In Pace Christi

Manfroni Dante

Manfroni Dante
Fecha de nacimiento : 05/03/1917
Lugar de nacimiento : Gubbio/I
Votos temporales : 07/10/1935
Votos perpetuos : 09/06/1940
Fecha de ordenación : 29/06/1945
Fecha de fallecimiento : 23/05/1978
Lugar de fallecimiento : Verona/I

«Secondo me, p. Manfroni non è un uomo ordinario; e forse si erra non poco giudicandolo (come neces­sariamente si fa) secondo le norme comuni. Ha grandi virtù, stoffa da Santo; insieme ai difetti di certi grandi Santi, registrati se non nelle loro vite, nei libri di storia. Leggo Padre Pro: p. Manfroni, credo, potreb­be imitarlo benissimo nella sua vita, e morire come lui! Pietà, carità ge­nerosa, sacrificio; amore di Dio, del­le anime; alla Madonna, ecc. - in grado eminente. I suoi difetti: te­sta dura anziché no; disordinato, non cura bene la roba. Non misu­rato nelle parole: esse esprimono più quello che gli bolle in mente, che quello che è, la realtà. Le sue affermazioni risultano perciò spesso errate: chi non lo conosce direbbe false. Troppo impulsivo: potrebbe commettere imprudenze...».

Così scriveva nell'aprile 1950 il Superiore della missione di Dem Zubeir (Sudan), dove p. Manfroni si trovava da tre anni. È un chiaro­scuro in cui si intravede un abbozzo del suo carattere.

Dante Manfroni di Camporeggiano, presso Gubbio, ha 23 anni e fre­quenta la terza liceo nel Pontificio Seminario Regionale Umbro di As­sisi, quando nel marzo 1940 espri­me il desiderio di farsi comboniano. «Una bella vocazione missionaria»: lo raccomanda Don Isotti, Direttore Spirituale   del Seminario; e Mons. Ubaldi, Vescovo di Gubbio, ag­giunge: «È un buon elemento e farà buona riuscita».

La prima "imprudenza"

Ma la mamma (58 anni) si op­pone con tutti i mezzi, il padre (72 anni) un po' meno, il fratello e le sorelle tutti avversi. «Allora – scrive il giovane aspirante a p. Antonio Tede­sco, Maestro dei  Novizi a Venegono - dovrò partire non soltanto solo e poco provvisto, ma senza il bacio della mamma; sia tutto per il bene delle povere anime che ancora non conoscono Gesù, e la Mamma del cielo mi ridonerà il mancato bacio della mamma terrena. Gesù saprà trovare il modo di dare ai miei genitori quell'aiuto che avrei dovuto dare io». E ancora: «Nonostante tut­te le avversità venutemi dai Geni­tori e da tutti i parenti, mi trovo in una calma ed in una serenità mai provate. Sento il dolore di lasciare i   genitori adorati, tutti, perfino le cose che forse appena una volta mi vennero vicino, eppure tutto contem­poraneamente mi invita a partire».

Ed ecco la prima delle tante "imprudenze" che p. Manfroni è sta­to capace di commettere nella sua vita. «Ho pensato di recarmi prima per alcuni giorni al mio Seminario Regionale di Assisi e da lì prendere il volo per Venegono... alla famiglia farò sapere tutto quando già sono a posto; un'altra scappatoia migliore non siamo riusciti a trovarla».

E così, senza tentennamenti né compromessi, a piedi e con mezzi di fortuna, lascia la sua bella Umbria ed entra in noviziato a Venegono. Lo raggiungono le lettere della mam­ma che, spinta dal dolore della se­parazione, ricorre a minacce e paro­le forti; ma lui «mantenendosi sem­pre uguale di spirito e santamente allegro, si rassoda nella convinzione e comprensione della sua vocazione» (p. Todesco). Fa la sua consacrazio­ne a Dio per le missioni il 7 otto­bre 1942 e prende il nome di Gio­vanni, «l'apostolo prediletto dal Cuo­re di Gesù che ha avuto cura della Madonna». (In Uganda tutti lo co­noscevano col nome di Padre John).

Nel Bahr el Ghazal

Ordinato sacerdote nel 1945, pas­sa un anno come economo nella Scuola Apostolica dì Carraia. Nel­l'aprile 1947 raggiunge la lontana missione di Dem Zubeir nel Bahr el Ghazal, una delle più dure missioni dell'Africa. La missione è un mo­saico di tribù (Banda, Eviri, Shatt, Sopo, Zoke...); c'è la difficoltà delle lingue e delle distanze, senza ade­guati mezzi di comunicazione. L'at­tività diventa febbrile. Ci sono 300 catecumeni da istruire; le scuole da sorvegliare; 167 scuolette di villag­gio e cappelle da visitare, altre da costruire. C'è un gruppetto di vecchi che iniziano l'istruzione, un grup­petto di giovani, «ma quanta fatica ci costò il radunarci, il tenerli!». «L'opera - si legge nel diario della missione riportato nel BOLLETTI­NO della Congregazione - costa la­crime e sudori di sangue! Umana­mente si fece quel che si poté, ma i risultati sono scarsissimi, specialmen­te tra le donne».

«20 giugno 1950: p. Manfroni par­te per il Colonial Course, Londra. Dal 1948 fu in carica delle scuole che, colla sua grande energia, cercò di sviluppare al massimo». E più avanti: «Il 26 luglio fu solennemen­te inaugurata la cappella di Khor Silik, che costò molte fatiche a fr. Perrella e non poche a p. Manfroni e troppo poche ai Bviri. Sarà spe­riamo un nuovo faro di luce fra queste tribù».

Nel febbraio 1952, p. Manfroni ritorna a Dem Zubeir ed è di nuovo incaricato delle scuole. «Nel Sudan, la parte strategica dell'attività no­stra va ora per le scuole, sia nel senso materiale (fabbriche, mai fini­te), sia morale. È del resto questio­ne vitalissima. Dal canto nostro facciamo ogni sforzo, pur sapendo che chi dà la vita la vittoria sta lassù».

Qualche anno prima p. Capovilla, raccomandando lo Scolastico Manfro­ni per l'ordinazione, scriveva di lui: «La buona volontà e la docilità di cui è animato lo aiuteranno a mo­derare lo zelo e l'attività forse ec­cessiva». Non pare che tale speranza si sia mai avverata: forse il buon p. Capovilla aveva fatto troppo affi­damento sulla "docilità" del giovane Manfroni e non s'era accorto che "buona volontà" per lui significava zelo instancabile, entusiasmo travol­gente, dedizione illimitata fino al sa­crificio di sé. Ne andò di mezzo, naturalmente, la sua salute, e nel marzo 1953 dovette essere trasferito a Mboro dove aveva la possibilità di vivere in condizioni meno disagiate e ricevere più cure. Ma neppure questo giovò; e venne «il giorno più grigio della mia vita, il 5 settem­bre 1954, quando - vinto dall'ul­cera, solo - mi sentii strappare al mio Sudan e dal "Fatima" portato lontano sulle acque del Giur». Do­vette rimpatriare.

In Uganda

Dopo le più urgenti cure del caso, è di nuovo al lavoro come economo e propagandista prima a Brescia e poi a Carraia. «In cinque anni - egli scrive - i bravi chirurgici italiani (doppiamente bravi - diciamo noi - perché dovettero lottare non solo con­tro l'ulcera ma anche contro la sua insofferenza di riposo) riuscirono a mettermi in ordine lo stomaco fino a farmi risentire giovane. Allora mi si aprì innanzi l'Uganda... sette anni a Nyapea («Qui tutto è più agevole, ma anche più impegnativo...) ed al­trettanti ad Angal («qui c'è il "super-lavoro"»). Sono le due mis­sioni più importanti degli Alur: mes­se enormi di cattolici, di catecumeni, di scolari. Chiese strapiene tutte le domeniche: Azione Cattolica ben or­ganizzata; movimenti giovanili (Xavierians) in pieno sviluppo. C'è il fervore della nuova diocesi di Arua, l'entusiasmo della canonizzazione dei Martiri Ugandesi; l'euforia dell'indi­pendenza; l'avvio dei consigli par­rocchiali, la responsabilizzazione dei laici nel lavoro pastorale e ammini­strativo, la formazione dei catechisti scelti, il rinnovamento della catechesi e del catecumenato, la nuova liturgia e l'introduzione in essa di elementi indigeni coi nuovi gruppi di cantori, di chierichetti; c'è l'impulso alle vo­cazioni...

Padre John è dentro in tutte que­ste cose e con la sua Gilera corre dovunque: visite ai catecumenati e alle cappelle per la Messa, Batte­simi, Matrimoni, raduni delle as­sociazioni, sacramenti ai moribondi... Organizza aiuti ai poveri (e qui è doveroso un tributo di riconoscenza e di suffragio a Don Berardi della "VOCE" per gli immensi aiuti man­dati a p. Manfroni e a tanti altri Comboniani). È fermo solo in chiesa per la sua preghiera personale, ogni mattina prima degli altri, e al po­meriggio quando gli bastano - dice - alcuni minuti di siesta. È questo anche il tempo che spesso dedica all'assistenza spirituale delle Suore al confessionale o alla loro istruzione religiosa per aiutarle ad aggior­narsi al Concilio Vaticano II. Ad Angal c'è anche l'ospedale: oltre che rispondere prontamente alle chia­mate urgenti, egli non manca di fare la visita quotidiana agli ammalati e recitare con loro il Rosario vesper­tino.

Le vittorie di Maria

I confratelli, preoccupati per la sua salute precaria, gli raccomandano di ridurre le sue attività; egli risponde con un sorriso e va avanti come pri­ma. Nel suo lavoro non esistono osta­coli; se si presentano difficoltà, le supera senza spendere tante parole, deciso di raggiungere lo scopo. La sua pietà che rasenta il misticismo (misticismo umbro, ma non con la dolcezza assisiate, bensì con l'asperi­tà forte, scabra, dell'eugubino), vis­suta seriamente, giorno per giorno, l'ha sempre sostenuto. Raramente le prove della vita gli tolsero la sere­nità del volto, l'entusiasmo e la fi­ducia. In tutta la sua vita ha dimo­strato di credere veramente a quanto aveva scritto a p. Todesco nel luglio 1940 quando stava ancora lottando per realizzare la sua vocazione: «Sensibilmente il Cuore di Gesù, pian piano, incendia tutti gli ostacoli e la Vergine Santa è sempre la Regi­na delle vittorie».

«Vittorie di Maria», egli diceva, erano le conversioni inaspettate an­che se tanto desiderate, come quella del capo di Nyaravur il 7 maggio 1972, e i successi nell'apostolato, co­me quello delle Peregrinatio Mariae del 1973: «La Madonna si è fermata in 63 villaggi; 22.000 persone sono venute a farsi rinnovare dalla Mam­ma celeste: veri i miracoli di conver­sione». Ma c'era anche la sua parte in questi miracoli. «Tutti, e special­mente quelli che ci sembrano più restii, quelli che ci martirizzano di più, senza che loro lo percepiscano, sono i più affamati della vita di Dio. La vita di Dio non si dà con le pa­role, ma vivendola per donarla ai fratelli. Questa è la nostra vocazio­ne... Le anime si salvano con la pre­dicazione e l'immolazione».

E venne l'ora dell'immolazione, ini­ziata con l'improvvisa, immotivata, espulsione dall'Uganda per ordine del governo di Amin il 29 giugno 1975. Quanto sia costata a p. Manfroni quell'espulsione penso che solo Dio lo sappia; a noi egli nascose sempre il suo dolore col suo volto sereno e con le sue risate raccontando la sua avventura come se fosse tutto uno scherzo.

Nonostante che la malattia già mi­nasse fortemente la sua resistenza fisica, il suo entusiasmo missionario non fu per nulla scosso. Lo sanno bene i confratelli e i postulanti di Firenze, e i sacerdoti e i fedeli del­le chiese di Firenze, Prato, Fiesole, Arezzo, Siena, Perugia, Gubbio, che ne furono contagiati.

Notti apostoliche

Se questa è un po' l'esistenza di ogni missionario, è però straordinario il modo in cui p. Manfroni ha vis­suto la sua malattia e affrontato la sua morte, offerta al Padre come suo supremo atto d'amore e di abbando­no filiale. E noi vogliamo darne te­stimonianza, a lode del Signore, per­ché è il messaggio più bello che la sua vita ci ha lasciato.

Nella Pasqua del 1977 è ricovera­to d'urgenza all'ospedale della Ss. Annunziata di Firenze; l'operazione dura 7 ore, gli viene asportata gran parte dello stomaco e intestino; la sua vita resta sospesa a un filo per parecchi giorni. In una registrazione fatta per obbedienza poche settimane prima della sua morte, il Padre così ricorda quel periodo: «Nell'immobi­lità del letto e nel silenzio, viene il Signore e mi dice, "non ti preoccu­pare; correvi troppo, ora potrò dirti tutto". Posso solo ascoltare Gesù... Devo dirlo a Gesù, "sei pienamente libero di fare tutto quello che vuoi sul mio corpo: con il mio voto di castità l'ho dato tutto a te"».

Vorrebbe chiedere la grazia di gua­rire, di tornare al suo lavoro di ani­mazione missionaria, ma si scusa con Gesù d'aver dato ascolto alla tenta­zione: «C'è Lui, io non devo preoc­cuparmi... Lo sa Lui ciò che mi è necessario... trovai la pace». Nella convalescenza fra i suoi cari, in Um­bria, passa tante ore di adorazione.

Nel settembre 1977, nonostante la debolezza fisica, riprende i suoi giri di animazione missionaria. Al Vesco­vo di Gubbio, Mons. Pagani, mani­festa i suoi progetti: non solo la sua diocesi, ma tutta l'Umbria sarà il suo campo d'azione.

Ma in novembre deve essere nuo­vamente ricoverato. Di quel periodo dirà: «Immobilizzato, riprende più intimo il colloquio con Gesù... Ora Gesù non è più dietro, ma davanti a me... mi dà luce piena sulla vita religiosa, cresce l'intimità con Lui, e dura tutto il giorno e continua la notte... Giorni e notti belle, apostoliche!».

Gli è concesso di tornare nella co­munità di Firenze a celebrare il Na­tale, ma il 30 dicembre deve essere ancora una volta ricoverato d'urgen­za. «E qui Gesù mi stacca da tutto e da tutti... Saluto, converso, ma è solo lavoro esterno, io sono dentro con Gesù... ascolto solo Gesù, e in­comincia una vita nuova. La morte non esiste più...».

La "super-grazia"

Viene trasportato al Centro Assi­stenza Ammalati della Casa Madre a Verona. Il 3 febbraio il Padre Su­periore, p. Farè, gli comunica la na­tura del suo male: si tratta di can­cro con metastasi già avanzata nei vari organi interni. La sua reazione fu di vivissima gioia. Strinse forte­mente la mano di p. Fare in segno di gratitudine e disse: «Questo è il giorno più bello della mia vita. Questa malattia è un dono di Dio, una "super grazia"».

Chiede che gli venga amministra­to il Sacramento degli Infermi e che questo avvenga in una solenne con­celebrazione e manda alle varie case d'Italia l'invito a unirsi spiritualmen­te a tale concelebrazione, lunedì 6 febbraio. Scrive al Padre Generale, al Vescovo di Gubbio, a vari confratelli per dare loro la "bella notizia" e comunicare la sua gioia «che cresce ogni giorno». «L'annuncio della ma­lattia mi ha subito trasportato nelle meraviglie del Soprannaturale, mi mette alla presenza continua con Ge­sù, mi fa vedere e compiere tutte le azioni alla luce dì Dio. I dolori ci sono, continui e forti, ma avverto che sono quelli di Gesù che mi chie­de di viverli assieme a me». Al Pa­dre Generale chiede che tutta la Famiglia Comboniana ringrazi con lui «il Signore per il bene immenso che mi dà perché diventi bene pieno an­che per tutti i confratelli»; «tutti sento di amarli con l'amore di Ge­sù». E raccomanda: «Quando il Si­gnore fa il grande dono del cancro, fatelo sapere subito al Confratello». E ai medici che l'avevano operato e assistito a Firenze: «Se lei e tutti aveste conosciuto il bene immenso che la notizia e più il persistere del­la malattia mi sta portando, avreste fatto a gara a dirmi tutto... Il demo­nio ha saputo ingannare tutti facen­do chiamare questa malattia brutta, mentre è la più efficace per prepa­rarci alla vera vita del cielo».

"Come muore un santo"

La sera del 6 febbraio egli pre­siedette alla Concelebrazione eucari­stica davanti a tutta la comunità. Volle che i canti esprimessero gioia e speranza, poi volle con tanta umil­tà fare la sua confessione pubblica, perché «le infedeltà a Te, Signore, sono state anche infedeltà alla ca­rissima Congregazione». Fu un vero inno di ringraziamento a Dio e di esaltazione della vocazione e dei tre voti religiosi, considerati come un dono eccelso di Dio. Ricevette quindi l'assoluzione e il Sacramento degli Infermi da p. Fare, con grande edi­ficazione di tutti i presenti.

Seguirono più di tre mesi di lenta e dolorosa agonia. Sentendo morire nel suo corpo ogni residuo di vita, aveva ancora la forza di scrivere: «Il dolore diventa il dolce scalpel­lare di Gesù che vuole modellare in noi la sua immagine perfetta, e con gioia si segue il Suo lavoro, pregu­stando la vita del cielo». I confratel­li, gli infermieri e tante persone, sa­cerdoti, religiose e laici, specialmente giovani, che hanno potuto avvicinar­lo durante quel periodo, meravigliati ed edificati dalla sua gioia e serenità inalterabile, sono concordi nell'affermare di «aver visto come muore un santo».

«Negli ultimi giorni della sua vita - racconta p. Fare - mi diede il suo crocifisso dei Voti, dicendomi: «Que­sto me lo ha dato la Congregazione come pegno della mia consacrazione quando ho fatto i voti. Mi pare di es­sere stato fedele alla mia vocazione. Ora lo lascio a Lei, come superiore che mi rappresenta la Congregazio­ne, chiedendo perdono di tutte le infedeltà».

Si spense serenamente il 23 mag­gio, assistito dalla sorella e dai con­fratelli. I funerali si svolsero nella cappella della Casa Madre di Vero­na il 24 maggio e il 25 a Umbertide (Perugia) con la partecipazione del Vescovo Mons. Pagani (venuto appositamente da Roma dove parte­cipava al raduno della CEI), di nu­merosi sacerdoti diocesani e confra­telli e di una folla di popolo. La sal­ma fu sepolta nel cimitero di Umbertide.

Da Bollettino n. 122, ottobre 1978, pp. 75-80