefono o telefonini e a internet, un mondo tanto vasto che gestiscono da soli con criteri personali, a volte perfino contrari all’identità cristiana e religiosa…; per coltivare la vita spirituale si può dire che si accontentano di usare i residui di tempo o si occupano quando hanno tempo. In questo settore si nota la lacuna più grande, accompagnata dalla lamentela – giustificazione che non c’è tempo…

Questa situazione si percepisce nel fatto che fanno fatica a narrare la loro esperienza spirituale e a impegnarsi nell’uso dei mezzi per riuscire in questo impegno.

Lo scarso impegno nella vita spirituale impedisce di purificare e approfondire le proprie motivazioni, così da personalizzare il carisma e stabilire un rapporto nuziale con la comunità, superando il mero rapporto istituzionale - funzionale.

Inoltre, lo scarso impegno nella vita spirituale appiattisce la vita di comunione, che si alimenta di motivazioni superficiali, al massimo umaniste, per cui la vita di comunità invece di essere comunione fraterna è convivenza pacifica, tolleranza diplomatica o cameratesca. Viene così minato il fondamento della lealtà vicendevole e della fiducia e il suo ruolo costruttivo nella comunità, e comincia a insinuarsi tra i suoi membri una sensazione di estraneità reciproca e di diffuso individualismo.

In questo clima, il rischio che si corre è di segare i fondamenti evangelici e spirituali della vita missionaria posti nel noviziato, dando per scontata una vita spirituale definitivamente acquisita, che in realtà è sempre incipiente per tutti e che, se non è coltivata adeguatamente, deperisce, portando all’atrofia spirituale e quindi all’insignificanza vocazionale e all’affievolimento dell’identità …

Non possiamo dimenticare, come ci ricorda Benedetto XVI, che «oggi vi è un'ipertrofia dell'uomo esteriore e un indebolimento preoccupante della sua energia interiore».

Il quadro qui disegnato riflette situazioni che si vivono nell’Istituto in maniere molto evidenti.

Non è difficile renderci conto che tra gli scolastici alcuni si prendono certe licenze contrarie al nostro modo di vivere come persone consacrate nella Chiesa, perché vedono e sanno che ci sono missionari che fanno così e lo fanno impunemente. A volte questo modo di comportarsi diventa un’occasione per essere mandati a studiare in qualche università... Commentano anche che da parte dei Superori c’è più tolleranza per le mancanze dei confratelli occidentali che per quelli del Sud del mondo, per cui devono fare attenzione a non farsi scoprire o pescare.

Ancora una volta va ribadito che non basta proclamare e proporre valori, se contemporaneamente non esistono nelle comunità locali dell’Istituto modelli di riferimento, cioè persone in carne e ossa, che sono impegnati a vivere tali valori, cioè non esistono dei modelli di riferimento.

E questi modelli di riferimento siamo chiamati a esserlo tutti i membri della comunità: dai giovani agli anziani.

Questo avverrà se ci educhiamo alla relazione, convinti che le condizioni per un cordiale rapporto con le persone dipendono anzitutto da noi stessi.

Le persone ci accolgono e ci vogliono bene nella misura in cui ci presentiamo con una personalità sufficientemente matura ed equilibrata, cioè con un "normale funzionamento psichico" e morale, e occupati a migliorarci tramite un paziente e costante impegno di lavoro su noi stessi (ascesi).

La qualità delle nostre relazioni, anche se condizionata da fattori personali, culturali e ambientali, è legata soprattutto alla cura e all'impegno che ciascuno mette nello sforzo di migliorare continuamente il proprio modo di rapportarsi con le persone che incontra.

Tuttavia, la qualità delle nostre relazioni non può dipendere semplicemente dalla moralità (onestà) e dal galateo, cioè dalle buone maniere, che sono indispensabili, ma che sono legate ad una determinata cultura e alla mentalità del tempo.

Per i cristiani il criterio ultimo per stabilire la bontà delle proprie relazioni è Gesù Cristo. Le nostre relazioni interpersonali sono buone nella misura in cui esprimono quei sentimenti che sono del Signore Gesù e ne imitano gli esempi.

Per raggiungere questo obiettivo ci fa da guida san Daniele Comboni, che ci esorta a tenere fisso lo sguardo su Gesù Cristo, amandolo teneramente (cfr. S 2720-2721).

Gesù appare, infatti, una persona nella quale l'umanità ha raggiunto il suo vertice; in lui si trova tutto ciò che fa grande l'uomo: magnanimità e umiltà, fortezza e dolcezza d'animo, libertà assoluta e disponibilità totale per Dio e per i fratelli, forte senso dell'amicizia e capacità di solitudine, comunione profonda con Dio e comunione con i poveri e i peccatori, conoscenza dell'animo umano, elevatezza di pensiero e semplicità nell'esprimersi. Una personalità straordinaria per quello che è stato e per quello che ha insegnato. Non si trova in lui alcuna forma di tattica o forme di astuzia. Non fa mai violenza alle persone, rispetta la libertà. Più che un organizzatore, egli irradia potere e fascino e le persone lo cercano.

Molto attivo e impegnato, è nello stesso tempo capace di riposarsi. Non cerca l'applauso o lo spettacolare. Dà prova di essere audacemente libero da interessi personali, dalla legge, dalla famiglia, dalle cose. Non si lascia condizionare dai giudizi altrui; è determinato nel perseguire i suoi obiettivi e chiaro nelle sue idee.

Lo sguardo fisso su Gesù Cristo ci porta ad approfondire la relazione con Dio.

Per Comboni, il missionario è un uomo assetato di Dio che sotterra la vita di prima e la centra in Lui solo, animato da un vivo interesse alla sua gloria e al bene delle anime; sazia la sua sete e centra la sua vita in Dio “col tener sempre gli occhi fissi in Gesù Cristo, amandolo teneramente, e procurando di intendere ognora meglio cosa vuol dire un Dio morto in croce per la salvezza delle anime”:

«La vita di un uomo, che in modo assoluto e perentorio viene a rompere tutte le relazioni col mondo e colle cose più care secondo natura, deve essere una vita di spirito e di fede. Il Missionario, che non avesse un forte sentimento di Dio ed un interesse vivo alla sua gloria ed al bene delle anime, mancherebbe di attitudine ai suoi ministeri, e finirebbe per trovarsi in una specie di vuoto e d'intollerabile isolamento» (S 2698).

Il dialogo con Dio arricchisce la nostra vita spirituale e di conseguenza anche il nostro dialogo con le persone. San Doroteo di Gaza spiegava: «Pensate a un cerchio tracciato per terra. Il cerchio è il mondo e il centro è Dio. I raggi sono le vie degli uomini: quanto più essi avanzano, tanto più si avvicinano a Dio e più si avvicinano anche tra di loro. E viceversa».

San Daniele Comboni ci spiega il «viceversa» con l’icona del Cenacolo di Apostoli mettendo come Centro l’esperienza di Dio in Cristo:

«Questo Istituto perciò diventa come un piccolo Cenacolo di Apostoli per l'Africa, un punto luminoso che manda fino al centro della Nigrizia altrettanti raggi quanto sono i zelanti e virtuosi Missionari che escono dal suo seno: e questi raggi che splendono insieme e riscaldano, necessariamente rivelano la natura del Centro da cui emanano» (S 2648).

Ruolo della cura della vita interiore dei membri della comunità

Nella comunità, per tanto un ruolo decisivo spetta alla cura della vita interiore dei suoi membri.

La relazione con l'altro, infatti, è arricchente e gratificante nella misura in cui siamo persone interiormente ricche e sensibili. Il nostro andare incontro alle persone deve nascere da motivazioni nobili e valide; non deve nascere da un bisogno compulsivo di contatti umani e di approvazione, né dalla paura della solitudine, né dall'ansia, né da vanità o egoismo, ma da un cuore buono e sensibile, desideroso di dare e ricevere. Occorre ritrovare continuamente l'interiorità se si vuole che le nostre relazioni siano ricche e significative per sé e per gli altri. Tutto ciò è indispensabile per sottrarci alla banalità di tante conversazioni, alla insignificanza e alla superficialità di tanti incontri, al parlare vuoto e al pettegolezzo.

Per creare un clima propizio alla cura della vita interiore dei membri della comunità, “la fede missionaria”, contenuta nei tre pilastri della vita missionaria comboniana, va continuamente proposta, mai presupposta in nessuna fase della vita del missionario comboniano, tanto meno nella fase dello Scolasticato. L’unico rimedio per superare la crisi in cui ci troviamo, che nell’Assemblea di Palencia 2005 fu definita “scisma bianco, una divisione tra linguaggio e vita”, è anche per noi “una nuova evangelizzazione”, per essere “discepoli missionari” nel nostro tempo nell’ottica del carisma dell’istituto (cfr. RV 99). Altre vie di uscita sarà difficile trovarle.

«La vita fraterna ci mette in condizione di lavorare su noi stessi e questo ci rende normalmente più comprensivi e anche più disponibili nei confronti degli altri. Di questo tipo di trasformazione lenta e progressiva potranno approfittare tutte le persone che avranno a che fare con noi. Per questo amo insistere perché nessuno si dispensi dalla fatica del vivere comune. Giustamente le costituzioni affermano che essa favorisce molto la formazione permanente. Questo ci aiuta a crescere verso un tipo di relazioni che possano dirsi realmente "redente" e che sono frutto sia della grazia che dell'impegno di ciascuno dei membri della fraternità. Lavorare su se stessi costa molta fatica, eppure è una condizione indispensabile per raggiungere una più grande maturità umana, specie nei rapporti con gli altri. Quante volte mi capita di accusare gli altri del mio stare poco bene! Agendo in questo modo, senza nemmeno rendermene conto, attribuisco agli altri un potere enorme nei miei confronti e indolente mi piace stare nel ruolo della vittima. Tutti i nostri tentativi di cambiare gli altri sono tempo perso! Le relazioni in seno a una fraternità migliorano dal momento in cui qualcuno inizia a lavorare su se stesso senza pretendere che gli altri facciano lo stesso. Constatando il cambiamento, anch'essi inizieranno a cambiare». (Fra Mauro Jöhri, ministro generale dei cappuccini).

Per creare un clima propizio che permette lavorare su se stesi, la comunità ha bisogno di un servizio di animazione che sia capace di educare al silenzio e all’interiorità e creare un clima di scuola di preghiera. Tutto questo non è facile, ma un aiuto ci può venire se prendiamo in considerazioni le indicazioni che ci offre la nostra Regola di Vita, che definisce la comunità comboniana “orante” e le traccia un cammino di iniziazione alla preghiera: 46-55.

Siamo in grado di capire allora che buona parte della formazione passa attraverso le relazioni comunitarie e la vitalità della vita comunitaria centrata sulla preghiera.

CONCLUSIONE

Sono significativi alcuni pensieri del Diario di Etty Hillesume, riportati e commentati da Letizia Tomassone nel suo contributo nel libro di vari autori «Prendersi cura di sé, degli altri, di Dio», Gabrielli Editori, p. 171s. Per coglierne il significato, è bene premettere una nota biografica tratta dallo stesso libro a pagina 162: «Etty Hillesum è una giovane donna ebrea che vive in Olanda e nel 1941 inizia a scrivere un diario. Esso ci mostra il suo percorso di crescita spirituale, in cui lei alimenta la sua capacità di resistenza creando degli spazi per sé, di bellezza e meditazione, e contemporaneamente esercita la sua solidarietà nella società. Etty Hillesum lavora con il Consiglio Ebraico della città, entra in contatto con gli ebrei che vengono deportati, va poi per sua scelta nel campo di concentramento da cui partirà in treno per Auschwitz, dove anche lei morirà qualche mese dopo. Nelle pagine del diario qui citate vi sono brevi scene in cui lei parla dei fiori che ha sulla scrivania o intorno a sé».

I pensieri di Etty e il commento che ne segue, esprimo molto bene la necessità di mettere la vita spirituale al centro del cammino formativo dello Scolasticato e della Formazione Permanente nelle comunità dell’Istituto:

« “Cercherò di aiutarti (Dio), affinché tu non venga distrutto dentro di me, ma a priori non posso promettere nulla. Una cosa però diventa sempre più evidente per me, e cioè che tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare te, ed in questo modo aiutiamo noi stessi. L'unica cosa che possiamo salvare in questi tempi e anche l'unica che veramente conti è un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio. E forse possiamo anche contribuire a disseppellirti dai cuori devastati di altri uomini. Sì, mio Dio, sembra che tu non possa far molto per modificare le circostanze attuali ma anch’esse fanno parte di questa vita. Io non chiamo in causa la tua responsabilità, più tardi sarai tu a dichiarare responsabili noi. E quasi ad ogni battito del mio cuore cresce la mia certezza: tu non puoi aiutarci, ma tocca a noi aiutare te, difendere fino all’ultimo la tua casa in noi".

Lei, come molti altri scrittori dopo Auschwitz, si rende conto che Dio, in qualche modo, non agisce, perché siamo noi a dover agire. Dio non agisce perché agisce attraverso di noi. Siamo noi a dover salvare lo spazio per Dio in questo mondo, siamo noi a dover avere cura di Dio nella nostra esistenza, nella nostra società e nelle relazioni con gli altri. Siamo noi a cui Dio si è affidato nella debolezza dell'incarnazione, e quindi, come dice Etty, siamo noi a dover aiutare Dio.

Non è un appello al nostro senso di onnipotenza, ma un richiamo profondo ed importante alla responsabilità che noi abbiamo nella storia!

L'amore che noi possiamo esprimere deve essere capace di indignazione e di giustizia, deve essere capace di passione, capace di dire dei no, capace di porre dei limiti all'ingiustizia. Questo lo si fa anche attraverso una ricerca di spazi in cui sé e Dio possono coesistere. Quando Etty si prende cura di sé, sa che si prende cura di Dio dentro di sé, ed in questo modo lascia che Dio agisca in lei.

Prendersi cura della presenza di Dio nel mondo significa anche prendersi cura di noi, e viceversa: prenderci cura di noi significa aiutare Dio ad essere presente nel nostro mondo e nella nostra società».

Casavatore, giugno 2011
P. Carmelo Casile

 

[1] Cfr. Omelia del P. Generale, nella Celebrazione del 144º anniversario della fondazione dell’Istituto Comboniano, Roma, venerdì 3 giugno 2011

[2] Succedeva così in Italia fino a una cinquantina di anni fa. L’Istituto Mazza è nato in un contesto del genere potrebbe insegnarci qualcosa ancora oggi.

[3] Cf Vita pastorale, Marzo 2006, pp.103-106

[4] Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, pp. 104-105

[5]È lo stesso religioso che ha la responsabilità primaria di dire “sì” alla chiamata che ha ricevuto e di accettare tutte le conseguenze di tale risposta, la quale non è tanto di ordine intellettuale, ma piuttosto di ordine vitale. La chiamata e l'azione di Dio, come il suo amore, sono sempre nuovi: le situazioni storiche non si ripetono mai. Il chiamato, quindi, è incessantemente invitato a dare una risposta attenta, nuova e responsabile. Il suo cammino ricorda quello del popolo di Dio dell'Esodo, come pure la lenta evoluzione dei discepoli tardi di cuore nel credere [Lc 24,25], ma che finiscono per ardere di fervore quando il Signore risuscitato si manifesta loro [cf. Lc 24,32]. Ciò vuol dire fino a qual punto la formazione del religioso debba essere personalizzata. Si tratterà di richiamarsi vigorosamente alla sua coscienza personale e alla sua personale responsabilità, perché interiorizzi i valori della vita religiosa e nello stesso tempo la regola di vita che gli è proposta dai suoi maestri e maestre di formazione, per cui trovi in se stesso la giustificazione delle sue opzioni pratiche e, nello Spirito creatore, il suo dinamismo fondamentale. Si deve, quindi, trovare un giusto equilibrio tra la formazione di gruppo e quella di ciascuna persona, tra il rispetto dei tempi previsti per ciascuna fase della formazione e il loro adattamento al ritmo di ciascuno”.

[6] Cf Gianni Colzani, La Chiesa si rinnova ad opera dei presbiteri, in Vita Pastorale Marzo 2006, p. 95

[7] Cf PDV = Esortazione apostolica, Pastores dabo vobis

[8] Lettera del Superiore Generale, Insieme verso l’Assemblea Intercapitolare 2006», MCCJ Bulletin Gennaio 2006, pp. 1-11.

[9] Cf A. Manaranche, Come gli Apostoli, Queriniana 1972, p. 89

[10] Cf AC ’91, 4.6; 11, ecc…..

[11] Cf. Verso la Ratio Missionis, Messaggio del Consiglio Generale

[12] Cf Benedetto XVI, Messaggio per la Quaresima del 2006, LEV, p. 10

[13] P. Siro Stocchetti, Possibili modelli formativi + Modello integrativo della formazione, in Allegati dell’Assemblea dei formatori, Plancia 2005, pp. 111-128