Lunedì 27 luglio 2015
P. Carmelo Casile, comboniano, riflette su “La logica delle beatitudini nella vita di san Daniele Comboni” sperando che possa essere utile ai confratelli per approfondire il tema del prossimo Capitolo Generale, “Discepoli missionari comboniani, chiamati a vivere la gioia del Vangelo nel mondo di oggi”. In san Daniele Comboni, infatti, la logica delle Beatitudini si incarna nella gioia con cui vive la radicalità della sua consacrazione missionaria, che propone anche ai suoi missionari perché siano beati, cioè nella gioia. Nel ricordare con gratitudine il nostro passato, troviamo in lui, nostro Fondatore e Padre nella fede missionaria, una guida luminosa che ci indica il cammino che ci porta a vivere la gioia del Vangelo nel mondo di oggi.

 

P. Carmelo Casile,
missionario comboniano.

 

La logica delle beatitudini
nella vita di san Daniele Comboni


In san Daniele Comboni la logica delle Beatitudini si incarna nella gioia con cui vive la radicalità della sua consacrazione missionaria, che propone anche ai suoi missionari perché siano “beati”, cioè nella gioia. Così abbiamo in lui, nostro Fondatore e Padre nella fede missionaria, una guida che ci indica il cammino che ci porta a entrare e a “vivere la gioia del Vangelo nel mondo di oggi”.

«Il missionario proclama il messaggio evangelico anzitutto con la testimonianza personale e comunitaria dei consigli evangelici e con la pratica della carità secondo lo spirito delle beatitudini»: RV 58.

«Ringraziamo insieme il Padre, che ci ha chiamati a seguire Gesù nell’adesione piena al suo Vangelo e nel servizio della Chiesa, e ha riversato nei nostri cuori lo Spirito Santo che ci dà gioia e ci fa rendere testimonianza al mondo intero del suo amore e della sua misericordia. […] Siamo chiamati a sperimentare e mostrare che Dio è capace di colmare il nostro cuore e di renderci felici, senza bisogno di cercare altrove la nostra felicità»: Papa Francesco [1].

Il numero 58 della Regola di Vita e le parole di Papa Francesco possono essere per noi un invito ad ascoltare l’eco dello spirito delle Beatitudini, a cui Comboni attinse l’energia spirituale, la carità che lo rese capace a fare della sua vita una gioiosa e totale donazione alla causa missionaria, che concretizzò nella scelta dei popoli dell’Africa Centrale.

I testi che seguono ci aprono uno spiraglio sulla logica delle Beatitudini, intorno alle quali Comboni elaborò la sua intuizione spirituale su Dio, sulla sua chiamata e sul suo rapporto con Lui come singolo e come fondatore di una comunità missionaria.

«Il pensiero perpetuamente rivolto al gran fine della loro vocazione apostolica deve ingenerare negli alunni dell'Istituto lo spirito di Sacrifizio. Si formeranno questa disposizione essenzialissima col tener sempre gli occhi fissi in Gesù Cristo, amandolo teneramente, e procurando di intendere ognora meglio cosa vuol dire un Dio morto in croce per la salvezza delle anime. Se con viva fede contempleranno e gusteranno un mistero di tanto amore, saran beati di offrirsi a perder tutto, e morire per Lui, e con Lui». (Regole 1871, S 2720-2722).

«Quanto all'educazione religiosa ella continui come ha fatto sinora, e come intende di fare, perché io conosco bene e profondamente il suo spirito, e il suo intendimento: santi e capaci. L'uno senza dell'altro val poco per chi batte la carriera apostolica. […] Primo santi, cioè, alieni affatto dal peccato ed offesa di Dio e umili: ma non basta: ci vuole carità che fa capaci i soggetti» (S 6655).

«Una missione sì ardua e laboriosa come la nostra non può vivere di patina, e di soggetti dal collo storto pieni di egoismo e di se stessi, che non curano come si deve la salute e conversione dell'anime. Bisogna accenderli di carità, che abbia la sua sorgente da Dio, e dall'amore di Cristo; e quando si ama davvero Cristo, allora sono dolcezze le privazioni, i patimenti, il martirio» (S 6656).

È impressionante notare come lo spirito delle Beatitudini echeggia nella lettera che Comboni scisse al padre, in risposta alla notizia della morte della mamma. Il suo cuore di giovane sacerdote si rivela permeato della logica delle Beatitudini a tal punto che nelle sue parole possiamo ascoltare un vero Cantico delle Beatitudini:

«Siano grazie dunque all'Altissimo che i pensieri di me e di voi felicemente s'accordano! Dio ce la diede quella buona madre e consorte; Dio ce la tolse. Noi dunque facciamo di lei un generoso sacrifizio al Signore, e godiamo sommamente perché Dio volle chiamarla a sé, per darle un premio ben meritato di quei patimenti e sacrifizi che ella sostenne durante la sua vita, e perché volle pietosamente porgere a noi una felice occasione di patire qualche cosa per amor suo. Sì, padre mio carissimo; ella ha finito di piangere su questa terra; ed ora finalmente si trova al possesso della gloria del cielo, a dividere con i suoi sei figli la gioia di un Paradiso che mai finirà, aspettando che noi, vinta la lotta di questo temporale pellegrinaggio, andiamo a congiungerci insieme con essi.

Lo esulto di gioia, perché ora ella m'è più vicina che prima; e voi pure rallegratevi, che il Signore vuole esaudire i fervidi voti dei nostri cari, che ora pregano per noi e per la nostra salvezza al trono di Dio. Esultiamo ambedue, e direi quasi gloriamoci a vicenda, perché Iddio per sua infinita misericordia pare che si degni di farci sentire e mostrarci i contrassegni infallibili, ond'egli quali suoi teneri figli ci ama, e ci ha predestinati alla gloria. Noi siamo sommamente avventurati, mentre Dio ci largisce, e benignamente ci porge mezzi ed occasioni di patire per amor suo.

Che sia così, volgete uno sguardo all'ordine della Provvidenza, al modo che tiene Iddio verso dei fedeli suoi servi, cui predestina all'eterna beatitudine. La Chiesa di Cristo cominciò sulla terra, crebbe e si propagò tra le stragi e i sacrifizi dei suoi figli, tra le persecuzioni e tra il sangue dei suoi Martiri e Pontefici. Lo stesso suo Capo e Fondatore Gesù Cristo spirò sopra di un infame patibolo, vittima del furore d'una crudele ed empia nazione: i suoi Apostoli subirono la medesima sorte del Divino Maestro.

Tutte le Missioni, ove si diffuse la Fede, furono piantate, s'accrebbero, e giganteggiarono nel mondo tra il furore dei principi, tra i patiboli, e le persecuzioni che distruggevano i credenti. Non si legge di nessun santo, che non abbia menato una vita tra le spine, i travagli, e le avversità: delle stesse anime giuste che noi pur conosciamo, una non v'ha che non sia tribolata, afflitta, e disprezzata. Oh la palma del cielo non si può acquistare senza pene, afflizioni e sacrifizi; e quelli che si trovano visitati con questa sorta di favori celesti, possono a buon diritto chiamarsi beati su questa terra, mentre godono della beatitudine de santi, pei quali fu somma delizia il patire gran cose per la gloria di Cristo.

E questi speciali favori, queste sublimi prerogative colle quali a Dio piacque di contraddistinguere i suoi servi, per discernerli dalla turba innumerabile dei figliuoli del secolo, che si studiano di erigere su questa terra la piena loro felicità, questi favori e prerogative per sua misericordia Iddio si compiacque di mostrare anche a noi. Ma noi non siamo degni, o padre carissimo, di tanti doni; non siamo degni di patire qualche cosa per amore di Cristo.

Ma Dio, che è Signore di tutte le cose, vuol beneficarci oltre ogni nostro merito. Coraggio dunque, amatissimo padre mio, oggimai siamo nel campo di battaglia in mezzo alla milizia di questa misera terra; oggimai ci troviamo assaliti dai più tremendi e furibondi nostri nemici: l'umana miseria vuole indurci a cercare quaggiù una peritura felicità; e noi combattendo da eroi, abbracciamo con generoso animo le avversità, i patimenti, l'abbandono.

L'umana miseria s'adopera a toglierci la pace del cuore, e la speranza d'una vita migliore; e noi al fianco di Gesù crocifisso che patisce per noi, tripudiamo in mezzo all'avversa fortuna, mantenendo intatta quella pace preziosa, che solo ai piedi della croce e nel pianto può trovare il vero servo di Dio. Siamo nel campo di battaglia, vi ripeto, e bisogna combattere da forti. A grandi premi e trionfi giungere non si può se non per mezzo di grandi fatiche, travagli e patimenti. Ci sia dunque di sprone e ci consoli la grandezza del premio che ci aspetta nel cielo; ma non ci sgomenti e non ci atterrisca la grandezza e la difficoltà della pugna.

Abbiamo al nostro fianco il medesimo Cristo che combatte e patisce per noi e con noi; e noi fiancheggiati ed assistiti da sì generoso e potente Capitano e Signore, non solamente potremo sostenere con gaudio e costanza quei travagli e patimenti che il Signore ci manda, ma sarà nostro perenne esercizio il chiederne di maggiori, perché solo con questi, e col disprezzo di tutto il mondo, si può fare acquisto dei preziosi allori del Cielo.

Coraggio, sempre vi ripeterò, che ancor poco ci resta ancora di vita, che la scena lusinghiera e vana di questo mondo presto dai nostri occhi si dilegua, e siamo per entrare nella interminabil scena dell'eternità che ci aspetta. A corroborare poi quanto ora vi dico, eccovi tre detti dei santi, coi quali io voglio convincervi che noi siamo avventurati su questa terra, allora specialmente che Dio vuole che appressiamo le labbra al calice delle avversità e delle tribolazioni.

S. Agostino afferma, che è indizio d'essere predestinati alla gloria dei Beati, il soffrire uno gran cose per Gesù Cristo, e l'essere tribolato in questa vita: Coniectura est, cum te Deus immensis persecutionibus corripit, te in electorum suorum numerum destinasse.

Il Crisostomo asserisce essere una grazia veramente somma l'essere riputati degni di patire qualche cosa per Cristo; è corona veramente perfetta; è una mercede non inferiore alla mercede del Paradiso: est gratia vere maxima dignum censeri propter Christum aliquid pati: est corona vere perfecta, et merces futura retributione non minor.

S. Pietro d'Alcantara poi, dopo aver passato il corso della sua vita fra i triboli e le spine, pochi giorni dacché era spirato nel bacio del Signore apparve a S. Teresa nella Spagna, e così le parlò: Oh felice penitenza, o soavi patimenti e travagli, che tanta gloria mi hanno meritato: O felix poenitentia, quae tantam mihi promeruit gloriam! Così la discorrono i figliuoli di Dio: così la intendono i veri seguaci di Cristo.

Intendiamola così anche noi; gettiamoci totalmente fra le braccia amorose della Provvidenza divina, e combattiamo valorosamente fino alla morte all'ombra del glorioso vessillo della Croce; e la preziosa corona dell'eterna retribuzione è per noi» (S 418 – 430).

«Un ricordo ancora vi lascio; ed è la famosa e verace sentenza di Cristo: meditatela bene, ed abbiatela sempre a memoria, ché è ben degna che noi la veneriamo. Ella è questa: BEATI QUI LUGENT: e vuol dire: Beati quelli che piangono» (S 441).

1. La via per entrare nello vissuto delle Beatitudini del Comboni

Per entrare nello spirito delle Beatitudini vissuto da san Daniele Comboni, ho tentato di confrontare la sua vita con la logica delle Beatitudini, che è la logica propria del Regno di Dio, così come ci viene presentata da Gesù nel Discorso della Montagna nel Vangelo di Matteo. Questo confronto ci permette di cogliere in Comboni, che fu un grande appassionato del Regno di Dio, la sua tensione personale di vivere le istanze di questo Regno in coerenza con se stesso, e di annunciarlo agli Africani che vivevano sotto il peso della schiavitù.

Come risultato scopriremo che Comboni non ha fatto teorie sulle Beatitudine, non si è servito di esse per farsi un programma etico-morale, ma piuttosto attraverso di esse ha fatto sua la "visione che Dio ha del mondo e della storia", e in questa visione rimase catturato dalla situazione dei popoli dell’Africa Centrale. Alla scuola delle Beatitudini Comboni imparò, in primo luogo, a conoscere Dio, i suoi gusti, i propositi, gli intenti e, a partire da questa esperienza, sentì che Dio lo chiamava ad impegnarsi nel lavoro per la rigenerazione dell’Africa Centrale

Il primo segno di questa esperienza emerge dal fatto che in Comboni la logica delle Beatitudini si incarna nella gioia con cui vive la radicalità della sua consacrazione missionaria, che propone anche ai suoi missionari perché siano “beati”, cioè nella gioia.

Basta dare uno sguardo al termine “gioia” nell’Indice Analitico degli Scritti per farsi un’idea di come lo spirito delle Beatitudini modellava la sua vita, aiutato in questo anche dal suo “temperamento ilare” (S 1132). Egli sa essere molto allegro, anche quando deve confessare: «Non dormo quasi mai, ma mi trovo molto contento di aver molto sofferto e patito nelle 24 ore precedenti assai più di quando tornavo da una gran pranzo aristocratico» (S 6981).

La sua propensione alla gioia è arricchita e trasfigurata dalla sua unione con il Signore Gesù, il figlio felice del Padre, che non esita a consegnarsi alla morte, per far partecipi tutti della sua stessa felicità, cominciando dai più infelici.

Per questo Comboni è felice della Croce che lo circonda (S 1633) e che, ”portata volentieri per amore di Dio, genera il trionfo e la vita eterna” (S 7246). Prova gioia “a soffrire per Gesù Cristo e per la salvezza delle anime (S 5171), perché il Signore lo rende partecipe della Sua Passione (S 6403) e l’opera, crescendo ai piedi del Calvario, porterà ubertosi frutti (S 5084), e perché è convito che queste sofferenze sono preludio della vera felicità (S 5181).

Anche se la notizia della morte della mamma lo “conturba assai”, tuttavia prova gioia perché “l’uomo non è fatto per questa terra” e commenta questa morte con un lungo autentico Cantico delle Beatitudini, che comincia nella lettera al padre del 20 novembre 1858 e si prolunga nella seguente scritta al cugino Eustachio quattro giorni dopo (cfr. S 442-449).

Prova gioia anche nelle umiliazioni, perché può essere simile a Cristo, che “humiliavit semetipsum usque ad mortem” e così è “lieto di leccare la terra e ricevere qualunque umiliazione per amore di Dio e dell’Africa” (S 6964).

Comboni vive nella “beatitudine” dei “poveri in spirito”, perché è contento di fare la volontà di Dio e procurare la salvezza delle anime (S 5402; 61003308), di essere nelle mani di Dio (S5082) e sottomettersi alle disposizioni della Provvidenza (S 845), di patire e morire per Gesù e per l’Africa (S 3477; 5078; 6751; 6981), di dare la vita per gli africani (S 3159).

La “beatitudine” di Comboni sarà piena quando il “Nome di Gesù risuonerà sulle labbra dei figli di Cam e un inno di gioia si innalzerà…” (S 3999).

2. Nel mondo delle Beatitudini

Le Beatitudini sono una proclamazione di felicità. Nel primo membro di ognuna di esse viene proclamata una felicità, che viene esplicitata poi dalla promessa enunciata nel secondo membro.

Nella proclamazione della felicità vengono messi in rapporto il “Regno di Dio”, l’identità dei destinatari delle Beatitudini e il premio promesso.

2.1. Natura del regno di Dio

Nella Bibbia le parole Re e Regno fanno riferimento al potere e al dominio di una persona sulle altre. Quando sono riferite a Dio, vogliono dire che Dio è creatore e signore dell’universo, e quindi è considerato come il Re eterno e supremo (Ger 10,710; Sl 47,3). L’espressione «Regno di Dio», formulata nell’AT è la sintesi della fede giudaica: Dio è il Signore del mondo.

Ma il Regno o «Regno di Dio» oltre ad esprimere l'assoluta sovranità di Dio su tutta la creazione, ha anche un senso profondo, interiore e trascendente: indica la venuta di Dio come Re per salvare, cioè la presenza e l’attività misteriosa di Dio nel mondo e negli uomini per liberarli dal male e condurli a un destino di salvezza.

Questa attività salvifica attribuita a Dio-Re viene ulteriormente specificata e qualificata quando Israele attribuisce a Dio anche il titolo di Pastore (Gen 49,24; Sal 23; Is 40, 11; Ger 31, 10; Ez 34, 11-21).

Allora viene messo in evidenza il fatto che Dio-Re ama il suo popolo come il Pastore ama il suo gregge. Non è quindi l'amore-interesse di un Re-Padrone, ma un amore che presenta tutti i segni e i gesti del cuore appassionato di un Re-Pastore che si prende cura della vita del suo gregge.

E il gregge del Signore è il suo popolo: “Dio ama il suo popolo”, anzi, “il Signore ama i popoli” tutti, senza distinzione, anche se predilige Israele, che può esclamare: ”Egli ci ha fatti e siamo suoi, suo popolo e gregge del suo pascolo” (Sl 100, 3).

La possibilità che il suo gregge sia assalito, decimato e deportato con la forza a “paesi lontani”, dove correrà il rischio di dimenticarsi di lui “per servire altri dei”, fa piangere il suo cuore di Re-Pastore: “Se voi, cattivi pastori, non mi ascolterete, io piangerò in segreto dinanzi alla vostra superbia; il mio occhio si scioglierà in lacrime, perché sarà deportato il gregge del Signore!” (Ger 13, 17).

Sono lacrime segrete perché sono lacrime del cuore, dell’intimo di Dio: lacrime di Dio per la sorte dell’uomo che rischia la distruzione e la morte. Le lacrime sono il “gesto” più struggente di un cuore che ama, e da questo cuore in lacrime nasce una promessa: “Io vi darò pastori secondo il mio cuore!” (Ger 3, 17).

Dio, infatti, esercita la sua signoria su Israele e si prende cura di lui con la mediazione di Re-Pastori che, in virtù della elezione e della consacrazione ricevuta, stanno in intima relazione con Jahavè e sono partecipi della sua regalità a beneficio del popolo.

Il titolo di Re e la conseguente regalità attribuita a Dio nell’AT, nel NT è ereditata da Cristo in tutta la sua pienezza (Gv 18,37; Ap 17,14; 19,16).

Infatti Egli è il vero figlio di Davide (Mt 1,1; Lc 1,27, ecc….), destinato fin dalla concezione a ricevere il trono di Davide suo padre (Lc 1, 32), per portare a compimento la regalità israelita, stabilendo sulla terra il «Regno di Dio». La strada che Gesù intraprende per realizzare la sua missione è quella del Re-Pastore, che si consacra «Servo» (Gv 10, 11-15; Mt 20, 28).

In effetti, il «Regno di Dio», cioè la presenza e l’attività salvifica di Dio nel mondo, si rende visibile e operativo in modo definitivo in Cristo Gesù. Egli annuncia e proclama il «Regno di Dio» (Mc 1,15; Mt 4.23); in questo Regno Egli è il Re, il protagonista e l'incarnazione (Mt 12,28; Lc 17,20-21; Gv 18, 37) e chiede ai suoi seguaci che entrino in questo Regno e lo accettino con totale disponibilità (Mt 25,33).

Il segno messianico definitivo del «Regno di Dio» inaugurato e presente nella persona di Gesù e nella sua parola, è il Mistero della sua Morte-Risurrezione. In effetti, la risurrezione intronizzò Gesù nella sua gloria regale. I primi cristiani non esitarono a dargli il titolo più alto, quello di “Signore” (At 2, 36): Egli è il “Cristo Signore” (Lc 2, 11; 2Cor 4, 5), “Nostro Signore Gesù Cristo” (At 15, 26).

Chi si unisce alla persona di Gesù, il Crocifisso-Risorto, con la fede e l’amore e incarna la sua parola nella propria vita, accoglie il Regno e diventa suo servitore.

Il Regno di Dio, per tanto, non indica uno spazio o un territorio, ma una sovranità, un’azione permanente sulla realtà storica che Dio esercita in modo dinamico e in relazione con gli uomini, unendoli “in Cristo Gesù, nostro Signore”.

Il Capitolo Generale del 1985 ci ha ricordato che “il mistero del Regno va al di là delle situazioni, delle strutture e delle ideologie. È la stessa persona di Gesù Cristo, nel quale tutto l'universo è 'chiamato' ad essere ricapitolato per diventare il Regno di salvezza piena voluto dal Padre (Ef 1, 10). Far emergere i valori del Regno vuol dire mettere in evidenza e favorire i segni di questa lenta, a volte sofferta, ma decisa e progressiva trasformazione in Cristo (Rom 8, 19) ” (A C ’85,36b).

In questo intreccio di intervento divino e sofferta collaborazione umana in vista dell’avvento del «Regno di Dio», si affaccia la sofferenza di Dio espressa per mezzo del Profeta Geremia (cfr. Ger 13, 17), che riaffiora nella lacrime di Gesù (Cf. Lc 13, 34-35; 19, 41-44; 22, 39-40) e che da Gesù stesso viene motivata nella parabola del padre e dei due figli (Lc 15,11-32).

In essa, infatti, Gesù non presenta un Dio spettatore impassibile di fronte alle sofferenze del mondo, ma un Dio che è capace di soffrire per amore della sua creatura: «Questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato» (Lc 15,24.32). Il primo motivo del dolore del padre è che il figlio «era morto», ha distrutto se stesso: Dio soffre perché il figlio ha annientato, ha alienato se stesso. Il secondo motivo, «era perduto», si collega al fatto che il figlio si era allontanato da Lui.

Dio soffre prima di tutto perché la sua creatura soffre, e soltanto in secondo luogo perché tale sofferenza è causata dall'allontanamento da Lui. Come avviene per ogni vero amore, al primo posto non c'è il dolore del nostro cuore, ma il dolore dell'altro, la rovina dell'altro. Se Dio non potesse amare, semplicemente non potrebbe soffrire. Il mistero della sofferenza in Dio è il mistero della sua infinita capacità di amare. Dio soffre perché ama, perché si coinvolge con le vicende dell'uomo, perché è veramente un Dio che diventa povero per amore della sua creatura al fine di farla “beata” (Mario Russotto: La brezza di Dio, p. 40).

2. 2. Nelle Beatitudini c’è una presenza da incontrare

Gesù è l'UOMO-Dio che ha vissuto e insegnato le Beatitudini, che è stato modello e maestro di Beatitudine. Egli in realtà è il primo Beato, il Regno di Dio personificato, quindi una presenza da incontrare.

In effetti, la formulazione delle Beatitudini nel Vangelo di Matteo ci porta a scorgere dietro le Beatitudini la figura di Gesù stesso, che le ha vissute in pienezza. Per questo, le Beatitudini sono, in primo luogo, la biografia di Gesù, ne descrivono le scelte e i comportamenti. Esse sono immagine di Gesù, altrettante icone della figura spirituale di Gesù, il suo specchio. In esse troviamo le caratteristiche della sua vita per le quali Dio-Padre riflette in Lui il suo volto: la povertà in spirito, la mitezza, la misericordia, la purezza di cuore, ecc. Ma tutto si può ricondurre a due atteggiamenti di fondo. Il primo è quello della fiducia radicale in Dio, fiducia che diventa obbedienza senza il timore che l’obbedienza a Dio tolga qualche cosa della responsabilità e della libertà dell’uomo. E il secondo è quello dell’amore per gli uomini e quello di un’esistenza che diventa una esistenza “per”, cioè di un’esistenza che non ha più troppo bisogno di difendersi, troppo bisogno di affermarsi, ma che si prende cura degli altri, della vita dell’altro, del bene dell’altro, fino a mettere in gioco se stesso (Dal sito Figlie della Chiesa)

Le Beatitudini, per tanto, nella misura in cui vengono interiorizzate creano e approfondiscono dentro al nostro cuore dei desideri, delle inclinazioni, dei movimenti che conduco a decisioni e a comportamenti che ci assimilano alla figura di Gesù.

Per tanto la nostra Beatitudine unica e fondamentale è il Signore Gesù, l’incontro personale con Lui.

Egli è, in definitiva, il povero per antonomasia, l’afflitto, l’affamato e assetato di giustizia, il mite e puro di cuore, il perseguitato, il crocifisso. Ciò che Isaia aveva descritto nella figura del servo di Jahavè diventa realtà in Gesù, l’unto di Dio, il salvatore. Ed ecco incarnato nel Figlio di Dio lo stesso paradosso stridente delle Beatitudini: Lui « Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, […] si è addossato i nostri dolori; […] è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità » (Is 53,3.4.5) è allo stesso tempo il liberatore, il salvatore: «lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l'unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista;a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare l'anno di grazia del Signore» (Lc 4,18).

Gesù Crocifisso vive in quel momento tutte le Beatitudini; in quel momento splende in Lui in maniera unica ognuna delle Beatitudini che ha pronunciato sul Monte, e tutto il Vangelo. Sulla Croce ogni mistero della vita di Gesù, ogni suo gesto e tutte le sue parole sono raccolte in unità, ricapitolate, pienamente espresse e spiegate.

Egli aveva insegnato che nessuno ha maggior carità di colui che consegna la vita per i suoi amici. Egli, la Vita, nella Croce consegna tutto se stesso e diviene la più bella espressione dell'amore. Il suo volto è nascosto in tutti gli aspetti dolorosi della vita umana: non sono che Lui.

Nel suo alto grido al momento di spirare (cf Mt 27,50), è raccolto il grido che si eleva verso il Cielo dai Calvari di tutto il mondo e di tutti i tempi. Sì, perché Gesù che grida l'abbandono è la figura di ogni essere umano incurvato sotto il peso della privazione della gloria di Dio e ferito dalla violenza del male. Molte persone soffrirono e soffrono a causa della crudeltà, della prepotenza e delle ingiustizie umane, perché l'uomo è ancora incapace di realizzare l'amore. La Storia della Salvezza è precisamente un'azione liberatrice dell'uomo tutto e di tutti gli uomini da parte del Verbo Incarnato, mediante una lotta nella quale Egli soffre e cade in ogni persona, che soffre e che muore, con il fine di far trionfare nell'oppresso e nell’oppressore la legge universale dell'amore.

Così sul Golgota, il mistero dell’identificazione di Gesù con i più poveri e marginati della società (Mt 25, 31-36) arriva alla sua massima espressione.

La vita di amicizia con Gesù, l'UOMO-Dio che ha vissuto e insegnato le Beatitudini, che è stato modello e maestro di Beatitudine fino al momento culminate della morte in Croce, porta gradualmente a vivere i suoi stessi valori e ideali. Le «Beatitudini» diventano così dei sentieri di vita, dei cammini da percorrere per vivere la felicità secondo il Vangelo, che consiste nell’entrare nella Beatitudine della «vita» del Padre, del Figlio e dello Spirito e nel dinamismo della lotta pasquale per liberare lo stesso Gesù oppresso, sofferente e povero.

2. 3. I destinatari della Beatitudine del Regno

Destinataria delle Beatitudini è l’umanità «morta» e «perduta», perché «tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio» (cf Rom 3,23), quindi della Beatitudine del Regno di Dio.

Gesù, Re-Pastore-Servo, nella “universalità del suo amore per il mondo e il suo coinvolgimento nel dolore e nella povertà degli uomini”, offre la Beatitudine del «Regno di Dio» a tutti.

Per questo Gesù chiama i Dodici, poveri in mezzo ai poveri, li costituisce in comunità (Mc 3,13-19), li istruisce e li forma secondo lo spirito delle Beatitudini e affida loro la missione di continuare a rendere presente il «Regno di Dio»; al tempo stesso, garantisce loro la sua assistenza fino alla fine di questo mondo (Mt 28,18-20)

Essi dunque sono i primi destinatari delle Beatitudini, i primi invitati ad accogliere la proposta di Gesù e a sedersi alla mensa del Regno. L'ideale proposto da Gesù è certamente difficile; ma Gesù è pienamente cosciente di questa difficoltà e non risparmia sforzi per introdurli in questo cammino (cfr. Mt 20,20; Gv 13,2ss). Così capiscono, in modo progressivo, il valore assoluto del Mistero del Regno, incarnato nella persona di Gesù Cristo e vissuto secondo lo spirito delle Beatitudini, finché arrivano ad essere uomini che impiegano il loro tempo a cercare il Regno, dedicandosi a tempo pieno. D'allora, totalmente aperti e disponibili al servizio del Regno di Dio, le enormità che sono le Beatitudini, appaiono già credibili, vissute realmente da uomini felici.

Espressione di questa felicità è la risposta di Pietro e Giovanni al paralitico che, seduto presso la porta del Tempio, chiede loro una elemosina: «Allora, fissando lo sguardo su di lui, Pietro insieme a Giovanni disse: "Guarda verso di noi". Ed egli si volse a guardarli, sperando di ricevere da loro qualche cosa. Pietro gli disse: "Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, àlzati e cammina!"» (At 3, 1-10).

Ma nel presentare a tutti questa offerta, Gesù distingue quattro situazioni umane che meritano la sua attenzione particolare: l) i poveri, che sono oggetto di una predilezione preferenziale; 2) i peccatori; 3) i ciechi dello spirito; 4) i non-evangelizzati (Lc 4, 14-22).

Comincia dai poveri, perché una delle funzioni fondamentali del Re-Pastore nella tradizione biblica è chiaramente la difesa dei poveri, che non possono difendersi dall’oppressione dei potenti.

Gesù però vuole arrivare ad estirpare la radice di ogni ingiustizia e oppressione che crea poveri ed esclusi dalla società; e questa radice la individua nel peccato. Per questo propone all’umanità un cammino di liberazione integrale, che si concretizza nella chiamata rivolta a tutti a entrare nel banchetto del Regno (Mt 13; 20, 1-16; 21, 33-41; 22, 1-14; Lc 14, 15-20). Perché l’uomo possa rispondere a questa chiamata, Gesù lo chiama al cambiamento di vita o alla conversione, abbandonando la situazione di peccato che è comune a tutti gli uomini (Mc 2, 17; Rom 3, 23) e a farsi suo discepolo (Mc 10, 17-21), entrando con Lui nella logica delle Beatitudini.

Apparentemente Gesù si presenta con le mani vuote, tuttavia, afferma che il «Regno di Dio è vicino» (Mt 4,7). I suoi seguaci non saranno colmati di ricchezza, di prestigio e di potere. Gesù non viene a cambiare miracolosamente la situazione dolorosa dell’umanità. E, nonostante dice «Beati, felici, perché vostro è il Regno dei cieli».

In effetti, la vita vissuta secondo le Beatitudini del Regno, libera l’uomo da tutto ciò che lo divide interiormente, lo paralizza e gli impedisce di essere riflesso di Dio nel mondo e quindi artefice di felicità per sé e per gli altri tutti.

2. 4. I volti dei Beati

Beati sono coloro che si impegnano ad assimilare gradualmente e con generosità e decisione la proposta di vita delle Beatitudini nel quotidiano della vita, animati dalla coscienza che Gesù stesso l’ha vissuta per primo in pienezza.

Le Beatitudini, quindi, non designano anzitutto categorie sociali, ma la scelta fondamentale, la disposizione della persona ad aderire alla realtà vivente di Dio-Padre che riflette il suo Volto in Gesù, figlio felice del Padre e uomo “per” gli altri. Designano persone che vivono la povertà, la mitezza, persone che patiscono afflizione non per condizione di vita ma per fedeltà a Dio e all’uomo. Designano il dolore di chi vede che l’uomo non accoglie Dio, non accetta il suo amore, lo rifiuta; il dolore per solidarietà al dolore dell’umanità.

Le Beatitudini comunque hanno un versante sociale, perché colgono l’uomo nella situazione concreta di povertà, di afflizione, di persecuzione, che viene riletta e illuminata nella fede.

I Beati, per tanto, sono coloro che continuano a sperare in mezzo alle vicissitudini della vita: «Nella speranza infatti siamo stati salvati» (Rom 8, 23). Ciò che Gesù ci offre fin da ora è sperimentare la presenza di Dio Padre nella vita di ogni giorno. Ce lo dice con espressioni diverse di una stessa realtà: «Vedranno Dio, saranno saziati, troveranno misericordia».

«I poveri di spirito, i miti, quelli che sono nel pianto, i puri di cuore», costituiscono una sola famiglia. Questi «poveri» sono quelli che non si affannano a cercare ricchezze, e agiatezze come se fosse la cosa più importante della vita e, pertanto, sono disprezzati da coloro che cercano soltanto il successo terreno. Sono quelli che hanno bisogno degli altri e di Dio, in contrasto con i superbi, che non hanno bisogno degli altri né di Dio. Solo i solidali, che non riescono a capire come possono trovare la loro felicità senza cercarla anche per gli altri.

Questi «poveri» sono quelli che accolgono Dio che viene per salvarli come Re in Cristo Gesù, con il riconoscimento del bisogno che hanno di Lui e della sua salvezza. Quindi i poveri in spirito sono le persone che davanti a Dio si collocano come coloro che sanno di avere bisogno di Lui, di dipendere interamente da Lui; per questo si affidano nelle mani di Dio come alle uniche buone mani che portano la salvezza, e coltivano un animo e un atteggiamento da poveri nei confronti di Dio.

Questi «poveri» sono quelli che assumono la gerarchia dei valori che caratterizzano il Regno di Dio, presentato da Gesù nelle Beatitudini. È una gerarchia al rovescio di quella del mondo: mentre nel mondo i valori che contano sono l’autosufficienza e la ricchezza, la prepotenza e la vittoria che si afferma con la sottomissione degli altri, chi cammina secondo le Beatitudine riconosce come valori importanti e preziosi la “povertà in spirito”, la “mitezza”, l’impegno come “operatore della pace”.

2. 5. I destinatari del Regno, segni e strumenti del piano divino della salvezza

Annunciando le Beatitudini, Gesù proclama che «il Regno di Dio» è dei poveri, degli affamati, degli afflitti, cioè di tutte quelle categorie di persone emarginate e rifiutate dai potenti della terra.

La ragione per cui Dio sceglie queste persone sta nelle disposizioni di Dio stesso a loro riguardo.

In effetti, Dio le sceglie perché è il Redentore, il "Gô'êl"[2], cioè il grande difensore dei diritti dell’uomo, specialmente dei più poveri; le sceglie, quindi, perché vuole mostrare la sua misericordia con i poveri e sfortunati della vita.

La funzione di Gô'êl, infatti, è una istituzione familiare dei nomadi dell'Oriente. Egli è un liberatore, un redentore, un difensore, un protettore dei diritti dell’individuo e del gruppo, specialmente dei più poveri.

Secondo la Bibbia, dalla Genesi fino ai Vangeli, il genere umano, e dentro di esso Israele, è famiglia di Dio e l'uomo suo consanguineo. E Dio, che progettò l'uomo come un suo consanguineo, non potrà mai tollerare che siano sfruttati e sfigurati coloro che sono sua "immagine e somiglianza", suoi familiari e figli. Offendere i suoi figli è offendere Lui; sfruttare i suoi figli è sfruttare Lui.

L'autentica liberazione nasce, quindi, dall’iniziativa di Dio, che fin dall'eternità non dubitò di sommergersi, senza confondersi, nella storia degli uomini. Essere l'Emmanuele, il Dio con gli uomini: condividendo la loro vita e camminando con loro.

Dio comincia dai più poveri e dalle persone più svantaggiate, perché non hanno niente da far valere né da dare in cambio, sono quindi i più disposti ad accogliere il Regno che viene e a far risaltare l’assoluta gratuità del dono di Dio. Nessuno può comprare il Regno, lo può ricevere solo come dono.

Le Beatitudini, per tanto, sono una proclamazione del piano divino della salvezza, una rivelazione dell’amore assolutamente gratuito di Dio, del mistero stesso di Dio, che si compie in, per e con Cristo Gesù.

Nelle Beatitudini Gesù ci parla prima e soprattutto di Dio, di come egli legge e interpreta la nostra storia, le condizioni reali della nostra umanità che vede persone navigare nel benessere e poveri infelici prigionieri nelle ristrettezze più disumane, popoli oppressori e popoli oppressi, uomini violenti e uomini pacifici, situazione di giustizia e di menzogna….

In questo panorama, Gesù proclama che il Regno di Dio appartiene ai più deboli e si fa strada nel mondo attraverso di essi. Proclamando Beati i deboli, Gesù scredita la ricerca del successo e della felicità fondate sulla logica del più forte e del più potente.

Gli Apostoli che Gesù invia, sono poveri in mezzo ai poveri, per annunciare loro che Dio è arrivato presso di loro, e per aiutarli a scoprire la presenza di Dio anzitutto in mezzo a loro stessi.

Così il Vangelo realizza un ribaltamento della situazione. Dio apre le porte del suo Regno ai poveri e affida loro il suo messaggio, facendo di essi i suoi primi collaboratori. Questi poveri sono coloro che contribuiscono in modo indispensabile a costruire il Regno di Dio.

2. 6. La proclamazione delle Beatitudini e la nostra vita

Nelle Beatitudini proclamate da Gesù, Dio ci offre la via di comprensione della nostra realtà e di trasformarla nella misura in cui ci lasciamo coinvolgere nella logica del suo Regno che viene a noi nella persona del Signore Gesù, cooperando così alla realizzazione della salvezza come singole persone e come comunità umana.

Le Beatitudini, infatti, sono un insieme di frasi che cominciano con il termine «Beati», cioè felici, fortunati, perché arricchiti da Dio stesso, favoriti con il suo amore, perché Dio-Amore si autocomunica a questa determinata persona o categoria di persone.

L’ordine di queste frasi è ascendente: il culmine sono gli operatori di pace... ma tutte sono contenute in tutte. Per esempio: opero la pace con atteggiamenti di povertà, di mitezza, di misericordia, di giustizia... E viceversa.

Le beatitudini, per tanto, non sono anzitutto delle cose da fare, né dei frutti di ascesi o di sforzo solo nostro di fronte ad una proposta morale, ma ci mettono di fronte alla vita stessa di Cristo, che ci invita a imparare da Lui. Per questo, il nostro aderire alle Beatitudini ci inserisce nella vita di Gesù, ci unisce strettamente a Lui, ci pone alla sua sequela. È proprio questo il compito dello Spirito: di insegnarci a seguire Cristo, ad entrare nei suoi sentimenti.

Nelle Beatitudini c’è la descrizione della nostra vocazione, il ritratto di quello che noi tutti come cristiani siamo chiamati a diventare sotto la guida dello Spirito Santo. Se siamo docili alla sua azione, Egli è capace di fare di noi delle immagini riconoscibili del Signore Gesù e quindi a far nascere in noi quei desideri, inclinazioni e movimenti che ci conducono a decidere e a comportarci secondo la logica delle Beatitudini vissute da Gesù.

Nelle Beatitudini, quindi, c’è anche la nostra risposta alla venuta di Dio come Re-Pastore in Cristo Gesù, è delineato il nostro modo di accogliere la sua sovranità di salvezza.

In una parola «Beato» è colui che sta con il Signore Gesù e opera in sintonia con i suoi sentimenti di Figlio felice del Padre e Fratello universale.

Da questo incontro personale con Cristo, nasce un programma di vita secondo la logica delle Beatitudini che propone scelte di radicalità che trasformano il cuore delle persone e le rendono strumenti della trasformazione del mondo.

Il premio delle Beatitudini è il «Regno di Dio», cioè Dio stesso: è lui la sazietà della nostra fame, la terra, la misericordia, il Regno...: è la Beatitudine, la vera felicità, l’Eternità.

Le Beatitudini sono dei sentieri di vita che portano a ristabilire il giusto ordine tra la terra e il Cielo, tra il mondo presente e quello futuro e ci introducono già nell’Eternità, in Dio. A partire dall’Eternità, dalla definitività in Dio e di Dio, ciascuno può comprendere il senso vero della la sua condizione presente. È solo a partire dal Cielo che si può comprendere la terra e renderla abitabile.

Tutti gli uomini portano in se stessi il desiderio della Beatitudine ma non conoscono la via per conseguirla perché la cercano come se essa fosse un fine in se stessa, o come se essa fosse ricavabile dall'ora presente e, spesso, la cercano per se stessi, ignorando gli altri e perfino rendendosi strumenti dell’infelicità altrui. Gesù ha coniugato le Beatitudini al plurale, per insegnarci che la vera beatitudine per essere vera non può essere consumata in proprio, al contrario, “In Gerusalemme [nella comunione dei Santi] sarete consolati!” (Is 66, 13).

Vivendo le Beatitudini, il cerchio egocentrico e materialista della ricerca della felicità si spezza e si apre la via della Trascendenza, che ci porta a vivere con lo sguardo rivolto ai “Cieli” e nello stesso tempo a impegnarci per la vita in questo mondo, nella certezza che « tutto ciò che spargiamo nel mondo in giustizia, in pace, in parole d’amore, in buon senso, tutto questo lo ritroveremo trasfigurato nella bellezza della ricompensa eterna nella patria definitiva, che è dove Cristo vive per sempre, dove saremo felici con Lui»[3].

Le «Beatitudini» diventano così dei sentieri di vita, dei cammini da percorrere per vivere la felicità secondo il Vangelo, per entrare nella beatitudine della «vita» del Padre, del Figlio e dello Spirito e per costruire la vera «civiltà dei valori» del Regno.

A cominciare dagli Apostoli tanti cristiani lungo i secoli fino ad oggi hanno percorso questi sentieri di vita. Tra essi si distingue san Daniele Comboni.

3. La logica delle Beatitudini e la passione per il Regno nel vissuto di san Daniele Comboni

San Daniel Comboni vive le Beatitudini e tutti i misteri della vita di Gesù a partire dalla contemplazione del Mistero della morte di Gesù sulla croce. Egli è uno dei tanti uomini e donne nella storia della Chiesa, che sono stati trafitti al cuore nella contemplazione della Croce di Gesù e sono stati animati per tutta la vita da una grande passione per il Regno, collaborando alla sua completa instaurazione. Comboni, infatti, incarnando nella sua vita il messaggio delle Beatitudini, si è lasciato trafiggere il cuore dalla Parola di Dio, e, attraverso la contemplazione di quel Gesù morto in croce per la salvezza dell'uomo, ha rivolto il suo sguardo a quell'umanità crocifissa in Africa Centrale, testimone innocente del peccato del mondo e allo stesso tempo oggetto dello sguardo paterno e misericordioso di Dio, dedicando tutto se stesso alla causa della costruzione del Regno di Dio in quelle terre affamate e assetate di giustizia.

La porta attraverso la quale Comboni entra nella logica delle Beatitudini è quella dei “poveri in spirito”; entrando per questa porta alza lo sguardo su Cristo Crocifisso-Risorto, che ricapitola in sé tutte le Beatitudini e le esprime con la massima radicalità.

3. 1. La beatitudine dei "poveri in spirito" nell’esperienza vocazionale di S. D. Comboni

Al primo posto nella esperienza spirituale di Comboni sta la beatitudine dei "poveri", ai quali viene incondizionatamente promessa la salvezza del Regno di Dio in tutta la sua inesauribile pienezza.

Comboni vive tra questi poveri, che Matteo definisce come "poveri in spirito". In questi "poveri in spirito" è presente una duplice componente, quella sociale e quella religiosa. "I poveri" sono quindi veramente i nullatenenti, quelli che vivono alla giornata, quelli che per la loro condizione sociale appartengono alla classe dei subordinati, degli oppressi, degli impotenti. Questi poveri sono però anche i privi di diritti, quelli che nessuno aiuta, che possono fare affidamento solo su Dio; quelli che sono più coscienti di dipendere da Dio. Seguendo l'insegnamento dei Profeti e dei Salmi, Gesù nella Beatitudine dei “poveri” ribadisce che Dio stesso si prende cura proprio di questi poveri. A loro va la particolare premura di Dio; a loro Dio dona tutta la salvezza.

Ma la componente religiosa è altrettanto importante. I "poveri in spirito" non sono le persone che in qualche modo sono limitate nella loro possibilità umane o che rinunciano alla loro sviluppo umano integrale per qualche motivo che li spinge a questo, ma sono le persone che, consapevoli della loro creaturalità, si presentano davanti a Dio senza pretese, perché sono coscienti che non hanno nessun merito da far valere e quindi mettono la loro vita nelle mani di Dio.

Secondo la comune mentalità umana, ciò che importa nella vita è il successo, identificato prevalentemente con la ricchezza, il potere ed il prestigio sociale ed economico. Ma il Signore Gesù promette il regno di Dio a quelli che sono privi di pretese e sentono la loro reale povertà davanti a Dio, Sommo Bene e creatore e datore di tutte le cose. Non rivendicano un’autorità propria, ma si pongono sotto quella di Dio, nel suo Regno, quel luogo in cui il Signore è amato ed onorato. Questi poveri si impegnano a sviluppare le doti umane e spirituali ricevute da Dio e anche a migliorare le loro condizione di vita, ma senza perdere la prospettiva del Regno, cioè l’incontro con Dio in Cristo, che è l’unica via alla verità e alla felicità della vita, e nello stesso tempo prendono coscienza che questa è una ricchezza ricevuta in dono per condividerla con tutti, a cominciare dai poveri.

Gesù, infatti, era l’amico di quelli che erano in uno stato di povertà materiale. Ha nutrito coloro che pativano la fame. Ha incoraggiato i suoi discepoli ad invitare alle loro feste i poveri, gl’invalidi, i zoppi e i ciechi, perché quelli non avevano possibilità di contraccambiare. Li ha assicurati che, dando da mangiare agli affamati, accogliendo lo straniero e visitando i malati o i prigionieri, l’avrebbero fatto a lui stesso (Mt 25,40).

Tuttavia la missione di Gesù riguardo ai poveri non si esaurisce nell’impulso al superamento dello stato di povertà materiale. La Buona Novella del Regno è annunciata anche ai poveri. Per questo devono sapere che la promozione economica e sociale è un semplice mezzo, anche se essenziale, in ordine alla meta da raggiungere che è la partecipazione nei beni del Regno.

Per tanto, la situazione di povertà materiale infraumana non è uno stato che il credente deve accettare passivamente per sé e per gli altri e che perciò stesso lo rende “beato”, ma nello stesso tempo non possiamo pensare che lo stato di allerta lanciato da Gesù di fronte al pericolo della ricchezza abbia significato solo per i ricchi.

In effetti, la beatitudine della povertà è diretta anche al povero sociale, affinché sappia uscire dallo stato di povertà con equilibrio e saggezza evangelica, in modo da non cadere nella schiavitù della ricchezza e così ostacolare la consecuzione del Regno. Perciò di fronte al bene assoluto che è il Regno inaugurato nella stessa persona di Cristo Gesù, ogni credente, ricco o povero, deve essere disposto a perdere tutto per causa del Regno, anche la vita, se è necessario.

Ripassando la vita di san Daniele Comboni, è facile rileggerla alla luce della Beatitudine dei "poveri in spirito" e vederlo come un povero sociale, appartenente al gruppo di quei fedeli che mettono la loro vita nelle mani di Dio e, coscienti che Dio è con loro, si impegnano a uscire dal loro stato di emarginazione sociale e nello stesso tempo si sentono vincolati alla sorte degli più poveri di loro. In questo cammino Comboni non appare solo ma in perfetta sintonia con i suoi genitori.

Comboni, infatti, è venuto al mondo a Limone, un paesino povero di poche centinaia di abitanti, isolato dal resto del mondo, non raggiungibile per comode vie di terra, ma solo attraverso sentieri sassosi che calavano dalle montagne retrostanti.

Lui stesso diceva che la casa dove è nato, lontana dall'abitato, in una frazione isolata di un paese altrettanto isolato, è paragonabile alla grotta di Betlemme[4]. In questa casa si è inoltrato nell’avventura della vita, sostenuto dalle cure amorevoli del papà “giardiniere” e della mamma “casalinga.

Il richiamo a Betlemme non è dovuto alle sole condizioni materiali della sua abitazione, ma perché in quella casa si respirava l’aria evangelica della grotta dei pastori, e anche della casa di Nazaret, che si traduceva in un amore familiare fondato su una grande fede in Dio. Una fede che nei suoi genitori diviene coinvolgimento nella vocazione missionaria del loro unico figlio, e nel figlio certezza della vocazione e unità di misura per verificare la sua fedeltà ad essa; l’esempio del loro sacrificio nel donare il figlio alle missioni diviene per lui sprone a dedicarsi con altrettanta generosità ai fratelli dell’Africa.

Nel seno della famiglia si radica nell’anima di Comboni anche la realtà dell’Eternità, che è la meta finale delle Beatitudini. A questo ha contribuito certamente in modo molto intenso la morte dei suoi fratelli che hanno varcato la soglia dell’Eternità prematuramente; in seguito anche le 44 croci che segnalano le tombe dei missionari morti durante il viaggio verso la stazione di S. Croce, la morte eroica di don Oliboni, dalle cui labbra di morente raccolse come testamento l’accorato incitamento a proseguire risolutamente l’opera cominciata; e infine gliela ricorda ancora in modo tutto particolare la morte della mamma durante la sua prima permanenza in Africa.

In questo ambiente, Comboni percepisce l’Eternità come la meta ultima di ogni vita umana, come una finestra aperta sul Mistero della “Patria promessa” e al tempo stesso come presenza di Dio-Amore nell’avventura storica, una presenza rigeneratrice dell'uomo sofferente e oppresso. Per lui, allora, l’eternità non è fuga dal presente anche se drammatico, ma orizzonte che dà ad ogni essere umano il senso ultimo della vita e il sapore della dignità che gli è stata donata dal suo Creatore e che porta impressa nel suo cuore, e perciò diventa spinta ad un impegno coerente nel cammino della vita.

Dal dolore per la scomparsa di persone care, Comboni comincia a sentire di essere chiamato a lavorare per l’eternità, cioè a far presente l'amore ri-generatore di Dio in mezzo agli uomini, soprattutto tra i più poveri specialmente riguardo alla fede, e che lui esperimentava come pregustazione della pienezza di vita nella “Patria trinitaria” in compagnia di coloro che già l’avevano preceduto e di coloro che la Provvidenza gli andava affidando lungo il pellegrinaggio missionario.

Da quest’esperienza nasce in Comboni la convinzione che esprime poi nel Cap. X delle Regole del 1871, dove afferma che il missionario lavora per l’Eternità e che, perdendo di vista l’eternità, la sua vocazione resta sprovvista dello slancio divino della sua origine ed del suo significato ultimo, per cui il missionario stesso è il primo a esporsi ad una specie di vuoto e isolamento intollerabili.

La povertà di spirito in Comboni si rivela ancora nel modo con cui affrontò la sua storia di povertà familiare e ambientale.

La povertà dei suoi genitori non gli permetteva di continuare gli studi. Accolto nell’Istituto Mazza, che raccoglieva giovani poveri per prepararli alla scelta di una professione nel mondo, del sacerdozio o della vita religiosa, vide in questo evento la mano della divina Provvidenza che gli veniva incontro per sostenerlo nella sua povertà; ma nello stesso tempo prese coscienza che la stessa mano provvidente di Dio lo condusse in un ambiente dove potesse sentire il richiamo di altri più poveri di lui, tanto che la povertà estrema della Nigrizia divenne la passione della sua vita.

È interessante notare come i parenti di Comboni, arrivati anch’essi a Limone nella necessità di cercare migliori condizioni di vita, sono riusciti a raggiungere una discreta fortuna.

Anche per Comboni, provenendo da una situazione familiare disagevole, sarebbe stato logico e non gli sarebbe stato difficile tentare con i suoi parenti la scalata al benessere economico e al successo sociale. Ma l’ambiente che respirava in casa e la formazione che andava ricevendo all’Istituto Mazza, lo hanno orientato a sviluppare le sue capacità umane e spirituali nella direzione della logica della Beatitudine della povertà in spirito, che al distacco interiore dei beni unisce la condivisione della vita con i più svantaggiati.

Questa logica porta Comboni al superamento della situazione di povertà sociologica in cui è nato, scegliendo di rimanere povero per stare unito a Cristo, e così farsi “tutt’uno” con i poveri per imposizione sociale per portar loro energia nello sforzo di superamento della povertà. In effetti, per Comboni la povertà in spirito significò sviluppare le sue qualità umane e spirituali nel distacco dai beni materiali e dalla ricerca del prestigio personale, per mettersi totalmente al servizio della rigenerazione degli Africani, fino a dichiararsi loro servo (S 6809).

La logica della Beatitudine dei "poveri in spirito" rivela in Comboni il paradosso dell’agire divino che sceglie ciò che è debole per fare grandi cose in favore degli stessi deboli. Dio solo, infatti, poteva scoprire in un paesino così inaccessibile e rintracciare in esso questo bambino povero, per sceglierlo come suo apostolo e rivestirlo dell’Ordine episcopale: nato nelle grotte del Tesöl, lo ha scelto per evangelizzare la grande Africa; il suo sguardo si è posato proprio su di lui, figlio di poveri ed emigrati, per muovere i regnanti ad ascoltare gli oppressi; parrocchiano di una parrocchia insignificante, per illuminare Papa e Vescovi su problemi universali della Chiesa!

Comboni, quando confrontava le sue vicende missionarie con le sue umili origini di “un povero figlio di un giardiniere di Limone”, era sempre pervaso da un senso di stupore, che lo muoveva a eterna riconoscenza[5].

3. 2. La Beatitudine dei “poveri in spirito” e la contemplazione del Crocifisso nel vissuto di S. D. Comboni[6]

Entrato nella logica delle Beatitudini dei “poveri in spirito”, Comboni alza lo sguardo su Cristo Crocifisso-Risorto e in Lui vede ricapitolate e vissute con la massima radicalità le Beatitudini che sono il fondamento nella costruzione del Regno di Dio.

Questa contemplazione porta Comboni a quella felicità che contrassegna i “poveri in spirito”, i quali vivono con gli occhi fissi in Gesù Cristo crocifisso, “amandolo teneramente, e procurando di intendere ognora meglio cosa vuol dire un Dio morto in croce per la salvezza delle anime”. Immersi in questo “mistero di tanto amore” sono felici “ di offrirsi a perdere tutto, morire per Lui, e con Lui” (cfr. Regole del 1871, Cap. X).

Lo spirito di Comboni ridonda di questa Beatitudine, e lo coinvolge nel Mistero Pasquale che ha come centro d’irradiazione il Calvario, culmine della opera salvifica della Trinità. Così il Mistero Pasquale diventa grazia, lieta novella della volontà salvifica del Padre, che mediante il Verbo Incarnato nello Spirito Santo arriva in mezzo agli uomini che sono in cerca di salvezza.

Comboni evoca questa sua Beatitudine nel Mistero di tanto amore nell’evento carismatico del 15 settembre del 1864 (S 2742-2743; 4799). In questa esperienza Comboni appare raggiante, perché si sente raggiunto e coinvolto nell’infinita Carità Trinitaria.

A spingerlo a alzare lo sguardo e a tenerlo fisso su Cristo Crocifisso è il ricordo della sua prima esperienza missionaria in Africa, da dove ritorna malato sotto il peso delle prove subite. In questa situazione il giovane missionario continua a portare nel suo cuore quell’Africa a cui “già aveva sospirato da gran tempo, con maggior calore di quello con cui due amanti sospirano il momento delle nozze” (S 3) e che ora, dopo averla incontrato, non può abbandonare alla sua sorte.

Comboni esprime questa sua sofferta fedeltà al primo amore nel "Piano per la Rigenerazione dell'Africa", affermando che la consapevolezza di tale realtà deve scuotere la coscienza di ogni cristiano proprio perché “infiammato dallo spirito e dalla carità di Gesù Cristo”:

"La desolante idea di vedere forse per molti secoli sospesa l'opera della Chiesa a vantaggio di tanti milioni di anime gementi ancora nelle tenebre e nelle ombre della morte, dee ferire profondamente e fieramente conquidere il cuore di ogni pio e fedele cattolico infiammato dallo spirito e dalla carità di Gesù Cristo” (S 809)

Successivamente, nell’introduzione alla 1ª edizione del Piano (Torino, dicembre 1864, p. 3-4) ci narra come il suo cuore di “pio e fedele cattolico, infiammato dallo spirito e dalla carità di Gesù Cristo”, è ferito, conquistato e totalmente dedicato a quell’Africa oppressa, schiava, vittima della povertà, della fame, della violenza e privata della propria dignità umana, in vista della sua rigenerazione:

Il cattolico, avvezzo a giudicare le cose col lume che gli piove dall’alto, guardò l’Africa non attraverso il miserabile prisma degli umani interessi, ma al puro raggio della Fede; e scorse colà una miriade infinita di fratelli appartenenti alla sua stessa famiglia, aventi un comune Padre su in cielo, incurvati e gementi sotto il giogo di Satana.

Allora trasportato egli dall’impeto di quella carità accesa con divina vampa sulla pendice del Golgota, ed uscita dal costato di un Crocifisso, per abbracciare tutta l’umana famiglia, sentì battere più frequenti i palpiti del suo cuore; e una virtù divina parve che lo spingesse a quelle barbare terre, per stringere tra le braccia e dare il bacio di pace e di amore a quegl’infelici suoi fratelli” (S 2742-2743).

In questo testo Comboni svela nella Trinità le misteriose Sorgenti, che danno origine e sostengono il suo amore “così tenace e resistente” per l’Africa fino al sacrificio della propria vita. Il profondo “senso di Dio”, vissuto abitualmente da Comboni, diviene qui comunicazione di vita sul Mistero Trinitario in intima connessione con il Mistero Pasquale, cioè con il Mistero del Crocifisso-Risorto e con la sua passione missionaria.

Il punto di partenza della comunicazione di Comboni è il Cuore Trafitto di Gesù, Buon Pastore (Cf S 2742).

La Croce alla quale Comboni aderisce, è la Croce “gloriosa”, “beatificante”, cioè quella che è causa della Risurrezione di Gesù. L’immagine di Gesù che domina nella sua vita, è quella del Cristo glorioso, che continua a operare la salvezza del mondo, servendosi della collaborazione umana. Il suo “guardare l’Africa al puro raggio della fede” è “un giudicare delle cose con lume che gli piove dall’Alto”, dove il Risorto sta alla destra del Padre, vittorioso. Si comprende il Mistero Pasquale che è al centro della vita di Comboni, precisamente partendo dalla Risurrezione.

Nel vissuto del Mistero Pasquale in Daniele Comboni, è presente la Trinità al completo, che è da lui la percepita pellegrina nel cammino degli uomini... Questa percezione che inonda il suo spirito, rende in lui sempre più forte il sentimento di Dio e sempre più saldo il legame di solidarietà con la Nigrizia, fino a farlo suo “sposo” e liberatore; questa percezione è la vena nascosta che dà ragione e forma alla sua “passione” per la Nigrizia, per cui ci può dichiarare con verità che come missionario viene dal cuore della Trinità.

Comboni si presenta al nostro sguardo coinvolto nel dinamismo dello Spirito Santo, “Virtù divina”, che gli rivela nel Cuore Trafitto di Gesù sulla Croce il segno e lo strumento perenne dell’amore salvifico che eternamente sgorga dal cuore del Padre, e la via della solidarietà con la vita di tutti gli uomini. Viene così introdotto nell’inesauribile dialogo e comunione tra il Padre che ama tanto il mondo da decidere di inviare il Figlio, e il Figlio che risponde con la sua obbediente consegna redentrice fino alla fine in Croce, e gli merita il dono di questa stessa “Virtù divina” come fiamma di Carità che sgorga dal suo Cuore Trafitto.

All’essere coinvolto nell’azione salvifica della Trinità mediante questa fiamma di Carità, viene tratto fuori dal “buio misterioso” che ricopre l’Africa e dalla paura del passato in cui “rischi d’ogni genere e scogli insormontabili sgominarono le forze e gettarono lo sgomento” tra le file missionarie. La Nigrizia si trasfigura ora davanti al suo sguardo: comincia a vederla ”come una miriade infinita di fratelli aventi un comun Padre su in cielo”. L’abbraccio di Dio Padre lo esperimenta segnato dalla sofferenza di questi suoi figli africani, e nel bisognoso africano scopre un fratello, che ancora non usufruisce della benedizione del Padre che scaturisce dalla Croce…, per cui ha bisogno di essere incamminato verso di Lui.

Sotto l’influsso dello Spirito Santo, esperimentato come fiamma di Carità che sgorga dal costato del Crocifisso sul Gólgota, sente che i palpiti del suo cuore si fondono con quelli di Gesù e si accelerano. In questa sintonia di cuori percepisce come il Padre, attraverso il suo Figlio incarnato, morto e risorto, ascolta il grido di quella miriade di figli suoi che vivono in Africa ancor “incurvati e gementi sotto il giogo di Satana” ed entra con tutto il suo essere nella loro storia e nel loro dolore.

Questa Carità lo fa sentire figlio amato dal “comun Padre” che si prende cura di lui allo stesso modo che dei suoi fratelli più abbandonati fino alla consegna del suo proprio Figlio; è questa Carità che lo trasporta e lo spinge a stringerli tra le braccia e dar loro il bacio di pace e d’amore; lo spinge, cioè, ad assumere la loro storia e il loro dolore divenendone parte e facendo “causa comune con loro”, anche con il rischio della sua vita.

La contemplazione del Cuore Trafitto di Gesù in Croce dà a Comboni la capacità di "allargare lo spazio della sua tenda, di stendere i teli della sua dimora senza risparmio”(cf Is 54,2); animato dall'amore infinito di un Dio morto in croce per tutta l'umanità, Comboni non può resistere al grido di dolore di quegli uomini che riconosce fratelli sotto un unico Padre, in lui vince " [ ... ] l'impeto del cuore, dove protestiamo di sentir forte il grido della miserazione, che verso di tutti noi mandano quegli infelici figliuoli di Adamo e nostri fratelli" ( S 2754). Il suo è un cuore amante, un cuore trafitto da un'amore infinito, che non può aver pace, non può aver riposo finché "l'infelice Nigrizia" non ritrovi la propria dignità umana, la propria libertà e prenda coscienza dell'infinito amore di un Dio morto in croce "per il riscatto di molti” (Cfr. Mc 10,45).

Per Comboni si tratta di un incontro con dei fratelli in cui si cela il volto di Gesù nello sconcertante mistero della sua identificazione con gli esclusi della storia (Mt 25, 42-43). Nei suoi fratelli africani oppressi gli si rivela il volto colpito, dolorante e sfigurato del Crocifisso, che fissa il suo sguardo su di lui e lo chiama ad evangelizzarli e a lavorare per il loro progresso e per la liberazione dalla loro schiavitù. Nello stesso tempo continua a tenere lo sguardo fisso sul Crocifisso, per “capire sempre meglio cosa vuol dire un Dio morto in croce per la salvezza delle anime”.

Questo sguardo rende la vita del Comboni simile ad una “via crucis”, che è anche “via lucis”, perché è da lui percorsa coscientemente nello spirito delle Beatitudini fino al Calvario, e perciò felice “ di offrirsi a perdere tutto, morire per Lui, e con Lui” (cfr, Regole del 1871, Cap. X), per la redenzione della Nigrizia[7].

Comboni canta questa sua felicità quando, nominato Pro-Vicario Apostolico dell'Africa Centrale, 1'11 maggio 1873 fa il suo ingresso a Khartum:

"Il primo amore della mia giovinezza fu per l'infelice Nigrizia, e, lasciando quanto per me v'era di più caro al mondo, venni, or sono sedici anni, in queste contrade per offrire al sollievo delle sue secolari sventure l'opera mia. Appresso, l'obbedienza mi ritornava in patria, data la cagionevole salute [...] Partii per obbedire:ma tra voi lasciai il mio cuore; e riavutomi come a Dio piacque, i miei pensieri e i miei passi furono sempre per voi. E oggi finalmente riacquisto il mio cuore, ritornando fra voi, per dischiuderlo in vostra presenza al sublime e religioso sentimento della spirituale paternità, di cui volle Iddio che fossi rivestito un anno fa, dal supremo Gerarca della Chiesa Cattolica, nostro Signore il Papa Pio IX. Sì, io sono di già vostro Padre, e voi siete i miei figli; e come tali, la prima volta vi abbraccio e vi stringo al mio cuore [...]. Io ritorno tra voi per non cessare mai più di essere vostro, e tutto al maggior vostro bene consacrato per sempre. Il giorno e la notte, il sole e la pioggia, mi ritroveranno egualmente e sempre pronto ai vostri spirituali bisogni: il ricco e il povero, il sano e l'infermo, il giovane e il vecchio, il padrone e il servo avranno sempre eguale accesso al mio cuore. Il vostro bene sarà il mio, e le vostre pene saranno pure le mie. lo prendo a far causa comune con ognuno di voi, e il più felice dei miei giorni sarà quello, in cui potrò dare la vita per voi”. (S 954-955)

Sono parole intense, che sgorgano da un cuore amante, sono la storia di un uomo che sulla scia del suo Signore ha saputo consegnare tutto se stesso all’ “infelice Nigrizia", animato da un'ardente passione per il Regno. "Il vostro bene sarà il mio, le vostre pene saranno le mie, [... ]": queste parole ci ricordano quelle di Rut, «l'amica»; ancora una volta la storia della Salvezza passa attraverso la fedeltà, la totale dedizione, il cuore di un uomo che segnato profondamente dallo sguardo rivolto alla sofferenza umana, sulla cima del Golgota, ai piedi della croce, contempla l'infinito amore di Dio e ne viene completamente trasformato.

Istruito da questa esperienza può scrivere: "Tutte le opere di Dio, specialmente quelle dell'Apostolato Cattolico [...] devono nascere e crescere ai piedi del Calvario e devono essere segnate dalla Croce” (S 1557).

Tra mille difficoltà, sofferenze, incomprensioni che una così ardua missione comporta, non solo non si ferma, ma anzi in una lettera da Khartum a quattro sacerdoti di Verona confessa: "Oppresso da queste acerbissime angustie e colpito da così grandi calamità, non mi sono mai scoraggiato, anzi sono lieto che per la redenzione degli infedeli sia stato fatto partecipe della passione di Gesù Cristo, che è vita e risurrezione”(S 1540); ed è sorprendente come nelle parole riecheggino proprio quelle dell'Apostolo delle Genti: "Perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo” (Col 1,24).

E come tutti i “poveri in spirito”, anche Comboni sa che l'opera è di Dio, è Lui che porta avanti ogni suo disegno, la Salvezza viene dall'alto, l'uomo ne è solo un umile e fedele servitore: "Tuttavia la nostra fiducia è in Colui che morì pei Negri, e che sceglie i mezzi più deboli per far le sue Opere, perché vuol mostrare che è Lui l'autore del Bene, e noi non possiamo che fare da noi il male. Avendoci Egli chiamati a quest'opera, noi colla sua Grazia trionferemo dei Pascià, dei Framassoni, dei Governi atei, degli storti pensieri dei buoni, delle astuzie dei cattivi, delle insidie del mondo e dell'inferno; né arresteremo la nostra marcia che ultimo respiro l nostra vita”( S 760).

4. Il canto dei “poveri in spirito” nel pellegrinaggio missionario di D. Comboni

Abbiamo già ricordato l’Omelia di Comboni a Khartum. In essa, la sollecitudine di Comboni per le sorti dell’Africa rivela la profondità del dono di sé a Dio, vissuto come partecipazione nell’amore del Cuore di Gesù, “che ha palpitato anche per i poveri neri dell’Africa centrale” (S 5647). Non è difficile, per tanto, individuare in questa Omelia il Cantico dell’amore di Comboni per la Nigrizia, così come l’ha imparato dal Cuore di Cristo. È un Cantico che nasce dal cuore di Comboni, talmente spoglio di se stesso e aperto a Dio e ai fratelli, che gli permette di far suoi i sentimenti del Cuore di Gesù per gli Africani e di dichiararsi di fronte ad essi “vostro per sempre”.

La felicità di “ di offrirsi a perdere tutto, morire per Cristo e con Lui” permea tutta la vita di Comboni, e si esprime in modo particolare nel suo stupore e gioia di fronte alle meraviglie della creazione e soprattutto di fronte all’azione provvidente di Dio nella storia umana, che culmina nella Morte–Risurrezione di Gesù.

4. 1. Il canto della creazione sigillato dalla gioia della Risurrezione

La Croce alla quale Comboni aderisce, è la Croce “gloriosa”, cioè quella che è causa della Risurrezione di Gesù. L’immagine di Gesù che domina nella sua vita, è quella del Cristo glorioso, che continua ad operare la salvezza del mondo, servendosi della collaborazione umana.

Nel vissuto di Comboni lo splendore della Risurrezione rifulge non solo nell’opera della Redenzione ma anche nell’orizzonte dell’opera della creazione. Il Garda lo aveva abituato a godere dello spettacolo di una natura fatta di colori cangianti, profumi intensi, suoni gradevoli. In Africa egli poteva contemplare paesaggi immensi e inediti. Nei sui Scritti dal continente africano, fin dalle prime lettere indirizzate ai genitori, si fa conoscere come ammiratore attento e narratore puntuale. Quelle bellezze naturali che fanno da cornice a tanti “volti” umani, non cessano di generare in lui stupore. L’incanto delle bellezze naturali, il sentirsi creatura tra le creature, l’essere avvolto dal quel mistero di “tramonto e aurora”, fa di Daniele Comboni un cantore della creazione, che va ripetendo: “Quanto è grande, e potente il Signore!” (S 246) [8].

4. 2. “Il cantico della Provvidenza” e il proposito di combattere da forte

L’opera meravigliosa della creazione è nell’animo di Comboni simbolo della presenza provvidente di Dio in tutti i luoghi. Quest’opera raggiunge il suo vertice nella Risurrezione di Gesù, suprema manifestazione della Provvidenza divina, che per mezzo della Croce penetra anche nel regno della morte.

Infatti, “se Cristo non è risorto, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede… e voi siete ancora nei vostri peccati. Ora, invece, Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti” (1Cor 15, 14-20).

Il Comboni era convinto che nessuna salvezza, e quindi neppure quella dell’Africa, era possibile senza la Croce. Egli aveva posto la Croce come “un’inevitabile grazia suprema, garanzia di apostolato e di santità”. Gesù, infatti, vince morendo e anche le membra del suo corpo vincono vivendo le vicissitudini della vita con la mentalità del Signore, che oppose al male la debolezza della bontà, generando così rapporti nuovi con gli uomini tutti (Cf Rom 12, 21).

Il cristiano, lasciandosi “crocifiggere”, salva con e in Cristo il mondo intero, perché si sente membro del Signore che prolunga il Mistero della sua Passione a vantaggio della Chiesa e di tutta l’umanità (cf Col 1,24); nello stesso tempo, più si unisce al Crocefisso (cf Gal 6, 14), più fa l’esperienza del Risorto.

Le parole rivolte al papà, in occasione della morte della mamma, sono un vero “Cantico dell’ordine della Provvidenza”, che egli vedeva realizzarsi nella Storia della Salvezza dell’umanità attraverso il Mistero della Croce, che culmina nella Risurrezione. Così Comboni approfondisce il suo Cantico delle creature, facendosi cantore della sapienza della Croce e invitando a combattere da forti al fianco “del medesimo Cristo che combatte e patisce per noi e con noi; fiancheggiati ed assistiti da sì generoso e potente Capitano e Signore”.

Con queste espressioni Comboni ci indica in Gesù Risorto, il “Re Eterno”[9], che ci invita a seguirlo “nel dolore per esserlo anche nella gloria”:

“Volgete uno sguardo all'ordine della Provvidenza, al modo che tiene Iddio verso dei fedeli suoi servi, cui predestina all'eterna beatitudine. La Chiesa di Cristo cominciò sulla terra, crebbe e si propagò tra le stragi e i sacrifizi dei suoi figli, tra le persecuzioni e tra il sangue de' suoi Martiri e Pontefici. Lo stesso suo Capo e Fondatore Gesù Cristo spirò sopra di un infame patibolo, vittima del furore d'una crudele ed empia nazione: i suoi Apostoli subirono la medesima sorte del Divino Maestro.

Tutte le Missioni, ove si diffuse la Fede, furono piantate, s'accrebbero, e giganteggiarono nel mondo tra il furore dei principi, tra i patiboli, e le persecuzioni che distruggevano i credenti. Non si legge di verun santo, che non abbia menato una vita tra le spine, i travagli, e le avversità: delle stesse anime giuste che noi pur conosciamo, una non v'ha che non sia tribolata, afflitta, e disprezzata. Oh la palma del cielo non si può acquistare senza pene, afflizioni e sacrifizi; e quelli che si trovano visitati con questa sorta di favori celesti, possono a buon diritto chiamarsi beati su questa terra, mentre godono della beatitudine de santi, pei quali fu somma delizia il patire gran cose per la gloria di Cristo.

L'umana miseria s'adopera a toglierci la pace del cuore, e la speranza d'una vita migliore; e noi al fianco di Gesù crocifisso che patisce per noi, tripudiamo in mezzo all'avversa fortuna, mantenendo intatta quella pace preziosa, che solo appiè della croce e nel pianto può trovare il vero servo di Dio. Siamo nel campo di battaglia, vi ripeto, e bisogna combattere da forti. A grandi premi e trionfi giungere non si può se non per mezzo di grandi fatiche, travagli e patimenti. Ci sia adunque di sprone e ci consoli la grandezza del premio che ci aspetta nel cielo; ma non ci sgomenti e non ci atterrisca la grandezza e la difficoltà della pugna.

Abbiamo al nostro fianco il medesimo Cristo che combatte e patisce per noi e con noi; e noi fiancheggiati ed assistiti da sì generoso e potente Capitano e Signore, non solamente potremo sostenere con gaudio e costanza quei travagli e patimenti che il Signore ci manda, ma sarà nostro perenne esercizio il chiederne di maggiori, perché solo con questi, e col disprezzo di tutto il mondo, si può fare acquisto dei preziosi allori del Cielo”[10].

4. 3. L’“Inno alla Croce”

La felicità di “ di offrirsi a perdere tutto, morire per Cristo, e con Lui” si è radicata in Comboni gradualmente. Già nella sua fanciullezza egli poteva osservare nella chiesa di Limone il grande crocifisso di legno di bosso esposto su un altare laterale e ascoltare le ispirazioni interiori che quella visione gli suggeriva.

Giovane missionario, durante il suo primo viaggio verso la Missione, arrivato ad Alessandria, gli fu offerta l’opportunità di un pellegrinaggio a Gerusalemme. Come pellegrino il momento più intenso lo visse proprio sul Calvario:

“Non posso esprimere a parole la grande impressione, i sentimenti che mi destarono questi preziosi santuari, che ricordano la Passione e la Morte di Gesù Cristo… Ascesi sul monte Calvario 30 passi più sopra del S. Sepolcro: baciai quella terra sulla quale posò la Croce… mi gettai in un dirotto pianto, e per un momento mi allontanai…. Mi si risvegliarono questi pensieri: Qui fu compiuto l’umano riscatto… qui sono stato redento”. (Ai genitori, S 39-43).

Quindi proseguì il suo viaggio verso la Missione, navigando sul Nilo, “vagheggiando alla sfuggita le famose piramidi, e i gloriosi avanzi di Denderah, Kneh, Tebe, Karnak, Luxor…” (S 200).

Giunse alla stazione di S. Croce, seguendo l’itinerario dei missionari verso la Nigrizia segnalato dalle 44 croci delle loro tombe. Quelle croci gli ricordavano una storia, che cominciò a premere sul suo cuore e divenne pesante come un macigno quando vide soccombere i suoi primi compagni e lui stesso arrivò ad una passo dalla morte. In questa situazione di sofferenza per la morte dei confratelli e di trepidazione per le sorti della Missione, il 13 novembre 1858 gli giunse la notizia della morte della mamma, che colmò la misura delle sue sofferenze.

Così, mentre gode dell’ambiente fascinante delle foreste e del Nilo, Comboni scopre che questo stesso ambiente rendeva impossibile la realizzazione della missione a causa del clima che portava inesorabilmente i missionari alla morte.

Nello stesso tempo è colpito dal fatto che questo stesso ambiente è ricoperto da un “buio misterioso” (S 800). È un buio che nasce da un intreccio di fenomeni sconcertanti, e che attanaglia gli Africani in una vicenda di “povertà” radicale di oltre quaranta secoli, tenendoli lontani dai benefici del progresso umano e dai benefici della fede.

Il più sconcertante di questi fenomeni, quello che rende più drammatica la desolante situazione della “Nigrizia”, è la storia secondo cui “i Neri non fanno parte della famiglia umana, né sono dotati d’anima umana…”, ma è una razza subordinata e sottomessa ai “bianchi” per cui sorgono sordide connivenze che lasciano sfrenarsi nel continente africano la tratta degli schiavi[11].

La “povertà” della Nigrizia, per tanto, è una povertà in tutte le dimensioni: essa tocca l’ambiente naturale, le anime, i corpi, e il tessuto sociale, causando l’indole avvilita dei neri, “su cui pare che ancora pesi tremendo l’anatema di Cam”. È una povertà che, considerata alla luce di una descrizione del deserto lasciata da don Squaranti, scava un vuoto orribile tutto all’intorno ed in mezzo alla Nigrizia e la rende una viva immagine di un anima abbandonata da Dio![12].

Ma la “via crucis ” di Comboni non si ferma qui. Nella sua attività missionaria ha incontrato tribolazioni di ogni genere anche all’interno della stessa comunità ecclesiale: incomprensioni, calunnie, il disinteresse dei più per la missione, l’abbandono di tanti che avevano molto promesso e poco mantenuto, la mancanza di mezzi e la morte prematura dei collaboratori più cari.

Tuttavia, né il buio che avvolge “la Nigrizia” né le altre difficoltà riescono a spegnere in lui il senso della gioia e della lode a Dio, tipico dei “poveri in spirito”. La meravigliosa aurora del deserto che imporpora come un incendio d’oro il cielo, i monti e il piano; il sole che puntualmente si alza maestoso, continuano a essere nell’animo di Comboni simbolo della presenza provvidente di Dio in tutti i luoghi, anche nel regno della morte[13].

E nel regno della morte Dio entra per mezzo di Gesù Crocifisso. Sul Calvario, la Croce diventa strumento e segno perenne dell’amore salvifico che eternamente sgorga dal cuore del Padre. Gesù, Agnello immacolato sulla Croce, proprio mentre è oggetto della nostra violenza, assume su di sé il male del mondo, ed è la vera rivelazione del volto di Dio, a cui l’umanità ferita può tornare per vivere. L’uccisione del Figlio di Dio, infatti, costituisce l’apice del male e nello stesso tempo la fine di esso, sia perché non può andare oltre, sia perché, dando la vita per noi, Gesù manifesta chiaramente chi è Dio: amore infinito per noi. Per questo Gesù innalzato sulla Croce è la vittoria definitiva della luce sulla tenebra (cf Gv 3, 16).

Da questo sguardo contemplativo su Gesù Crocifisso, nasce nel cuore di Comboni l’Inno alla Croce (1877), che suggella la sua nomina (1872) come Pro-vicario della difficile e scabrosa Missione dell’Africa Centrale, da lui assunta e vissuta come mistico sposalizio con quella “Croce che ha la forza di trasformare l’Africa Centrale in terra di benedizione e di salute”, e che è l’esplicitazione di una riflessione e di un’esperienza vissuta da lui lungo l’arco della vita.

Quest’Inno che risuonava continuamente nel suo spirito, Comboni lo mise per iscritto nella relazione della Missione alla Società di Colonia del 1877:

Il Salvatore del mondo
compì le sue meravigliose conquiste di anime
con la forza di questa Croce,
che atterrò il paganesimo,
rovesciò i templi profani,
sconvolse le potenze dell'inferno,
e divenne altare non di un unico tempio,
ma altare di tutto il mondo.

Questa Croce,
che prese il suo volo dall'alto del Golgota
e che riempì l'universo della sua potenza,
nei templi le fu prestata adorazione;
nelle città reali la più grande venerazione;
viene rispettata come distintivo sulle bandiere
ed invocata sugli alberi maestosi delle navi.
Essa diede alla fronte sacerdotale la consacrazione,
e a quella dei monarchi una sacra incoronazione.
Sul petto degli eroi comunicò entusiasmo.
Terra, mare e cielo riconoscono la Croce
e dovunque le si rende onore.

Fra i dolori e le spine
è sorta e cresciuta l'opera della Redenzione
e per questa essa mostra uno sviluppo mirabile
e un futuro consolante e felice.

La Croce ha la forza di trasformare l'Africa Centrale
in terra di benedizione e di salute.
Da essa scaturisce una forza,
che è dolce e che non uccide,
che rinnova e discende sulle anime
come una rugiada ristoratrice;
da essa scaturisce una grande potenza
perché il Nazzareno, sollevato sull'albero della Croce,
tesa una mano all'Oriente e l'altra all'Occidente,
raccolse i suoi eletti da tutto il mondo
nel seno della Chiesa;
e con le sue mani trafitte, come un altro Sansone,
scosse le colonne del tempio,
dove da tanti secoli si prestava adorazione al potere del male.

Su queste rovine
Egli inalberò la Croce, operatrice di meraviglie,
che tutto attrasse a sé:
Quando sarò elevato da terra, attirerò tutte le cose a me”.
(S 4973-4975).

4. 4. Un Inno alla Croce cantato con la vita fino alla fine [14]

Fermo nella fede e saldo nella fedeltà dei “poveri in spirito”, Daniele Comboni visse una vita profondamente segnata dal Mistero della Croce; una Croce accettata, cercata e soprattutto amata, conseguenza della certezza della sua vocazione, che ha temprato il suo carattere, lo ha educato alla santità e ha plasmato il suo esuberante zelo missionario e lo ha portato a realizzare il più felice dei suoi giorni, quello in cui consegnò definitivamente la sua vita alla causa della Nigrizia. In effetti, gli ultimi venti mesi della vita di Comboni (1880-1881) sono stati in modo particolare umanamente tragici e soprannaturalmente quelli della piena maturazione della sua povertà nello spirito fino all’identificazione con Cristo Crocifisso. La frase di S. Paolo - “Crocifisso con Cristo sulla Croce” - s'addice perfettamente all'ultimo periodo della sua vita, consumata sulla breccia in un lento e sempre più martoriato olocausto, che lo rende tanto simile al Crocifisso del Golgota. Paolo, crocifisso con Cristo e partecipe della sua morte, gioiva nella visione della vittoria finale: partecipe della morte di Cristo, lo sarà poi della sua consolazione e risurrezione. Comboni, dopo aver fatto sua la “filosofia della Croce” (S 2326), vedendo in essa la sua “sposa per sempre” (S 1710), dopo averne profondamente sentito il peso, mentre intorno a sé vi è il buio e l’isolamento morale più assoluto, proferisce parole toccanti che testimoniano l'autenticità del suo apostolico eroismo, fondato su una fede pura e su un amore ardente per l'Africa da salvare. E il tutto si apre verso una speranza che si fa quasi certezza: egli soffre e muore, ma l'Africa si salverà.

Le ultime parole che scrive sono parole che nascono da una forte visone di fede nella Croce che redime; sono parole che si illuminano nella luce completa del Mistero Pasquale. In una delle lettere con la data più vicina alla sua morte, scritta il 4 ottobre 1881, Comboni termina presentandosi pervaso come Paolo dalla forza e dalla gioia, che sono frutti della Croce abbracciata con amore:

Che avvenga pure tutto quello che Dio vorrà: Dio non abbandona mai chi in lui confida… Io sono felice nella Croce, che portata volentieri per amore di Dio genera il trionfo e la vita eterna” (S 7246).

Così Comboni si trova ad affrontare la morte, certamente affrettata dalle molte tribolazioni, “pieno di croci da capo a fondo”, solo, abbandonato anche dai suoi, come Gesù sul Calvario; ma le sue parole finali esprimono una fortezza che non cede, anche di fronte alla morte:

“Abbiate coraggio; abbiate coraggio in quest’ora dura, e più ancora per l’avvenire. Non desistete, non rinunciate mai. Affrontate senza paura qualunque bufera. Non temete. Io muoio, ma l’opera non morirà ”.

È la professione di fede “dei poveri in spirito”!
P. Carmelo Casile MCCJ


[1] Lettera Apostolica del Santo Padre Francesco a tutti i consacrati in occasione dell'Anno della Vita Consacrata, 28.11.2014.

[2] Cf Is 40?45; 43, 14; 44, 6.7.24; 47, 4; Ger 50, 34.

[3] Roberto Marozzo Della Rocca, Primero Dios. Vita di Oscar Romero, Mondadori, p. 342.

[4] S 111-113.

[5] Cf. S 642; 981-982; 4680.

[6] Cf Ester Abbattista, Le Beatitudini: un nuovo senso della storia, 1996, soprattutto pp. 87-111.

[7] Daniele Comboni, A servizio della missione, 10 Col sigillo della Croce, pp. 278-233; torna sopra al n. 1 di questa riflessione.

[8] Scritti 149; 242-246; 4549; 4947.

[9] Cf. Contemplazione della vita del Re Eterno, proposta da Sant’Ignazio all’inizio della IIª Settimana degli EE.

[10] Lettera al padre dalla tribù dei Kich, 20 novembre 1858, S 420- 422; 424-425.

[11] Cf Carte per l’evangelizzazione dell’Africa, p. 157.

[12] Cf Carte per l’evangelizzazione dell’Africa, p. 156.

[13] Cf Il Messaggio di Daniele Comboni, p. 103.

[14] Cf P. Pietro Gasparotto, A scuola dal beato Daniele Comboni, p. 239ss.