Fratel Angelo Frigerio, meglio noto come Ajè, è stato il primo comboniano ad “inaugurare” la nuova ala del Centro Ammalati di Verona. Parlo di “inaugurare” nel senso di “lasciarla per volarsene al cielo scarpe e tutto” come qualcuno ha commentato subito dopo la sua morte.
Fratel Ajé è uno dei vecchi Fratelli che hanno lasciato il segno dove sono passati. Il binario della sua attività apostolica può essere riassunto con due parole: lavoro e catechesi. Il lavoro, sodo, instancabile, coordinato, si trasformava in una occasione per impartire agli operai serie lezioni di catechismo. Ognuno può immaginare che, per riuscire a trattenere i lavoratori dopo una giornata di fatiche, il datore di lavoro doveva essersi comportato in una determinata maniera. Abbiamo a questo proposito significative testimonianze di monsignor Cesana e di padre Marchetti. Dice il primo:
«Fui con lui a Gulu, nei miei primi tempi di missione, per circa sette anni. Un primo ricordo: ci si voleva bene; si era davvero un “cor unum et anima una”. Il buon Fratello condivideva le nostre preoccupazioni pastorali e vi partecipava con una fattiva collaborazione.
Allora i catecumenati erano sempre affollati: sia fuori presso i catechisti, nelle cappelle, dove i catecumeni al pomeriggio vi si recavano per non meno di un'ora di istruzione di catechismo, che in missione, dove, per sei mesi, continuavano la loro istruzione. Al mattino due periodi di istruzione di catechismo, più un periodo di istruzione per imparare a leggere e scrivere. E il nostro buon Fr. Frigerio aveva sempre il suo gruppo, che istruiva per il battesimo. E si preparava alle sue istruzioni di catechismo. E vi era sempre fedele. Era di esempio anche ai Padri».
E quanto al lavoro:
«E un'altra occupazione, che gli assorbiva il resto della giornata, era l'organizzare il lavoro dei catecumeni, nel pomeriggio.
Nel libro delle entrate e spese per la costruzione della Cattedrale di Gulu, Fr. Biasin ha notato che ben 670 mila mattoni furono immurati nella cattedrale. Lo si deve al buon Fr. Frigerio, se quei mattoni, che hanno servito per costruire la grande cattedrale di Gulu, furono fatti, cotti, e portati sul posto della costruzione della cattedrale. E Fr. Frigerio era là, sul posto del lavoro per controllare, stimolare, dirigere. Egli era accanto ai 15 battitori di mattoni, perché i mattoni potessero seccare, essere pronti per la cottura. Era necessario che i catecumeni coprissero, voltassero, e ammucchiassero i mattoni secchi che poi venivano portati alla fornace. Fratel Frigerio era l'anima, la mente di tutto questo complesso di attività. E lo ascoltavano, si faceva ubbidire, lo seguivano. Gli volevano bene!»
Padre Marchetti continua:
«Ajé era innanzitutto un catechista; sia nel centro della missione (Gulu) che nelle Cappelle. Non passava giorno che non dirigesse il catecumenato, controllando anche i catechisti locali. Questo era il suo lavoro principale, senza trascurare - si intende - il lavoro delle costruzioni. Quando arrivavo il mattino presto, egli era tutto pieno di premure per me; faceva preparare l'altare con i fiori e altri ornamenti possibili allora; e quindi faceva suonare i tamburi a lungo per le confessioni. Ovviamente rinunciava per l'occasione a prendersi il caffè al primo mattino, per il digiuno eucaristico. Poi quando i suoi operai ed altri cristiani arrivavano, si metteva tra i primi per venire a fare la sua confessione che non occorreva bisbigliare, poiché nessuno capiva l'italiano. Questo era un esempio magnifico che non mancava mai di dare».
Aperto al nuovo
Il giudizio sulle attitudini e capacità di Ajé, espresso da un superiore, è il seguente: «Ce ne fossero tanti come lui!».
Fratel Angelo amava definirsi un Fratello alla vecchia. Se con questa espressione vogliamo intendere uno che sapeva armonizzare azione e contemplazione, siamo perfettamente d'accordo; se per caso si volesse insinuare che Ajé era ancorato su vecchie posizioni senza aprirsi al nuovo che la Chiesa e il Concilio andavano via via proponendo, si sbaglia di grosso. Il superiore appena citato diceva: «È in gamba, pronto, disponibile ed aperto ad accettare il nuovo».
Tutti sono d'accordo nel sottolineare la perenne giovinezza del nostro Fratello il quale, molto spesso, era in grado di battere la giovinezza, solo anagrafica, di qualcuno che avrebbe potuto essere suo nipote.
La vocazione
Fratel Angelo Frigerio era nato a Cigole, in provincia di Brescia, il 18 luglio 1895. Trascorse l'infanzia e la prima giovinezza come gran parte dei coetanei del suo paese: vita di sacrificio nel lavoro dei campi, e di fede intensamente vissuta.
A 17 anni conobbe i comboniani di Brescia e chiese di far parte della loro comunità. Non essendo preparato per gli studi, fu incaricato della sagrestia e del guardaroba.
Allo scoppio della prima guerra mondiale ('15-'18) fu arruolato nel corpo di Sanità. Egli stesso amava raccontare che non aveva mai voluto impugnare un'arma. Solo una notte i compagni lo avevano obbligato a montare di guardia. Dopo insistenze, accettò ma a patto che controllassero prima che il suo fucile di ordinanza fosse scarico. Così passò la notte tranquillo. Evidentemente si sentiva un soldato per un altro esercito. Anche nella guerra di Amin, e dopo, non si mostrò mai pauroso.
«La vocazione missionaria vera e propria - ebbe a dire - la scoprii nell'anno in cui feci il sagrestano in una chiesa di Brescia. Essendo il parroco confessore della comunità comboniana di Viale Venezia, mi mandava spesso in quella casa dove potei conoscere alcuni Padri e Fratelli. Ero innamorato della loro chiesa ed assistevo con passione ai giochi dei ragazzi che si preparavano alla vita missionaria. La loro allegria esercitava su di me un fascino straordinario. Così, senza saperlo, mi trovai un giorno già sbocciato nell'anima il desiderio di diventare missionario d'Africa. Il parroco della chiesa, vedendomi partire dopo appena dieci mesi di servizio, si arrabbiò soprattutto perché non mi ero confidato con lui prima di decidere. Cosa che io avevo di proposito evitato per paura di sentirmi schiacciato dalla sua reazione».
Ne faccia qualcosa di buono
Nel 1919 Angelo Frigerio fece la sua entrata nel noviziato di Savona. Suo papà, Francesco, e la mamma, Maria Fogliato, gli avevano dato il consenso di buon grado. Ajé stesso raccontò che suo padre, consegnandolo a padre Vianello, esclamò: «Se lo prenda e ne faccia qualcosa di buono, se ci riesce». Per capire il senso della frase bisogna tener presente che Angelo era un giovane piuttosto energico, impulsivo e qualche volta testardo (un bresciano autentico, dice qualcuno). Nei giudizi dei padri maestri, Francesconi e Bertenghi, questa caratteristica viene messa in risalto. «Dimostra vivo desiderio della virtù. Compie con lodevole esattezza le sue pratiche di pietà e i doveri del suo ufficio. Aperto ed energico, talora è un po' duro, impulsivo e portato all'ira. Ma si sforza di correggersi». Padre Marchetti conferma: «I cristiani gli volevano bene ed avevano con lui tanta confidenza, anche se talvolta qualcuno, dopo i brontolamenti ricevuti da Ajé magari davanti al Padre, diceva: “Ajé è invecchiato, ha molte parole”.
Alla fine della messa e dopo la mia predica, egli saliva sullo scalino della balaustra e diceva: “Il Padre vi ha parlato così perché viene dal seminario e non vi conosce bene. Ora devo farvi io un'altra predica”. E qui tirava fuori la collaborazione mancata per la costruzione della cappella o della scuola con argomenti molto convincenti e con esempi pratici... “Tu, dalle calze colorate, credi che non ti veda? Come mai non sei venuto a lavorare come avevi promesso?”... Una volta trovai che c'era una certa agitazione. Ajè aveva promesso di prestare il grande cortile della cappella per il ballo del pomeriggio. Ma, vista la scarsa collaborazione nel lavoro, aveva ritirato la sua parola.
Allora i gruppetti di giovani, passando sotto la sua finestra, gli gridavano: “Ajé, sei un bugiardo!” Ma tutti conoscevano il suo stile e sapevano ascoltarlo. Basti pensare che se ne stava da solo e per settimane intere nei villaggi isolati, senza aver paura».
Lo sforzo costante e non certo facile per migliorare e addolcire il suo carattere non è stato senza frutto se, da anziano, venne descritto come «amabile, disponibile, dalla conversazione sempre illuminata dal sorriso, pieno di carità e di zelo».
Africa in vista
Emessi i Voti a Venegono (dove si era trasferita la sede del noviziato), il primo novembre 1921, Angelo fu destinato a Thiene come cuoco e muratore. Uomo di grande concretezza, imparò bene il mestiere di tirar su muri. Veramente, anche a Venegono aveva lavorato nel settore per rendere abitabile “il vecchio maniero”, e aveva pure frequentato corsi teorici di disegno murario presso l'ingegner Bombelli.
Due anni dopo, nel 1923, poté partire per l'Africa.
«La mia prima destinazione fu la missione di Kitgum - raccontò Fratel Ajé - dove mi affidarono gli allievi della scuola tecnica impegnati nella costruzione della grande chiesa. Arrivai in tempo per la copertura del tetto in tegole. Terminato quel lavoro continuammo a preparare il materiale per altre costruzioni. Alcuni mesi dopo l'inaugurazione della chiesa, la scuola tecnica venne trasferita ad Arua dove si voleva fabbricare la cattedrale; io invece venni dirottato a Gulu insieme ad alcuni operai. Il mio compito principale in quella missione fu di fabbricare mattoni e tegole (le prime usate in Uganda). In seguito fui trasferito a Moyo dove si dovevano fabbricare case, scuole e la grande chiesa in mattoni crudi con il tetto coperto di paglia. Vorrei far notare che questo edificio, nonostante la precarietà del materiale edilizio, resistette per una quarantina d'anni.
Da Moyo ritornai a Kitgum per un breve periodo, quindi passai a Gulu, dove sarei rimasto per molti anni, cioè per quasi tutto il restante della mia vita attiva. I miei compagni principali in quella missione erano: la coltivazione dei campi per procurare il cibo necessario ai catecumeni, l'istruzione religiosa dei catecumeni in lingua aciòli, la preparazione dei materiali per la costruzione della futura cattedrale (mattoni ecc.) e la realizzazione di altre fabbriche minori».
Mani d'oro
Nel 1935, dopo 12 anni di missione, Fratel Ajé tornò in Italia per le sue prime vacanze. Fu inviato dai superiori presso la comunità di Brescia. «Qui frequentai la bottega d'un artigiano doratore, il quale non solo mi insegnò la sua arte, ma mi provvide anche gli strumenti e il materiale necessario affinché fossi in grado di fare questo lavoro in Africa. Ogni anno indoro almeno una cinquantina di calici e una trentina di pissidi che mi portano dalle diverse parrocchie d'Uganda, senza contare i candelieri ed altri oggetti. Credo di essere l'unico che fa questo mestiere nell'Africa centrale».
«Vidi per la prima volta Fratel Frigerio a Brescia negli anni '30 - scrive padre Marchetti. Era in vacanza dalla missione d'Uganda, ma intanto faceva un po' da nostro assistente. Ci parlava sempre della missione con un entusiasmo contagioso. Prima di partire fece una specie di conferenza di addio che ci commosse fino alle lacrime. La sua cordialità, semplicità e franchezza mi rimasero impresse, tanto che, quando lo ritrovai in missione, mi pareva di essere stato sempre insieme».
Dopo un anno, Ajé era di nuovo in missione.
È impossibile seguirlo nelle sue peregrinazioni da una missione all'altra, passando dall'ufficio di cuoco a quello di direttore di fattorie (Anaka e Gulu), da portinaio a sagrestano, da addetto all'orto a costruttore di chiese... Tutto con uguale disponibilità e disinvoltura, dimostrando in concreto come deve essere la figura del vero Fratello comboniano, senza complessi e senza crisi, sempre nella gioia e con il denominatore comune di cercare nuove possibilità per fare catechismo alla gente.
Tipo esuberante ed estroverso, amava organizzare simpatiche festicciole per celebrare gli onomastici e i compleanni dei confratelli. Aveva introdotto l'usanza di commemorare anche sant'Angelo (6 maggio) invitando tutti gli Angelo della zona.
Andavano in una località prescelta e lì facevano bisboccia. Una volta dovette pagar cara questa sua abitudine. Era il 6 maggio 1936. Badoglio entrava trionfante in Addis Abeba. Angelo Frigerio faceva festa e cantava in una sperduta località dell'Uganda. Una spia disse agli inglesi che i missionari italiani avevano festeggiato la vittoria di Badoglio a spese degli inglesi. I “criminali” vennero convocati presso l'autorità e dovettero faticare non poco per dimostrare come erano andate veramente le cose.
La ripresa
Con lo scoppio della seconda guerra mondiale, tutti i missionari italiani vennero internati nel seminario di Katigondo. La vita in quel luogo era dura, non solo per le privazioni materiali (almeno in un primo tempo) ma soprattutto perché le missioni e le cristianità erano rimaste senza pastori.
L'internamento durò quasi due anni. Anche dopo la liberazione, i missionari di Gulu furono impediti di rientrare nella loro missione. Ajé, però, riuscì ad avere il permesso di andare nella missione di Kitgum, dove vi rimase per una decina di mesi. Con lui c'era anche Fratel Battistata. Questi si occupava delle macchine messe fuori uso durante l'assenza dei missionari, Ajé cercava di riparare le case, le chiese e le cappelle.
«L'inaugurazione della cattedrale di Gulu nel 1947 - disse - segnò la rinascita della missione e ridiede entusiasmo a tutti i missionari.
Durante il lungo periodo della mia permanenza a Gulu fui incaricato delle costruzioni di cappelle e scuole. Con una piccola équipe di operai ben preparati mi spostavo nei vari centri per realizzare i nostri progetti. A volte rimanevamo in un posto anche per un mese. Con questo lavoro a tappeto riuscimmo a costellare in pochi anni tutta la zona periferica della missione di Gulu di circa 200 aule scolastiche ed una trentina di cappelle. Penso che il mio contributo più fattivo per la promozione umana della nostra gente fu la costruzione di tutte quelle scuole e cappelle.
Fra. le opere d'un certo rilievo realizzate in quel periodo va ricordata la chiesa di Our Lady of Rosary nel centro della città di Gulu. Alla chiesa aggiungemmo le nuove scuole elementari maschili e femminili ed un altro grande edificio adibito ad altri scopi».
Niente grosse difficoltà
Dal 1936 al 1958 corrono 22 anni. È la seconda tirata di vita africana di Ajé. Pur godendo di una salute di ferro, le grane non mancarono. Basti pensare che subì ben cinque operazioni di ernia. Padre Agostoni, dopo l'ultimo intervento, gli scrisse: «Basta con le operazioni, altrimenti i medici non sanno più dove tagliare». Ajé obbedì e non ebbe più bisogno del chirurgo.
Più volte, dopo aver tirato su i muri di una chiesetta o di una casa, si vide radere tutto al suolo dai furiosi temporali equatoriali.
Un'altra volta, rimasto solo con alcuni operai, invitò il vescovo a benedire la nuova fornace per cuocere i mattoni. Appiccò il fuoco, e per due giorni consecutivi la fornace non fece che fumare. Non aveva ancora imparato che bisognava tener conto del fattore umidità. Delle duemila tegole infilate nella fornace, se ne salvarono appena duecento. Fu uno smacco...
Arrampicandosi su per una scala appoggiata alla parete di una chiesa in costruzione per sistemare le capriate del tetto, rovinò con il muro, la scala e le travi restando sepolto sotto un mucchio di macerie. Gli operai se la diedero a gambe senza neppur ritirare la paga, piantandolo in asso. Si salvò per miracolo...
Eppure, richiesto se avesse incontrato grosse difficoltà nella sua lunga vita missionaria, rispose: «Non saprei cosa dire perché, parlando schiettamente, devo confessare: anche nei miei rapporti con gli africani mi sono sempre trovato a mio agio. Mi è sempre piaciuto fare amicizia, colloquiare, scherzare. Pur trattando alle volte i miei operai un po' duramente - mi chiamavano infatti tek, per dire che ero duro - non ho mai avuto contrasti; anzi la gente mi ha sempre voluto, bene».
E neanche rimpianti
«Confesso di non aver alcun rimpianto - ammise il Fratello nei suoi ultimi annidi vita. - Ho solo tanta riconoscenza verso i Fratelli più anziani che ho incontrato in missione e che mi hanno insegnato tante cose. Essi sono stati i miei veri maestri. Ora sono contento di tutto ciò che ho fatto. Se sono riuscito a fare un po' di bene lo giudicherà il Signore... Se c'è una cosa alla quale mi pare di aver dato un contributo sostanzioso è di aver insegnato agli africani a lavorare. Ricordo le difficoltà dei primi anni, quando la gente non ne voleva sapere. Se andavo ad invitarli a venire a lavorare, mi rispondevano in tono canzonatorio: Oh! Il lavoro dei bianchi non finisce mai!
Con l'andare del tempo furono gli stessi operai a venirmi a supplicare per avere un po' di lavoro.
Fabbricando numerose scuolette ho la convinzione di aver favorito molto l'istruzione primaria, mentre le cappelle sono divenute dei centri in cui il sacerdote trova un solido appoggio per il suo ministero.
Di rimpianti penso di non averne nemmeno uno, mentre invece il Signore mi ha regalato delle consolazioni. Sono perciò contentissimo di aver lavorato tanti anni per il Regno di Dio e di aver lasciato qualche cosa».
Un punto forte
Il lavoro è stato un punto forte nella vita di Fratel Ajé. In una lettera al padre Generale (Agostoni), al quale era legato da vera e fraterna amicizia, dice: «...Certo che se non arriva presto Fratel... non so se il soffitto sarà pronto per Pasqua. Sento che tanto lui che Padre... vogliono venire in gennaio giù di lì, e in nave per di più. Veda di svegliarli fuori e, pur permettendo loro di passare il Natale in famiglia, subito dopo che piglino il primo aereo e si sbrighino. Mi pare che di vacanze ne abbiano già fatte abbastanza. Che vengano a lavorare un po'». Qui si vede la vecchia grinta bresciana che salta fuori.
Il suo metodo di lavoro era il seguente: andava in posti “scoperti”, si faceva amico della gente, cominciando dai più poveri, dagli anziani e dagli ammalati; poco a poco dava il via a un catecumenato, poi, con l'aiuto dei giovani cominciava a costruire una cappella per raccogliere la gente disposta a pregare. La cappella diventava anche scuoletta rurale. Quando era tutto pronto, invitava il missionario sacerdote per completare il lavoro di evangelizzazione.
Imparò parecchie lingue come l'acioli, il madi e l'alur.
Occupò gran parte del suo tempo come sagrestano, ufficio che considerava un onore. «Mi sono sempre piaciute le robe di chiesa», ebbe a dire.
Amava il bel canto in chiesa e le funzioni solenni.
Quando padre Traversi introdusse i tamburi come accompagnamento, si mostrò dapprima perplesso e poi entusiasta. Aveva capito che la musica degli Africani doveva entrare anche nella Chiesa d'Africa. Scrive padre Marchetti:
«Fr. Frigerio era incaricato della bella e nuova Cattedrale di Gulu; e quindi tutti, in sagrestia, avevamo da fare i conti con lui, sia per i paramenti (per i quali aveva sempre un ottimo gusto e tanta attenzione) e sia per... rendere conto e sentire i brontolamenti se la predica era stata lunga, ecc. Lui era sempre a contatto con la gente e sentiva tutti; non c'era uno, tra i cristiani, che, non solo non lo conoscesse, ma che non dovesse prima trattare con lui!
Ben presto io riuscii ad arrangiarmi nella lingua acioli; ed allora, pur dovendo restare in seminario a Lacior, appena potevo andavo fuori o in missione o nelle cappelle per fare ministero. In quegli anni Fr. Frigerio stava costruendo una dopo l'altra tante cappelle per la vasta zona della missione-parrocchia di Gulu. La gente ne era entusiasta; il Fratello, pur usando di una economia strettissima (a volte i muri cedevano sotto le piogge quand’erano ancora in costruzione!), sapeva fare una bella facciatina, che poi abbelliva con vivaci colori. Ecco, in quel periodo io mi misi a disposizione per essere suo cappellano domenicale. Gli altri giorni non era possibile perché io avevo la scuola in seminario. Ma la domenica facevo una corsa in moto o, in seguito, in camioncino. Ajé era veramente felice; e per questo mio ministero mi rimase sempre molto affezionato e riconoscente. Mi confidava che stava molto volentieri in safari per questi lavori, diverse settimane consecutive. L'unica vera mancanza, mi ripeteva, era il dover restare senza la S. Comunione; questo era per lui un vero sacrificio che gli costava e che offriva al Signore per la missione. Quanto sarebbe stato più contento se si fosse trovato in quelle circostanze anni più avanti, quando persino alcuni catechisti avrebbero potuto conservare la Eucaristia!».
Saper invecchiare
Per il 50° di professione (1.11.1971) i confratelli organizzarono una grande festa. Il Papa mandò una speciale benedizione, il padre Generale si fece vivo con un telegramma, e quasi un centinaio tra padri e Fratelli provenienti da tutte le parti d'Uganda si strinsero attorno ad Ajé.
«Sono commosso. Certo non merito tale dimostrazione. Questo sarà per me di stimolo a dedicare gli ultimi anni che il Signore vorrà concedermi a fare ancora qualcosa per la Congregazione e per la missione».
Poi il pensiero della vecchiaia, della malattia. Ajé, da uomo saggio, stava preparandosi psicologicamente all'inattività, alla malattia.
«Ben volentieri cedo la mia pensione per il Centro Ammalati di Verona - scrisse -. Solo mi spiace che non l'abbiano trattenuta prima. Noi anzianotti abbiamo il dovere di sostenere detto Centro perché, molto probabilmente, dovremo venire a finire lì i nostri giorni.
Ho qui un pezzo d'oro puro. Se non potrò continuare il mio lavoro di doratore, potrebbe essere destinato a questo scopo. Ho pure una valigia piena di vasi sacri vecchi e rotti. Fusi, potrebbero rendere parecchio, come ho già scritto a Fratel Viviani. E poi, se il Signore non mi farà la grazia di morire in Africa, verrò anch'io a chiudere i miei giorni a Verona».
Sempre per prepararsi alla vecchiaia e anche per soddisfare a un'esigenza del suo intelletto, Ajé si diede alla lettura. Scrive padre Marchetti:
«Una cosa che rilevai subito è che Fr. Frigerio era un grande lettore. Venendo dal seminario, uno dei miei compiti era di rifornirlo di riviste e specialmente di libri, e di libri sodi, specialmente di storia. Si lesse con estremo gusto tutti i volumi del Pastor (Storia dei Papi), e ricordo come nella sua capanna guardava con una certa malinconia il segnale sporgente dal volume dicendo: "Purtroppo, tra poco finisce ... ". Così riempiva le serate, i giorni liberi e quando la pioggia impediva il lavoro. Fino all'ultimo, entrando nella sua stanza, si trovava Ajé che stava leggendo.
Buona parte delle sue letture, ovviamente, alimentavano la sua pietà che era molto evidente, sia nella formula tradizionale e sia anche nelle forme aggiornate e più recenti; non si vedeva in lui né crisi di preghiera né abbandono delle tradizionali pratiche di pietà per un malaccorto senso di aggiornamento che distrugge in tanti certe forme di preghiera e non produce nulla di più valido.
Come complimento, ma con un senso profondo, mons. Cesana usava dire: "Ajé è uno di quei Fratelli ai quali si potrebbe subito imporre le mani e farli sacerdoti, per il lavoro che fanno e lo spirito che vivono". Chiaramente Fr. Frigerio faceva tutto questo realizzandosi in pieno come Fratello; anche se in lui sarà rimasta sempre la memoria della gioventù in cui aveva iniziato a studiare per diventare sacerdote, ma poi per gli eventi della prima guerra mondiale i superiori lo avevano indirizzato a farsi Fratello. E qui metto subito le ultime parole da me sentite il 21 giugno, mentre passavo da Verona per andare in Polonia insieme a P. Prandina e a un sacerdote novello polacco molto interessato ai comboniani: "Sono stato in Missione per 60 anni, e devo dire che sono molto contento, tanta soddisfazione, tanta gioia ". Caro Ajé, quanto è vero quello che dici!»
Ministero dell'accoglienza
Il senso dell'amicizia in Fratel Ajé fu grande. Nessuno si sentiva a disagio con lui, anzi. La sua amicizia e cordialità si esprimevano prima di tutto con i superiori. «Chissà - scriveva a padre Agostoni - che a forza di girare, qualche aereo non sbagli rotta e venga ad atterrare ad Entebbe, ma senza guerriglieri, mi raccomando!».
Con la sua bonarietà seppe dire qualche buona parola perfino al personale russo che veniva per vedere la chiesa e per ritirare qualche cartolina proprio da lui. Di nascosto, i Russi si fornivano di Bibbie, rosari, quadretti, o medagliette che Ajé passava loro dopo averle ritirate presso la libreria delle Paoline.
A una signora che portava i bambini in chiesa per la confessione, mentre lei se ne stava in macchina ad aspettarli, disse che era come la campana che invita in chiesa ma non vi entra mai.
Sebbene Fr. Frigerio avesse speso una vita a Gulu (e un po' tra i Madi) pure si adattò anche alla vita nella casa di Mbuya a Kampala. Caratteristico il fatto che la sua stanzetta, la prima sopra le scale, fosse sempre aperta. La sua stanzetta era centro di smistamento della posta, in arrivo e in partenza, con le chiavi appese per le stanze da dare agli ospiti. Ajé aveva sempre tempo per quattro chiacchiere da fare con chiunque. Tanti degli amici di Gulu e Moyo andavano a trovarlo; amabilissimo con i bambini, sapeva dire la parola giusta e anche forte con gli adulti che ne abbisognavano.
E nessuno se la prendeva perché Ajé aveva imparato l'arte di fare le osservazioni a modo.
«Ormai era diventato il nonnino, sereno e sempre sorridente, pronto per la sua partita a scopone alla sera, e qui non senza benevoli brontolamenti per la TV che portava via il quorum necessario, o per una allegra chiacchierata. Ai confratelli lontani mandava qualche cartolina assicurando la sua preghiera ed esprimendo il desiderio di ritrovarsi presto insieme», scrive padre Marchetti.
A Mbuya faceva «il ministero dell'accoglienza», diceva lui. Infatti accoglieva i confratelli che venivano dai villaggi lontani, li forniva del necessario, li ospitava, diceva loro parole di incoraggiamento. Non solo accoglieva i confratelli, ma anche i laici, dottori e volontari, che passavano da Kampala e che cercavano nei missionari un appoggio.
Dieci e lode
A 88 anni Fratel Ajé fece una breve vacanza in Italia. In una intervista disse: «Sono felice di essere stato tra i pionieri (si dice così?) che hanno lavorato nel Nord-Uganda. Andavamo come allo sbaraglio, per necessità di cose, in certo senso del tutto impreparati. Ma eravamo pieni di entusiasmo, di buona volontà e, naturalmente, con la forza della fede, ciascuno secondo il suo dono».
Richiesto poi se volesse tornare ancora in Africa, sorrise come per dire: «Che domande sono queste?». E rispose: «Se avessi avuto il sospetto che non sarei potuto tornare, non avrei mai pensato all'Italia. Non mi sento affatto un eroe e tanto meno indispensabile. Lei capisce: sessant'anni d'Africa sono una vita, e qui mi sento come un pesce fuor d'acqua. Ho un sogno: morire in Africa. Ciò fa parte, mi sembra, di quella radicalità del missionario di cui tanto si parla».
«Come ha fatto a passare tanti anni in missione?» - gli ha chiesto l'economo del Collegio Urbano di Roma.
«Così, un giorno dopo l'altro» - fu la semplice risposta.
Dopo le vacanze Ajé poté tornare nuovamente in Africa, ma solo per qualche anno. Era l'ultimo premio sulla terra, che il Signore concedeva al suo servo fedele.
Il 6 giugno 1985 Ajé arrivò improvvisamente a Roma, per proseguire alla volta del Centro Ammalati di Verona. Si diceva che la sua situazione era grave. All'ospedale di Negrar, infatti, gli riscontrarono un tumore diffuso, all'intestino. Fu subito circondato dai confratelli che lo veneravano come un patriarca e dai parenti (nipoti) che lo seguirono giorno e notte durante tutta la sua malattia. Gli volevano un gran bene e lo consideravano il migliore della famiglia.
Quando sembrava alla fine, chiese personalmente gli ultimi sacramenti. Dopo l'olio degli infermi si riprese, tanto da poter parlare a lungo con i confratelli e i parenti e da essere in grado di prendere cibo. I medici, però, avevano deposto ogni speranza per cui il Fratello venne riportato in Casa Madre. Questo fu anche suo vivo desiderio. «Se non mi è dato di morire in Africa, che muoia almeno nella nostra Casa».
All'infermiere che lo assisteva disse scherzosamente: «Mondo birbone, si tribola a vivere, e si tribola anche a morire!». Rimase lucido fino alla fine intensificando la preghiera e gli atti di abbandono alla volontà del Signore.
Alle ore 00.10 del 2 luglio, dopo una sèrie di forti emorragie, Ajé chiuse definitivamente gli occhi.
I suoi funerali videro una grande partecipazione di confratelli e di parenti. La salma fu tumulata a Verona. Alcuni, tra i parenti, volevano portarlo al paese; altri, ricordando il desiderio dello zio di morire in Africa, acconsentirono che fosse sepolto insieme ai suoi confratelli a Verona.
«Fratel Frigerio fu davvero un esempio, un modello di Fratello missionario - scrisse mons. Mazzoldi -. Da parte mia lo ricordo con amore, con tanta riconoscenza e con venerazione. Lo penso nel gaudio del Signore insieme a tanti nostri confratelli che ci hanno preceduto nell'incontro con il Padre».
Padre Romanò, suo superiore in Uganda, aveva scritto di lui, quando Ajé era ancora vivo e vegeto: «Ajé ha fatto e fa un lavoro meraviglioso. È un tesoro da dieci con lode. Tutti gli vogliono bene. E un buonissimo religioso, una vera benedizione».
Padre Urbani, allora regionale d'Uganda, aveva scritto semplicemente: «Ottimo».
Se noi uomini «che siamo cattivi» abbiamo dato voti simili a Fratel Ajé, che cosa gli avrà dato il Signore che è bontà infinita?
P. LORENZO GAIGA
Da Mccj Bulletin n. 147, ottobre 1985, pp. 58-66