In Pace Christi

Frigerio Angelo

Frigerio Angelo
Date of birth : 18/07/1895
Place of birth : Cigole BS/I
Temporary Vows : 01/11/1921
Perpetual Vows : 19/03/1927
Date of death : 02/07/1985
Place of death : Verona/I

Fratel Angelo Frigerio, meglio noto come Ajè, è stato il primo combonia­no ad “inaugurare” la nuova ala del Centro Ammalati di Verona. Parlo di “inaugurare” nel senso di “lasciarla per volarsene al cielo scarpe e tutto” come qualcuno ha commentato subito dopo la sua morte.

Fratel Ajé è uno dei vecchi Fratelli che hanno lasciato il segno dove sono passati. Il binario della sua attività apostolica può essere riassunto con due parole: lavoro e catechesi. Il lavo­ro, sodo, instancabile, coordinato, si trasformava in una occasione per im­partire agli operai serie lezioni di catechismo. Ognuno può immaginare che, per riuscire a trattenere i lavoratori dopo una giornata di fatiche, il datore di lavoro doveva essersi comportato in una determinata maniera. Abbiamo a questo proposito significative testimo­nianze di monsignor Cesana e di padre Marchetti. Dice il primo:

«Fui con lui a Gulu, nei miei primi tempi di missione, per circa sette anni. Un primo ricordo: ci si voleva bene; si era davvero un “cor unum et anima una”. Il buon Fratello condivideva le nostre preoccupazioni pastorali e vi partecipava con una fattiva collabora­zione.

Allora i catecumenati erano sempre affollati: sia fuori presso i catechisti, nelle cappelle, dove i catecumeni al pomeriggio vi si recavano per non meno di un'ora di istruzione di cate­chismo, che in missione, dove, per sei mesi, continuavano la loro istruzione. Al mattino due periodi di istruzione di catechismo, più un periodo di istruzio­ne per imparare a leggere e scrivere. E il nostro buon Fr. Frigerio aveva sem­pre il suo gruppo, che istruiva per il battesimo. E si preparava alle sue istruzioni di catechismo. E vi era sem­pre fedele. Era di esempio anche ai Padri».

E quanto al lavoro:

«E un'altra occupazione, che gli as­sorbiva il resto della giornata, era l'or­ganizzare il lavoro dei catecumeni, nel pomeriggio.

Nel libro delle entrate e spese per la costruzione della Cattedrale di Gulu, Fr. Biasin ha notato che ben 670 mila mattoni furono immurati nella catte­drale. Lo si deve al buon Fr. Frigerio, se quei mattoni, che hanno servito per costruire la grande cattedrale di Gulu, furono fatti, cotti, e portati sul posto della costruzione della cattedrale. E Fr. Frigerio era là, sul posto del lavoro per controllare, stimolare, dirigere. Egli era accanto ai 15 battitori di mat­toni, perché i mattoni potessero seccare, essere pronti per la cottura. Era necessario che i catecumeni coprisse­ro, voltassero, e ammucchiassero i mattoni secchi che poi venivano porta­ti alla fornace. Fratel Frigerio era l'anima, la mente di tutto questo com­plesso di attività. E lo ascoltavano, si faceva ubbidire, lo seguivano. Gli vo­levano bene!»

Padre Marchetti continua:

«Ajé era innanzitutto un catechista; sia nel centro della missione (Gulu) che nelle Cappelle. Non passava gior­no che non dirigesse il catecumenato, controllando anche i catechisti locali. Questo era il suo lavoro principale, senza trascurare - si intende - il lavoro delle costruzioni. Quando arrivavo il mattino presto, egli era tutto pieno di premure per me; faceva preparare l'al­tare con i fiori e altri ornamenti possi­bili allora; e quindi faceva suonare i tamburi a lungo per le confessioni. Ovviamente rinunciava per l'occasione a prendersi il caffè al primo mattino, per il digiuno eucaristico. Poi quando i suoi operai ed altri cristiani arrivava­no, si metteva tra i primi per venire a fare la sua confessione che non occor­reva bisbigliare, poiché nessuno capiva l'italiano. Questo era un esempio ma­gnifico che non mancava mai di dare».

Aperto al nuovo

Il giudizio sulle attitudini e capacità di Ajé, espresso da un superiore, è il se­guente: «Ce ne fossero tanti come lui!».

Fratel Angelo amava definirsi un Fratello alla vecchia. Se con questa espressione vogliamo intendere uno che sapeva armonizzare azione e con­templazione, siamo perfettamente d'accordo; se per caso si volesse insi­nuare che Ajé era ancorato su vecchie posizioni senza aprirsi al nuovo che la Chiesa e il Concilio andavano via via proponendo, si sbaglia di grosso. Il su­periore appena citato diceva: «È in gamba, pronto, disponibile ed aperto ad accettare il nuovo».

Tutti sono d'accordo nel sottolinea­re la perenne giovinezza del nostro Fratello il quale, molto spesso, era in grado di battere la giovinezza, solo anagrafica, di qualcuno che avrebbe potuto essere suo nipote.

La vocazione

Fratel Angelo Frigerio era nato a Ci­gole, in provincia di Brescia, il 18 lu­glio 1895. Trascorse l'infanzia e la pri­ma giovinezza come gran parte dei coetanei del suo paese: vita di sacrifi­cio nel lavoro dei campi, e di fede in­tensamente vissuta.

A 17 anni conobbe i comboniani di Brescia e chiese di far parte della loro comunità. Non essendo preparato per gli studi, fu incaricato della sagrestia e del guardaroba.

Allo scoppio della prima guerra mondiale ('15-'18) fu arruolato nel corpo di Sanità. Egli stesso amava rac­contare che non aveva mai voluto im­pugnare un'arma. Solo una notte i compagni lo avevano obbligato a mon­tare di guardia. Dopo insistenze, ac­cettò ma a patto che controllassero prima che il suo fucile di ordinanza fosse scarico. Così passò la notte tran­quillo. Evidentemente si sentiva un soldato per un altro esercito. Anche nella guerra di Amin, e dopo, non si mostrò mai pauroso.

«La vocazione missionaria vera e propria - ebbe a dire - la scoprii nell'anno in cui feci il sagrestano in una chiesa di Brescia. Essendo il par­roco confessore della comunità com­boniana di Viale Venezia, mi mandava spesso in quella casa dove potei cono­scere alcuni Padri e Fratelli. Ero inna­morato della loro chiesa ed assistevo con passione ai giochi dei ragazzi che si preparavano alla vita missionaria. La loro allegria esercitava su di me un fascino straordinario. Così, senza saperlo, mi trovai un giorno già sboccia­to nell'anima il desiderio di diventare missionario d'Africa. Il parroco della chiesa, vedendomi partire dopo appe­na dieci mesi di servizio, si arrabbiò soprattutto perché non mi ero confida­to con lui prima di decidere. Cosa che io avevo di proposito evitato per paura di sentirmi schiacciato dalla sua rea­zione».

Ne faccia qualcosa di buono

Nel 1919 Angelo Frigerio fece la sua entrata nel noviziato di Savona. Suo papà, Francesco, e la mamma, Maria Fogliato, gli avevano dato il consenso di buon grado. Ajé stesso raccontò che suo padre, consegnandolo a padre Vianello, esclamò: «Se lo prenda e ne faccia qualcosa di buono, se ci riesce». Per capire il senso della frase bisogna tener presente che Angelo era un gio­vane piuttosto energico, impulsivo e qualche volta testardo (un bresciano autentico, dice qualcuno). Nei giudizi dei padri maestri, Francesconi e Ber­tenghi, questa caratteristica viene mes­sa in risalto. «Dimostra vivo desiderio della virtù. Compie con lodevole esat­tezza le sue pratiche di pietà e i doveri del suo ufficio. Aperto ed energico, talora è un po' duro, impulsivo e por­tato all'ira. Ma si sforza di corregger­si». Padre Marchetti conferma: «I cri­stiani gli volevano bene ed avevano con lui tanta confidenza, anche se tal­volta qualcuno, dopo i brontolamenti ricevuti da Ajé magari davanti al Pa­dre, diceva: “Ajé è invecchiato, ha molte parole”.

Alla fine della messa e dopo la mia predica, egli saliva sullo scalino della balaustra e diceva: “Il Padre vi ha par­lato così perché viene dal seminario e non vi conosce bene. Ora devo farvi io un'altra predica”. E qui tirava fuori la collaborazione mancata per la costru­zione della cappella o della scuola con argomenti molto convincenti e con esempi pratici... “Tu, dalle calze colo­rate, credi che non ti veda? Come mai non sei venuto a lavorare come avevi promesso?”... Una volta trovai che c'era una certa agitazione. Ajè aveva promesso di prestare il grande cortile della cappella per il ballo del pomerig­gio. Ma, vista la scarsa collaborazione nel lavoro, aveva ritirato la sua parola.

Allora i gruppetti di giovani, pas­sando sotto la sua finestra, gli gridava­no: “Ajé, sei un bugiardo!” Ma tutti conoscevano il suo stile e sapevano ascoltarlo. Basti pensare che se ne sta­va da solo e per settimane intere nei villaggi isolati, senza aver paura».

Lo sforzo costante e non certo facile per migliorare e addolcire il suo carat­tere non è stato senza frutto se, da an­ziano, venne descritto come «amabile, disponibile, dalla conversazione sem­pre illuminata dal sorriso, pieno di ca­rità e di zelo».

Africa in vista

Emessi i Voti a Venegono (dove si era trasferita la sede del noviziato), il primo novembre 1921, Angelo fu de­stinato a Thiene come cuoco e mura­tore. Uomo di grande concretezza, im­parò bene il mestiere di tirar su muri. Veramente, anche a Venegono aveva lavorato nel settore per rendere abita­bile “il vecchio maniero”, e aveva pure frequentato corsi teorici di dise­gno murario presso l'ingegner Bom­belli.

Due anni dopo, nel 1923, poté parti­re per l'Africa.

«La mia prima destinazione fu la missione di Kitgum - raccontò Fratel Ajé - dove mi affidarono gli allievi della scuola tecnica impegnati nella costruzione della grande chiesa. Arri­vai in tempo per la copertura del tetto in tegole. Terminato quel lavoro conti­nuammo a preparare il materiale per altre costruzioni. Alcuni mesi dopo l'inaugurazione della chiesa, la scuola tecnica venne trasferita ad Arua dove si voleva fabbricare la cattedrale; io invece venni dirottato a Gulu insieme ad alcuni operai. Il mio compito prin­cipale in quella missione fu di fabbri­care mattoni e tegole (le prime usate in Uganda). In seguito fui trasferito a Moyo dove si dovevano fabbricare case, scuole e la grande chiesa in mat­toni crudi con il tetto coperto di pa­glia. Vorrei far notare che questo edi­ficio, nonostante la precarietà del ma­teriale edilizio, resistette per una qua­rantina d'anni.

Da Moyo ritornai a Kitgum per un breve periodo, quindi passai a Gulu, dove sarei rimasto per molti anni, cioè per quasi tutto il restante della mia vita attiva. I miei compagni principali in quella missione erano: la coltivazio­ne dei campi per procurare il cibo ne­cessario ai catecumeni, l'istruzione re­ligiosa dei catecumeni in lingua aciòli, la preparazione dei materiali per la co­struzione della futura cattedrale (mat­toni ecc.) e la realizzazione di altre fabbriche minori».

Mani d'oro

Nel 1935, dopo 12 anni di missione, Fratel Ajé tornò in Italia per le sue prime vacanze. Fu inviato dai superio­ri presso la comunità di Brescia. «Qui frequentai la bottega d'un artigiano doratore, il quale non solo mi insegnò la sua arte, ma mi provvide anche gli strumenti e il materiale necessario af­finché fossi in grado di fare questo la­voro in Africa. Ogni anno indoro al­meno una cinquantina di calici e una trentina di pissidi che mi portano dalle diverse parrocchie d'Uganda, senza contare i candelieri ed altri oggetti. Credo di essere l'unico che fa questo mestiere nell'Africa centrale».

«Vidi per la prima volta Fratel Frigerio a Brescia negli anni '30 - scrive padre Marchetti. Era in vacanza dal­la missione d'Uganda, ma intanto fa­ceva un po' da nostro assistente. Ci parlava sempre della missione con un entusiasmo contagioso. Prima di parti­re fece una specie di conferenza di ad­dio che ci commosse fino alle lacrime. La sua cordialità, semplicità e fran­chezza mi rimasero impresse, tanto che, quando lo ritrovai in missione, mi pareva di essere stato sempre insie­me».

Dopo un anno, Ajé era di nuovo in missione.

È impossibile seguirlo nelle sue pe­regrinazioni da una missione all'altra, passando dall'ufficio di cuoco a quello di direttore di fattorie (Anaka e Gulu), da portinaio a sagrestano, da addetto all'orto a costruttore di chie­se... Tutto con uguale disponibilità e disinvoltura, dimostrando in concreto come deve essere la figura del vero Fratello comboniano, senza complessi e senza crisi, sempre nella gioia e con il denominatore comune di cercare nuove possibilità per fare catechismo alla gente.

Tipo esuberante ed estroverso, ama­va organizzare simpatiche festicciole per celebrare gli onomastici e i com­pleanni dei confratelli. Aveva intro­dotto l'usanza di commemorare anche sant'Angelo (6 maggio) invitando tutti gli Angelo della zona.

Andavano in una località prescelta e lì facevano bisboccia. Una volta dovet­te pagar cara questa sua abitudine. Era il 6 maggio 1936. Badoglio entra­va trionfante in Addis Abeba. Angelo Frigerio faceva festa e cantava in una sperduta località dell'Uganda. Una spia disse agli inglesi che i missionari italiani avevano festeggiato la vittoria di Badoglio a spese degli inglesi. I “criminali” vennero convocati presso l'autorità e dovettero faticare non poco per dimostrare come erano anda­te veramente le cose.

La ripresa

Con lo scoppio della seconda guerra mondiale, tutti i missionari italiani vennero internati nel seminario di Ka­tigondo. La vita in quel luogo era dura, non solo per le privazioni mate­riali (almeno in un primo tempo) ma soprattutto perché le missioni e le cri­stianità erano rimaste senza pastori.

L'internamento durò quasi due anni. Anche dopo la liberazione, i missionari di Gulu furono impediti di rientrare nella loro missione. Ajé, però, riuscì ad avere il permesso di an­dare nella missione di Kitgum, dove vi rimase per una decina di mesi. Con lui c'era anche Fratel Battistata. Questi si occupava delle macchine messe fuori uso durante l'assenza dei missionari, Ajé cercava di riparare le case, le chiese e le cappelle.

«L'inaugurazione della cattedrale di Gulu nel 1947 - disse - segnò la rina­scita della missione e ridiede entusia­smo a tutti i missionari.

Durante il lungo periodo della mia permanenza a Gulu fui incaricato delle costruzioni di cappelle e scuole. Con una piccola équipe di operai ben pre­parati mi spostavo nei vari centri per realizzare i nostri progetti. A volte ri­manevamo in un posto anche per un mese. Con questo lavoro a tappeto riuscimmo a costellare in pochi anni tutta la zona periferica della missione di Gulu di circa 200 aule scolastiche ed una trentina di cappelle. Penso che il mio contributo più fattivo per la pro­mozione umana della nostra gente fu la costruzione di tutte quelle scuole e cappelle.

Fra. le opere d'un certo rilievo rea­lizzate in quel periodo va ricordata la chiesa di Our Lady of Rosary nel centro della città di Gulu. Alla chiesa aggiungemmo le nuove scuole elementari maschili e femminili ed un altro grande edificio adibito ad altri scopi».

Niente grosse difficoltà

Dal 1936 al 1958 corrono 22 anni. È la seconda tirata di vita africana di Ajé. Pur godendo di una salute di ferro, le grane non mancarono. Basti pensare che subì ben cinque operazio­ni di ernia. Padre Agostoni, dopo l'ultimo intervento, gli scrisse: «Basta con le operazioni, altrimenti i medici non sanno più dove tagliare». Ajé obbedì e non ebbe più bisogno del chirurgo.

Più volte, dopo aver tirato su i muri di una chiesetta o di una casa, si vide radere tutto al suolo dai furiosi temporali equatoriali.

Un'altra volta, rimasto solo con al­cuni operai, invitò il vescovo a benedire la nuova fornace per cuocere i mattoni. Appiccò il fuoco, e per due giorni consecutivi la fornace non fece che fumare. Non aveva ancora imparato che bisognava tener conto del fattore umidità. Delle duemila tegole infilate nella fornace, se ne salvarono appena duecento. Fu uno smacco...

Arrampicandosi su per una scala ap­poggiata alla parete di una chiesa in costruzione per sistemare le capriate del tetto, rovinò con il muro, la scala e le travi restando sepolto sotto un mucchio di macerie. Gli operai se la diedero a gambe senza neppur ritirare la paga, piantandolo in asso. Si salvò per miracolo...

Eppure, richiesto se avesse incon­trato grosse difficoltà nella sua lunga vita missionaria, rispose: «Non saprei cosa dire perché, parlando schiettamente, devo confessare: anche nei miei rapporti con gli africani mi sono sempre trovato a mio agio. Mi è sem­pre piaciuto fare amicizia, colloquiare, scherzare. Pur trattando alle volte i miei operai un po' duramente - mi chiamavano infatti tek, per dire che ero duro - non ho mai avuto contrasti; anzi la gente mi ha sempre voluto, bene».

E neanche rimpianti

«Confesso di non aver alcun rim­pianto - ammise il Fratello nei suoi ul­timi annidi vita. - Ho solo tanta rico­noscenza verso i Fratelli più anziani che ho incontrato in missione e che mi hanno insegnato tante cose. Essi sono stati i miei veri maestri. Ora sono con­tento di tutto ciò che ho fatto. Se sono riuscito a fare un po' di bene lo giudi­cherà il Signore... Se c'è una cosa alla quale mi pare di aver dato un contri­buto sostanzioso è di aver insegnato agli africani a lavorare. Ricordo le dif­ficoltà dei primi anni, quando la gente non ne voleva sapere. Se andavo ad invitarli a venire a lavorare, mi rispon­devano in tono canzonatorio: Oh! Il lavoro dei bianchi non finisce mai!

Con l'andare del tempo furono gli stessi operai a venirmi a supplicare per avere un po' di lavoro.

Fabbricando numerose scuolette ho la convinzione di aver favorito molto l'istruzione primaria, mentre le cap­pelle sono divenute dei centri in cui il sacerdote trova un solido appoggio per il suo ministero.

Di rimpianti penso di non averne nemmeno uno, mentre invece il Signo­re mi ha regalato delle consolazioni. Sono perciò contentissimo di aver la­vorato tanti anni per il Regno di Dio e di aver lasciato qualche cosa».

Un punto forte

Il lavoro è stato un punto forte nella vita di Fratel Ajé. In una lettera al pa­dre Generale (Agostoni), al quale era legato da vera e fraterna amicizia, dice: «...Certo che se non arriva pre­sto Fratel... non so se il soffitto sarà pronto per Pasqua. Sento che tanto lui che Padre... vogliono venire in gen­naio giù di lì, e in nave per di più. Veda di svegliarli fuori e, pur permet­tendo loro di passare il Natale in fami­glia, subito dopo che piglino il primo aereo e si sbrighino. Mi pare che di vacanze ne abbiano già fatte abbastan­za. Che vengano a lavorare un po'». Qui si vede la vecchia grinta bresciana che salta fuori.

Il suo metodo di lavoro era il se­guente: andava in posti “scoperti”, si faceva amico della gente, cominciando dai più poveri, dagli anziani e dagli ammalati; poco a poco dava il via a un catecumenato, poi, con l'aiuto dei gio­vani cominciava a costruire una cap­pella per raccogliere la gente disposta a pregare. La cappella diventava an­che scuoletta rurale. Quando era tutto pronto, invitava il missionario sacer­dote per completare il lavoro di evan­gelizzazione.

Imparò parecchie lingue come l'acioli, il madi e l'alur.

Occupò gran parte del suo tempo come sagrestano, ufficio che conside­rava un onore. «Mi sono sempre pia­ciute le robe di chiesa», ebbe a dire.

Amava il bel canto in chiesa e le funzioni solenni.

Quando padre Traversi introdusse i tamburi come accompagnamento, si mostrò dapprima perplesso e poi entu­siasta. Aveva capito che la musica de­gli Africani doveva entrare anche nella Chiesa d'Africa. Scrive padre Mar­chetti:

«Fr. Frigerio era incaricato della bella e nuova Cattedrale di Gulu; e quindi tutti, in sagrestia, avevamo da fare i conti con lui, sia per i paramenti (per i quali aveva sempre un ottimo gusto e tanta attenzione) e sia per... rendere conto e sentire i brontolamen­ti se la predica era stata lunga, ecc. Lui era sempre a contatto con la gente e sentiva tutti; non c'era uno, tra i cri­stiani, che, non solo non lo conosces­se, ma che non dovesse prima trattare con lui!

Ben presto io riuscii ad arrangiarmi nella lingua acioli; ed allora, pur do­vendo restare in seminario a Lacior, appena potevo andavo fuori o in missione o nelle cappelle per fare ministe­ro. In quegli anni Fr. Frigerio stava co­struendo una dopo l'altra tante cappel­le per la vasta zona della missione-par­rocchia di Gulu. La gente ne era entu­siasta; il Fratello, pur usando di una economia strettissima (a volte i muri cedevano sotto le piogge quand’erano ancora in costruzione!), sapeva fare una bella facciatina, che poi abbelliva con vivaci colori. Ecco, in quel periodo io mi misi a disposizione per essere suo cappellano domenicale. Gli altri giorni non era possibile perché io avevo la scuola in seminario. Ma la domenica facevo una corsa in moto o, in seguito, in camioncino. Ajé era veramente feli­ce; e per questo mio ministero mi rima­se sempre molto affezionato e ricono­scente. Mi confidava che stava molto volentieri in safari per questi lavori, di­verse settimane consecutive. L'unica vera mancanza, mi ripeteva, era il do­ver restare senza la S. Comunione; questo era per lui un vero sacrificio che gli costava e che offriva al Signore per la missione. Quanto sarebbe stato più contento se si fosse trovato in quelle circostanze anni più avanti, quando persino alcuni catechisti avrebbero potuto con­servare la Eucaristia!».

Saper invecchiare

Per il 50° di professione (1.11.1971) i confratelli organizzarono una grande festa. Il Papa mandò una speciale be­nedizione, il padre Generale si fece vivo con un telegramma, e quasi un centinaio tra padri e Fratelli prove­nienti da tutte le parti d'Uganda si strinsero attorno ad Ajé.

«Sono commosso. Certo non merito tale dimostrazione. Questo sarà per me di stimolo a dedicare gli ultimi anni che il Signore vorrà concedermi a fare ancora qualcosa per la Congregazione e per la missione».

Poi il pensiero della vecchiaia, della malattia. Ajé, da uomo saggio, sta­va preparandosi psicologicamente al­l'inattività, alla malattia.

«Ben volentieri cedo la mia pensio­ne per il Centro Ammalati di Verona - scrisse -. Solo mi spiace che non l'abbiano trattenuta prima. Noi anzia­notti abbiamo il dovere di sostenere detto Centro perché, molto probabil­mente, dovremo venire a finire lì i no­stri giorni.

Ho qui un pezzo d'oro puro. Se non potrò continuare il mio lavoro di dora­tore, potrebbe essere destinato a que­sto scopo. Ho pure una valigia piena di vasi sacri vecchi e rotti. Fusi, po­trebbero rendere parecchio, come ho già scritto a Fratel Viviani. E poi, se il Signore non mi farà la grazia di morire in Africa, verrò anch'io a chiudere i miei giorni a Verona».

Sempre per prepararsi alla vecchiaia e anche per soddisfare a un'esigenza del suo intelletto, Ajé si diede alla let­tura. Scrive padre Marchetti:

«Una cosa che rilevai subito è che Fr. Frigerio era un grande lettore. Venen­do dal seminario, uno dei miei compiti era di rifornirlo di riviste e specialmente di libri, e di libri sodi, specialmente di storia. Si lesse con estremo gusto tutti i volumi del Pastor (Storia dei Papi), e ri­cordo come nella sua capanna guardava con una certa malinconia il segnale sporgente dal volume dicendo: "Pur­troppo, tra poco finisce ... ". Così riem­piva le serate, i giorni liberi e quando la pioggia impediva il lavoro. Fino all'ulti­mo, entrando nella sua stanza, si trova­va Ajé che stava leggendo.

Buona parte delle sue letture, ovvia­mente, alimentavano la sua pietà che era molto evidente, sia nella formula tradizionale e sia anche nelle forme ag­giornate e più recenti; non si vedeva in lui né crisi di preghiera né abbandono delle tradizionali pratiche di pietà per un malaccorto senso di aggiornamento che distrugge in tanti certe forme di pre­ghiera e non produce nulla di più valido.

Come complimento, ma con un sen­so profondo, mons. Cesana usava dire: "Ajé è uno di quei Fratelli ai quali si potrebbe subito imporre le mani e farli sacerdoti, per il lavoro che fanno e lo spirito che vivono". Chiara­mente Fr. Frigerio faceva tutto questo realizzandosi in pieno come Fratello; anche se in lui sarà rimasta sempre la memoria della gioventù in cui aveva iniziato a studiare per diventare sacer­dote, ma poi per gli eventi della prima guerra mondiale i superiori lo avevano indirizzato a farsi Fratello. E qui met­to subito le ultime parole da me senti­te il 21 giugno, mentre passavo da Ve­rona per andare in Polonia insieme a P. Prandina e a un sacerdote novello polacco molto interessato ai combo­niani: "Sono stato in Missione per 60 anni, e devo dire che sono molto contento, tanta soddisfazione, tanta gioia ". Caro Ajé, quanto è vero quello che dici!»

Ministero dell'accoglienza

Il senso dell'amicizia in Fratel Ajé fu grande. Nessuno si sentiva a disagio con lui, anzi. La sua amicizia e cordia­lità si esprimevano prima di tutto con i superiori. «Chissà - scriveva a padre Agostoni - che a forza di girare, qual­che aereo non sbagli rotta e venga ad atterrare ad Entebbe, ma senza guerri­glieri, mi raccomando!».

Con la sua bonarietà seppe dire qualche buona parola perfino al perso­nale russo che veniva per vedere la chiesa e per ritirare qualche cartolina proprio da lui. Di nascosto, i Russi si fornivano di Bibbie, rosari, quadretti, o medagliette che Ajé passava loro dopo averle ritirate presso la libreria delle Paoline.

A una signora che portava i bambini in chiesa per la confessione, mentre lei se ne stava in macchina ad aspettarli, disse che era come la campana che in­vita in chiesa ma non vi entra mai.

Sebbene Fr. Frigerio avesse speso una vita a Gulu (e un po' tra i Madi) pure si adattò anche alla vita nella casa di Mbuya a Kampala. Caratteristico il fatto che la sua stanzetta, la prima sopra le scale, fosse sempre aperta. La sua stan­zetta era centro di smistamento della posta, in arrivo e in partenza, con le chiavi appese per le stanze da dare agli ospiti. Ajé aveva sempre tempo per quattro chiacchiere da fare con chiun­que. Tanti degli amici di Gulu e Moyo andavano a trovarlo; amabilissimo con i bambini, sapeva dire la parola giusta e anche forte con gli adulti che ne ab­bisognavano.

E nessuno se la prendeva perché Ajé aveva imparato l'arte di fare le os­servazioni a modo.

«Ormai era diventato il nonnino, se­reno e sempre sorridente, pronto per la sua partita a scopone alla sera, e qui non senza benevoli brontolamenti per la TV che portava via il quorum neces­sario, o per una allegra chiacchierata. Ai confratelli lontani mandava qual­che cartolina assicurando la sua pre­ghiera ed esprimendo il desiderio di ri­trovarsi presto insieme», scrive padre Marchetti.

A Mbuya faceva «il ministero dell'ac­coglienza», diceva lui. Infatti accoglie­va i confratelli che venivano dai villag­gi lontani, li forniva del necessario, li ospitava, diceva loro parole di inco­raggiamento. Non solo accoglieva i confratelli, ma anche i laici, dottori e volontari, che passavano da Kampala e che cercavano nei missionari un ap­poggio.

Dieci e lode

A 88 anni Fratel Ajé fece una breve vacanza in Italia. In una intervista dis­se: «Sono felice di essere stato tra i pionieri (si dice così?) che hanno lavo­rato nel Nord-Uganda. Andavamo come allo sbaraglio, per necessità di cose, in certo senso del tutto impreparati. Ma eravamo pieni di entusiasmo, di buona volontà e, naturalmente, con la forza della fede, ciascuno secondo il suo dono».

Richiesto poi se volesse tornare ancora in Africa, sorrise come per dire: «Che domande sono queste?». E ri­spose: «Se avessi avuto il sospetto che non sarei potuto tornare, non avrei mai pensato all'Italia. Non mi sento affatto un eroe e tanto meno indispen­sabile. Lei capisce: sessant'anni d'Africa sono una vita, e qui mi sento come un pesce fuor d'acqua. Ho un sogno: morire in Africa. Ciò fa parte, mi sembra, di quella radicalità del mis­sionario di cui tanto si parla».

«Come ha fatto a passare tanti anni in missione?» - gli ha chiesto l'economo del Collegio Urbano di Roma.

«Così, un giorno dopo l'altro» - fu la semplice risposta.

Dopo le vacanze Ajé poté tornare nuovamente in Africa, ma solo per qualche anno. Era l'ultimo premio sul­la terra, che il Signore concedeva al suo servo fedele.

Il 6 giugno 1985 Ajé arrivò improv­visamente a Roma, per proseguire alla volta del Centro Ammalati di Verona. Si diceva che la sua situazione era gra­ve. All'ospedale di Negrar, infatti, gli riscontrarono un tumore diffuso, all'intestino. Fu subito circondato dai confratelli che lo veneravano come un patriarca e dai parenti (nipoti) che lo seguirono giorno e notte durante tutta la sua malattia. Gli volevano un gran bene e lo consideravano il migliore della famiglia.

Quando sembrava alla fine, chiese personalmente gli ultimi sacramenti. Dopo l'olio degli infermi si riprese, tanto da poter parlare a lungo con i confratelli e i parenti e da essere in grado di prendere cibo. I medici, però, avevano deposto ogni speranza per cui il Fratello venne riportato in Casa Madre. Questo fu anche suo vivo desiderio. «Se non mi è dato di morire in Africa, che muoia almeno nella no­stra Casa».

All'infermiere che lo assisteva disse scherzosamente: «Mondo birbone, si tribola a vivere, e si tribola anche a morire!». Rimase lucido fino alla fine intensificando la preghiera e gli atti di abbandono alla volontà del Signore.

Alle ore 00.10 del 2 luglio, dopo una sèrie di forti emorragie, Ajé chiu­se definitivamente gli occhi.

I suoi funerali videro una grande partecipazione di confratelli e di pa­renti. La salma fu tumulata a Verona. Alcuni, tra i parenti, volevano portar­lo al paese; altri, ricordando il deside­rio dello zio di morire in Africa, ac­consentirono che fosse sepolto insieme ai suoi confratelli a Verona.

«Fratel Frigerio fu davvero un esempio, un modello di Fratello mis­sionario - scrisse mons. Mazzoldi -. Da parte mia lo ricordo con amore, con tanta riconoscenza e con venera­zione. Lo penso nel gaudio del Signo­re insieme a tanti nostri confratelli che ci hanno preceduto nell'incontro con il Padre».

Padre Romanò, suo superiore in Uganda, aveva scritto di lui, quando Ajé era ancora vivo e vegeto: «Ajé ha fatto e fa un lavoro meraviglioso. È un tesoro da dieci con lode. Tutti gli vo­gliono bene. E un buonissimo religio­so, una vera benedizione».

Padre Urbani, allora regionale d'Uganda, aveva scritto semplicemen­te: «Ottimo».

Se noi uomini «che siamo cattivi» abbiamo dato voti simili a Fratel Ajé, che cosa gli avrà dato il Signore che è bontà infinita?

P. LORENZO GAIGA

Da Mccj Bulletin n. 147, ottobre 1985, pp. 58-66