P. Ivo Ciccacci racconta il giorno dell’espulsione dal Sud Sudan

Immagine

Giovedì 13 marzo 2014
Nelle ultime giornate che precedettero l’espulsione delle missionarie e missionari comboniani dal Sud Sudan P. Ivo Ciccacci (nella foto) scrisse un diario. Cinquant’anni dopo, pubblichiamo il testo che il missionario comboniano scrisse il giorno della partenza: 6 marzo 1964, raccogliendo tutta la carica umana contenuta nelle sue parole. “Tra i partenti – scrisse P. Ivo – c’è anche suor Ines, quasi agonizzante. Lascia il Sudan dopo 33 anni di vita missionaria. Non si lamenta. Sorride. Domani morirà a Khartoum: la goccia più preziosa del calice”.

 

Testo del diario
di P. Ivo Ciccacci

6 marzo 1964: l’addio.

Stiamo per lasciare Wau per Khartoum, in aereo.
Siamo circondati da ufficiali e poliziotti. Attorno al campo d’aviazione vigilano i soldati del governo. Nessun civile può accostarsi a noi. Cristiani e pagani, sfidando spie e polizia, ci hanno espresso il loro affetto. Ma la stampa del governo dirà che la popolazione ha accolto con gioia la notizia della nostra espulsione.

Tra i partenti c’è anche suor Ines, quasi agonizzante. Lascia il Sudan dopo 33 anni di vita missionaria. Non si lamenta. Sorride. Domani morirà a Khartoum: la goccia più preziosa del calice.

L’aereo ci attende. Gli ufficiali sono soddisfatti. Stanno schiacciando la minoranza nera e noi siamo cattivi testimoni. Non hanno capito niente dell’anima dei nostri neri.

L’ufficiale ordina di avvicinarci. Ha un foglio in mano, coi nostri nomi. Dice di far presto. Pesta i piedi ed alza la voce. Faccia pure. Noi ci inginocchiamo nella polvere: mons. Ireneo Dud, nostro vescovo, alza la mano e ci benedice. Piange. E’ un nero, ma è nostro capo e nostro padre. Il problema delle razze lo abbiamo risolto da un pezzo, noi. Essi no. Ci guardano ora senza capirci. L’ufficiale che tiene in mano la lista dei nostri nomi si è calmato.

Il vescovo ci abbraccia.
Ci allontaniamo.
E lui rimane lì, solo.
Dovrà badare a mezzo milioni di battezzati, a centinaia di seminaristi, ai malati, ai vecchi, ai bambini e ai lebbrosi.
Custodiremo nel cuore il suo ultimo sguardo, assieme al pianto della giovane comunità cristiana, smarrita, indifesa, in balia del nemico.
P. Ivo Ciccacci


L’espulsione delle missionarie
e missionari comboniani
dal Sud Sudan 50 anni fa


Nei primi giorni di marzo di 50 anni fa, nel 1964, circa 300 missionari e missionarie furono cacciati dal Sud Sudan costretti ad abbandonare 58 missioni: buona parte della Chiesa locale.  Di questi 258 erano comboniani.

Per loro fu un colpo durissimo che segnò la loro vita di uomini e donne e di missionari. Non mi intratterrò sui motivi “politici” di quell’espulsione, non in questa occasione. Altri lo hanno fatto e lo faranno meglio di me. Voglio mettere in luce, invece, gli aspetti umani di questa vicenda che mi hanno sempre colpito nei numerosi racconti che in tutti questi anni ho ascoltato da molti protagonisti che  ho avuto la fortuna di conoscere. Aspetti umani intrecciati ad una testimonianza di fede che vale più di mille parole.

Sperare contro ogni speranza fu il sentimento prevalente di questi uomini e donne, una volta superato lo smarrimento iniziale.  Nel momento in cui essi perdevano tutto: le opere realizzate, le comunità di battezzati, il lavoro di tanti anni, in una parola la Chiesa, essi continuavano a sperare. E poi, dalla speranza alla consapevolezza che quella tragedia sarebbe stata una tappa, dolorosa ma pur sempre una tappa.  Cristo non avrebbe permesso che la Sua Chiesa in Sudan sarebbe andata dispersa.


Bisognava ripartire da quei frantumi. Questa consapevolezza non era illusoria. Il suo punto di forza era nella fede delle comunità cristiane locali che si erano formate e nel clero sudanese che cominciava a costituirsi: questi dovevano  prendere in mano le redini della ricostruzione: “salvare l’Africa con l’Africa!”.

Queste convinzioni ho sempre ritrovato nei racconti dei molti missionari che ho incontrato nel corso degli anni e negli scritti, a partire da quelli di P. Ivo Ciccacci. Di tutto ciò sono sempre stato felice perché ho visto riproposta una Chiesa della gente, delle comunità; la Chiesa che trae la sua forza dal Vangelo e vive lo sforzo di incarnarlo nella vita del suo popolo, con esso camminando, anche se il cammino è doloroso. “Io prendo a far causa comune con ognuno di voi e il più felice dei miei giorni sarà quello in cui potrò dare la mia vita per voi”, questa fu del resto la  “bussola” di Comboni nel suo apostolato missionario.

Al momento dell’espulsione di tutti i missionari “stranieri” restavano in tutto il Sudan meridionale un vescovo, Mons. Ireneo Dud (primo vescovo sudanese) e 28 sacerdoti. E come avrebbero potuto fare con le loro sole forze, senza la fede. Forse noi cattolici europei dovremmo fare qualche sforzo di comprensione in più del modo di essere delle Chiese di altri continenti.

Fin da ragazzo, dai primi incontri coi missionari, ho sempre pensato di essere stato fortunato, per averla già trovata  la mia Chiesa, quella dei miei genitori, della mia città. La Chiesa del mio Stato. Altri cristiani di altre parti del mondo, invece, han dovuto costruirla la loro Chiesa, con grandi sacrifici, molte volte a costo della vita. E non è per niente la stessa cosa.


P. Ivo Ciccacci,
in Sud Sudan.

Voglio qui quindi ricordare P. Ivo Ciccacci con grande affetto, con tutti i suoi confratelli e consorelle che vissero il suo stesso dramma con grande dignità e soprattutto con grande fede. Voglio anche ringraziare Dio per il suo insegnamento e per avermi fatto incontrare tanti missionari e missionarie che mi hanno testimoniato che la fede in Gesù Cristo può diventare una realtà concreta da vivere e non un’idea astratta da custodire.

Del momento della partenza da Wau, il compianto P. Valentino Saoncella, all’epoca Superiore Provinciale dei Comboniani, mi donò una foto di tutto il gruppo, scattata da P. Ivo con l’autoscatto. Questa foto che lui “aveva conservato per tanti anni come una reliquia” io custodisco con lo stesso affetto con cui mi fu donata.
Grazie Padre.
Antonio Esposito