Lungo il cammino verso Gerusalemme, dieci lebbrosi vanno incontro a Gesù, gridando il dolore che strazia la loro carne, la loro impurità e la loro emarginazione. Gesù, che “appena li vede” si accorge della loro sofferenza attesta anzitutto che agli occhi di Dio nessuno è impuro: nessuna lebbra del corpo o dello spirito, nessuna situazione di sofferenza, nessuna debolezza che fiacca la nostra corsa verso il cielo merita condanna. Dio non discrimina, non emargina, non condanna. Guarisce e salva. (...)

XXVIII Domenica del Tempo ordinario – Anno C

“Aiuto, fiducia, gratitudine”

Lungo il cammino verso Gerusalemme, dieci lebbrosi vanno incontro a Gesù, gridando il dolore che strazia la loro carne, la loro impurità e la loro emarginazione. Gesù, che “appena li vede” si accorge della loro sofferenza attesta anzitutto che agli occhi di Dio nessuno è impuro: nessuna lebbra del corpo o dello spirito, nessuna situazione di sofferenza, nessuna debolezza che fiacca la nostra corsa verso il cielo merita condanna. Dio non discrimina, non emargina, non condanna. Guarisce e salva.

Tuttavia, Egli non vuole dispensare miracoli eclatanti dall’alto senza che questi ci aprano a una relazione con Lui. E, allora, per guarire occorre compiere dei passi.

Il primo è saper chiedere aiuto, come fanno i lebbrosi: guarisce soltanto chi si riconosce ammalato, chi non pensa di poter bastare a se stesso. Fino a quando presumo di farcela da solo, non potrò aprirmi né all’azione di Dio e né all’amore dei fratelli. Il secondo aspetto è l’importanza di un cammino di fiducia: Gesù non li guarisce subito, ma li manda dal sacerdote del Tempio, come prescrive la Legge. Essi sarebbero dovuti restare delusi, ma si fidano di Lui e, perciò, guariscono mentre sono lungo la strada. Guarire non è un atto magico, ma implica un mettersi sulla strada in cammino, un fidarsi e affidarsi al Signore, un camminare nell’attesa e nella speranza anche quando tutte le evidenze, dentro e fuori di noi, attestano il contrario.

Infine, il terzo aspetto: la gratitudine. Gesù lamenta che, dei dieci guariti, solo uno straniero è tornato indietro a ringraziare. Gesù non vuole fare l’offeso, ma ci offre una sottolineatura: la vera guarigione nasce dall’incontro e dalla relazione. Non è un caso che “ringraziare” sia sinonimo di “essere riconoscenti”.

Ai nove lebbrosi basta la certificazione del sacerdote, basta la norma, basta aver ottenuto ciò che desideravano. Ma si dimenticano della persona che li ha guariti. Succede così anche a noi: ricorriamo a Dio e agli altri nel momento del bisogno, ci basta frequentare il tempio, ci consola l’aver osservato le norme, ci appaga lo scambio delle buone maniere quando ci incontriamo per strada. Ma, fatichiamo a impegnare la vita in una relazione di amicizia e di amore, a riconoscere l’altro come fratello e compagno di strada, a stupirci per quanto ogni giorno riceviamo nelle piccole cose.

Il nostro mondo e le nostre relazioni soffrono per mancanza di stupore e di gratitudine, per abbondanza di abitudine e perché, ormai, diamo tutto per scontato. Lo straniero, invece, forse proprio perché “non abituato”, corre di nuovo da Gesù.

Iniziamo a guarire solo quando usciamo dall’abitudine e, nella gratitudine, impariamo a stupirci e a riconoscere Dio e gli altri.
[Francesco Cosentino – L’Osservatore Romano]

La persona riconoscente è uno straniero, un eretico samaritano

2Re 5,14-17; Salmo 97; 2Tm 2,8-13; Lc 17,11-19

Simpatico e bello il racconto della prima lettura. L’ufficiale dell’esercito nemico viene guarito in Israele, grazie all’intervento del profeta Eliseo. Aveva faticato non poco ad accettare le semplici proposte del profeta trasmessegli dal servo, ma ora eccolo guarito! Egli non continua la sua strada, ritorna: vuole ringraziare! Sa di essere guarito da Dio, ma vuole ricompensare il profeta, che però non accetta doni, per non favorire la tentazione che si pensi che il suo intervento dipenda da qualche forma di magia. Gli uomini beneficati infatti sono spesso tentati di attribuire i “miracoli” di Dio a poteri posseduti dall’uomo. Il profeta rifiuta categoricamente. Ci fa sorridere la conclusione di Naaman: chiede di portare con sé zolle di terra d’Israele, per farsene un tappeto su cui prostrarsi a pregare. Egli vuole esprimere così la sua nuova fede: d’ora in poi suo unico Dio sarà il Dio d’Israele! Attraverso questo episodio riceviamo un bell’insegnamento: esiste un unico Dio per tutti gli uomini, un Dio che non solo esiste, ma che è presente, un Dio che ama l’uomo, un Dio che va riconosciuto e ringraziato!

Noi viviamo ora a contatto con molti che portano con sé il loro tappeto per stendervisi a pregare: ritengono di trovarsi su di una terra impura, idolatrica, e perciò si premuniscono. Noi li beneficiamo, perché riconoscano d’essere invece amati dal Dio che noi conosciamo, Padre di Gesù e nostro Padre, e si rivolgano a lui con riconoscenza ed amore!

Un messaggio simile lo riceviamo dal fatto raccontato nel Vangelo. Qui sono dieci i lebbrosi che guariscono per la loro obbedienza a Gesù! Gesù è più grande del profeta Eliseo! Purtroppo solo uno dei lebbrosi guariti torna sui propri passi per ringraziare Gesù, riconoscere in lui l’inviato di Dio e riconoscere pubblicamente il beneficio ricevuto! La persona riconoscente è uno straniero, un eretico samaritano! Riflettendo sull’ingratitudine dei nove beneficiati, impariamo il dovere della riconoscenza, di quella riconoscenza verso Dio che spesso manca anche a noi, perché riteniamo ci sia tutto dovuto di diritto, persino l’aria che respiriamo! Gesù mostra il valore dell’obbedienza, la strada per ricevere la vita!

Impariamo da questo episodio la grandezza e gratuità della misericordia e bontà di Dio, che precede la gratitudine dell’uomo. Impariamo a non giudicare nessuno, perché proprio il samaritano - giudicato e condannato a priori da tutti - è l’unico che riconosce veramente Gesù come inviato di Dio! Il samaritano è l’unico che sperimenta la salvezza, perché è l’unico che si mette davanti a Gesù nell’atteggiamento “giusto”, lo riconosce cioè come Signore della propria vita mettendosi ai suoi piedi pronto ad ubbidirgli e a servirlo. Non è giusto chi è miracolato da Dio, ma chi accoglie Gesù e gli ubbidisce! Soltanto a lui il Signore può dire: “la tua fede ti ha salvato!”.
Don Joseph Ndoum

“Esclusione”: parola vietata dal Vangelo e dalla Missione

2Re 5,14-17; Salmo 97; 2Timoteo 2,8-13; Luca 17,11-19

Riflessioni
Con un miracolo Gesù guarisce e purifica dieci lebbrosi, anche se soltanto uno - un samaritano, uno straniero! - ritorna a rendere lode a Dio e a dire grazie a Gesù (v. 18).  Il primo evidente messaggio del Vangelo di oggi riguarda le buone maniere: impariamo come dire “grazie” a una persona che ci fa un favore o compie una gentilezza. In varie occasioni Papa Francesco ha dato degli insegnamenti pastorali partendo da tre parole semplici e comuni: Grazie! – Scusi! – Per favore! Ognuno di noi, nella sua esperienza quotidiana, sa quanto sono importanti queste tre parole nella vita di famiglia e nei rapporti sociali. La gratitudine è il contrario dello scambio commerciale, fa entrare in una relazione di amore.

Spesso pensiamo che tutto ci sia dovuto; anche da Dio. Domenica scorsa abbiamo visto come il dono prezioso della fede richiede chiaramente l’ossequio della nostra gratitudine verso Dio, con un impegno missionario, condividendo la nostra fede, sostenendo il lavoro missionario della Chiesa.

Ma l’insegnamento del Vangelo odierno va ben oltre una lezione di galateo circa il dovere della gratitudine. Il miracolo di Gesù è a favore delle persone più escluse dalla società civile e religiosa. La legislazione del tempo era rigidissima e minuziosa riguardo ai lebbrosi (Lev 13-14), considerati impuri, maledetti, castigati da Dio con il peggior flagello. Erano obbligati a vivere separati dalla famiglia, fuori dei villaggi, e a gridare ai passanti di tenersi lontani da loro. Gesù, con il suo miracolo, capovolge quella mentalità escludente: nei tempi nuovi la salvezza di Dio è offerta a tutti, senza alcuna esclusione di persone. I lebbrosi non sono dei maledetti. Anzi la loro guarigione diventa segno della presenza del Regno di Dio: il fatto che “i lebbrosi sono purificati” (Mt 11,5; Lc 7,22) è un chiaro segno che il Messia è presente e all’opera, come Gesù segnala agli inviati dell’amico Giovanni Battista in carcere. Fin dall’inizio della sua vita pubblica, Gesù sente compassione, tende la mano, tocca un lebbroso e lo guarisce (Mc 1,40-42). Il progetto di Dio non è mai escludente, ma inclusivo: è comunione, aggregazione, condivisione. Questa apertura si manifesta anche nella guarigione che il profeta Eliseo opera su un lebbroso straniero, Naamàn (I lettura), comandante dell’esercito del re di Aram (Siria).

Dei dieci lebbrosi, nove erano giudei, uno era samaritano. Tutti sono ugualmente guariti da Gesù, ma non tutti ottengono la salvezza piena. Nove sono guariti, uno solo è “salvato”. Alzati e va, la tua fede ti ha salvato(v. 19). Il Vangelo è pieno di “guariti”; di pochi invece si dice che sono anche “salvati”. Per Gesù la vera guarigione non è soltanto quella fisica. È soprattutto quella interiore.Non sempre la guarigione fisica diviene salvezza completa e definitiva… I nove giudei continuano il loro itinerario verso il tempio per reintegrarsi nella vita civile e religiosa di Israele… Diversamente si comporta l’unico samaritano del gruppo. Egli torna indietro da solo per ringraziare il Maestro, perché comprende che in Gesù può trovare qualcosa di nuovo e diverso da ciò che gli offre la sua vecchia comunità di appartenenza… A lui Gesù offre una salvezza maggiore della semplice salute fisica: «Alzati e va’; la tua fede ti ha salvato!» (v. 19). Il samaritano non si è affrettato verso il tempio (come gli altri nove), ma è tornato da Gesù, «a rendere gloria a Dio» (v. 18), dimostrando, in tal modo, di comprendere che il Dio che salva non si incontra e non si onora più nel tempio, bensì unendosi a Cristo” (Corrado Ginami). Lo scrittore e poeta bulgaro Elias Canetti diceva: “La cosa più dura per chi non crede in Dio è non avere nessuno a cui poter dire grazie”. Quel lebbroso che torna da Gesù ci insegna che a volte la vera fede nasce da un   gesto semplice, da un “grazie” sussurrato timidamente ma con amore.

Attaccarsi a Cristo, seguire la via nuova da Lui inaugurata, è la calda esortazione di S. Paolo al discepolo Timoteo (II lettura): “Ricòrdati di Gesù Cristo, risorto dai morti” (v. 8). Paolo gli è fedele, anche se gli tocca soffrire in catene e Lo annuncia con fiducia, nella certezza che “la Parola di Dio non è incatenata” (v. 9). Ci si può fidare di Lui fino a dare la vita, perché “Lui rimaner fedele” (v. 11-13). A quel livello di maturità spirituale giunse anche San Daniele Comboni, che abbiamo celebrato il 10 ottobre. Ai futuri missionari egli additava con insistenza l’ideale di Cristo crocifisso-risorto, esortandoli a “tener sempre gli occhi fissi in Gesù Cristo, amandolo teneramente, e procurando di intendere ognora meglio cosa vuol dire un Dio morto in croce per la salvezza delle anime. Se con viva fede contempleranno e gusteranno un mistero di tanto amore, saran beati di offrirsi a perder tutto, e morire per Lui, e con Lui… esibendosi anche al martirio” (Regole del 1871).

Questo mese di ottobre missionario straordinario, voluto da Papa Francesco, ci ricorda che “ogni battezzata e battezzato è una missione”, un dono da vivere e condividere sui passi di Gesù, il Missionario del Padre. (*) Gesù ha cercato gli impuri, eretici, esclusi, emarginati: è venuto per “riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi” (Gv 11,52). Sul suo esempio, i cristiani sono chiamati ad essere persone di comunione verso chiunque; uomini e donne che ripudiano qualsiasi motivazione e prassi escludente; persone che scelgono le vie della comunione, solidarietà, inclusione; gente che opera all’interno della comunità per alleviare la sofferenza di quanti sono di fatto impediti o esclusi in qualche ambito della vita cristiana e civile, da qualunque parte vengano le restrizioni. La missione secondo il Vangelo ci impegna a lavorare per la più piena comunione di tutti con tutti: in Cristo!

Parola del Papa – Una parola speciale per questo ottobre missionario 2019

(*)La Chiesa è in missione nel mondo: la fede in Gesù Cristo ci dona la giusta dimensione di tutte le cose facendoci vedere il mondo con gli occhi e il cuore di Dio; la speranza ci apre agli orizzonti eterni della vita divina di cui veramente partecipiamo; la carità, che pregustiamo nei Sacramenti e nell’amore fraterno, ci spinge sino ai confini della terra (cfr. Mt 28,19; At 1,8). Una Chiesa in uscita fino agli estremi confini richiede conversione missionaria costante e permanente. Quanti santi, quante donne e uomini di fede ci testimoniano, ci mostrano possibile e praticabile questa apertura illimitata, questa uscita misericordiosa come spinta urgente dell’amore e della sua logica intrinseca di dono, di sacrificio e di gratuità (cfr. 2Cor 5,14-21)! È un mandato che ci tocca da vicino: io sono sempre una missione; tu sei sempre una missione; ogni battezzata e battezzato è una missione. Chi ama si mette in movimento, è spinto fuori da sé stesso, è attratto e attrae, si dona all’altro e tesse relazioni che generano vita”.
Papa Francesco
Messaggio per la Giornata Missionaria Mondiale, 2019

P. Romeo Ballan, mccj

Luca 17,11-19
Domenica dei lebbrosi

2 Re 5,14-17 (leggere 5,1-19); Sal 97; 2 Tm 2,8-13; Lc 17,11-19

L’azione di grazie non è semplice riconoscenza umana ma un atto di fede.

Il messaggio delle letture di questa domenica non è un semplice insegnamento sul dovere morale della riconoscenza umana. Naaman Siro passa dalla guarigione alla fede: egli non riconosce più altro Dio se non il Dio di Israele (prima lettura). Il lebbroso dell’Evangelo torna indietro «lodando Dio a gran voce». Il miracolo gli ha aperto gli occhi sul significato della missione e della persona di Gesù. Egli rende grazie a Dio non tanto perché il suo desiderio di guarire è stato soddisfatto, ma perché capisce che Dio è presente e attivo in Gesù. Egli riconosce che Cristo è il Salvatore in cui Dio è presente ed opera non solo la salute del corpo ma la salvezza totale dell’uomo. E questa è fede. In Gesù egli vede manifestarsi la gloria di Dio (Evangelo). Perciò Luca conclude il racconto con la parola di Gesù: «Alzati e va; la tua fede ti ha salvato». Salvato non già dalla lebbra, ma salvato nel senso cristiano del termine.

La salvezza dalla lebbra è solo il segno di un’altra salvezza. Il rendimento di grazie del lebbroso guarito nasce dunque prima di tutto dalla fede e non dalla utilità: è contemplazione gioiosa e gratuita dell’amore salvatore di Dio prima che contentezza per la salute riacquistata. Solo in un secondo tempo include la riconoscenza, ma non il semplice cortese ringraziamento per un beneficio ricevuto. L’Evangelo non vuole darci una lezione di galateo ma dirci che l’azione di grazie è l’atteggiamento fondamentale dell’uomo che nella fede ha scoperto che la sua salvezza proviene solo dall’azione di Dio in Cristo. Se gratitudine umana e azione di grazie a Dio non si identificano, è anche vero che fra loro c’è continuità. Quando i rapporti personali sono tutti basati sull’utile e sul piacere è ben difficile aprirsi alla contemplazione dell’amore gratuito di Dio. Anzi la mentalità utilitaristica ed egocentrica snatura gli atti religiosi. Se abbiamo perso il senso del gratuito, se le azioni che compiamo hanno il movente nella speranza o nel diritto alla ricompensa, molto probabilmente non possiamo avere l’esperienza della Eucaristia.

L’uomo d’oggi deve scoprire il senso del «ricevuto» per aprirsi al ringraziamento.

I lettura: 2 Re 5,14-17

L’episodio di Naaman Siro, il capo delle milizie del re di Damasco, è in un certo senso esemplare per tutto l’A. T., e Cristo stesso lo richiama un sabato, nella sinagoga di Nazaret (Lc 4,27; vedi l’Evangelo della Domenica IV del Tempo Ord. C). Infatti, è la fede che adesso nasce anche fuori d’Israele, in uno “straniero”. Naaman sa da una sua giovane schiava ebrea che i profeti in Israele, oltre ad altre azioni straordinarie, guariscono anche dalla lebbra.

Così, con le lettere del suo re e portando anche doni, Naaman dapprima chiede la guarigione della sua lebbra al re di Giuda, che ne resta terrorizzato, credendo sia un pretesto del potente regno di Damasco, in caso di rifiuto, per muovergli guerra. Ma interviene Eliseo, che avoca a sé la questione, e fa venire Naaman. Questo si muove nella sua pompa orientale, di piccolo “ras” che si “rotola” nella sua potestà, e quindi si fa precedere, accompagnare e seguire da tutto il corteggio variopinto di servi e di animali e carri, lento perché stracarico di ricchezze e di ornamenti e di suppellettili e di provviste, una spedizione autosufficiente per almeno un anno. Insomma, come si addice a tutti i potenti di questa terra, e come si aspettano che avvenga tutti gli umili di questa terra. Essi che del resto, e nonostante tutto, resterebbero assai delusi se questo sfarzo non avvenisse. Basterà qui vedere la calca di folla anonima ai cortei e alle nozze reali, ma anche alle nozze di persone altolocate, e simili. Questo è chiaro dal contesto, lo confermano le offerte che Naaman, guarito, insiste per deporre ai piedi di Eliseo. Che invece, contro le aspettative, le rifiuta (vedi poi i vv. 15-16).

Eliseo gli ordina di lavarsi sette volte nel Giordano. Ma Naaman dapprima si rifiuta di eseguire quell’ordine, perché per lui altri fiumi di Siria non sono inferiori al Giordano, eppure non operano guarigioni. Ma i suoi servi lo convincono, sulla fiducia nel Profeta, che in fondo ha ordinato non un fatto così imponente e difficile da eseguire, bensì un’azione di poco conto, che non costa nulla (vv. 1-13).

Su questa fiducia, Naaman, obbedisce alla parola del «servo del Signore», e si immerge nel Giordano le sette volte prescritte. È subito guarito. La sua carne torna ad essere nuova e tenera come quella di un neonato (v. 14). Come sempre, il numero 7 è simbolico, indica la completezza di un’azione; e qui assume un tono ieratico che serve anche per impressionare un pagano.

Ma a causa della sua guarigione adesso Naaman muta l’abito mentale. Torna da Eliseo, e gli espone la professione della sua fede. Adesso sa che esiste in tutto il mondo l’Unico Signore, e che tuttavia dimora solo in Israele, da dove domina l’universo (v. 15a). Identica confessione, davanti ai prodigi operati dagli uomini di Dio, esprime il re di Babilonia (Dan 2,47; 3,29; 6,26-27).

In seguito a questa convinzione acquisita a causa del prodigio della sua guarigione, Naaman prega il Profeta di accettare un donativo quale segno di benedizione, ossia di rendimento di grazie a Dio, e di volontà di entrare in comunione (v. 15b). Eliseo giura per il Signore con la formula «Hàj ‘Adònaj, Vive il Signore!», ossia egli non accetta doni per quant’è vero che il Signore è il Vivente. Come si sa, gli orientali sono simpaticamente (e dipende dai punti di vista) molto ossequiosi e complimentosi e insistenti nell’offrire doni, e così è Naaman. Ma il Profeta ha giurato, e non cede (v. 16).

Vista la purità della fede d’Israele, Naaman chiede di portare con sé due carichi della terra sacra d’Israele, perché da adesso in poi con essa formerà una specie di suolo sacro sul quale celebrerà il Signore con sacrifici, abbandonando l’idolatria (v. 17). Così la sua fede iniziale diventa anche sostanziale, ossia, come si dice, è una fede che ormai diventa “informata” di contenuti vivibili. Il culto al Signore Vivente lo pone nella comunione divina, come un membro del popolo dell’alleanza.

Vangelo Lc 17,11-19

v. 11 Le indicazioni geografiche e topografiche dell’evangelista non obbediscono a criteri di precisione, ma di ambientazione generica e teologica del racconto. Gesù, in cammino verso la Città Santa, «attraversa »la Samaria e la Galilea. L’espressione «dia meson» è molto diffìcile da spiegare; lett. è tradotto con «attraverso la parte centrale della Samaria e della Galilea». In realtà, le due regioni, se di un vero e proprio attraversamento si tratta, avrebbero dovuto essere menzionate nell’ordine inverso, perché la Samaria era tra la Galilea e la Giudea; molti perciò intendono che Gesù si muove lungo il confine tra le due regioni, verso est, per imboccare poi la valle del Giordano fino a Gerico (cf. 19,1).

v. 12 In un abitato si fanno incontro a Gesù 10 lebbrosi, i quali però, per la severa legge levitica debbono tenersi a distanza (cf Lev 13,45-46; Lam 4,15). La lebbra, col peccato che essa significa, ha radunato questi dieci uomini, emarginandoli tutti, senza distinzione di origine, dalla comunità e dal culto. Non possono avvicinare né gli uomini, né Dio. L’isolamento era diretto ad evitare il pericolo di contagio e un interdetto religioso – l’impurità legale – rendeva il malato inabile a far parte dell’assemblea di culto come escludeva chiunque fosse venuto a contatto con lui.

Ma il loro grido giunge a Gesù. La sua misericordia non fa differenza tra questi uomini. Tutti quelli che hanno implorato la sua pietà saranno purificati insieme, perché hanno tutti obbedito al suo invito. Tutti potranno far constatare la loro guarigione dai sacerdoti, secondo le prescrizioni della Legge.

La lebbra infatti è il più drammatico simbolo del peccato e l’eventuale guarigione doveva essere diagnosticata da un sacerdote, competente in materia di purità e impurità legale (Lv 14,1-32), era seguita anche dall’offerta di un sacrificio analogo al cosiddetto «sacrificio per il peccato».

«dieci lebbrosi» dieci è anche il numero di adulti (età superiore ai tredici anni) richiesti per svolgere una liturgia comunitaria come assemblea sinagogale (il Minyan = numero); è anche cifra dell’azione umana, che si realizza attraverso le dieci dita delle mani. Da notare come la sciagura e la miseria affratella e rende bisognosi di compagnia a tal punto che questo gruppo è composto di giudei e un samaritano; nulla come il dolore e la sventura elimina radicalmente le distanze. La preghiera dalla quale erano stati esclusi si realizza comunque ed è efficace.

Questi dieci rappresentano tutta l’umanità, chiamata a far parte della comunità dei figli che ascoltano e fanno la parola del Padre.

v. 13 – Gridano a gran voce: «Gesù sovrintendente » (epistàtès) = titolo che riconosce la supremazia, indica uno che sta in alto; alcuni traducono anche con Signore o maestro. Luca è il solo autore del N.T. a tradurre l’ebraico-aramaico rabbì con il termine greco «epistàtès»; la grecità sacra e profana dà ad epistàtès il significato di preposto, capo presidente.

«Gesù»: (=Dio salva): i lebbrosi sono i primi a chiamare Dio per nome. Oltre ai lebbrosi, solo il cieco (18,38) e il malfattore in croce (23,42) ne pronunciano il nome. Chiamare per nome significa conoscere e avere un rapporto amichevole; essi hanno conosciuto la bontà di lui, e la implorano: abbi pietà di noi! Eleison hemàs Sal 145,2; 51,3-4; Is 33,2.

v. 14 – «Gesù appena»: = cf buon samaritano Lc 10.33; Padre misericordioso Lc 15,20;

«li vede»: (horáō) e invece di fare un gesto di guarigione, risponde sempre per traverso e per il più di quanto richiesto, come solitamente usa fare, che si rivela sempre essere il modo più efficace: «Andate, mostratevi ai sacerdoti». È il richiamo alla norma severa di Lv 13,32.45-46 I lebbrosi non hanno chiesto esplicitamente la guarigione, ma Gesù va incontro al loro più profondo e straziante desiderio. E quelli sono guariti mentre vanno; mostrano così una grande fede obbedendo, anziché replicare per essere guariti subito. Questi lebbrosi siamo noi tutti, chiamati a seguire Gesù, anche se incapaci di percorrere la sua via. Il Padre ci ha ordinato di ascoltare il figlio (9,35), che ci chiama a fare il suo viaggio (9,23). Ascoltando il Padre, obbediamo al Figlio e intraprendiamo il cammino impossibile che ci prescrive; siamo mondati dall’obbedienza alla sua parola che ci ordina il santo viaggio. All’interno di questo veniamo purificati.

Non è che prima siamo giusti e poi possiamo seguire Gesù: la salvezza non è la condizione, ma la conseguenza della sequela. Per questo noi, peccatori e perduti, possiamo percorrere il cammino di Gesù. Confidiamo solo nella sua parola, in povertà assoluta.

Questa è la fede che giustifica e dà speranza contro ogni speranza (Rm 4,18: «Egli (Abramo) credette, saldo nella speranza contro ogni speranza, e così divenne padre di molti popoli, come gli era stato detto: Così sarà la tua discendenza»). Il confronto con la prima lettura è illuminante in tal senso (cfr. 2 Re 5,10-11).

vv. 15-16 Uno però torna indietro guarito e rendendo grazie si prostra ai piedi di Gesù. L’evangelista Luca annota semplicemente: «e questo era Samaritano». Quell’uomo, doppiamente escluso, come lebbroso e come Samaritano, è così abilitato a riconoscere Gesù.

Come si sa, tra Ebrei e Samaritani non esisteva sopportazione (cf Gv 4,9b); Gesù nell’inviare i discepoli in missione (Mt 10,5), prescrive esplicitamente di non andare dai Samaritani. Di fatto proprio all’inizio della «salita a Gerusalemme», i Samaritani non lo accolsero: 9,52-53, ed i discepoli irritati chiedono di far scendere il fuoco dal cielo (cf Evangelo della Dom. XIII).

«Si vide»: ancora horáō. Ora il verbo vedere così espresso in greco indica un vedere che supera la superfice e coglie l’essenza delle cose. È un vedere che porta alla fede (cf Gv 20,8). Luca usa lo stesso verbo e la stessa forma già usati per indicare lo sguardo misericordioso di Gesù.

«Ringraziare» e «ringraziamento»: in greco eucharistéo ed eucharistia, sono termini nuovi ed indicano l’importanza dell’azione di grazie per i cristiani in risposta alla grazia (charis) ricevuta da Dio in Cristo Gesù. Il Samaritano guarito unisce nella stessa lode e nella stessa azione di grazie Dio e Gesù. Egli riconosce davanti a tutti che la salvezza ricevuta è l’opera di Dio in Gesù. La sua fede non fa distinzione tra loro ed egli si prostra dinanzi a colui dal quale è stato purificato come ci si prostra davanti al Signore.

La perfetta espressione del ringraziamento è appunto l’Eucaristia sacramentale, donata da Cristo alla sua Chiesa perché per Lui, con Lui e in Lui essa renda gloria e grazia al Padre.

vv. 17-18 Gesù lo accoglie con strane parole. Non lo complimenta, ma come «risposta» quasi lo investe con un triplice incalzante interrogativo. All’unico credente si chiede conto degli altri nove; che non accada come in Gen 4,9: «Allora il Signore disse a Caino: “Dov’ è Abele, tuo fratello?”. Egli rispose: “Non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello?”».

La traduzione letterale del v. 18 è: «Non si trovarono che tornassero a dar gloria a Dio, se non questo estraneo?»; i verbi dovrebbero essere al singolare, come traduce ancora la CEI. Sono invece al plurale, perché il pensiero di Gesù è rivolto ancora agli altri nove. Egli è il vero figlio maggiore che si cura degli altri fratelli perduti. I nove giudei accettano con naturalezza il prodigio e continuano il viaggio verso il sacerdote, pronti a rientrare nella vita umana e religiosa d’Israele, loro popolo. Ritornano a Gerusalemme per compiere una legge, che poi li condannerà al primo errore. Resteranno così sempre immondi. In fondo, la guarigione non apporta loro nulla di nuovo, perché tornano ad essere quello che erano già stati, israeliti; il loro incontro con Gesù è stato semplicemente un episodio superficiale e passeggero. Hanno ricevuto la guarigione esterna, ma internamente sono rimasti legati ai vecchi ideali, un giudaismo che non ha compreso il vero valore della Legge, la salvezza dell’uomo che liberato riconosce la Signoria di Dio (cf Icona allegata). Uno solo per ora torna da Gesù e lo ringrazia per il dono ricevuto; non saprebbe più dove andare, perché la sua vecchia comunità di salvezza non gli offre più garanzie. Ha trovato in Gesù qualcosa di diverso ed è tornato per ringraziarlo e mettersi al suo servizio.

Anche lo straniero Naaman ritornò da Eliseo dopo esser stato guarito dalla lebbra. Quest’uomo “graziato” che torna indietro a “rendere grazie” ha dei lineamenti ben caratterizzati: è uno straniero, anzi un samaritano, ed è un lebbroso, cioè un impuro, un colpito, un maledetto. Ha dei lineamenti che non possono non evocarne altri ben noti: «è un samaritano, un indemoniato! Dicevano di lui» (Gv 8,48). C’è somiglianza, c’è nel graziato consanguineità col volto stesso del Donatore gratuito; Cristo che prima ancora di dare qualcosa ha assunto la stessa condizione di colui che era nel bisogno, si è fatto come lui per aprirlo alla salvezza.

v. 19 Dopo la lode del v. 18 il Samaritano è congedato: la fede tua ti ha salvato. Questa formula, che indica la potenza della fede è comune ai sinottici:

  1. Mt 9,22; Mc 5,34; 10,52;
  2. Luca rivolge le stesse parole alla peccatrice (7,50), all’emorroissa (8,48), e al cieco (18,42; cf Zaccheo 19,9).

L’accento va posto su due poli:

  1. la misericordia del Signore, che guarendo i lebbrosi li reinserisce dentro l’assemblea cultuale del popolo di Dio, da cui li escludeva la grave affezione.
  2. la fede dei dieci lebbrosi.

Incipiente in tutti e 10 i lebbrosi, che obbediscono al comando del Signore di presentarsi al sacerdote, essa si sviluppa (aumenta? Vive?) solo nel Samaritano. Questo nel mostrare la sua gratitudine al Signore onnipotente, dal quale sa di essere stato guarito, rivela la pienezza della sua fede accettata ed espressa a Cristo. Quella che era cominciata come una guarigione fisica diviene ora una «salvezza» definitiva.

Intorno a Gesù comunque regna una cieca ostinazione, mentre il Regno di Dio si è appena manifestato davanti a loro con la guarigione dei dieci lebbrosi, i farisei chiedono a Gesù quando verrà (17,20-21) una domanda che ricorda quella di 13,23: “Signore, sono pochi quelli che si salvano?”.

Non potevano trovare momento migliore per porgli una tale domanda! La loro mancanza di fede non si poteva manifestare con maggiore evidenza, appena dopo che il Samaritano aveva manifestato la sua.

Decisamente, il Regno di Dio non si impone come l’evidenza di un fatto alla cui osservazione nessuno potrebbe sfuggire. Il Samaritano ha saputo riconoscere nella sua guarigione il segno della presenza del Regno di Dio in Gesù; come i dieci lebbrosi giudei, benché anch’essi guariti, i farisei restano ciechi: vedono i segni e non sanno riconoscere ciò che significano. Come più tardi i sacerdoti, che constateranno la purificazione dei nove lebbrosi giudei, i farisei nel porre la domanda rifiutano già il Figlio dell’uomo che offre loro la salvezza.

I farisei attendono il Regno di Dio. Il loro solo problema è di sapere quando verrà per poterne godere. Non si pongono il problema di sapere se vi saranno ammessi, tanto sono sicuri del fatto loro. Anche i discepoli vorranno vedere il giorno del giudizio e della liberazione dai loro nemici.

Tutti pensano alla condanna e alla morte soltanto come a quella degli altri. Ebbene se uno sarà preso e l’altro lasciato, la minaccia di essere abbandonato agli avvoltoi li riguarda, come riguarda tutti gli altri.

Gesù enuncia chiaramente la legge che regolerà il giudizio al termine del quale uno sarà preso nel Regno di Dio per la vita eterna e l’altro lasciato senza vita, cadavere del quale si ciberanno gli avvoltoi. Chi vuole conservare la propria vita la perderà e chi perde la propria vita la conserverà.

Il paradosso di Gesù, quello del quale ha indicato la via accettando la morte, vuole che tutto sia capovolto d’ora in poi per i fedeli del Cristo: non è la morte degli altri che ci salverà dai nostri nemici, ma la nostra morte accettata che ci salverà e con noi quelli che ci perseguitano. Gesù non ha chiesto al Padre di perdonare a quelli che gli toglievano la vita?

Lunedì 7 ottobre 2019
Abbazia Santa Maria di Pulsano
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