«Il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?». Parole molto serie. Chi conserverà la fede? Chi è forte e ben difeso? Secondo la parabola di questa domenica sarà qualcuno simile ad una povera vedova che non si rassegna all’ingiustizia subita dal suo avversario. (...)

Pregare Dio senza pretesa che agisca al nostro posto

Es 17,8-13; Salmo 120; 2Tm 3,14 - 4,2; Lc 18,1-8

Questa domenica la Parola di Dio ci spiega , con l’immagine di Mosè (che sul monte tiene le mani alzate mentre nella valle Giosuè combatte contro Amalek) e con la parabola del giudice disonesto, che bisogna pregare sempre, senza stancarsi. Infatti, la prima lettura ci propone uno dei racconti simbolici che colorano la vita del patriarca Mosè: un modello di costanza nella preghiera. Il racconto della battaglia contro gli amaleciti, discendenti di Esaù e nemici tradizionali di Israele, fa capire che Giosuè può vincere se solo Mosè tiene alzate le mani. Lo dice chiaramente il testo: “Quando Mosè alzava le mani, Israele era il più forte, ma quando le lasciava cadere, era più forte Amalek” Si intravede in questo gesto simbolico il ruolo del mediatore che sta tra Dio e il suo popolo, per indicare da dove viene l’aiuto.

Lo commentano bene le parole del salmo responsoriale: ”Il mio aiuto viene dal Signore, che ha fatto cielo e terra”. Egli è il custode del suo popolo, lo protegge di giorno con la sua ombra e sta alla destra nella battaglia. Il gesto di Mosè manifesta anche l’efficacia della preghiera e ricorda che possiamo ottenere vittoria solo con la preghiera tenace e cotante.

La parabola evangelica del giudice e della vedova riprende questo tema della preghiera insistente e dice espressamente, dall’introduzione, che: ”Gesù disse ai suoi discepoli una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi”. Il modello di questa preghiera fiduciosa e costante viene offerto da una povera vedova, e l’intervento di Dio pare rassomigliare a quello di un magistrato disonesto. Il magistrato lo è diventato probabilmente non per amministrare la giustizia ma per fare carriera. Non teme Dio e non ha riguardo per nessuno dei suoi simili. E’ murato nel proprio egoismo ed è impermeabile ad ogni sentimento. L’immagine di un miscredente allergico da cui non ci si può aspettare nulla. La vedova, d’altra parte, è l’immagine della debolezza disarmata. Gesù la dice povera – una delle tre categorie deboli della società, con l’orfano e l’immigrato. Essa non ha nessun appoggio sociale e non può contare sulle sue risorse economiche per far valere i suoi diritti. Si tratta forse di farsi restituire un debito da qualcuno di potente ed ingiusto, oppure di spartire l’eredità del marito. La battaglia sembra persa in partenza. La debolezza indifesa non ha alcuna possibilità di spuntarla sulla forza arrogante e sull’indifferenza imperturbabile. Per ottenere giustizia, la vedova non ha altro che la sua ostinata insistenza. Essa va dal giudice tutti i giorni e gli ripete la stessa domanda. Egli alla fine si risolve a fare giustizia alla povera vedova, per togliersela dai piedi.

Gesù vuole dirci questa domenica che dobbiamo anche noi avere la stessa insistenza nei confronti di Dio quando preghiamo. Sembra dirci: “Alla preghiera insistente cedono perfino i disonesti. E pensate che alle vostre preghiere insistenti non risponda il Padre mio, che è bontà infinità?”. Quindi non dobbiamo lasciarci impressionare dalle difficoltà “insormontabili”. E non dobbiamo stancarsi se la risposta si fa attendere. I ritardi, invece di affievolire la nostra speranza, dovrebbero essere un ragione per alimentarla. Dio è un Padre che si lascia ferire dal grido dei suoi figli ed è impaziente di esaudirli. Nessuno è più vulnerabile del nostro Dio che ci ama. Egli gradisce le nostre richieste ribadite e desidera essere importunato. L’intervento finale di Dio per liberare quelli che lo invocano è certo, ma quello che conta di più è che i fedeli non vengano meno nella loro attesa vigile e fiduciosa. Non si può più dire allora che “Io sono cristiano, prego spesso, ma Dio non mi esaudisce e non mi ascolta”.

Forse accade perché abbiamo una fede fragile. Inoltre, troppo spesso crediamo che Dio non ascolti le nostre preghiere, mentre siamo noi che non ascoltiamo o aspettiamo le sue risposte. D’altra parte, noi domandiamo a Dio quello che ci piace, e Lui ci dà invece quello di cui abbiamo veramente bisogno, e che ci serve per la nostra salvezza.
Don Joseph Ndoum

Quella povera vedova che non si rassegna all’ingiustizia

«Il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?». Parole molto serie. Chi conserverà la fede? Chi è forte e ben difeso? Secondo la parabola di questa domenica sarà qualcuno simile ad una povera vedova che non si rassegna all’ingiustizia subita dal suo avversario.

Per avere la fede nel giorno della visita di Dio — arrivi quando e come arrivi — bisogna appartenere all’ultima categoria sociale, perché tali erano le vedove a quel tempo. Coloro che non avevano altra difesa che Dio.

Questa vedova è l’umanità, che tante volte perde il suo vero sposo — «Poiché tuo sposo è il tuo creatore» (Is 54,5) — e diviene oggetto di ingiustizia. Quale? Quella per cui i «suoi eletti, gridano giorno e notte verso di lui» — dice Gesù — e a motivo della quale Dio «farà loro giustizia prontamente».

Non dimentichiamo che il tema della parabola è la «necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai».

Chi prega senza cedere e conserva la fede fino all’ultimo? Chi sa che gli spetta giustizia e non si rassegna. Nelle Scritture la giustizia non è quella forense ma è il rapporto con Dio, il “giusto” è Abramo che crede in Dio (cfr. Gen 15,6).

È ingiusto che le persone vivano senza amore e lontane dalla salvezza, che i giovani non abbiano speranza, che gli sposi perdano la gioia. È giusto che i poveri siano saziati, gli afflitti consolati, i dubbiosi consigliati e i peccatori perdonati. È giusto che un sacerdote sia innamorato della Chiesa e che veda la sua comunità rasserenata e riconciliata. Infatti se lo sposo viene tolto ai suoi amici questi digiunano (cfr. Mc 2,20). Per questo un prete o un genitore o una consacrata pregano e digiunano.

Se abbiamo conosciuto lo Sposo e siamo stati amati da Lui, non possiamo concepire che tanti vivano sotto il potere dell’Avversario. Il Signore è il nostro Redentore che in ebraico è colui che fa giustizia, quella che conta, quella del Regno dei cieli (cfr. Mt 6,33).

Annunciare il Vangelo è fare giustizia all’umanità cui spetta di conoscere lo Sposo.
[Fabio Rosini – L’Osservatore Romano]

Forza della preghiera missionaria per far fronte alle nuove sfide

Esodo 17,8-13; Salmo 120; 2Timoteo 3,14-4,2; Luca 18,1-8

Riflessioni
Nel cuore dell’ottobre missionario, ritorna l’appuntamento annuale della prossima Giornata Missionaria Mondiale, come espressione di un impegno che non si limita ad una giornata né alla semplice raccolta di aiuti materiali. È piuttosto una bella opportunità pastorale per sentirsi Chiesa, comunità viva di persone che hanno incontrato Cristo e lo sentono come un dono da condividere con altri, mediante gesti concreti: la preghiera, il sacrificio, atti di solidarietà e - perché no? - anche l’offerta della propria vita. Il tema forte della missione è la salvezza di ogni persona in Cristo. Di conseguenza ritornano i temi forti: urgenza dell’annuncio, scarsità di operai del Vangelo, impegno di ogni battezzato/battezzata, necessità di preghiera insistente, cooperazione da parte di tutti i credenti... (*)

La missione, in quanto annuncio del Vangelo, sta passando per stagioni complesse, ma promettenti. Realtà nuove stanno nascendo per la Chiesa missionaria. La Parola di Dio offre oggi messaggi di speranza per i momenti tragici dell’esistenza umana, sia a livello individuale che sociale e politico. Dio interviene e salva, anche se, a volte, sembra tardare. La sua salvezza è gratuita, ma non ci esime dal libero contributo di ciascuno. Il popolo d’Israele (I lettura), spesso in lotta contro i nemici di turno, ottiene una vittoria contro gli Amaleciti, grazie alla preghiera di uno straordinario orante, Mosè, che, con l’aiuto di due collaboratori, mantiene sollevate le braccia in gesto di supplica a Dio (v. 11-12). La vera preghiera non è ‘fuga dal mondo’, ma luogo di trasformazione della vita e del mondo.

L’esperienza orante di Mosè si prolunga nel salmo e trova conferma nel Vangelo della vedova, la quale, grazie alla sua insistente supplica “senza stancarsi mai” (v. 1), ottiene un risultato importante, avendo la meglio in situazioni avverse: una causa in corso, un giudice sprezzante di Dio e degli uomini (v. 2.4)… L’apostolo Paolo (II lettura), dalla prigione, esorta vivamente il discepolo Timoteo a compiere la sua missione di annunciare la Parola, insistere in ogni occasione opportuna e non opportuna, ammonire, esortare (v. 4,2)… Questi sono solo alcuni dei verbi irrinunciabili della Missione. Gli esempi biblici di Mosè e della vedova sottolineano l’importanza della preghiera al Padrone della messe, che disse ai suoi discepoli: “La messe è molta, ma gli operai sono pochi. Pregate dunque il Padrone della messe che mandi operai nella sua messe” (Mt 9,37-38; Lc 10,2). La preghiera di intercessione è uno strumento insostituibile di missione. Lo esprimeva bene il grande missionario San Daniele Comboni, che in mezzo a grandi difficoltà, scriveva dall’Africa: “L’onnipotenza della preghiera è la nostra forza”. La parola di Gesù ce ne dà la certezza: “E Dio non farà giustizia ai suoi eletti che gridano giorno e notte verso di lui?... farà loro giustizia prontamente” (Lc 18,7-8).

Papa Francesco non perde occasione per rinnovare l’appello missionario a tutte le Chiese, quelle di antica tradizione e quelle di recente evangelizzazione, e le invita tutte a rilanciare l’azione missionaria per far fronte alle molteplici e gravi sfide del nostro tempo. Infatti, c’è un evidente raffreddamento, e anche segni di un inverno della fede cristiana nei paesi d’occidente, che minacciano anche la vita cristiana in altri paesi. Coscienti di questa realtà, possiamo comprendere l’inquietante domanda di Gesù alla fine del Vangelo odierno: “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” (v. 8). È forse la più provocatoria domanda di Gesù per la vita della famiglia umana e quindi per la Chiesa e la missione. Il rischio èil silenzio dell’amore nella notte dell’indifferenza” (G. Bernanos). Parole pessimiste o realiste? Che ne pensi? In questo mese missionario straordinario il Papa ci stimola tutti alla riflessione e ad una azione evangelizzatrice intensa e generosa.

Per il battezzato e per la comunità cristiana, non è il momento di rinchiudersi in sé stessi, di ridurre lo spazio della speranza, o di rallentare l’impegno missionario. È invece l’opportunità di aprirsi con fiducia alla Provvidenza di Dio, che mai abbandona il suo popolo. È l’occasione per rinnovare l’impegno di annunciare il Vangelo; pregare di più e aprire nuovi spazi di azione missionaria.

Parola del Papa

(*)Ciascuno di noi è una missione nel mondo perché frutto dell’amore di Dio… La vita divina ed eterna di Dio ci viene comunicata nel Battesimo, che ci dona la fede in Gesù Cristo vincitore del peccato e della morte, ci rigenera a immagine e somiglianza di Dio e ci inserisce nel corpo di Cristo che è la Chiesa. Il Battesimo è dunque veramente necessario per la salvezza perché ci garantisce che siamo figli e figlie, sempre e dovunque, mai orfani, stranieri o schiavi, nella casa del Padre. Ciò che nel cristiano è realtà sacramentale – il cui compimento è l’Eucaristia –, rimane vocazione e destino per ogni uomo e donna in attesa di conversione e di salvezza… Così, nella paternità di Dio e nella maternità della Chiesa si radica la nostra missione, perché nel Battesimo è insito l’invio espresso da Gesù nel mandato pasquale: come il Padre ha mandato me, anche io mando voi pieni di Spirito Santo per la riconciliazione del mondo (cfr. Gv 20,19-23; Mt 28,16-20). Al cristiano compete questo invio, affinché a nessuno manchi l’annuncio della sua vocazione a figlio adottivo, la certezza della sua dignità personale e dell’intrinseco valore di ogni vita umana”.
Papa Francesco
Messaggio per la Giornata Missionaria Mondiale 2019

P. Romeo Ballan, MCCJ

Luca 18,1-8

La preghiera è il respiro della vita
Ermes Ronchi

Disse una parabola sulla necessità di pre­gare sempre senza stancarsi mai. Il pericolo che minaccia la preghiera è quello della stanchezza: qualche volta, spesso prega­re stanca, anche Dio può stancare. È la stanchezza di scommettere sempre sul­l’invisibile, del grido che non ha risposta, quella che a­vrebbe potuto fiaccare la ve­dova della parabola, alla quale lei non cede.
Gesù ha una predilezione particolare per le donne so­le che rappresentano l’inte­ra categoria biblica dei sen­za difesa, vedove orfani po­veri, i suoi prediletti, che e­gli prende in carico e ne fa il collaudo, il laboratorio di un mondo nuovo. Così di que­sta donna sola: c’era un giu­dice corrotto in una città, u­na vedova si recava ogni gior­no da lui e gli chiedeva: fam­mi giustizia contro il mio av­versario!
Che bella figura, forte e dignitosa, che nessu­na sconfitta abbatte, fragile e indomita, maestra di pre­ghiera: ogni giorno bussa a quella porta chiusa. Come lei, anche noi: quante pre­ghiere sono volate via senza portare una risposta! Ma al­lora, Dio esaudisce o no le nostre preghiere? «Dio esau­disce sempre: non le nostre richieste, le sue promesse» (Bonhoeffer). E il Vangelo ne trabocca: sono venuto per­ché abbiate la vita in pienez­za, non vi lascerò orfani, sarò con voi tutti i giorni fino al­la fine del tempo, il Padre sa di cosa avete bisogno.
Con l’immagine della vedo­va mai arresa Gesù vuole so­stenere la nostra fiducia: Se un giudice, che è in tutto al­l’opposto di Dio, alla fine a­scolta, Dio non farà forse giu­stizia ai suoi eletti che grida­no a lui, prontamente? Li farà a lungo aspettare? Ci perdoni il Signore, ma a vol­te la sensazione è proprio questa, che Dio non rispon­da così prontamente e che ci faccia a lungo aspettare.
Ma quel prontamente di Ge­sù non si riferisce a una que­stione temporale, non vuol dire «subito», ma «sicura­mente». Il primo miracolo della preghiera è rinsaldare la fede, farla poggiare sulla prima certezza che la para­bola trasmette: Dio è presen­te nella nostra storia, non siamo abbandonati. Dio in­terviene, ma non come io vorrei, come lui vorrà. Se­conda certezza: un granello di senape di fede, una pic­cola vedova che non si lascia fiaccare, abbattono le mura. La preghiera è un «no» gri­dato al «così vanno le cose». È il primo vagito di una sto­ria nuova che Dio genera con noi.
La preghiera è il respiro del­la fede (papa Francesco): pregare è una necessità, per­ché se smetto di respirare smetto di vivere. Questo re­spiro, questo canale aperto in cui scorre l’ossigeno di Dio, viene prima di tutto, pri­ma di chiedere un dono par­ticolare, un aiuto, una gra­zia. È il respiro della vita, co­me per due che si amano, il respiro del loro amore.

Avvenire

Crediamo ancora nella giustizia?
José Antonio Pagola

Luca narra una breve parabola, indicando che Gesù la raccontò per spiegare ai suoi discepoli «la necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai». Questo tema è molto caro all’evangelista che, in diverse occasioni, ripete la stessa idea. Come è naturale, la parabola è stata letta quasi sempre come un invito ad aver cura della perseveranza della nostra preghiera a Dio.

Tuttavia, se osserviamo il contenuto del racconto e la conclusione dello stesso Gesù, vediamo che la chiave della parabola è la sete di giustizia. Fino a quattro volte si ripete l’espressione «fare giustizia». Più che modello di preghiera, la vedova del racconto è esempio mirabile di lotta per la giustizia in una società corrotta che abusa dei più deboli.

Il primo personaggio della parabola è un giudice «che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno». È l’esatta incarnazione della corruzione che ripetutamente denunciano i profeti: i potenti non temono la giustizia di Dio e non rispettano la dignità né i diritti dei poveri. Non sono casi isolati. I profeti denunciano la corruzione del sistema giuridico in Israele e la struttura maschilista di quella società patriarcale.

Il secondo personaggio è una vedova indifesa in mezzo a una società ingiusta. Da una parte, vive soffrendo le vessazioni di un «avversario» più potente di lei. Dall’altra, è vittima di un giudice a cui non importa nulla della sua persona né della sua sofferenza. Così vivono milioni de donne di tutti i tempi nella maggior parte dei paesi.

Nella conclusione della parabola, Gesù non parla della preghiera. Prima di tutto chiede fiducia nella giustizia di Dio: «Non farà forse Dio giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui?». Questi eletti non sono «i membri della Chiesa», ma i poveri di tutti i paesi che gridano chiedendo giustizia. Di essi è il Regno di Dio.

Poi, Gesù fa una domanda che è tutta una sfida per i suoi discepoli: «Ma il Figlio dell’Uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?». Non sta pensando alla fede come adesione dottrinale, ma alla fede che incoraggia l’azione della vedova, modello d’indignazione, resistenza attiva e coraggio per reclamare giustizia dai corrotti.

È questa la fede e la preghiera dei cristiani soddisfatti delle società del benessere? Sicuramente ha ragione J. B. Metz quando denuncia che nella spiritualità cristiana ci sono troppi cantici e poche grida di indignazione, troppa compiacenza e poca nostalgia di un mondo più umano, troppa consolazione e poca fame di giustizia.
Traduzione di Mercedes Cerezo
https://www.gruposdejesus.com

“Il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?”
Enzo Bianchi

Nel vangelo secondo Luca Gesù aveva già dato un insegnamento sulla preghiera attraverso la consegna ai discepoli del Padre nostro (cf. Lc 11,1-4) e una parabola, poi commentata, sulla necessità di insistere nella preghiera, chiedendo e bussando presso Dio, che sempre concede lo Spirito santo, cioè la cosa buona tra le cose buone, quella più necessaria ai credenti (cf. Lc 11,5-13). Al capitolo 18 c’è una ripresa di questo insegnamento, attraverso la parabola parallela a quella dell’amico importuno: la parabola del giudice iniquo e della vedova insistente.

È necessario pregare sempre, dice Gesù. Ma cosa significa pregare sempre? E ancora, dobbiamo chiedercelo: com’è possibile? Evadere queste domande significa per il credente rimuovere una verità elementare: la preghiera è un’azione difficile, faticosa, per questo è molto comune, anche tra i credenti maturi e convinti, essere vinti dalla difficoltà del pregare, dallo scoraggiamento, dalla constatazione di non essere esauditi secondo i desideri, dalle vicissitudini della vita. Oggi poi la domanda non è solo: “come pregare?”, ma anche: “perché pregare?”. Viviamo in una cultura nella quale scienza e tecnica ci fanno credere che noi umani siamo capaci di tutto, che dobbiamo sempre cercare un’efficacia immediata, che l’autonomia dataci da Dio nel vivere nel mondo ci esime dal rivolgerci a lui. E va anche riconosciuto che a volte in molti credenti la preghiera sembra solo il frutto di un’indomabile angoscia, una chiacchiera con Dio, un verbalizzare sentimenti generati dalle nostre profondità, devozione e pietà in cerca di garanzia e di meriti per se stessi. C’è una preghiera diffusa che è brutta e falsa preghiera: non la preghiera cristiana, quella secondo la volontà di Dio, quella che Dio gradisce.

E allora, al di là delle difficoltà naturali che sovente denunciamo – mancanza di tempo, velocità della vita quotidiana, distrazioni, aridità spirituale –, cosa possiamo imparare dal Vangelo riguardo alla preghiera? Innanzitutto, va sempre ribadito che la preghiera cristiana si accende, nasce dall’ascolto della voce del Signore che ci parla. Come “la fede nasce dall’ascolto” (Rm 10,17), così anche la preghiera, che è nient’altro che l’eloquenza della fede (cf. Gc 5,15). Per pregare in modo cristiano, e non come fanno i pagani (cf. Mt 6,7), cioè le altre vie religiose umane, occorre ascoltare, occorre lasciarsi aprire gli orecchi dal Signore che parla e accogliere la sua Parola: “Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta” (1Sam 3,9). Non c’è preghiera più alta ed essenziale dell’ascolto del Signore, della sua volontà, del suo amore che mai deve essere meritato.

Una volta avvenuto l’ascolto, la preghiera può diventare un pensare davanti a Dio e con Dio, un’invocazione del suo amore, una manifestazione di lode, adorazione, confessione nei suoi confronti. La preghiera cambia in ciascuno di noi a seconda dell’età, del cammino spirituale percorso, delle situazioni nelle quali viviamo. Ci sono tanti modi di pregare quanti sono i soggetti oranti. E guai a chi pretende di giudicare la preghiera di un altro: il sacerdote Eli giudicava la preghiera di Anna nella dimora di Dio come il borbottio di un’ubriaca, mentre quella era preghiera gradita a Dio e da lui ascoltata (cf. 1Sam 1,9-18)! Dunque veramente la preghiera personale è “secretum meum mihi”, e la preghiera liturgica deve ispirarla, ordinarla, illuminarla e renderla sempre più evangelica, come Gesù Cristo l’ha normata.

Quando così avviene, la preghiera deve essere solo insistente, perseverante, non venire meno, perché sia che viva del pensare di fronte a Dio o con Gesù Cristo, sia che si manifesti come lode o ringraziamento, sia che assuma la forma dell’intercessione per gli umani, è sempre dialogo, comunicazione con Dio, apertura e accoglienza della sua presenza, tempo e spazio in cui lo Spirito di Dio che è vita ispira, consola e sostiene. Ecco perché pregare sempre! Non si tratta di ripetere costantemente formule o riti (sarebbe impossibile farlo continuamente), ma di pensare e compiere tutto alla presenza di Dio, ascoltando la sua voce e confessando la fede in lui. Per questo l’Apostolo Paolo nelle sue lettere più volte e con diverse espressioni ripete il comandamento: “Pregate ininterrottamente” (1Ts 5,17); “Siate perseveranti nella preghiera” (Rm 12,12); “In ogni occasione, pregate con ogni sorta di preghiere e di suppliche nello Spirito” (Ef 6,18); “Perseverate nella preghiera e vegliate in essa, rendendo grazie” (Col 4,2). Ciò significa restare sempre in comunione con il Signore, nel sentire la sua presenza, nell’invocarlo nel proprio cuore e accanto a sé, nell’offrirgli il corpo, cioè la concreta vita umana, come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio (cf. Rm 12,1).

Ed ecco allora la parabola. C’è una vedova (categoria che, insieme all’orfano e al povero, esprime secondo la Bibbia la condizione di chi è senza difesa, oppresso) che chiede a un giudice di farle giustizia, di liberarla dalla sua ingiusta oppressione. Ma quel giudice, dice Gesù, “non teme Dio né ha rispetto per gli umani”. È dunque un cattivo giudice, che mai avrebbe esercitato la giustizia a favore di quella donna; eppure a un certo momento, vinto dalla sua insistenza e per non essere più tormentato da lei, decide di esaudirla. Lo fa nella sua logica egoistica, per non essere più disturbato. Al termine di questa breve parabola, Gesù se ne fa esegeta e con autorevolezza pone una domanda ai suoi ascoltatori: “Se accade così sulla terra da parte di un giudice al quale non importa né la giustizia umana né la Legge di Dio, Dio che è giudice giusto non ascolterà forse le suppliche e le grida dei chiamati da lui a essere suo popolo, sua comunità e assemblea in alleanza con lui? Tarderà forse a intervenire?”.

Con queste parole Gesù conferma la fede dei credenti in lui e tenta di placare la loro ansia e i loro dubbi sull’esercizio della giustizia da parte di Dio. La comunità di Luca, infatti, ma ancora oggi le nostre comunità, faticano a credere che Dio è il difensore dei poveri e degli oppressi. L’ingiustizia continua a regnare e nonostante le preghiere e le grida nulla sembra cambiare. Ma Gesù, con la sua forza profetica, assicura: “Dio farà loro giustizia in fretta!”. Il giudizio di Dio ci sarà, verrà su tutti come suo improvviso intervento e arriverà in fretta, nella fretta escatologica, anche se a noi umani sembra tardare. “Ai tuoi occhi, o Dio, mille anni sono come ieri”, canta il salmo (90,4), ed è vero che per noi umani non è come per Dio, ma attendiamo quel giorno che, sebbene sembri indugiare, verrà in fretta, senza tardare (cf. Ab 2,3; Eb 10,37; 2Pt 3,9). Dunque la perseveranza nel pregare ha i suoi effetti, non è inutile, e occorre sempre ricordare che Dio è un giudice giusto che esercita il giudizio in un modo che per ora non conosciamo. Siamo miopi e ciechi quando cerchiamo di vedere l’azione di Dio nel mondo, e soprattutto l’azione di Dio sugli altri…

Ma per Gesù la preghiera è l’altra faccia della medaglia della fede perché, come si è detto, nasce dalla fede ed è eloquenza della fede. Per questo segue un’ultima domanda, non retorica, che indica l’inquietudine di Gesù circa l’avventura della fede nel mondo: “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?”. Domanda che inquieta anche noi, che a volte abbiamo l’impressione di essere gli ultimi cristiani sulla terra e temiamo che la nostra fede venga meno. Nulla è garantito, nulla è assicurato, e purtroppo ci sono cristiani convinti che la chiesa resterà sempre presente nella storia. Ma chi lo assicura, se neanche la fede è assicurata? Dio non abbandona certo la sua chiesa, ma questa può diventare non-chiesa, fino a diminuire, scomparire e dissolversi nella mondanità, magari religiosa, senza più essere comunità di Gesù Cristo il Signore. La chiamata di Dio è sempre fedele, ma i cristiani possono diventare increduli, la chiesa può rinnegare il Signore.

Quando leggiamo il nostro oggi, possiamo forse non denunciare la morte della fede come fiducia, adesione, fede nell’umanità e nel futuro, prima ancora che nel Dio vivente? E se viene a mancare la fiducia negli altri che vediamo, come potremo coltivare una fiducia nell’Altro, nel Dio che non vediamo (cf. 1Gv 4,20)? La mancanza di fede è la ragione profonda di molte patologie dei credenti e la tentazione di abbandonare la fede è quotidiana e presente nei nostri cuori. Non ci resta dunque che rinnovare la fede, con la speranza nella venuta di Gesù, Figlio dell’uomo, Giudice giusto, e con l’amore fraterno vissuto attingendo all’amore di Gesù, amore fedele fino alla fine (cf. Gv 13,1), per tutti gli umani.
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