Lunedì 22 maggio 2017
Tutti i nostri Mons. Antonio Maria Roveggio, Padre Giuseppe Ambrosoli, Padre Bernardo Sartori, Fratel Giosuè dei Cas e Padre Ezechiele Ramin sono morti sul campo della missione e possono davvero far diventare anche il nostro campo, luogo benedetto, luogo di una chiamata, luogo di una collaborazione, luogo di una risposta missionaria. Ce la faremo a passare dalla spiegazione alla contemplazione? [P. Arnaldo Baritussio, mccj – Postulatore Generale].


COMPAGNI DI VIAGGIO OGGI
ESEMPLARI E ISPIRATORI OLTRE LA NECROLOGIA

Quando mi è stato chiesto di presentare le figure dei nostri confratelli, di cui è in corso il processo di beatificazione, ho avuto un naturale senso di ripulsa e di tristezza. Mi sembrava una richiesta senza senso, visto che al Capitolo non c’era stato alcun impatto alla loro presentazione e anche nei documenti capitolari non avevo riscontrato alcun cenno esplicito. Qualcuno mi aveva fatto notare invece che mi sbagliavo e che il richiamo c’era, inserito lì dove si parla della gioia di vivere il Vangelo, una gioia a caro prezzo, in cui è prevista anche la chiamata a difendere la vita delle pecore da lupi e ladri: “Ce lo ricordano anche i nostri martiri” (AC ‘15 n° 4). Riferimento opportuno, ma allo stesso tempo innocuo perché abbastanza generico. Mi sembra che ci sia una bella differenza tra quelli che sono sottoposti a un giudizio più esigente della Chiesa, i vari Roveggio, Sartori, Ambrosoli, Giosuè dei Cas ed Ezechiele Ramin, perché riconosciuti, anche dalle Chiese locali, come luci particolarmente significative, e noi, i “de communi”. Senza nulla togliere a coloro che hanno sacrificato la loro vita fino all’”effusio sanguinis”, questi nostri confratelli, in via di beatificazione, dovrebbero diventare dei particolari punti di riferimento, sia per l’esemplarità che per l’invocazione, quindi per la specificità che è loro propria in quanto testimoni della vitalità del carisma missionario comboniano che ci accomuna. Cerchiamo nella loro vita “l’esempio, nella loro comunione, la solidarietà, nella loro intercessione, l’aiuto” si legge in Lumen Gentium 51.

Senza acrimonia, mi sono detto che proprio per la natura esperienziale della memoria dei 150 anni dell’Istituto, poiché si tratta in fondo di persone che hanno vissuto gli slanci e le pene della missione, la prospettiva deve essere differente. Lo esige la natura stessa di queste cause. Non si tratta di riesumare morti e neppure di limitarci alla semplice ricostruzione e spiegazione (non nego il necessario apporto della riflessione storica), ma questi confratelli ci obbligano ad andare molto al di là del ricordo delle necrologie e delle riflessioni intellettuali o delle ricostruzioni storiche che, del resto, appaiono insufficienti se non ci portano a cogliere in loro autentici compagni di viaggio ai quali ricorrere con umiltà e convinzione. Questi ci guardano fisso negli occhi, non lasciandoci la scappatoia dell’anonimato, in causa, infatti, è il personale livello di risposta missionaria e assieme il progetto comune di una famiglia, quella comboniana, che ha nel suo DNA, di riprendere costantemente la Causa di Gesù per tutti e per oggi.

Perché non accettare la provocazione della loro morte, trovando un nuovo senso nel loro “dies natalis” nella misura in cui ci consegna un simbolo forte e generatore di sempre nuovi valori di efficacia missionaria. “Dies natalis” e simbolo, due realtà che facilmente svalutiamo, o perché le inseriamo in una lista cronologica anonima e convenzionale o perché le dividiamo, riducendo così il ricordo a semplice ritualità e il simbolo a semplice rappresentazione esterna di un contenuto che non c’è più, e, così facendo, ne decretiamo la sparizione per insignificanza e inattualità. Confratelli, tutti inghiottiti dall’anonimato, mentre tentiamo vanamente di esumarli e la missione cerca gli uomini su altre drammatiche strade. E non ci accorgiamo che essi, se hanno un posto speciale, non è per staccarli dal gruppo dei confratelli che li hanno preceduti o li seguiranno, ma è vero proprio il contrario: aiuteranno a far emergere i veri valori missionari che l’Istituto ha vissuto e sproneranno a ri-esprimerli secondo le nuove urgenze della missione. Sarà così se iniziamo a considerarli dei veri “viventi”.

La prima e più ovvia constatazione è che tutti i nostri, Roveggio, Ambrosoli, Sartori, Giosuè e Ramin, sono morti sul campo della missione e possono davvero far diventare anche il nostro campo, luogo benedetto, luogo di una chiamata, luogo di una collaborazione, luogo di una risposta missionaria. La seconda sorpresa è che fino a quando non ne sapremo cogliere i simboli che ci trasmettono, cioè non inventati da noi, ma dal loro vissuto, viaggeremo sempre in braccio a concetti, bellissimi, ma che non riusciranno a intercettarci, a provocarci e a metterci in moto. Allora questa ricerca del simbolo, nel contesto della fine, non sarà mai finita, perché scoperta una scintilla del grande fuoco che li ha animati, la ricerca di senso non si arresterà più e sentiremo di far parte di un’unica cordata di fratelli, gente mai doma nel pensare e nell’agire, mai stanchi di approfondire e di avvertire la loro misteriosa solidarietà, uniti in una preghiera corale e in una curiosità che tutti coinvolge perché ognuno ha storie, culture, colori, sapori e sensibilità differenti. Tentiamo allora l’operazione di risalire dalla loro morte, chiave ermeneutica della loro vita, per cogliere il simbolo aperto che ci consegnano. Più che spiegazione, entriamo nel campo delle allusioni che muovono all’azione.

Mons. Antonio Maria Roveggio

Roveggio spirò alle 19.30 del 2 maggio del 1902, stroncato da un attacco di malaria. L’ingegnere Bakos Lebnan lo assistette materialmente, mentre Ernst Marno, suo inserviente, e Sami, il conducente del Redemptor, lo seguivano in un’altra carrozza. Roveggio stremato aveva affidato al medico il racconto dei suoi viaggi e i progetti di nuove missioni al Sud: un estremo squarcio ideale della missione che gli viveva nel cuore nella sua ultima ed estrema solitudine e agonia. A Berber, infatti, arriva già morto ed è sepolto sotto una palma nel deserto. Roveggio era un missionario abituato ad affrancare le sue solitudini con luci che gli venivano da Dio e che gli avevano costantemente aperto orizzonti nuovi nella sua vita. Un’inclusione folgorante, della grandezza del sogno e del prezzo da pagare, e che univa idealmente l’oscura fine all’inizio della sua scelta missionaria, poteva essere ravvisata nella decisione vocazionale missionaria del 9 maggio 1884 per un Istituto in difficoltà. Scriveva ai suoi: “Certo a voi tornerà dolorosissima questa mia lettera come a me stringe il cuore nello scriverla”. Tuttavia l’orizzonte più largo aveva già occupato il suo spirito e l’1 febbraio 1884 aveva potuto scrivere: “Ah! Genitori e fratelli amatissimi, se mi amate di quel vero amore con il quale il Signore vuol che ci amiamo, non deve dispiacervi la mia partenza, anzi vi deve consolare”. Il partire, poi, come un allargare orizzonti ritorna! Il più giovane professo guida un drappello dei Figli del Sacro Cuore nell’avventura missionaria al Cairo. Al Cairo poi, più precisamente alla Gesira, nella colonia antischiavista Leone XIII, fondata da Mons. Sogaro nell’agosto del 1888, Roveggio imprime altro orientamento trasformando l’ambiente in vista della continuità della missione: dopo essersi consigliato con Sogaro aveva aperto un piccolo seminario (sotto la guida di padre Franz Sinner) per far sì che qualcuno dei piccoli potesse, se lo avesse voluto, dedicare la sua vita a diffondere tra i propri connazionali la Parola di Dio. Nel momento della grande crisi, mantiene fede ai valori della consacrazione religiosa per il bene della missione e, allo stesso tempo, diventa fautore dell’apertura di spirito verso i missionari del Comboni. Da Vicario l’orizzonte è il Centro dell’Africa, dove tutti i suoi sforzi e piani di rientro sono diretti. Nell’immobilità di Assuan pensa al Redemptor. Al rientro a Khartoum la chiglia del battello idealmente è sempre proiettata al sud. Una speranza invincibile, un’azione umile, tenace, illuminata. Mons. Roveggio sentiva e credeva di percorrere un solco antico e in tal senso avvertiva che la sua opera si poneva in continuità con ciò che era stato iniziato precedentemente ed era quindi eminentemente ecclesiale. Il soggetto dell’azione missionaria, la Missio Dei (1900), e la continuità dell’opera (1899), si saldavano idealmente con l’idea geniale del battello (novembre 1898, dopo vittoria a Kereri 2 settembre 1898). “Anch’io mi abbandono in anima e corpo alla Divina ed Amabile Provvidenza del mio Signore per tutto quello che mi potrà succedere entrando fra le tribù pagane della mia Missione certo che il buon Dio sarà sempre con me”. “Il Santo mons. Comboni, desideroso anche egli di portare la luce della fede il più lontano che fosse possibile aveva esplorato le regioni lungo il Nilo Bianco, il Nilo Azzurro e il grande affluente Sobat… fino alle più remote popolazioni della sua diletta Nigrizia. Senonché la morte sopraggiunta troncò a mezzo il grandioso disegno.

Il suo simbolo

Il simbolo più pregnante che Roveggio ci consegna è il simbolo di una prua che fende le acque oppure l’ancora, con la scritta Redemptor, e una comunità, ossia la speranza cioè mai doma e una fraternità di uomini che vive e celebra assieme, visita, studia e avanza… L’ancora di Roveggio è diversa da un’ancora materiale che suggerisce l’arresto, essa è mossa dall’implantatio caritatis, vive della dinamica del fermarsi e del ripartire, costantemente. Di fronte alle derive dell’immobilismo e del soggettivismo, la missione si fa con continue aperture, assieme, perché implica il coraggio di pensare e l’audacia e l’intraprendenza dell’agire. La missione, anche oggi, ha necessariamente bisogno dello spirito del Roveggio. Quella chiglia che continua a fendere le acque e quella comunità all’ombra dell’ancora sono ancora oggi una continua sfida e una grazia fatte alle resistenze al cambiamento e alla fatica della progettualità di una comunità veramente sovranazionale e multiculturale che sa ascoltare, comprendere, compatire, perdonare, intraprendere e continuare ad osare. Cor unum et anima una! E la mia prua… in quale direzione va? La prua dell’Istituto e delle nostre comunità dove sono dirette? C’è qualcosa all’ombra della mia e della nostra ancora? La mia, la nostra comunità…?

Padre Bernardo Sartori

Portato via il 3 aprile 1983, il giorno di Pasqua, al mattino, con la lampada accesa. Come Enoc: “Enoc camminò con Dio, poi scomparve perché Dio l’aveva preso” (Gn 5, 24). Così p. Mario Casella ne dà l’annuncio: “Ventiquattro ore or sono il nostro carissimo p. Sartori fu trovato davanti all’altare della cappella della scuola di Ombaci disteso, a braccia aperte, con la corona in mano, gli occhi al cielo! La sua lampada era accesa sull’altare. Era certamente andato a pregare alle quattro come al solito, si era sentito male, forse embolia, e si era messo davanti al Santissimo rinnovando la sua offerta sacerdotale di sessanta anni prima... Uscito prestissimo al mattino di Pasqua come Maria, incontrò il suo Signore Risorto e con lui se ne andò a celebrare la più bella mattina dell’anno e della sua vita: mattina che non terminerà mai più! Beato Bernardo, santo fratello e padre nostro, ci congratuliamo con te in questo giorno del tuo trionfo e immaginiamo che finalmente ti bei della visione che fu il sospiro di tutta la tua vita. Ora vedi, contempli e lodi il Padre, il Cristo, la Mamma, nello Spirito Santo, e incontri le migliaia di figli e figlie che la tua instancabile carità sacerdotale ha indirizzato al cielo in tutti questi anni... Come vorremmo essere presenti anche noi: aspettaci e prega che nulla ci distragga e possa ritardare la nostra preparazione alla vita eterna” (p. Mario Casella).

Una vita con la lampada accesa. La fondazione di Troia, la prima presenza comboniana al Sud (4 novembre 1927). L’imperativo di tutta una vita, ovunque e sempre animare missionariamente la Chiesa locale: impegnato da subito in una travolgente attività di animazione missionaria: qualcosa di mai visto (Conversano e Tricase, 18-22 settembre 1928; Castellana, 23-24 settembre; Alberobello, 28-30 settembre, Università popolare di Foggia, Avellino, Lecce, Napoli, Bari, Salerno, Sant’Agata di Puglia, Canosa, S. Angelo dei Lombardi, Nola, Gargano ecc.). La fondazione della missione tra i Logbara all’insegna della spiritualità mariana inculturata. L’obiettivo era di creare comunità vive a immagine di Maria Serva dello Spirito e Madre della Chiesa, popolo di Dio: Mediatrice e Sultana d’Africa a Lodonga (15 febbraio 1948), Vergine di Fatima di Koboko (12 aprile 1957 giorno delle Palme). Maria Regina mundi a Otumbari (13 novembre 1966), Maria Madre della Chiesa ad Arivo (dicembre 1970). Anche nella bufera della guerra civile – caduta di Amin, distruzioni e atrocità in West-Nile (1979-1983) – la luce non si spegne: “Ape infaticabile, distrutto l’alveare, in silenzio e senza nulla, il missionario si mette a costruirlo più bello e più dolce di prima. È il nostro lavoro e, se il Signore vorrà, speriamo entro l’anno di rendere Otumbari abitabile, per noi e per le suore, con tutte le opere annesse: dispensario, catecumenati, scuole ecc. e noi riprendere il meraviglioso lavoro di conversioni e di ministero degli anni passati. La dura prova, la fame, le malattie, le sofferenze di ogni genere hanno temprato la fede dei cristiani aumentando il loro fervore, arricchendo i vivi di meriti e gli uccisi di gloria. È la Chiesa logbara e kakwa, piantata ai piedi della croce come nei primi secoli, con i suoi santi, laureati sotto la tempesta, e i suoi martiri che l’hanno purificata e glorificata. Nell’aprile del 1981 p. Sartori lascia Otumbari per l’Italia, con due obiettivi ben precisi: la cura del timpano offeso e trovare fondi per la traduzione del vangelo in logbara. Il primo fallisce. Non c’è nulla da fare perché la membrana è troppo consunta e usurata. L’ultimo dono di questa luce ardente in un uomo di 84 anni, è il dono del Vangelo in lingua logbara. Un indomabile ottantaquattrenne percorre in aprile del 1981 la penisola in una maratona di impegni pastorali. Sono le motivazioni interiori e l’interiorità ardente che vincono la stanchezza e i piedi gonfi: “Gli africani hanno diritto alla nostra vita fino in fondo”, scrive. “Ho lavorato per continuare il mio ministero anche dopo morto, preparando migliaia di copie del Vangelo in lingua logbara” [Positio, p. 716, nota 40]. L’ammontare della sua questua supera di gran lunga ogni aspettativa. Era partito con il timore di non riuscire a raccogliere i 20 milioni richiesti e ora, invece, se ne ritrova 80 di milioni. “A riposare ci penserò in paradiso”, scrive ai padri che ha lasciato ad Otumbari,

Il suo simbolo

Il simbolo che ci viene da Sartori, in effetti, ce lo consegna Dio: la lucerna accesa. Fissare lo sguardo e investire sulla forza di quella fiamma accesa. Allusione provocante all’impegno irrinunciabile di animare la Chiesa all’apertura missionaria; al necessario metodo missionario basato sulla visita, sull’interiorità, sulla comunità oltre le regole esteriori, sul senso di Chiesa oltre la semplice struttura, sul progetto (per lui fondato sul mistero mariano). La necessità di una spiritualità che sveli la centralità del mistero che mi sostiene e al quale dovrei ricondurre atteggiamenti di vita: tempi di preghiera, tempi di visita e conoscenza, di celebrazione, di incontro fraterno, di autenticità di vita. Sartori ha tenuto accesa la sua luce interiore per superare tutte le molteplici contraddizioni e con questa luce ha illuminato la comunità ecclesiale confessando i suoi limiti e, al contempo, vivendola come popolo di Dio, ne ha colto il segno del tempo che le veniva dal Concilio Vaticano II.

E la mia lampada? Accesa? Spenta? Incerta? Tremolante?

Padre Giuseppe Ambrosoli

Deceduto a Lira alle 13.50 di venerdì 27 marzo 1987. “Per noi – disse il Gen. Tito Okello Lotwa, presidente per breve tempo dell’Uganda (dal 29 luglio 1985 al 26 gennaio 1986) – la morte del dott. Ambrosoli è come il crollo di un ponte. Ci vorranno molti anni per rimpiazzarlo”.

In quei gironi di marzo del 1987, nessuno avrebbe immaginato che si era alle battute finali. Il 22 marzo, domenica, celebrava la messa nella cappella del Collegio Comboni di Lira, ma il pomeriggio doveva mettersi a letto con la febbre piuttosto alta. Le tre suore comboniane Romilde Spinato, Annamaria Gugolé e Silveria Pezzali, intervenivano con terapie che lui stesso indicava. Era rimasto senza alcun medico al suo fianco e forse era l’unico a rendersi conto della gravità della sua situazione. Due giorni dopo, vedendo che stentava a riprendersi ed era scosso da continui conati di vomito, si consultavano a distanza il dott. Corti dell’ospedale di Gulu e il dott. Tacconi che si era trasferito a Hoima. Apparentemente il 26, giovedì, dopo un primo collasso, sembrò riprendersi. Alle cinque del mattino del venerdì 27 marzo, sr. Romilde lo trovava già sveglio e desideroso di sapere quali erano i programmi sul suo conto. Il piano era di portarlo a Gulu e poi trasferirlo in Italia. Supplicava: “No! Non dovevate farlo, sarà troppo tardi, perché ho le ore contate. Sapevate che ho sempre desiderano rimanere con la mia gente, perché ora mi mandate via?”. Comunque, poi ringraziò e disse: “Sia fatta la volontà di Dio”. Collaborò in tutto per prepararsi a partire. Era veramente pronto a tutto”. “Padre Giuseppe – scrive p. Marchetti - avverte del declino della vista e della insensibilità alle gambe, pienamente cosciente che è arrivato il momento supremo. Ripete con vigore e poi segue come può le preghiere e giaculatorie. Poi fissa gli occhi sulla parete, verso l’alto, come se vedesse qualcuno. I respiri si distanziano e senza alcuna contorsione o rantolo, si spegne, mentre il battito del cuore si rallenta gradatamente, fino a cessare. Sono precisamente le 13.50 di venerdì 27 marzo 1987”. A p. Marchetti cogliere le sue ultime parole: “Signore, si faccia la tua volontà – poi come un soffio – fosse anche cento volte”. Ha fatto, in tutta la sua vita missionaria, la volontà di Dio. Nella sua scelta vocazionale, fine di luglio del 1949, da giovane chirurgo appena laureato con Corso di Medicina Tropicale presso il Tropical Institute (1950-1951) si vota alla missione. Ha 28 anni. Continua a farla sviluppando il primitivo centro di salute di Kalongo e portandolo a piena funzionalità: 350 letti e 30 fabbricati. Sotto le sue mani, la scuola ostetriche di Kalongo, che p. Malandra aveva sognato e Sr. Eletta Mantiero aveva iniziato il 26 giugno 1955, raggiunge la piena fioritura. L’ultimo suo gesto, salvare la scuola ostetriche perché le ragazze non vanifichino l’anno (Angal, 5 marzo 1987). Gli è costata la vita, ma la sua vita spezzata, nel segno della volontà di Dio, è stata messaggio di speranza e di fiducia nell’elemento locale.

Due mani magiche, quelle di Ambrosoli, che si moltiplicano perché la vita si perpetui nel segno della sussidiarietà, della continuità e della totalità della salvezza: solo così nascono vite nuove e si curano anime e corpi. È sufficiente fissare lo sguardo sulle ragazze e sul personale impegnato nella “St. Mary’s Midwifery Training Centre” e far scorrere la lista delle suore e dei medici passati a Kalongo, per capire come la sua missione fosse globale e in cui era totale il coinvolgimento dei laici, la loro attiva collaborazione e la coscienza di formare un equipe.

Il suo simbolo

Dalla storia missionaria di Ambrosoli si impone un simbolo, mai convenzionale e mai destinato all’insignificanza: due mani aperte, che si aprono a ventaglio, da cui esce un bambino sorridente che apre un cuore. Giuseppe infatti è stato un inno alla vita. Ha incantato per la sua mitezza, pazienza e buon umore. Ha incarnato le mani guaritrici di Gesù: sempre a lui ha esplicitamente attribuito i suoi strepitosi successi…. Le sue mani dicono concretezza, discrezione, rispetto, amicizia, impegno, generazione di vita, disponibilità didattica…

Esame sulle nostre mani: aperte o chiuse, nervose o rispettose, minacciose o benedicenti, scostanti o affettuose…? Ciascuno può aggiungere, modificare, accettare il confronto perenne e provvidenziale tra le sue mani e le nostre mani e coinvolgerle nell’invocazione per renderle pure, agili, operose, capaci.

Fratel Giosuè dei Cas

Morto a 52 anni, reagendo ai segni di morte, con un progetto di vita. Offre la sua vita per la vita di fr. Alberto Carneo. Si sa con certezza, da varie testimonianze, che la morte di fratel Giosuè non è stata fortuita o naturale, ma legata ad una volontaria ed eroica offerta della sua vita in cambio di quella del giovane fratel Corneo, ventottenne, che stava per soccombere a causa di un attacco di malaria perniciosa. Si è alla fine di novembre 1932: improvvisamente fr. Giosuè è assalito da febbre altissima. Constatata la gravità del male, è trasportato dal lebbrosario alla missione di Wau, dove spira santamente la mattina del 4 dicembre. In quell’ora si ridesta fr. Corneo, da tre giorni moribondo, testimonia fr. Gatti, là presente. Giosuè nella sua semplicità si era allenato ai gesti radicali. La sua inaspettata scelta vocazionale è ribadita al suo padre maestro, Faustino Bertenghi, al momento di accettare la destinazione definitiva al lebbrosario di Kormalan. Giosuè scrive: “La mia missione, come la intendeva Monsignore, è finita, finita. Iddio ha disposto così, eppure, mi creda Padre Bertenghi, sono contento, contentissimo. Anzi, se oggi ancora fossi dal Parroco, e mi obbiettasse: guarda che dopo 20 anni prenderai la lebbra, se resti qui non la prendi, oggi, mi pare, dovrei dire: anche dopo 10, anche dopo 1, vado lo stesso”. La vita di Giosuè fu sempre “per aspera ad astra”. Le asperità non lo risparmiano neppure nella prima esperienza africana (dal 1907 al 1920). Durante questo tempo, il laico associato Giosuè Dei Cas “è stato provato dalla perdita della maggior parte dei componenti della sua famiglia: prima la morte del fratello a lui più caro, Riccardo, nel 1910; poi nel 1911 quella del papà e nel 1916 quella di Vittorio, travolto da una valanga mentre prestava il servizio militare in Trentino, il 25 agosto 1920”. Anche dopo 17 anni di onorata vita missionaria, nel 1921, a Venegono, non gli è risparmiata l’umiliazione di essere ammesso ai voti senza vestire l’abito religioso. Giosuè, non sottilizza. Conosce un’altra estetica, quella della carità che guarda all’essenziale: la disposizione a spendersi per l’altro secondo il suo bisogno. Lui è strafelice di appartenere ai missionari comboniani e di poter ritornare a vivere con i suoi Shilluk. La vicinanza cambia drasticamente di qualità nel 1925 quando gli è diagnosticata la lebbra. Suor Cristina Carlotto che ne ricevette la confidenza così scrive: “Il Signore solo può sapere ciò che è passato in quell’anima! Ma gli altri che cosa ne hanno potuto sapere? Egli me lo raccontava quasi subito con la stessa gioia di chi si trova a narrare la più gradita delle visite. ‘Suor Cristina – mi diceva – sono andato sa, ma il dottore non mi ha nemmeno voluto vedere, mi ha cacciato via’ e Giosuè rideva con il volto quasi illuminato di gaudio, come se questo affronto avesse donato alla sua anima un po’ di paradiso”. Cacciato dagli uomini, ma ormai più vicino alla condizione dell’uomo come tale, nella sua totale fragilità. Aveva già anticipato la vicinanza solidale di Khormalan quando molti anni prima a spalle aveva caricato a Tonga qualche ammalato di lebbra bisognoso di cure, o quando nella palude, di notte, come nuovo Cristoforo, avanzava nell’acqua salmastra e infestata da zanzare col peso del confratello bisognoso di raggiungere a piede asciutto il battello diretto a Khartoum.

Il suo simbolo

C’è un’immagine immortale che definisce Giosuè e continua a provocarci a tutte le età: l’uomo qualunque, un samaritano, che si carica sulle spalle un lebbroso, da lui riconosciuto semplicemente come un uomo, nulla più e nulla meno che un fratello. Questo come sfondo. Il simbolo, invece, sarebbe un grande girasole, segno dell’uomo felice che genera felicità. È Giosuè, il missionario che incarna creativamente per oggi la figura del Servo di Yahweh che carica tutte le lebbre e ne determina positivamente un contenuto mai finito di esprimere. I due binari che corrono all’infinito e portano con certezza Buona Notizia sono solidarietà e semplicità degli atteggiamenti. Risposte alle sofferenze reali, guardate senza voltare la faccia dall’altra parte, abbracciate assieme al Servo e condivise concretamente per gustare il vivere con dignità fino alla fine. Per questo il simbolo di Giosuè, “sempre attuale Cristoforo missionario”, diviene la cifra e il contenuto della vita missionaria che ci sollecita ad anticipare il futuro, oggi, senza ripetere il passato. Alla sua amica prof. Graziella Monachesi, che gli voleva mandare tovaglie per la sua chiesetta di Khormalan, risponde: “Prima ancora di aver visto come sia l’altare, le danno nell’occhio i fedeli e ‘infedeli’ che vi assistono. Ai primi si è trovato modo di dare un camicione e un paio di braghe, e agli altri? Se poi la maggior parte sono lebbrosi, come lo sono i miei ‘comparrocchiani’, così li chiama qualche maliziosetto di mio confratello, oppure i “miei parrocchiani”, mezzi di guadagnarsi qualcosa non hanno. La morale vien da sé: se vuol mandarmi qualcosa, mi mandi braghe e camicie. Ma… essendo che il pacco postale è così caro, senza contare qualche cosa di dazio che ci vada sopra è ‘meglio’ che mi mandi la moneta, così utilizzerei, anche le 25 lire per la spedizione. Vede cosa calcolavo tra me e me: con 25 lire (al cambio corrente 33 centesimi fanno una piastra) con 6-7 piastre compro 100 ami, in tutto quasi 500 ami. Benedetti ragazzi, sono qui a seccarmi tutto il giorno: ‘Faratelo’, mi dai un amo? Egregia Signorina Graziella, le ho detto il mio parere, Lei come già le dissi altre volte, faccia come Dio Le ispira”. Giosuè vedeva lontano, guardava al futuro. Era la sua forma di “fare causa comune”, senza sostituirsi all’altro, ma garantendogli autonomia. Giosuè è l’incarnazione della “debolezza vincente”. Sì, aveva un debole per l’altro, considerato sempre dal punto di vista delle sue possibilità.

Padre Ezechiele Ramin

Ucciso verso mezzogiorno del 24 luglio 1985 nel territorio del latifondo Catuva, tra gli Stati della Rondônia e del Mato Grosso, dopo aver svolto con successo una missione di pace. Aveva evitato una sicura strage. Una morte feconda per radicalità e per ciò che contiene: chiara opzione per i poveri e comunione con le scelte di una Chiesa che si configurava serva dei poveri. Radicalità questa, che, se aveva sancito esemplarità e grandezza alla sua morte, era del pari stata anticipata nel breve tragitto della sua vita terrena dalla partecipazione giovanile a Mani Tese. Di fronte alla situazione di discriminazione e sfruttamento dei popoli in via di sviluppo, suonava drammatico e urgente il suo appello in occasione della Giornata Missionaria del 1971: “Fratello se non partecipi alla soluzione, fai parte del problema”. Lo stesso sguardo lucido, che induce alla decisione, lo troviamo negli anni di Chicago, in cui costringe la sua riflessione teologica a confrontarsi con la pastorale tra i latinos e gli africani: “La loro vita è incredibile. Mi si spezza il cuore quando entro in certe case. Ogni settimana porto loro qualche cosa e adesso con il freddo cerco anche di incontrare qualche scampolo di roba buona e calda perché si coprano. Oggi sono corso per comperare un paio di scarpe per un bambino di 7 anni che camminava sulla neve con un paio di scarpe senza suola”.” “La povertà è di casa…(…) Ho incontrato gente di 40 anni che mi veniva a domandare che cos avrebbe potuto fare nella vita. Ho convissuto con gli alcolizzati, con i mendicanti, con le bambine gravide di 13 anni. Tutti chiedevano semplicemente di essere ascoltati, compresi”. Insomma è portato ad aprire gli occhi, fin dove il vedere fa male e non basta più, e spinge costantemente all’azione. Dal Brasile, dopo alcuni mesi, ha già fatto la sua scelta: “Stasera questo missionario ha pianto davanti alla sua vita ma continuo lo stesso con la mia gente, sto camminando con una fede che crea, come l’inverno, la primavera. Attorno a me la gente muore (la malaria è cresciuta del 300% ) i latifondisti aumentano, i poveri sono umiliati, la polizia uccide i contadini, tutte le riserve degli indios sono invase. Con l’inverno vado creando primavera”. “A queste persone io ho già dato la mia risposta: un abbraccio. Io questa situazione non la vivo, né ci sto dentro come ergastolano. Ho la passione di chi segue un sogno”.

Due foto devono essere sempre accostate per cogliere tutto il significato pasquale della sua morte: la foto del suo corpo crivellato da 72 di colpi sul sentiero della foresta e quella di un anno prima, 1984, a Cacoal, alla festa dei lavoratori, che ritrae un Ezechiele ritto sul camion, fiero di far scorrere il grani di caffè prodotto dal lavoro e dalla sofferenza della gente che cerca dignità, rispetto e riscatto. Le due foto definiscono la sua traiettoria. La festa del lavoratore non aveva più bisogno di replica: il 24 luglio del 1985 lui stesso era divenuto solidale frumento di Dio, capace di fecondare la terra e di proclamare l’intangibilità e la fruizione per tutti dei beni della creazione. Vedeva, anche se da lontano, e desiderava un’Amazzonia terra fraterna e benedetta per tutti.

Il suo simbolo

Il simbolo di Ezechiele: sullo sfondo, un’alba amazzonica e, a terra, la sua silhouette trafitta dai colpi oppure il suo volto tumefatto. Davanti, un seme sotto terra da cui nasce una rigogliosa spiga di grano: dal profeta dunque, un mondo nuovo.

Quali sono i segni che caratterizzano i veri profeti? Chi sono questi rivoluzionari? I profeti critici sono persone che attraggono gli altri con la loro forza interiore. Quelli che li incontrano rimangono affascinati da loro e vogliono saperne di più, avendo l’impressione irresistibile che essi derivino la loro forza da una fonte nascosta, forte e abbondante. Fluisce da loro una libertà interiore, che dà loro un’indipendenza che non è superba né distaccata, ma che li rende capaci di rimanere al di sopra dei bisogni immediati, al di sopra delle realtà più pressanti. I veri profeti sono mossi da ciò che accade attorno a loro, ma non lasciano che questo li opprima o li distrugga. Ascoltano attentamente, parlano con autorità ma non sono portati a entusiasmarsi facilmente. In ogni cosa che dicono e fanno, è come se avessero davanti una visione vivente, che quelli che ascoltano possono presumere, ma non vedere. Questa visione guida la loro vita ed essi le sono obbedienti. Attraverso questa visione sanno distinguere ciò che è importante da ciò che non lo è. Molte cose che sembrano di stringente immediatezza non li agitano. Attribuiscono grande importanza ad alcune cose, che gli altri lasciano cadere. Non vivono per mantenere lo status quo, ma elaborano un mondo nuovo, i cui lineamenti essi vedono e che costituisce per loro un richiamo tale che anche la paura della morte non ha più su di essi un potere decisivo.

Lele conosceva la realtà evangelica del seminatore che non ritorna a casa se vuol seminare…; del Cristo liberatore che contrasta ogni schiavitù e inerzia; del Cristo morto e risorto, la cui persona coincide con la sua causa, con il Regno, con il volto e le lotte del suo popolo per la giustizia, la dignità e la condivisione. Lele mai ha separato la persona di Gesù dalla sua causa, designata in blocco personale impegno “perché tutti abbiano vita e vita in abbondanza”. Così esso affonda la causa nella carne viva della persona perché il solco della storia diventi apertura del cuore e nasca qualcosa di nuovo. Cosa nasce da noi? Che tipo di semente seminiamo? Come colmare lo iato tra opzione affermata e opzione realizzata? Solo il corpo offerto potrà pareggiare il conto e trasformare una violenza subita in un canto di libertà. Un sangue, quello di Lele, che parla di vita, di impegno mirato e di coraggio e che si contrappone al molto sangue violentemente versato in questa nostra società intollerante, crudele, profondamente ingiusta e cinica. Un sangue, che prima di essere giudizio, è scelta e opzione radicale che dà senso alla vita missionaria.

Conclusione

La morte di questi nostri confratelli, se guardata bene in faccia, ci parla ancora, e soprattutto oggi, perché ha contribuito a portare a piena fioritura quei valori missionari che hanno incarnato durante la loro vita. Noi purtroppo ci abituiamo a tutto e il nostro sguardo frettoloso rende tutto insignificante, scontato, innocuo. Nel corridoio della casa Generalizia di Via Luigi Lilio ormai i volti di questi nostri confratelli hanno lo stesso colore grigio della parete. Sono lì, muti spettatori e grandi assenti. Forse sarebbe bene che ogni tanto ci fermassimo a guardarli con amicizia e a chiedere con umiltà quei valori che li hanno contraddistinti e hanno fatto di loro, naturalmente per i non distratti, un richiamo vivente.

Sarebbe altrettanto bello che le loro facce diventassero familiari in tutte le nostre case, iniziando proprio dalle nostre case di formazione, e giù fino alla più sperduta missione della foresta. Il loro linguaggio è comprensibile a tutti: non parlano una lingua straniera, non sono “italiani”, sono semplicemente comboniani, come noi, con noi e più di noi, e – perché non dirlo? – con una marcia in più, che non ci umilia ma che aggiunge un po’ più di spinta al nostro motore, spesso ansimante, e ci rende felici di appartenere alla lunga cordata assieme ai capifila, Cristo e Comboni, fino all’ultimo cristiano.

Ce la faremo a passare dalla spiegazione alla contemplazione?
P. Arnaldo Baritussio, mccj
Postulatore Generale

Bibliografia consultabile

Congregatio de Causis Sanctorum (Prot. N. 2281), Beatificationis et Canonizationis Servi Dei Iosephi Ambrosoli Sacerdotis Congregationis Missionariorum Combonianorum Cordis Iesu (1923-1987), Positio super virtutibus et Fama Sanctitatis, Roma, Tip. Nova res s.r.l. 2009.

Congregatio de Causis Sanctorum (Prot. N. 2227), Beatificationis et Canonizationis Servi Dei Bernardi Sartori Sacerdotis Congregationis Missionariorum Combonianorum Cordis Iesu (1897-1983), Positio super virtutibus et Fama Sanctitatis, Roma, Tip. Nova res s.r.l. 2014.

FOGLIO, Elisabetta - AMBROSOLI, Giovanna, Chiamatemi Giuseppe. Padre Ambrosoli medico e missionario, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo 2017.

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RUSSO, Vinicio, Lele, martire per la nonviolenza, Poveri di terra in un mare di terra: la questione agraria in Brasile (Collana Problemi Sociali), CTM Controinformazione Terzo Mondo, Lecce 1988, pp. 142.

VOLPATO, Giancarlo, Antonio M. Roveggio. Instancabile erede di Comboni (1858-1902), Casa Editrice Mazziana, Verona 2015.

Lectio Divina, Zevini G. (cur.) – Cabras P. G. (a cura di), vol. IV, Queriniana, Brescia 2005.