Venerdì 29 maggio 2015
È questo, il terzo obiettivo dell’anno della vita consacrata, proposto da Papa Francesco. Nella sua lettera di accompagnamento il Consiglio Generale spiega in che cosa consiste questo obiettivo, per noi comboniani: “essere segni e testimoni di speranza tra i popoli e nelle periferie dove siamo mandati, vivendo con la radicalità della nostra consacrazione religiosa e missionaria”. Mi è stato chiesto di condividere la mia non lunga esperienza e la mia riflessione su questa terza parte: lo sguardo di speranza.
[P. Léonard Ndjadi Ndjate, mccj, nella foto].


Punto di partenza:
esperienza personale di Dio

Nella mia breve esperienza di giovane consacrato (13 anni di voti), missionario comboniano, appare chiaramente che il punto di partenza nel quale si fondano, si sviluppano e si purificano lo sguardo fiducioso e il coraggio della speranza, è l’esperienza di Dio. Quando il contatto con la Parola di Dio, nutrito dall’eucaristia quotidiana, fa nascere in me una vita di preghiera semplice ma vera e profonda, scopro gradualmente che il Padre è la fonte di ogni speranza, che il Figlio ne è la manifestazione più bella e che lo Spirito Santo ne assicura la vitalità e la fecondità. Quando, invece, nella mia vita di consacrato, questa esperienza viene a mancare o si indebolisce, osservo in me un disagio e l’assenza di motivazioni per abbracciare il futuro con fede e libertà. È proprio ciò che afferma il Papa nella sua lettera a tutti i consacrati: “La speranza di cui parliamo non si fonda sui numeri o sulle opere, ma su Colui nel quale abbiamo posto la nostra fiducia e per il quale ‘nulla è impossibile’ (Lc 1,37)”. “È questa – prosegue il Santo Padre – la speranza che non delude e che permetterà alla vita consacrata di continuare a scrivere una grande storia nel futuro”. In poche parole, dalla qualità del mio incontro con la persona di Cristo dipende la grazia di guardare al futuro con fiducia e coraggio.


P. Günther Hofmann,
in Sudafrica.

 

Ciò che la speranza non è

La persona consacrata è chiamata per natura e per vocazione a uscire da sé, a stare di fronte ad una chiamata di conversione permanente. Questa verità comporta una duplice esigenza: essere se stessi ed essere capaci di apertura. Oggi, questo atteggiamento consente di non guardare al futuro come fine prossima di una vita vissuta nella mediocrità e di evitare quella specie di realismo che, basandosi su dati concreti, come “la diminuzione delle vocazioni, l’invecchiamento del personale, le difficoltà di ordine economico, i rapidi cambiamenti sociali, le sfide dell’internazionalità e della globalizzazione, le conseguenze del relativismo, le fragilità dei giovani”, pretende di affermare che non si può più cambiare nulla, che bisogna accettare le cose così come sono. Per noi giovani, questo realismo, in fondo, non è che una forma mascherata di un disfattismo che non condividiamo. Guardare al futuro non vuol dire cercare ciò che la vita consacrata dovrebbe essere per avere un futuro migliore. Farlo, equivarrebbe a mantenere uno stile di vita formale, a volte nostalgico, che può diventare l’istanza critica delle scelte attuali. Si tenderebbe, quindi, a giudicare le scelte operative attuali con i criteri del passato. In questo modo, la via religiosa rischia di diventare una noia mortale e il suo futuro si ridurrebbe a una fotocopia usata del presente, fatta con la metodologia del passato.

Pensare al futuro della via consacrata non vuol dire neanche sviluppare un discorso distaccato o pessimistico né, tantomeno, esibire un entusiasmo ottimistico. La speranza non si ottiene con l’eccesso di prudenza e la volontà di una riorganizzazione perfetta della vita consacrata per “meglio padroneggiare il proprio futuro missionario”. Di per sé, una posizione come questa – pur sempre valida – potrebbe avere un effetto riduttivo sulle possibilità e le novità che lo Spirito suscita oggi. È necessario rischiare con Cristo. L’esperienza ha spesso dimostrato che chi non ha il coraggio di rischiare la propria vita finisce, con l’usura del tempo, per ripetersi e, di conseguenza, si impoverisce. Pretendere, cioè, di scrivere la speranza con questi atteggiamenti finirebbe non solo col legittimare una sana mediocrità, ma soprattutto con l’impedire nuovi impulsi del carisma a rispondere alle sfide attuali della missione. Come giovani, sentiamo la necessità di lasciare un po’ di spazio allo Spirito Santo per riscoprire spazi di libertà e di novità ancora presenti nella vita consacrata e nel carisma comboniano. Le nostre “sicurezze” non ci impediscano di guardare lontano e al largo.


P. Filomeno Ceja,
in Guatemala.

Un po’ di spazio allo Spirito Santo

Nella preghiera per il prossimo Capitolo, invochiamo lo “Spirito santo, sorgente e forza della missione, che ci spinge a condividere la nostra vita perché tutti abbiano vita”. Riconoscerlo così, mi sembra sia un richiamo e una presa di coscienza della sua presenza e della sua azione per rendere credibile la testimonianza dei consacrati. Vuol dire fargli un po’ di posto. Dare spazio allo Spirito significa, in fondo, accogliere la novità del carisma nel contesto attuale. La programmazione e il discernimento in vista della riformulazione delle nostre strutture non devono trascurare gli spazi di libertà in cui lo Spirito fa nascere qualcosa di nuovo, in sintonia con il carisma. Lo Spirito, infatti, ci dà il coraggio di lanciarci nella missione con creatività. Senza nascondere le nostre reali difficoltà, sentiamo l’urgenza di metterci all’ascolto dello Spirito affinché ci conduca verso cantieri nuovi attraverso sentieri nuovi. Siamo convinti che la vita consacrata missionaria non sia lineare. Certe metodologie e certe linee possono e devono muoversi. Il nostro sguardo al futuro, in quanto giovani, non si pone nei termini abituali di ottimismo e pessimismo, perché cerchiamo di vivere la nostra consacrazione come una chiamata ad una conversione viva e permanente. Una chiamata al cambiamento nella fedeltà al Vangelo e al carisma. Non importa se alcuni cambiamenti si presentano come logiche conseguenze di ciò che il presente impone. D’altra parte, è ovvio che altri cambiamenti derivino da decisioni nate dal discernimento da parte dell’Istituto. L’importante è continuare a credere alla forza dello Spirito in ciascuno di noi: giovani, anziani, attivi, ammalati o in difficoltà. E più crediamo in lui, più gli diamo spazio più opera e ci trasforma, ci illumina e ci ispira al fine di risvegliare il mondo testimoniandogli la bontà di Dio. Lo sguardo al futuro passa attraverso l’umiltà di riposizionarci là dove lo Spirito vuole condurci. Questa apertura allo Spirito diventa una testimonianza palpabile se manifestiamo la disponibilità a “mollare la presa”, a “spostarci”. Questo cammino sembra kenotico, ma è liberante. In questa apertura spirituale, il primo passo consiste nell’ascoltare la Parola di Dio per smorzare qualsiasi paura.


Missionari comboniani,
in Brasile.

 

Ascolto della Parola di Dio per smorzare la paura

Vi sono situazioni in cui la paura può far morire prima ancora che arrivi la morte.

In effetti, i problemi e le sfide che si presentano oggi nella vita consacrata fanno sentire la paura davanti al futuro. Perché non solo rendono più complessa la missione ma offuscano anche i motivi di speranza, impedendoci così di guardare al futuro con fede e serenità.
A questi problemi, Benedetto XVI aggiunge l’aumento della violenza, la paura dell’altro, le guerre e i conflitti, gli atteggiamenti razzisti e xenofobi che dominano ancora troppo il mondo delle relazioni umane (AM 12).
Già l’ultimo Capitolo Generale, facendo una diagnosi dei giovani, faceva notare che sono esposti “ai rischi dell’edonismo, del relativismo, del consumismo e del secolarismo. Quindi evitano situazioni complesse, relazioni faticose ed esigenti, e responsabilità a lungo termine. Sono vittime della società in cui vivono”. Di conseguenza si registrano, nella formazione di base, “gli abbandoni, la mediocrità e la fragilità delle motivazioni, l’incoerenza, lo squilibrio tra l’ideale e la vita, che rivelano come la prassi educativa non abbia ancora trovato l’incisività che il processo formativo intendeva ispirare e guidare” (AC ’09, 74,77). Io stesso, lavorando nella pastorale dei giovani, ho potuto notare, oltre a una grande fragilità nel processo di maturazione psicoaffettiva, una pseudo-mentalità basata sulla lotta per l’identità soggettiva, che porta alla mentalità dell’eterna provvisorietà, valorizzando ciò che è effimero e marginale e indebolendo il vero senso di appartenenza. Questo fatto è oggi alla base di un fenomeno presente nella maggior parte dei giovani: la perdita di identificazione in un corpo stabile. Il che, purtroppo, causa una scarsa disponibilità e una mancanza di zelo nell’impegno.

In queste condizioni, come non aver paura del futuro? Il dubbio può sorgere e il realismo deve farci riconoscere quanto questi fatti andranno a pesare, in futuro, sulle scelte della vita consacrata, della missione come pure della formazione che dovrebbe assicurarla. D’altronde, se da una parte queste difficoltà ci causano enormi incertezze di fronte al futuro, d’altra parte è proprio al cuore di queste incertezze che si incarna la nostra speranza. La paura di proiettarsi in un futuro ben diverso da quanto abbiamo vissuto finora, va smorzata e sdrammatizzata attraverso la fiducia nel Signore al quale abbiamo consegnato la nostra vita. Le sue parole ci rassicurano: “Non abbiate paura… Io sono con voi fino alla fine dei tempi” (Ger 1,8; Mt 28,20).

Qui il Signore ci chiama ad avere fiducia in lui. Dalla fiducia che riponiamo in Dio, dipende la nostra vita o la nostra morte. In fondo, è una chiamata alla fede. Se, interiormente, siamo illuminati dalla Parola e dalla sua Persona, possiamo avere uno sguardo sereno e tranquillo sul futuro della vita consacrata. Possiamo ancora osare sperare e amare. Questo sguardo penetrante e il coraggio di sognare una missione bella e affascinante sono ancora possibili. A noi spetta “mollare la presa” e arrenderci alla Parola (At 20,32); affidarci alla Parola e lasciarci condurre da essa, perché è potente e possiede un’energia, è realtà viva e in azione (Eb 4,12).

Quanto più la fiducia nel Signore e nella sua Parola riscaldano il nostro cuore tanto più i nostri passi acquistano sicurezza e noi possiamo guardare al futuro con fiducia e proclamare con Comboni “vedo un futuro felice per la Nigrizia”. Sì, solo la fiducia nel Maestro che chiama (Gv 1,35) è capace di far nascere la speranza in mezzo alle incertezze.


P. Joseph Mumbere,
in Congo.

Il potenziale della gioventù

Nel suo messaggio, il Papa ci suggerisce l’atteggiamento adeguato per smorzare questa paura. Esso consiste nel rimanere “svegli e vigilanti”.

Concretamente, si tratta di uno stile di vita che prevede cura e attenzione a sé stessi, alla propria vita interiore, alla propria salute fisica e mentale, alla propria formazione permanente, alla qualità delle relazioni interpersonali, alla propria maniera di comunicare e di collaborare per offrire alla missione il meglio di noi stessi. Perché la missione non può vivere di briciole. Dalla qualità del nostro legame con Cristo “Luce”, dipende la nostra capacità di risveglio e di vigilanza. In questo slancio di risveglio e vigilanza, la vita consacrata ha bisogno della freschezza e del potenziale dei giovani. Con il dinamismo, la vitalità e la libertà che ci caratterizzano, noi giovani consacrati possiamo offrire un contributo determinante alla missione. Come giovani, portiamo una duplice gioia: la gioia della gioventù e quella della consacrazione. Questa gioia è già un segno di speranza. Un giovane missionario contento è un segno di speranza per la missione. Una gioventù il cui cuore è infiammato di passione missionaria diventa, per la Chiesa e il mondo, un raggio di speranza.

La nostra gioia è incisiva nel presente ma anche decisiva per il futuro, perché ci porta al dono di noi stessi per la missione. È una gioia che crea una sensibilità e una mentalità di flessibilità e di apertura, di amicizia e di cameratismo, di gentilezza e di humour, di coraggio e di spirito di gruppo, di disponibilità e di creatività, di slancio missionario fino al martirio, se necessario. Allora, la mia responsabilità di giovane consacrato è di coltivare questa gioia in modo tale che essa contamini la vita fraterna, le mie relazioni e incontri, la missione e i più poveri. Così, queste parole di Papa Francesco troveranno una vera eco: “Dove ci sono dei consacrati, c’è la gioia”. Tuttavia, il dinamismo tipico dei giovani ha bisogno di un complemento indispensabile: la saggezza dei più anziani.


P. Efrem Agostini (92 anni)
e P. Víctor Alejandro Mejía Domínguez.

 

La saggezza dei più anziani

Nella tradizione africana, gli anziani sono detentori e testimoni della tradizione, ma anche cinghia di trasmissione di quest’ultima. L’esperienza, la saggezza e la testimonianza dei più anziani sono necessarie per educare i giovani a preparare il futuro perché aiutano a commisurare il nostro entusiasmo con la dimensione reale della missione e delle nostre iniziative. Ho avuto la grazia di vivere i miei primi anni di missione accanto ad un confratello più grande. Ho molto ammirato e imparato dalla sua calma, dalla sua saggezza e dalla sua ricca esperienza missionaria. Viveva tutto questo con discrezione. Così, abbiamo reso bella, vivibile, piacevole la nostra vita comunitaria e la nostra presenza missionaria nella parrocchia. La nostra comunità offriva un clima di serenità che faceva bene prima di tutto a noi e poi ai confratelli di passaggio e ai fedeli della parrocchia: “Ecco come si amano”. Questa alleanza fra due generazioni, due mentalità, due culture diverse, ha reso fecondo il nostro servizio missionario. Oggi, ringrazio il Signore per aver messo sulla mia strada quel confratello. Quel cammino non è stato privo di contrasti o di incomprensioni. Lo abbiamo costruito con pazienza, verità e amore. Questo, semplicemente per dire che possiamo rendere bella la nostra vita! La realtà dell’interculturalità, invece di essere un ostacolo, può essere vissuta come dono e strada da percorrere nella pazienza, nella verità e nell’accettazione reciproca. Così, possiamo abbracciare il nostro futuro con speranza. In questa interazione, Papa Francesco invita noi giovani a diventare per primi “protagonisti del dialogo con la generazione che ci precede. Così – osserva il Papa – possiamo elaborare assieme nuovi modi di vivere il Vangelo e rispondere più adeguatamente alle esigenze della testimonianza e dell’annuncio”. La mia modesta esperienza mi fa dire che abbiamo due ostacoli da affrontare.

Due ostacoli

Gli ostacoli a questo dialogo generazionale e a questa alleanza sarebbero lo sperimentalismo e la sindrome della farfalla. In effetti, il primo consiste nel gonfiare la propria esperienza missionaria, presentandola come una vittoria sui pericoli, le sofferenze e la precarietà. Un po’ come il sopravvissuto ad una catastrofe o ad una battaglia, l’eroe. Si racconta la parte più difficile della missione con la conclusione: ho resistito, dunque sono un esperto della missione.

In questo modo la missione è presentata non come un’opera bella, appassionante e affascinante, ma piuttosto come un dramma. L’aver vinto fa del missionario un esperto. E si sente molto dire: ha esperienza della missione! Oppure: il tale è un esperto. Ebbene, a volte dimentichiamo che l’essere esperti poggia sulle forze umane: mezzi a disposizione, calcoli, età, durata, competenza scientifica. Lo sperimentalismo fa dei missionari degli “esperti”, ma non dei testimoni. Lo sperimentalismo raggiunge il suo culmine e diventa un vero e proprio ostacolo alla speranza quando blocca il dinamismo della crescita delle giovani generazioni col pretesto dell’inesperienza. Nelle società africane, questo ostacolo impedisce qualsiasi progresso e rende sterile la comunità, poiché è nemico della novità e di qualsiasi cambiamento. È una malattia che nuoce e mina qualsiasi speranza. È forse presente anche nella vita consacrata?

Il secondo ostacolo è quello che potremmo chiamare l’atteggiamento della “farfalla”. Nasce dalla consapevolezza di aver acquisito l’autonomia necessaria per guidare personalmente la propria vita religiosa, facendo tabula rasa di tutto. Ci fa vivere nell’illusione di essere definitivamente arrivati. Si traduce nel meccanismo di tapparsi le orecchie e provoca una certa ostilità e un rifiuto rispetto alla propria formazione permanente, all’accompagnamento spirituale, alla confessione, all’ascolto della saggezza dei più anziani. Nel difendere ostinatamente l’autonomia e lo sviluppo della persona, questo ostacolo ci fa ignorare la dimensione kenotica e porta al rifiuto della missione difficile, aprendo, a volte, la porta ad una crisi con l’autorità. È uno spirito di pseudo-autosufficienza e di disordine. È un atteggiamento che ci porta a vivere senza un’autentica passione. E raggiunge un livello esplosivo quando contamina la sfera spirituale e sviluppa quindi un’ostilità verso tutto ciò che concerne la vita interiore. Non si vive più la consacrazione, ma si “sfarfalleggia”. Perché? Semplicemente perché il centro unificatore della nostra vita – il rapporto stretto con Gesù Cristo – è venuto meno. Questo ostacolo ci impoverisce umanamente, ma soprattutto spiritualmente, poiché ci priva dell’umiltà e della docilità, due virtù necessarie, delle quali abbiamo bisogno per imparare le gioie segrete della vita consacrata. È un atteggiamento presente anche fra noi? Come superare questi due ostacoli? Indico due modi: la flessibilità e la fedeltà.


P. Fabrizio Colombo,
in Italia.

Flessibilità e fedeltà

In quanto giovani, siamo testimoni della nascita di una nuova epoca. Il mondo cambia, la società è in cammino, le relazioni interpersonali diventano liquide, la mobilità umana si sviluppa sempre di più, la vita si digitalizza e nel mondo si instaura una nuova cultura, complessa, segnata da una pluralità di modalità nel modo di essere e di fare.

Questa mutazione profonda ci porta a rivedere alcune delle nostre certezze. Già l’ultimo Capitolo ci ha prevenuti sul fatto che “L’Istituto comboniano vive una fase di profonda e rapida trasformazione; si arricchisce di nuove nazionalità e culture, ma deve affrontare anche disagi, resistenze al ‘nuovo’ o al ‘passato’; esso sta cambiando volto, diventando una realtà multiculturale sempre più ricca e diversificata, e richiede uno sforzo supplementare per gestire la comunione e garantire la trasmissione e l’inculturazione del carisma” (AC ’09, 3.4).

Questa novità presuppone da parte di tutti una nuova mentalità: la flessibilità. In effetti, la flessibilità, per i giovani, non vuol dire inventare cose nuove, né adattarsi o consumare in maniera acritica i prodotti della modernità. La flessibilità consiste in quella capacità di apertura che permette di confrontarsi e lasciarsi interrogare dalla realtà che emerge. La flessibilità consiste nell’accogliere la novità più che nel respingerla, dialogare con essa piuttosto che ignorarla. Vista dai giovani consacrati, la flessibilità consiste nel ripartire non solo da Cristo ma anche dalla realtà che si offre a noi, che cambia e ci sfida. Se le nostre sicurezze possono renderci insensibili al punto da trascurare l’appuntamento con la realtà, la mentalità della flessibilità, invece, ci porta ad accogliere il bello, il vero e il buono che il Signore ha nascosto nella nuova realtà. Crediamo, dunque, che la realtà, così come si presenta, è portatrice di un messaggio di conversione e di trasformazione. La nuova realtà è anche il luogo in cui Dio ci aspetta, ci parla, ci interroga e ci fa crescere. Non si tratta affatto di “fonderci né di confonderci” con le meravigliose proposte della modernità, ma di vivere la nostra specificità come alternativa alle proposte della modernità. Nasce da qui l’esigenza di uscire, andare incontro all’uomo e alla cultura attuale. È lo stile della visitazione.

Distanza feconda per un vero incontro

Come consacrati siamo nel mondo ma non del mondo. Questa scelta non significa proporre una nuova ortodossia o far parte della controcultura. In quanto giovani consacrati, il nostro desiderio è di ritrovare, grazie alla flessibilità, la nostra responsabilità di essere, al cuore di una nuova epoca nascente, un vero luogo di domanda. Vogliamo, con la grazia della nostra consacrazione, suscitare dei punti di domanda negli uomini del nostro tempo. Intendiamo dialogare con la cultura contemporanea. Mi sembra che questa distanza feconda costituisca una posizione missionaria essenziale per il futuro della vita consacrata. Perché dà anima ad ogni incontro vero, che è fatto di apertura, di accoglienza e di incontro. Si tratta di un’interiorità che abbraccia l’alterità. Si tratta di aprirsi a ciò che nasce o si diffonde, a ciò che è bello o drammatico, a ciò che è bene o male al fine di portare nel cuore le preoccupazioni e i problemi del mondo, le miserie e le gioie dei nostri fratelli e sorelle. Ed è lì che esprimeremo un’autentica comunione che affonda le sue radici nell’Incarnazione, che ci dice che il Figlio di Dio – per il quale siamo consacrati – è la manifestazione che Dio ha tanto amato il mondo (Gv 3,16).

Allora l’ascolto e l’accompagnamento di quelli e quelle che la vita ha ferito e che vengono spontaneamente verso di noi, diventano un atteggiamento e una priorità. Com’è stato al tempo di Comboni, ma possiamo farlo bene solo se “nella comunicazione con l’altro” – afferma il Papa – abbiamo “la capacità del cuore che rende possibile la prossimità, senza la quale non esiste un vero incontro” (EG, 171).


Comunità del noviziato,
a Santarém, in Portogallo).

 

Il dono di sé e la fedeltà

La realtà che cambia sollecita il nostro discernimento e la nostra adesione responsabile. E la forma concreta dell’adesione è il dono di sé, valore di cui sono ancora capaci molti giovani di oggi. In un mondo dominato da uno stile di vita basato sull’interesse personale e sulla rivalità, il dono di sé, che nasce dall’incontro e dal confronto con la realtà, diviene il luogo d’intensità in cui Cristo chiama, impegna esplicitamente ognuno. Il dono di sé è il luogo all’interno del quale ciascuno è mobilitato per dare qualità e fecondità alla missione. La mentalità della flessibilità crea così il dono di sé. Ma questo spirito flessibile, che genera adesione e dono di sé, diventa più vero e più radicale se scaturisce dalla fedeltà a Cristo e al carisma. Flessibilità per andare incontro alla realtà sì, ma nella fedeltà al Vangelo e al carisma. Senza fedeltà a Cristo e al nostro carisma, la flessibilità rimarrà un’improvvisazione, puro opportunismo. È partendo dalla fedeltà a Cristo, alla sua Parola e al carisma, che possiamo conoscere i sentimenti del suo cuore, con i quali possiamo dialogare e testimoniare, annunciare e denunciare, rinunciare per dare la vita in abbondanza. Così possiamo risvegliare il mondo. Dare la vita in abbondanza ha una risonanza affettiva e comincia dai piccoli gesti fatti di gentilezza, verità e dolcezza fraterna.


Conclusione

La strada da percorrere per abbracciare il futuro con speranza consiste nell’offrire ampi spazi di libertà e di creatività affinché tutti possano sviluppare i propri talenti. Così, la vita consacrata può testimoniare la ricchezza di Dio presente nella vita di ogni consacrato. Se dunque il fondamento di questa speranza e di questa gioia è l’unione con Cristo, amico fedele, la sua espressione sta nella coscienza di vivere con radicalità il dono della consacrazione.

Possiamo abbracciare il futuro con speranza nella misura in cui la vitalità, dono di Dio, offuscata o divenuta fragile, viene liberata e potenziata per umanizzare ed evangelizzare il mondo. Accettando, con flessibilità e fedeltà, le trasformazioni che si impongono sia attraverso la realtà sia attraverso il discernimento dei superiori sia attraverso l’azione stessa dello Spirito. È comunque un cammino esigente e doloroso, perché ci fa provare il timore di essere spostati, spodestati e di perdere.

Ma vista nella fede, da giovani consacrati, questa paura è infondata, poiché lo Spirito continua la sua opera ed è questo ciò che importa veramente. La vita consacrata è in trasformazione. Noi giovani non vogliamo essere spettatori indecisi, timorosi e lamentosi. Se acquisiamo una mentalità di flessibilità e di fedeltà, possiamo offrire la nostra umanità per risvegliare il mondo e nutrirlo, perché abbia la vita in abbondanza. Nel cammino per abbracciare il futuro con speranza, la chiave ermeneutica, che rende possibile la comunione in questa situazione d’interculturalità, è Gesù Cristo; e san Daniele Comboni. In loro, giovani e vecchi ci incontriamo, troviamo ispirazione e insieme ripartiamo, mano nella mano, guardando tutti nella stessa direzione, quella della missio Dei. È da Cristo e da Comboni che possiamo imparare la santità e la capacità di essere oggi presenze autentiche di speranza per il futuro. Essi hanno vissuto la flessibilità e la fedeltà. Seguiamoli.
P. Léonard Ndjadi Ndjate, mccj