Martedì 2 settembre 2025
La pace non si costruisce solo nei palazzi del potere politico e finanziario, tra i fumi dei sigari e il fruscio dei trattati. La pace si difende, o si perde, nei campi arsi dal sole, nei fiumi prosciugati dalla siccità, nelle foreste bruciate dall’avidità e dall’egoismo. Siamo spesso portati a pensare che la guerra sia una questione di confini e ideologie, ma la verità è che il suo innesco si nasconde sempre più spesso nella terra che calpestiamo.
Prendersi cura del Creato non è quindi una questione squisitamente ecologica ma anche e soprattutto il primo, cruciale atto di giustizia e di pace. Perché quando la Terra soffre, i popoli decidono di combattersi.
I numeri parlano chiaro e non lasciano spazio a dubbi. Il Programma delle Nazioni Unite per l'Ambiente UNEP ha messo in luce come il 40% dei conflitti interni degli ultimi sessant’anni sia indissolubilmente legato allo sfruttamento iniquo delle risorse naturali. E non si tratta solo di petrolio o diamanti, ma anche di beni essenziali come l’acqua e la terra fertile, che diventano sempre più spesso oggetto di una competizione spietata per la sopravvivenza.
In questo quadro drammatico, il cambiamento climatico agisce come un “moltiplicatore di rischio”, una bomba ad orologeria che amplifica le tensioni e accelera il ricorso alla violenza. L'IPCC — Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite — avverte che già oggi nel mondo oltre 3 miliardi di persone vivono in contesti di estrema vulnerabilità. La siccità, le inondazioni e l'innalzamento dei mari non sono semplici fenomeni meteorologici: ma cause di disperazione e di fuga.
La Banca Mondiale stima che entro il 2050, il pianeta potrebbe contare fino a 216 milioni di migranti climatici. Persone costrette ad abbandonare le proprie case per cercare rifugio altrove, creando nuove pressioni e potenziali conflitti in numerose aree del pianeta.
La storia ce lo insegna chiaramente. Pensiamo alla guerra civile in Siria. Un conflitto dalla complessità importante che però ha avuto come innesco una catastrofe ambientale. Tra il 2006 e il 2010, infatti, il Paese ha dovuto affrontare una siccità devastante. La terra dei campi agricoli si è trasformata in polvere, il bestiame è morto, e migliaia di agricoltori, impoveriti e disperati, sono fuggiti verso le città, alimentando in modo decisivo quel malcontento sociale sul quale è poi esploso il conflitto.
E come non menzionare le perenni tensioni tra Turchia, Siria e Iraq per il controllo delle acque del Tigri e dell'Eufrate? Un drammatico esempio di come la stessa risorsa vitale che ha reso la Mesopotamia culla della civiltà possa facilmente diventare arma e miccia di guerra.
Ma come la competizione per le risorse naturali può essere causa di conflitti, così la cooperazione per la loro gestione sostenibile può diventare leva potente per la riconciliazione e la pace. Quando le risorse naturali sono gestite in modo sostenibile e collaborativo, infatti, si gettano basi straordinarie per la costruzione di un futuro armonico duraturo. Studi fatti dall’UNEP dimostrano che la gestione congiunta di bacini idrici transfrontalieri può ridurre le tensioni e favorire la cooperazione. Molti esempi in questo campo ce li ha offerti la Convenzione sull'Acqua dell’UNECE — Commissione economica per l’Europa delle Nazioni Unite — la quale ha promosso accordi in tutto il mondo per la gestione di fiumi e laghi condivisi. La necessità di affrontare problemi tecnici, come la qualità dell’acqua o la prevenzione delle inondazioni, ha costretto molti Stati a sedersi allo stesso tavolo, a comunicare per trovare soluzioni comuni, trasformando le aree più a rischio di conflitto in zone di luminosa cooperazione.
Un caso particolarmente virtuoso è rappresentato dalla collaborazione tra i Paesi del bacino del Congo. In un'area di storica instabilità, la protezione della seconda foresta pluviale più grande del mondo è diventata motivo di dialogo. La gestione congiunta delle aree protette ha dimostrato che anche in contesti difficili è possibile lavorare insieme per un obiettivo comune che va oltre i confini e gli interessi di parte.
E così si è assistito al miracolo di una competizione trasformata in cooperazione, di una risorsa contesa diventata “bene comune” intorno al quale costruire la pace, mattone dopo mattone.
Ma come rendete tutto questo realtà nelle tante aree del mondo oggi rese instabili da contese ambientali? Il cammino certamente non è facile perché richiede due azioni parallele di grande portata. A livello globale, i governi devono abbandonare le logiche predatorie che guidano i mercati e stabilire quella giustizia ambientale che è precondizione per la pace: non ci potrà essere stabilità e sicurezza fino a quando solo alcuni si arricchiscono distruggendo l'ambiente, mentre tutti gli altri ne subiscono le gravissime conseguenze.
A livello individuale, il cambiamento deve coinvolgere ogni singolo cittadino. Il vero cambiamento infatti parte solo da noi. Ogni nostra scelta quotidiana, dal consumo consapevole alla riduzione degli sprechi, è un piccolo ma essenziale mattone che contribuisce alla costruzione di un edificio più grande. Non si tratta di semplici doveri, ma di atti di profonda consapevolezza: il nostro benessere è legato a quello del pianeta e, di conseguenza, a quello degli altri.
La transizione verso un’ecologia di pace non è dunque cosa facile, ciò non di meno le buone pratiche internazionali dimostrano che è una cosa possibile. Non siamo allora davanti ad una utopia ambientalista bensì all’urgenza di guardare al Creato con un nuovo spirito di complicità, che ci veda tutti alleati nel perseguimento del bene comune. Come affermò il premio Nobel Albert Schweitzer — teologo, musicista e medico missionario tedesco —: «Finché non estenderemo il nostro cerchio di compassione a tutte le creature viventi, l'umanità non troverà la pace».
Si tratta allora di riscoprire il più antico comandamento della Bibbia con il quale il Creatore ci affida la custodia della Sua creazione per un’alleanza fondata sulla giustizia. Quella stessa alleanza della quale si fece mirabile portavoce Isaia (32) affermando che: «… sarà infuso uno Spirito dall’alto, allora il deserto diventerà un giardino e la giustizia regnerà nel giardino, e frutto della giustizia sarà la pace».
Pierluigi Sassi – L’Osservatore Romano