Lunedì 18 gennaio 2016
L’articolo “La scelta preferenziale dei poveri e l’impegno sociale nell’Istituto dei Missionari Comboniani”, scritto da P. Mariano Tibaldo (nella foto), prende spunto dal 50° anniversario del Patto delle Catacombe (6 Novembre 1965) per analizzare il significato che l’Istituto comboniano dà alla ‘povertà’, sull’identità dei poveri nell’evangelizzazione ad gentes e sul processo attraverso cui, nella riflessione comboniana, i poveri da ‘referenti privilegiati’ si trasformano in soggetti della missione; infine, l’articolo analizza il rapporto tra impegno sociale ed evangelizzazione. Questo testo prende in considerazione i principali documenti dell’Istituto dal 1969 al 2015. Gli Atti Capitolari del 1969 e 1975 sono quelli dei Figli del Sacro Cuore di Gesù (FSCJ) con membri a maggioranza italiani.

Il Patto delle Catacombe fu un impegno sottoscritto da alcuni Vescovi partecipanti al vaticano II di vivere la vita semplice della gente.  Il tema della povertà, però, non fu particolarmente avvertito al Concilio.

Il Capitolo Generale del 1969, con la riscoperta della primigenia inspiratio, pone l’evangelizzazione ad gentes per i più poveri ed abbandonati al centro della vita dell’Istituto. Però i ‘poveri’ sono ancora considerati i “referenti privilegiati” dell’evangelizzazione. La riflessione negli anni successivi non solo amplierà l’identità sociologica dei “più poveri ed abbandonati” in riferimento ai contesti (popoli di frontiera, minoranze etniche, emarginati nelle periferie delle città, pigmei, nomadi, rifugiati ecc.), ma chiarirà pure la loro identità in relazione all’evangelizzazione e al carisma. I ‘poveri’ diventeranno soggetti di evangelizzazione e chiave ermeneutica del carisma.

La povertà, dal Capitolo del 1969, è essenzialmente vista in prospettiva della missione: è infatti, la ‘povertà apostolica’ al centro della riflessione. La povertà, allora, assume le sembianze del servizio, dell’incarnazione, adattamento, partecipazione alla vita del popolo, del rinnegamento di sé e della provvisorietà come parte della ‘oblatività assoluta’ del missionario. Dal Capitolo del 1975 la povertà apostolica avrà delle traduzioni concrete nelle ‘comunità di inserzione’, comunità inserite in maniera più radicale nell’ambiente di missione tra i poveri.

L’impegno nel sociale – variamente denominato nei documenti dell’Istituto: promozione umana, sviluppo integrale, liberazione, giustizia, pace e integrità del creato – ha avuto un interessante sviluppo. Mentre nel Capitolo del 1969 la promozione umana era considerata un’attività che convalidava e sosteneva l’evangelizzazione, dagli anni ’70 in poi – a seguito dell’approfondimento del ruolo della giustizia come elemento costitutivo dell’evangelizzazione – le dimensioni della giustizia e della pace e dell’integrità del creato (con le tematiche ad esse connesse) sono assunte a dimensioni dell’evangelizzazione, tali da giustificare l’apertura di nuovi ambiti di missione e dirigere il processo di riqualificazione del personale. I servizi nei nuovi ambiti di missione, negli ultimi due Capitoli Generali, assurgeranno allo status di veri e propri ministeri.

 

La scelta preferenziale dei poveri
e l’impegno sociale
nell’Istituto dei Missionari Comboniani


Introduzione

Sono passati cinquant’anni dallo storico Patto delle Catacombe sancito il 16 novembre del 1965 nelle catacombe di S. Domitilla a Roma. Il Patto non era altro che un impegno, sottoscritto da una quarantina di vescovi, partecipanti al Concilio Vaticano II, a vivere la vita semplice della gente, rinunciare ad ogni forma di potere, di ricchezza e di privilegio: “Cercheremo di vivere come vive ordinariamente la nostra popolazione per quanto riguarda l’abitazione, l’alimentazione, i mezzi di locomozione e tutto il resto che da qui discende”, “Rinunciamo per sempre agli abiti (stoffe ricche, colori sgargianti), Non possederemo a nostro nome beni immobili, né mobili, né conto in banca. Inoltre i vescovi si impegnavano ad un’azione politica presso i governi perché attuassero strutture di giustizia, uguaglianza, sviluppo; a liberarsi dalla gestione finanziaria della diocesi che sarebbe stata affidata ai laici per essere più liberi per il lavoro pastorale e per servire i poveri; a condividere la propria vita con i sacerdoti, religiosi, laici. Insomma, un impegno storico e altamente profetico a quel tempo che legava alcuni vescovi alla povertà e alla sobrietà come dimensione propria della loro vita e ai poveri come priorità nel loro servizio apostolico e pastorale.

I vescovi che sottoscrissero il Patto – tra cui figuravano personalità del calibro di Hélder Câmara, Leonidas Proaño, Antonio Fragoso, José Maria Pires, Luigi Bettazzi, il vescovo argentino Enrique Angelelli, assassinato nel 1976 – erano parte di un gruppo informale che si riuniva nel Collegio belga dal 1962 intorno al tema ‘Chiesa dei Poveri’. Questo gruppo, il cui animatore era Charles M. Himmer, vescovo di Tournai, si ispirava al teologo Paul Gauthier e alla religiosa carmelitana Marie-Thérèse Lescase; il gruppo prese il nome da una frase di papa Giovanni XXIII che, nel radiomessaggio dell’11 settembre 1962, a un mese dall’inizio del Concilio, dichiarò: “Di fronte ai paesi sottosviluppati la Chiesa si presenta quale è, e vuol essere, come la Chiesa di tutti, e particolarmente la Chiesa dei poveri”.

Ma il tema della povertà della Chiesa non fu un tema particolarmente avvertito al Concilio Vaticano II, nonostante le insistenze del Card. Giacomo Lercaro, che avrebbe voluto che il povero e la povertà della Chiesa fossero al centro delle preoccupazioni dell’assise conciliare. L’appello di Lercaro, invero, fu recepito in un brano della Lumen Gentium n. 8,3 – che parla della Chiesa come di colei che “riconosce nei poveri e nei sofferenti l’immagine del suo fondatore, povero e sofferente, si fa premura di sollevarne l’indigenza e in loro cerca di servire il Cristo” – ma il significato rivoluzionario di quella frase non fu mai portato alle sue conseguenze pastorali né venne veramente assimilato. Oltretutto Paolo VI temeva che la questione della povertà avesse delle ricadute politiche (erano i tempi della ‘guerra fredda’ e della paura del comunismo); il Papa, comunque, si impegnò a riprendere i suggerimenti di Mons. Lercaro in un secondo momento, dopo l’evento conciliare. Questo impegno avrebbe preso la forma di un’enciclica, la ‘Populorum Progressio[1].

La povertà della Chiesa ebbe, invece, una trattazione articolata e l’azione della Chiesa fu pensata a partire dai poveri, considerati nella loro povertà esistenziale, nella seconda Conferenza generale dell’episcopato latinoamericano a Medellin (Colombia) nel 1968; “La povertà della Chiesa e dei suoi membri in America Latina – si legge nel documento finale di Medellin – deve essere segno e impegno. Segno inestimabile del valore dei poveri agli occhi di Dio; impegno per la solidarietà con coloro che soffrono” (XIV, 7). E ancora “l’evangelizzazione ha bisogno, come supporto, di una chiesa-segno” (VII, 13). Nella terza Conferenza generale a Puebla (Messico), nel 1979, uno dei criteri e segni dell’evangelizzazione sarà “l’amore preferenziale e la sollecitudine per i poveri e i bisognosi” (n. 381).

Il Patto delle Catacombe assume una valenza epocale perché rompe con il patto costantiniano di alleanza tra trono e altare e diventa la chiave ermeneutica di una Chiesa che vuole liberarsi dalla commistione con il potere e il prestigio. L’impegno che, nelle intenzioni del Patto, era limitato ad una scelta personale di alcuni vescovi sarebbe diventato, negli anni a venire, una sfida per tutta la Chiesa: la povertà come dimensione propria della sua vita e i poveri come scelta preferenziale; una scelta che è allo stesso tempo teologica e cristologica perché, diceva Papa Benedetto XVI, “la scelta per il povero è radicata nella fede in un Dio che si è fatto povero in Cristo”. È una sfida che ancora fatica a trasformarsi in realtà ma che nondimeno è diventata parte integrante della coscienza che la Chiesa ha di se stessa. È la sfida di Papa Francesco: “Desidero una Chiesa povera per i poveri” (Evangelii Gaudium n. 198).

In questo articolo vorrei indagare sul senso che l’Istituto comboniano dà alla parola ‘povertà’ in quanto dimensione essenziale dell’essere missionario, quale l’identità del ‘povero’ nella missione ad gentes e attraverso quale processo i poveri, da ‘referenti privilegiati’ dell’evangelizzazione, si trasformano in soggetti dell’evangelizzazione stessa; infine, su come la prospettiva dell’Istituto circa l’impegno sociale sia cambiata nel corso degli anni. Questa indagine prenderà in considerazione i documenti principali dell’Istituto (soprattutto gli Atti Capitolari) dal 1969 al 2015. Gli Atti Capitolari del 1969 e del 1975 saranno solo quelli dei Figli del Sacro Cuore di Gesù (FSCJ) con membri in maggioranza italiani.

1. ‘I più poveri e abbandonati’

Mettendo a confronto le Costituzioni del 1958 e gli Atti Capitolari del 1969 sul tema della povertà, è interessante notare un cambio di prospettiva. Mentre le Costituzioni trattano il voto di povertà come rinuncia al possesso materiale e la pratica di tale virtù come ‘spoliazione’ da ogni affetto per le cose temporali, gli Atti Capitolari del ’69 ne accentuano, oltre alla dimensione spirituale di dipendenza da Dio, quella missionaria. La povertà non è ‘destinata’ alla semplice testimonianza, dicono gli Atti, ma al “positivo lavoro di fondazione della Chiesa” (I, 255). Infatti, sottolineano, “il Concilio si è proposto di restituire alla Chiesa il suo vero volto di ‘Chiesa povera’ e ‘Chiesa dei poveri’” e, ancora, “il Concilio considera la povertà soprattutto dal punto di vista missionario. La Chiesa deve cercare uno stile di espressione e di presenza più povera nel mondo di oggi, se realmente vuole che i poveri siano evangelizzati” (I, 243, 245). È probabile che la Conferenza dell’Episcopato latinoamericano a Medellin abbia affinato la sensibilità di alcuni delegati capitolari i quali, sulla povertà della Chiesa accennata al Concilio, sembrano dare una lettura più profonda e profetica dei padri conciliari stessi!

Il fine essenzialmente missionario dell’Istituto informa tutta la sua vita: “La sua stessa spiritualità”, si dichiara negli Atti, “è legata al carisma della vocazione missionaria […] nel modo che ha qualificato la vita del Comboni e dei membri più rappresentativi dell’Istituto” (I, 65). E riguardo alla povertà si parla, infatti, di povertà apostolica intendendo una vita in povertà “secondo quelle determinate modalità che sono richieste dalla nostra finalità missionaria” (I, 257). È la missione, allora, l’anima dell’Istituto e la fonte da cui sgorgano tutte le dimensioni della sua vita. La vita religiosa altro non è che la modalità propria di vivere in radicalità la missione. Mi verrebbe da dire che i voti, in questo caso quello di povertà, non sono finalizzati alla santificazione personale ma sono ‘strumentali’ alla missione nel senso che ne aiutano più radicalmente la realizzazione.

Inoltre, la riscoperta della primigenia inspiratio pone al centro dell’azione missionaria i ‘poveri e abbandonati’ – dal Comboni identificati nei popoli dell’Africa “per i quali sembrava maturare il tempo della salvezza” – quali referenti principali della missione. Vi è però una doppia accezione che qualifica il povero e che ne ha continuamente accompagnato l’individuazione negli sviluppi storici successivi: è il povero, per dirla con il Capitolo del ’69, “in senso sociologico, ma anche e soprattutto in senso religioso” (I, 51). Tradire i due poli di tale identità sarebbe come tradire l’essenza stessa della vocazione comboniana.

Se il Capitolo del 1969 decreta la fine del criterio geografico della missione – la Regola di Vita avrebbe parlato, perciò, di ‘situazioni missionarie’ quali veri ambiti di missione – l’evangelizzazione ad gentes per i ‘più poveri e abbandonati’ (nella doppia accezione suesposta) continuerà ad essere il criterio orientativo e fondante delle scelte dell’Istituto ma con sviluppi interessanti. Infatti, è nella lettura dei ‘segni dei tempi’ – da cui “un ritorno alla ‘primigenia ispirazione dell’Istituto’ non può disgiungersi” (I, 25) – che le finalità e gli ambiti della missione e l’identità dei ‘poveri e abbandonati’ verranno progressivamente definiti e ampliati nel corso degli anni.

Fermiamoci alla categoria ‘poveri e abbandonati’ considerandoli, prima di tutto, nella loro identità sociologica. Il Capitolo del 1975 li identificherà nei “popoli di frontiera, cioè […] nelle minoranze etniche o sociali o altri gruppi minori che non sono ancora stati evangelizzati e sono rimasti pure ai margini dell’attuale evoluzione del mondo”(n. 14); nelle masse di emarginati nelle periferie delle città (n. 32); nei Capitoli successivi i ‘più poveri e abbandonati’ assumeranno le sembianze delle masse non cristiane dell’Africa, l’Islam, l’Asia, gli Afro-americani, gli indigeni, i gruppi di frontiera, i poveri delle periferie urbane, le situazioni di ingiustizia ed oppressione, i giovani, il mondo operaio, i rifugiati, i nomadi, i pigmei…; nel Capitolo del 2015 l’ambito proprio della missione comboniana sarà identificato con le “periferie della sofferenza tra i più poveri e non evangelizzati”, “le zone di conflitto o di guerra, contesti a rischio continuo, repressione politica, violenza sociale e ambientale, indifferenza e intolleranza religiosa, xenofobia o condizioni simili a quelle della schiavitù” (nn. 1, 10). Insomma, l’identità del più ‘povero e abbandonato’ sarebbe venuta ampliandosi via via che la missione assumeva un aspetto più contestuale e locale. Ma è anche da notare – mi sia permesso come inciso – come gli ambiti di missione (che, nei documenti, frequentemente si sovrapponevano alla categoria ‘poveri e abbandonati’) fossero diventati così vasti e onnicomprensivi da giustificare qualsiasi scelta individuale e perdere ogni incisività nelle scelte programmatiche.

Se l’identità del povero ha progressivamente preso forma in relazione ai contesti, si è parimenti approfondito il significato e il ruolo del ‘povero e abbandonato’ in relazione all’evangelizzazione e al carisma. Infatti, mentre il povero nel Capitolo del 1969 era considerato come ‘referente’ privilegiato della missione, negli anni successivi – a seguito degli sviluppi della teologia della liberazione e delle Conferenze generali dell’episcopato latinoamericano che avrebbero dato un impulso alla scoperta del ruolo dei poveri nell’evangelizzazione – il ‘povero’ è stato visto come soggetto di missione. Il povero viene quindi indicato quale ‘agente’ e ‘soggetto’ di evangelizzazione, ‘evangelizzatore’, ‘compagno di strada e maestro’. Non solo. Nella Ratio Missionis i poveri sono assunti a ‘luogo teologico’ dove Dio si lascia incontrare e ci interpella, e, nel Capitolo del 1997, a criterio interpretativo della realtà: “Ripartire dalla missione”, si legge, “è guardare con gli occhi dei poveri. Come per Gesù, fare la scelta preferenziale per i poveri significa anche rinnovare il nostro modo di vedere il mondo, la Chiesa e l’Istituto” (n. 26). I poveri, allora, diventano la chiave ermeneutica del carisma in quanto ne rivelano il senso e la portata: essi, nelle parole del Capitolo del 1991, “[…] ci interpellano e ci aiutano a vivere la fedeltà radicale al Vangelo e al nostro carisma missionario. Ci fanno scoprire più profondamente il senso della spiritualità, delle celebrazioni liturgiche e della riflessione teologica” (n. 4.5). Fedeltà alla primigenia inspiratio comporta allora una doppia fedeltà: alla missione e al povero; ambedue sono il criterio ermeneutico del carisma e della vita dell’Istituto. Perciò la scelta del povero non è semplicemente opzione pastorale, ma è molto di più: il povero è dimensione fondamentale nell’intelligenza del carisma e sorgente di rinnovamento perché valuta, ri-orienta e fortifica le nostre scelte personali e istituzionali in ambito spirituale, teologico, pastorale, organizzativo.

In sintesi, un’umile e salda identità comboniana è costruita alla missione e sul povero in quanto sacramento della presenza di Cristo ed elemento inalienabile di fedeltà carismatica. Purtroppo, devo aggiungere, la nostra riflessione su questi aspetti è rimasta a livello di semplici accenni contenuti nei documenti fondanti dell’Istituto ma senza una solida articolazione teologica.

2. Vivere la povertà

Prima di tradursi in forme di vita la povertà deve essere avvalorata da una spiritualità forte che, appunto, pone le basi e giustifica tali forme. Se ciò non fosse la povertà scadrebbe facilmente in scelte ideologiche o di retorica, come dice san Paolo quando molto opportunamente mette in guardia: “E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per esser bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova”. La carità di cui parla non è la filantropia dei filosofi ma, prima di tutto, l’agape di Cristo che si comunica ai cristiani per mezzo dello Spirito.

Il Capitolo dei FSC del 1969, oltre ad essere un Capitolo di fondazione e il primo dell’epoca del post-concilio, offre degli elementi molto stimolanti di spiritualità nell’ambito della povertà. Intanto, come accennavo più sopra, la povertà è vivere in pienezza la povertà di Cristo “che si fece povero per amore” (I, 252) secondo quelle modalità richieste dalla finalità missionaria. Ciò significa, all’atto pratico, distacco “dalle realtà temporali” che si esprime in due scelte concrete: nella comunitarietà dei beni e nel metterli a disposizione dei popoli con cui si lavora. Forma di povertà, afferma il Capitolo, è il servizio come dedizione incondizionata alla gente (I, 270-272). Ma la ‘povertà apostolica’ raggiunge il suo vertice quando diviene povertà di incarnazione, segno sacramentale “della povertà di Cristo” che implica adattamento “alla diversità di costume dei popoli e al mutare delle situazioni” e inserimento nel popolo “vivendone le vicende e rendendosi particolarmente sensibile ai problemi umani” (I, 273-274). Allora, forma radicale di ‘povertà apostolica’ è l’accettazione “delle situazioni che possono arrivare anche all’eroismo” seguendo l’esempio di “Colui che è il rifiuto degli uomini e l’abbandonato da Dio” (I, 258). Parole forti, che elevano la povertà quasi ad esperienza mistica prima ancora di esprimersi in atteggiamenti pratici.

Servizio, incarnazione, adattamento, partecipazione alla vita del popolo, rinnegamento di sé: la ‘povertà apostolica’ ha diverse espressioni e raggiunge il suo vertice nella rinuncia totale di sé per gli altri. Anche se non chiaramente elaborata come dimensione della povertà, la provvisorietà è tuttavia parte di quella “oblatività assoluta” richiesta al missionario (AC ’69, I, 14). Dal Capitolo del 1975 e in seguito alle esperienze dolorose in Burundi e in Mozambico, la provvisorietà assume anche una dimensione martiriale: “La provvisorietà implica […] l’accettazione della persecuzione come la normalità della crescita della Chiesa”; il servo di Jaweh diventa, allora, figura paradigmatica del missionario. La Regola di Vita parlerà della disponibilità ad accettare “situazioni di persecuzione” (58.3); la Ratio Missionis, ad “abitare nelle situazioni più vulnerabili, rimanere con i poveri, anche nelle situazioni di violenza e di insicurezza partecipando alla loro vita”, là dove “nessuno vuole andare”: è la scelta della “missione difficile” (nn. 2.2.2, 2.5.2). Nel Capitolo del 1991 la passione per i ‘più poveri a abbandonati’ è elevata a dimensione sponsale inscindibilmente legata al martirio: “La dimensione sponsale e martiriale del carisma ci unisce indissolubilmente ai “più poveri e abbandonati”, ci dona gioia ed entusiasmo anche in situazioni di fallimento, persecuzione, malattia e anzianità” (n. 14.1). Tutto ciò, nello stesso Capitolo, sarà tradotto nella formula “fare causa comune con la gente” posta a criterio di “metodologia missionaria comboniana”.

Ma la povertà apostolica, per essere veramente credibile, deve necessariamente tradursi nella vita concreta. Il costante richiamo alla semplicità di strutture, ad evangelizzare l’economia, al rifiuto di ogni paternalismo e assistenzialismo adottando, parimenti, mezzi poveri “quelli cioè più essenziali e insieme più vicini alle condizioni di vita della gente comune” (AC ’85, n. 134); le ammonizioni contro uno stile di vita borghese e individualista che tolgono credibilità alla testimonianza missionaria, sono declinazioni di quella povertà che è essenzialmente orientata alla missione. Il Capitolo del 1975 inaugura una nuova modalità di condivisione con la vita della gente, sviluppo ulteriore di quella povertà di incarnazione di cui aveva parlato il Capitolo del 1969: è quella di “nuove forme di vita e di inserimento più conformi alle esigenze degli uomini e dell’ambiente” […] per cui si incoraggiano “esperimenti in nuove direzioni che […] possono aprire la strada a nuove forme riconosciute di vita apostolica” (n. 35). È l’inizio di quelle comunità variamente denominate: di ‘inserimento’, di ‘inserzione’ o, semplicemente, ‘inserite’ che si qualificano come “forme di vita comunitaria – caratterizzate da una maggiore semplicità evangelica – che cercano vie nuove di evangelizzazione, contemplazione e inserimento nell’ambiente secondo il nostro carisma” (AC ’03 n. 96). Comunità di inserzione diventeranno un modo di presenza non solo nell’ambito della missione ma anche in quello della formazione.

Sembra superfluo ribadirlo, ma il senso dell’inserzione non è condividere la vita dei poveri – se così fosse sarebbe una scelta basata su motivazioni per lo meno ambigue. In linea con la tradizione comboniana, lo scopo dell’inserzione è condividere il Vangelo con i ‘più poveri e abbandonati’ incarnandolo in tutte le periferie umane e sociali: “L’incontro vivo con Gesù il Cristo, morto e risorto per la vita del mondo”, si legge negli Atti Capitolari del 2015, “è la fonte del nostro essere missionari comboniani” […] “essere nelle frontiere testimoni e profeti di relazioni fraterne, basate sul perdono, la misericordia e la gioia del Vangelo. Seguendo le orme di Daniele Comboni, raggiungiamo le periferie della sofferenza tra i più poveri e non evangelizzati. Questo è l’orizzonte della nostra missione” (n. 1).

3. Promozione umana, giustizia, pace e integrità del Creato

La passione per i poveri e abbandonati richiama anche l’impegno per la giustizia e la pace. Non è mia intenzione dare un resoconto completo su come tali questioni siano state affrontate nell’Istituto comboniano e quali gli sviluppi nei vari contesti. Vorrei solo offrire una breve panoramica di come, nel corso degli anni, i temi principali sulla pace e sulla giustizia in relazione all’evangelizzazione si siano evoluti e come la sensibilità dell’Istituto sia cambiata.

Il tema dell’impegno sociale è sempre stato parte della tradizione comboniana. Il Comboni parlava di ‘rigenerazione dell’Africa’ nel senso sia religioso che umano e di ‘civilizzazione’ ai cui frutti anche l’Africa aveva il diritto di partecipare; la sua azione di promozione si indirizzava tanto nel favorire lo sviluppo umano (educazione, salute, agricoltura ecc.) quanto nella lotta contro la schiavitù.

Mentre, con il Vaticano II, il paradigma di missione si modificava e l’attenzione ai ‘segni dei tempi’ qualificava la presenza della Chiesa nel mondo, cambiava il rapporto tra promozione umana ed evangelizzazione. Anche nell’Istituto il tema dell’impegno sociale si stava arricchendo di nuovi contenuti e il mutamento di linguaggio, nel corso degli anni, ne sarebbe stato il segno eloquente.

La coscienza che la “promozione umana” “non fosse estranea alla missione” faceva dire al Capitolo del 1969 che “Il missionario […] dovrà promuovere lo sviluppo integrale dell’uomo e creare, animare e sviluppare quelle istituzioni che port[a]no i popoli a un livello di vita più confacente alla loro dignità di uomini, chiamati ad essere ‘figli di Dio’” (II, 24). Lo ‘sviluppo integrale’ – tema caro all’enciclica Populorum Progressio a cui si ispiravano, peraltro, gli Atti Capitolari del 1969 – diventava, pertanto, il nuovo orizzonte della promozione umana. Però, si sottolineava, nella fase dell’annuncio le ‘opere sociali’ erano finalizzate “all’attività apostolica” perché, “pur non essendo un pretesto per realizzare delle conversioni” l’annuncio andava sostenuto dalla testimonianza della carità (II, 24). Le opere sociali sembravano avere, perciò, un valore strumentale in quanto ordinate all’annuncio del Vangelo.

Un cambio interessante si registra nel Capitolo del 1975 influenzato, tra gli altri, dal Sinodo del Vescovi sulla giustizia (1971) e dal documento della XXXII Congregazione dei Gesuiti Diaconia della fede e promozione della giustizia (1975), nonché dalla conferenza dell’Episcopato latinoamericano di Medellin. In questo Capitolo la questione della giustizia e l’impegno per la liberazione integrale assumono un ruolo prominente nell’evangelizzazione. La questione si innestava con le esperienze dolorose in Mozambico e Burundi e con l’atteggiamento che l’Istituto avrebbe dovuto tenere a fronte delle flagranti violazioni del diritti umani, tanto che “una delle domande più angosciose rivolte al Capitolo è questa: qual è il dovere di un missionario di fronte alle ingiustizie?” (AC ’75, I Comboniani nella Missione oggi, n. 28). Ma, sviluppo importante rispetto al Capitolo del 1969, in questo Capitolo l’impegno sociale assume le caratteristiche della “giustizia e della trasformazione del mondo” quale dimensione “costitutiva” della predicazione del Vangelo (n. 28): l’impegno per la giustizia diventava, allora, elemento inalienabile del Vangelo proclamato e vissuto. Questi sviluppi avrebbero influenzato la Regola di Vita: sviluppo integrale, liberazione integrale “dal bisogno e dalle strutture oppressive” (n. 61), promozione della giustizia erano ormai entrati nel vocabolario e nella prassi comboniana come dimensioni della proclamazione del Vangelo. La categoria del ‘Regno di Dio’ avrebbe integrato l’impegno per la giustizia e la liberazione integrale con i temi della fede e della consacrazione religiosa.

Gli anni compresi tra gli ’80 e il 2000 sarebbero stati marcati da alcuni eventi epocali tra cui il crollo del muro di Berlino, la nascita di un nuovo Ordine Mondiale con l’emergenza di nuovi centri di potere politico ed economico e l’accelerazione del processo di globalizzazione. Le encicliche sociali, soprattutto di Giovanni Paolo II, avrebbero dato una risposta agli avvenimenti di questi anni. Tutto ciò avrebbe influito sulle scelte dell’Istituto riguardo all’impegno della giustizia e la pace.

Se “l’annuncio dei valori del Regno e la denuncia di tutto ciò che li nega” devono essere espliciti nel servizio missionario (AC ’85, n. 56), il Capitolo del 1991 sottolinea che l’impegno per la salvaguardia del creato, la giustizia e la pace è ambito di missione, “nuovo areopago”. Il Capitolo, anche se timidamente, incoraggia la preparazione di confratelli in questi campi (AC ’91, n. 41.18c): un’iniziativa nuova nel panorama dell’Istituto. Nell’assise capitolare del 1997 la missione è concepita come un’attività composita di cui è dimensione essenziale l’impegno per la giustizia e la pace nella forma di annuncio e denuncia profetica, formazione della coscienze e collaborazione a tutti i livelli (nei Capitoli successivi si parlerà di lobbying e networking con organizzazioni internazionali). Il documento dei tre Istituti comboniani dal titolo La giustizia come relazione che genera vita, scritto in occasione dell’anno giubilare del 2000, tematizza, oltre all’impegno per la giustizia e la pace, la responsabilità per l’integrità del Creato e la necessità di “riqualificare il nostro servizio missionario” per cui “alcuni avranno bisogno di una preparazione nel settore dell’economia, della politica, della comunicazione sociale, dei diritti umani, della gestione di conflitti, della costruzione di pace; altri ancora nel tipo di presenza in situazioni di violenza e guerra” (n. 28). La riqualificazione del personale, allora, diventerà una necessità nella prospettiva della diversificazione degli ambiti di missione, risultato di un nuovo paradigma missionario.

Per riassumere, questo percorso storico ha reso palese l’evoluzione dell’impegno sociale nella missione. I temi legati alla giustizia, alla pace e all’integrità del Creato sono ormai considerati elementi costitutivi dell’evangelizzazione; non solo, essi giustificano la nascita di nuovi ambiti di impegno e di ‘riqualificazione’ del personale. A mio parere i Capitoli Generali degli anni 2000, come la Ratio Missionis stessa, non avrebbero aggiunto elementi nuovi di riflessione sugli ambiti di missione. L’unica novità, messa in risalto nei Capitoli del 2009 e del 2015, consisteva nel dare agli impegni legati al lavoro sociale il valore di veri e propri ‘ministeri’, cioè servizi che nascevano dal dono dello Spirito a vantaggio del Regno di Dio e manifestazioni di una Chiesa ministeriale; il Capitolo del 2015 avrebbe parlato, giustamente, della “consapevolezza di un nuovo paradigma di missione che ci spinge a riflettere e a riorganizzare le attività su linee ministeriali” (n. 12).

Conclusione

L’analisi dei documenti dell’Istituto sui ‘più poveri e abbandonati’ e sull’impegno sociale ha messo in evidenza come le prospettive dell’Istituto nel corso degli anni siano maturate. È cambiata l’ottica sui “più poveri e abbandonati”: da referenti della missione a protagonisti dell’evangelizzazione, soggetti essenziali di fedeltà carismatica; mutata la prospettiva dell’impegno sociale: dalla promozione umana come attività che semplicemente convalidava l’evangelizzazione all’impegno per la giustizia e la pace giudicati come elementi “intrinseci” (così il Capitolo del 2015) dell’evangelizzazione e dimensioni essenziale della missione.

Trovo stimolanti – oltreché, in un certo modo, adeguate a riepilogare il percorso che ho tracciato fin qui – le affermazioni della dichiarazione della Commissione Missione Mondiale ed Evangelizzazione approvata dalla X Assemblea del Consiglio Ecumenico delle Chiese riunito a Busan (Corea del Sud ) nel 2013 e intitolata Uniti per la vita: missione ed evangelizzazione in contesti mutevoli. La dichiarazione mette in risalto come la missione delle Chiese sia di favorire la vita e resistere a tutte le forze che la distruggono perché, si afferma, questa è stata la passione principale di Gesù e la sua missione. Ma la missione, sottolinea la dichiarazione, non è più concepibile come movimento dal centro alla periferia, “dai privilegiati a quelli che sono ai margini della società”, bensì come “missione dai margini”: i poveri sono, infatti, agenti di missione perché – capaci di capire le necessità e le preoccupazioni di coloro che sono nella stessa situazione (e senza quell’atteggiamento di compiacente paternalismo e complessi di superiorità che molte volte ha distinto “la missione dal centro”) – sono maggiormente in grado di resistere alle strutture oppressive e di guidare gli sforzi di trasformare il reale[2].
P. Mariano Tibaldo mccj

 

[1] J. Sobrino, La <<Chiesa dei poveri>> non ha avuto sviluppo al Vaticano II, in Il Patto delle Catacombe, a cura di X. Pikaza e J. Antunes Da Silva, Bologna, EMI, 2015, pp. 133-145; cfr. anche J. Planella Baronsell, Gli artefici del Patto. Origine, evoluzione e tramonto del gruppo chiamato <<Chiesa dei poveri>>, ibid. pp. 73-102.

[2] Commission on World Mission and Evangelism (CWME), New WCC Affirmation on Mission and Evangelism, Together towards Life: Mission and Evangelism in Changing Landscapes, nn. 6, 41, 108 https://www.oikoumene.org/en/resources/documents/commissions/mission-and-evangelism/together-towards-life-mission-and-evangelism-in-changing-landscapes. Vedi anche S. B. Bevans, Il Patto delle Catacombe. Implicazioni per la missione della Chiesa, in Il Patto delle Catacombe... pp. 47-166.